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IL CONTROLLO DI SPECIE FORESTALI INVASIVEIN UN’AREA PROTETTA

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– I.F.M. n. 4 anno 2007

ELENA ADDARIO (*)

IL CONTROLLO DI SPECIE FORESTALI INVASIVE IN UN’AREA PROTETTA

Le invasioni biologiche sono considerate una delle principali cause di perdita di bio- diversità a livello mondiale, e la materia assume oggi grande rilevanza. Anche in ambito forestale si pone come problema gestionale di primo piano il caso di piante esotiche intro- dotte in passato che si sono rivelate a comportamento invasivo, con minaccia per quelle foreste la cui identità è un obiettivo di conservazione. Una problematica, questa, ancora molto poco affrontata in Italia. Il presente lavoro focalizza l’attenzione su due neofite arboree particolarmente diffuse nel nostro paese: l’ailanto (Ailanthus altissima (Mill.) Swingle) e la robinia (Robinia pseudoacacia L.). Vengono esaminate le loro caratteristi- che di potenzialità invasiva, viene descritto lo stato delle conoscenze in quanto a metodo- logie di lotta, ed illustrata l’esperienza di un’area protetta toscana, dove è stata cartografa- ta e studiata la distribuzione delle due specie al fine di individuare delle possibili misure di controllo a loro carico.

Parole chiave: invasioni biologiche; Ailanthus altissima; Robinia pseudoacacia; gestione fore- stale; aree protette; biodiversità.

Key words: biological invasions; Ailanthus altissima; Robinia pseudoacacia; forest manage - ment; protected areas; biodiversity.

1. I NTRODUZIONE

In ambito di gestione e conservazione degli ambienti naturali, un proble- ma noto e riconosciuto da tempo a livello mondiale è quello delle invasioni biologiche. Sono processi che comportano un rischio di danno ambientale ed economico in varie aree del pianeta, tanto da essere considerate la seconda causa di perdita di biodiversità globale dopo la distruzione diretta degli habi- tat (G ENOVESI e S HINE , 2003). Specie a potenzialità invasiva appartengono a tutti i regni viventi, ma in questo lavoro verrà esaminato un caso di specie arboree forestali che è divenuto un problema di gestione forestale.

(*) Dottore in Scienze forestali e ambientali.

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Si rivelano invasive le specie che, introdotte – in modo intenzionale o accidentale – in ecosistemi esterni alla loro area di indigenato, riescono a diffondersi con competitività e modalità tali da minacciare la permanenza delle specie locali. Se a queste ultime è legato un valore economico, ambientale, naturalistico, è evidente che non può essere sottovalutata in sede gestionale l’esigenza di misure di controllo, non necessariamente di eradicazione, delle specie divenute dannose.

Nella letteratura internazionale non tutte le definizioni di «specie inva- sive» sono coincidenti. Numerose fonti legano strettamente il carattere di invasività di una specie al danno da essa provocato (tra le altre, M C N EELY

et al., 2001), creando così una sinonimia tra i termini «invasivo» e «danno- so». Ma alcuni autori hanno evidenziato come possa essere più opportuno considerare il danno solo come la conseguenza (peraltro non necessaria) e non l’essenza della capacità invasiva, che deve essere invece ricondotta alle capacità biologiche (ecologiche, fisiologiche, genetiche) proprie delle specie indipendentemente dalla percezione che se ne ha da parte antropica (R ICHARDSON et al., 2000). Si assume, inoltre, che le specie definibili invasi- ve sono specie esotiche. Può accadere spesso che delle specie anche autoc- tone incrementino la loro diffusione a seguito di attività di disturbo, antro- pico o meno; si tratta, però, di fenomeni di successione vegetazionale, ed in tale contesto il termine che pare più opportuno usare è «colonizzazione»

piuttosto che «invasione» (R ICHARDSON et al., op. cit.). L’invasione è pro- pria di specie che vengono a contatto con ambienti nuovi privi dei fattori naturali di controllo che esse trovano nelle terre di origine, ed il loro impat- to ecologico si esplica in un’alterazione dei parametri strutturali, biotici ed abiotici dell’ecosistema di introduzione.

Se da un lato il processo di invasione è determinato dalla potenzialità biologica propria di una specie, dall’altro è però necessario che l’area di introduzione sia tale da permetterne l’esplicazione. Invasività e invasibilità, rispettivamente, sono così i due fattori sinergici e inscindibili del processo di invasione.

Numerose iniziative a livello mondiale evidenziano sensibilità ed espe- rienza di studio sul problema delle invasioni biologiche, come è stato possibi- le appurare da una ricerca di notizie sulla rete internet. Anche la Convenzione sulla Diversità Biologica del 1992 prevede uno specifico articolo (8h) che richiama le parti contraenti a «prevenire l’introduzione, controllare o eradi- care quelle specie alloctone che minacciano ecosistemi, habitat o specie».

Il maggior contributo informativo sulla «invasion ecology» e le attività

di lotta alle invasive viene probabilmente dagli Stati Uniti, ma anche altrove

sono presenti importanti nuclei di studio. L’Europa non è assente in tale

scenario. Tra le iniziative passate, si segnala il progetto EPIDEMIE (Exotic

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Plant Invasions: Deleterious Effects on Mediterranean Island Ecosystems) 1 , ricerca che ha coinvolto più paesi europei nello studio e censimento delle invasioni vegetali con l’ausilio di strumenti geomatici in alcune isole del Mediterraneo, tra cui la Sardegna, dove la ricerca è stata affidata all’Univer- sità di Sassari.

Per quanto riguarda l’Italia, però, si avverte, rispetto ad altri paesi, come il problema delle invasioni vegetali sia stato per lungo tempo sottova- lutato e molto poco considerato. Poche le eccezioni (V IEGI et al., 2005): alla documentazione sulla flora esotica di alcune regioni italiane redatta da tempo da V IEGI , si è aggiunto negli ultimi anni il già citato progetto «Epi- demie». A questi «albori» di interesse in Italia sul mondo delle specie esoti- che, si aggiunge oggi il varo di un significativo progetto: la creazione di un gruppo di lavoro nazionale permetterà la realizzazione della prima check- list della flora esotica d’Italia, con annessi studi di tipo ecologico e mappe di distribuzione per ogni specie.

Questa crescita degli studi conoscitivi della flora esotica è solo il primo passo per poter far nascere anche nel nostro paese una strada di ricerca specifica sulla gestione di esotiche invasive. Ancora pochi sono gli studi incentrati solo su questa categoria di specie esotiche, ma ancora maggiore è la mancanza di contributi in fatto di lotta attiva nei loro confronti. Ugual- mente carente in Italia sembra la dedizione a questa problematica in ambito strettamente forestale, l’aspetto a cui questo lavoro vuole porre attenzione.

Spesso, anche nei boschi, si è provveduto ad eliminare piante indesiderate con sporadici interventi (tipo decespugliamenti) empirici e improvvisati, utili solo a peggiorare l’invasione, mentre è mancata una base teorica di conoscenze, primariamente ecologiche, che conferisse razionalità e organi- cità agli interventi (M AETZKE , 2005). Consapevolezza e conoscenza sono i primi traguardi da raggiungere nella lotta alle invasive.

2. S PECIE INVASIVE FORESTALI

Tra le varie piante alloctone segnalate in Italia come infestanti, due specie capaci di creare problematiche di gestione anche in ambito forestale sono senz’altro l’ailanto (Ailanthus altissima (Mill.) Swingle) e la robinia

1

Progetto promosso dalla Comunità Europea nell’ambito del Fifth framework programme for research, technological development and demonstration activities (1998-2002), per l’adempimento della

«key action» 2.2.1 (Ecosystem Vulnerability) all’interno del Energy, Environment and Sustainable Development thematic programme – Maggiori dettagli reperibili sui siti web: www.europa.eu.int/

comm/research/fp5 e www.ceh.ac.uk/epidemie

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(Robinia pseudoacacia L.), che vegetano nelle fasce mediterranea e basale, la seconda anche fino al piano montano inferiore. Per meglio comprenderne il comportamento aggressivo e le possibilità di intervento di lotta, si riporta un sintetico inquadramento dei loro caratteri ecologici e storici, talvolta simili, raccolti da fonti di letteratura che sono apparse frammentarie e spes- so limitate (dove non altrimenti specificato: H OWARD , 2004 per l’ailanto, C ONVERSE 1985 e IPLA, 2000 per la robinia).

2.1 L’ailanto

Latifoglia decidua originaria di Cina e isole Molucche, l’«albero del paradiso» dal ’700 è stato ampiamente diffuso in Italia, come nel mondo, con una molteplicità di scopi: coltivazione da legno, rimboschimento, orna- mento, produzione serifera. Gli studi come possibile pianta da carbone e cellulosa ne incentivarono l’impiego: solo negli anni 1934 e 1935 l’allora Milizia Forestale mise a dimora quattro milioni di piantine di ailanto sul territorio italiano (S PERANZINI , 1936 e S ENNI , 1935). Ad oggi, però, non sembrano esservi notizie su coltivazioni in atto o risultati di quelle iniziate in passato. L’ottimismo che accompagnò la diffusione dell’ailanto, seguita dal suo abbandono, fa oggi i conti con l’eredità di tante campagne di fore- stazione: una rete su scala nazionale di potenziali, e spesso reali, punti di innesco di invasione.

L’ailanto è una specie pioniera colonizzatrice di diverse tipologie stazio-

nali, ma sempre legate ad aree ruderali o a forte disturbo antropico con piante

madri nelle vicinanze: scarpate stradali e ferroviarie, depositi di materiale

abbandonati, cave, cantieri aperti ecc. (A RNABOLDI et al., 2003). Dal punto di

vista autoecologico, mostra una considerevole plasticità: si adatta a un’ampia

variazione dei parametri termici (anche se è essenzialmente termofilo), idrici

(resiste molto bene alla siccità) ed edafici; nei confronti della luce è noto

come pianta eliofila, ma sembra tollerare un certo ombreggiamento laterale e

persino una copertura temporanea e non profonda: non è tanto la copertura a

reprimere l’ailanto, ma la sua totalità e stabilità. Specie a rapidissimo accresci-

mento e precoce raggiungimento della maturità sessuale, è capace di ripro-

dursi in modo massiccio sia per via gamica che vegetativa. Una singola pianta

femmina è capace di produrre una ingente quantità di semi, che sono di facile

germinazione, ma è anche a livello delle radici che risiede il grande potenziale

biotico e invasivo della specie: il loro vigore può permettere l’emissione densa

di polloni radicali fino a 30 m dal fusto principale, in seguito alla perdita della

dominanza apicale o all’indebolimento della condizione vegetativa. Come

tutte le specie invasive, non trova significativi antagonisti patogeni o predato-

ri animali. Inoltre, pare ormai dimostrata anche la sua allelopatia, ulteriore

carattere di aggressività.

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2.2 La robinia

Leguminosa decidua degli Stati Uniti orientali, è stata ampiamente dif- fusa dal ’600 in tutta Europa come pianta ornamentale e da impianto a scopo idrogeologico, come l’ailanto, ma con anche una valenza produttiva più consolidata: è apprezzata per paleria, legna da ardere, e anche legname.

Nell’Europa orientale alimenta intere filiere industriali del legno. In Italia la sua diffusione, antropica e spontanea, è stata facilitata dal declino patologi- co del castagno che essa ha rimpiazzato in varie aree.

Condivide con l’ailanto una grande plasticità nei riguardi dei parame- tri ecologici, seppur con alcune sfumature diverse. In senso termico e idrico si adatta anche al clima mediterraneo, ma preferisce quello temperato e più umido della fascia basale, meglio se in posizioni submontane. Rispetto alla luce, è una specie spiccatamente eliofila, forse con minore capacità dell’ai- lanto di tollerare un certo ombreggiamento anche solo laterale. In senso edafico non ha particolari esigenze, tanto meno in fatto di fertilità la cui scarsità può compensare con la simbiosi azotofissatrice che ospita a livello radicale. Fattore, quest’ultimo, per il quale è abitualmente considerata una specie miglioratrice del suolo che favorisce i processi di successione; sareb- be però interessante riflettere sulla reale positività di questo carattere in alcuni contesti: ad esempio, quando l’apporto di azoto nel suolo determina la formazione di densi «tappeti» di vegetazione arbustiva nitrofila (rovi soprattutto) che ostacolano l’insediamento di specie arboree indigene, come è possibile osservare in certi cedui di robinia abbandonati, anche in Toscana, oppure quando la robinia invade soprassuoli con specie pioniere che si vogliono tutelare, come talune pinete.

La rapidità di accrescimento e la capacità di vigorosa espansione per via vegetativa anche dalle radici la accomunano all’altra invasiva, ma rispetto ad essa ha una riproduzione per via gamica più limitata: infatti, nonostante una produzione di seme ugualmente abbondante e precoce (e unita al fatto che la robinia è monoica, dunque tutti gli individui possono fruttificare) la percen- tuale germinativa è bassa, come frequente tra le leguminose. Anche la robinia non incontra fuori areale significativi agenti biotici di danno.

In conclusione, si tratta di una specie con un’ambigua valenza: ottima e

nota quella produttiva, insidiosa e poco conosciuta quella invasiva. Sembra-

no mancare adeguate conoscenze che permettano di delineare il confine tra

queste due potenzialità opposte da un punto di vista gestionale; un sintetico

contributo di A LLEGRI (1935) indica nella minimizzazione dei tagli e nella

scelta accurata delle aree di impiego della specie (collinari-montane piuttosto

che mediterranee) i primari criteri per evitare di far scadere una coltivazione

in un focolaio di invasione. D’altro canto è attuale la sperimentazione della

robinia nei cedui a turno breve per la produzione di biomassa ad uso energe-

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tico. È evidente la necessità di attento studio e sperimentazione, fino ad oggi carenti, per un utilizzo consapevole di questa pianta legnosa.

3. S TATO DELL ’ ARTE NELLA LOTTA ALLE INVASIVE

In letteratura sono ben documentati i principali metodi di controllo impiegati nella lotta alle specie invasive, soprattutto da quei paesi con una solida tradizione di applicazione in materia. Vengono qua riportate notizie sul controllo dell’ailanto (in genere valevoli anche per la robinia) tratte da alcune fonti statunitensi, rivelatesi le più esaustive. Dall’Italia non sono for- nite indicazioni ulteriori in fatto di gestione attiva, solo sporadiche testimo- nianze di presa di coscienza sul problema, come nel caso della redazione dei piani di gestione di alcune aree naturali.

Come premessa, si propone di classificare tutti i metodi in diretti e indiretti, nel caso che la lotta miri a colpire la pianta stessa o a modificare l’ambiente e la fitocenosi da essa invasi per renderli non più idonei alla sua permanenza. Quindi si tratta di agire su uno dei due fattori (o entrambi) che determinano il processo di invasione: la capacità della specie di invade- re e la suscettibilità dell’area a essere invasa. Quanto ai metodi diretti, che sono i più documentati (T U et al., 2001; H OWARD , op. cit., per il Forest Ser- vice degli Stati Uniti; S WEARINGEN e P ANNILL , 1999; W IESELER , 1999), una esauriente esposizione riassuntiva è stata fatta da M AETZKE (op. cit.). In estrema sintesi, tali metodi sono di tipo:

– meccanico: è il caso di tagli al colletto, cercinature ed estirpazione. È noto che tagli occasionali sono solo peggiorativi dell’infestazione, mentre una loro ripetizione costante in momenti diversi della stagione vegetativa e per anni consecutivi potrebbe diminuire progressivamente la vitalità della pianta. Spesso, però, anche con questa metodologia i soli tagli hanno prodotto scarsi risultati positivi – alcuni autori li sconsigliano a priori – mentre sembra più efficace la loro integrazione con altri tipi di trattamento, ad esempio chimico. Analoga questione si pone dopo una cercinatura, su fusti di maggior diametro, che comunque può essere utile per uccidere gli individui femminili portaseme prima della fruttificazio- ne, così da bloccare i focolai di diffusione gamica della specie. L’estirpa- zione è ipotizzabile solo per piantine con radici ancora poco sviluppate, considerato che basta anche solo un loro frammento rimasto nel terreno per rigenerare la pianta (I NVERSO e B ELLANI , 1991).

– chimico: l’applicazione di erbicidi sistemici (i più impiegati sono a base di

glifosato o triclopyr), in modo continuativo come per i tagli, è forse il

trattamento di più sicura efficacia, ma al prezzo di porre serie considera-

zioni gestionali per il rischio di danno ambientale, nonostante non man-

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chino studi in fatto di cautele e dosi d’impiego opportune (USDA, 2003).

I modi di applicazione possono essere vari: aspersione a spray sulle chio- me, il più rischioso per ciò che non è obiettivo di lotta, applicazione sulla corteccia basale, oppure sulle superfici di taglio durante il periodo vege- tativo, utile quando si vuole asportare la parte aerea della pianta. Ma il metodo più consigliato per una riduzione del ricaccio successivo prevede tagli profondi sul fusto angolati e distanziati lungo il diametro, e applica- zione immediata del prodotto dentro le ferite; infatti il fatto di lasciare alcune porzioni di tessuto vivo dovrebbe recare alla pianta un trauma minore che nel caso di tagli netti o cercinature.

– biologico: la lotta a piante invasive mediante l’introduzione di loro nemici naturali è un’ipotesi da valutare con cautela per non creare ulteriori casi di invasione biologica, e comunque è poco probabile da considerare nel caso dell’ailanto e della robinia per la scarsità, limitata efficacia e non specificità degli antagonisti finora segnalati (ad esempio per l’ailanto i funghi Verticillium dahlie, Fusarium oxysporum e Phomopsis pyrrhocystis).

Sono intuibili i limiti di una lotta di tipo puramente diretto sulle pian- te: essa mira a massimizzare il risultato dell’eliminazione delle invasive nel breve periodo, ma senza risparmiare impatti ambientali anche sensibili (si pensi ai diserbanti), senza considerare l’onerosità operativa e finanziaria che si presenterebbe nel caso di invasioni su territori vasti, e senza rimuove- re la possibilità di ulteriore invasione delle stesse specie nel futuro se le condizioni ambientali restano le stesse che l’hanno permessa nel passato.

Un emblematico paragone di S HELEY (s.d.) afferma che «l’uso di tagli ed erbicidi come strategia gestionale equivale a un antidolorifico per un male che è però di natura costituzionale»: una gestione che voglia essere risoluti- va deve mirare a rimuovere le cause delle invasioni, con uno studio attento delle dinamiche delle comunità vegetali, piuttosto che limitarsi a trattarne i sintomi. Ciò significa individuare quei caratteri di un popolamento o ecosi- stema una cui modifica priva le invasive di spazio ecologico. E’ questa l’es- senza di un approccio alternativo, indiretto, in fatto di gestione di piante invasive, talvolta proposto in letteratura ma poco affrontato in termini fatti- vi. In Italia, ma non solo, sembrano mancare notizie di casi di studio in cui si sia sperimentata questa strada. Il presente lavoro vuole riportare delle prime analisi e considerazioni condotte a tale riguardo in un’area naturale.

4. L’ ESPERIENZA DI M ONTE C ECERI (F IRENZE )

Il lavoro presentato riguarda la gestione dell’invasività di ailanto e

robinia nell’area boschiva protetta (ANPIL) di Monte Ceceri, nel comune

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di Fiesole (FI). L’intera collina, nei secoli sede di attività estrattive della pie- tra serena, è stata rimboschita nel corso del novecento. Oggi una frazione (23 ettari) dell’area protetta è adibita a parco e soggetta a un piano di gestione forestale che prevede la rinaturalizzazione dei soprassuoli. È in questi confini che è stata cartografata la distribuzione delle due specie e sono state formulate ipotesi di gestione per il loro controllo.

L’ambiente è di tipo mediterraneo, inquadrabile in senso fitoclimatico nel Lauretum di secondo tipo, sottozona fredda (G ATTESCHI e M ELI , 1998);

il substrato è di arenaria. Antichi fronti di cava, ravaneti, macìe, si alternano a brevi tratti pianeggianti delineando una morfologia molto irregolare, sulla quale dagli anni ’30 vennero impiantate conifere (soprattutto pini mediter- ranei, cipresso comune e c. glabro) e latifoglie; tra queste prevalsero le querce, ma vennero impiegati anche ailanto e robinia per la loro capacità di colonizzare terreni instabili. Ad oggi il piano dominante di conifere mostra segni di deperimento e l’evoluzione naturale volge nella direzione del bosco misto di latifoglie termofile, con predominanza del leccio.

Tale indirizzo evolutivo è, però, insidiato dalla presenza consistente delle due invasive: quello di Monte Ceceri è un caso emblematico della loro capacità, soprattutto dell’ailanto, di affermarsi in aree disturbate a carattere ruderale a partire da piante madri portaseme, sparse per buona parte del parco. La rinnovazione invasiva minaccia seri rischi: soffocamento della rin- novazione indigena, ostacolo all’insediamento delle specie tardo successio- nali, stravolgimento dell’assetto vegetazionale e paesaggistico naturale per i nostri ambienti, che è invece particolarmente irrinunciabile in un’area di interesse naturalistico. La gestione delle specie invasive si presenta, dunque, come la priorità della gestione forestale.

Si è proceduto alla mappatura della distribuzione di ailanto e robinia nei 23 ettari del parco, evidenziandone sia aspetti quantitativi che qualitati- vi. Le piante sono state rilevate, mediante GPS, secondo varie tipologie in base alla dimensione dell’area insediata (piante isolate, nuclei puntiformi, nuclei lineari, microaree dell’ordine di 50-500 m 2 ) che hanno poi costituito i principali strati del sistema informativo territoriale realizzato; per ogni rilievo sono state riportate anche essenziali informazioni di tipo qualitativo (specie, altezza e diametro stimati, età stimata, capacità disseminante o meno). Nel caso delle microaree è stata scritta una breve descrizione del soprassuolo. I rilievi sono stati compiuti nel periodo di marzo 2005, poco prima dell’entrata in vegetazione.

L’esito dei rilievi (fig.1) mette in luce alcuni aspetti.

In primo luogo, l’invasione è una realtà consolidata in larga parte del

parco, e le uniche zone dove non è stata rinvenuta alcuna presenza delle

due invasive corrispondono ai settori (alle estremità sud e nord) dove una

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morfologia più «morbida», priva di cave pregresse, ha permesso lo sviluppo di soprassuoli più evoluti e ombreggianti, come le fustaie di leccio.

In secondo luogo, l’ailanto ha una presenza nettamente superiore a quel- la della robinia, sia per quantità che per la diversa modalità di presenza: men- tre l’ailanto mostra, nel complesso dei soprassuoli, una buona eterogeneità di posizioni sociali – da pianta dominante a partecipatrice con fusti filati degli strati inferiori, o pianta che nelle chiarie copre a tappeto il terreno con i suoi polloni – la robinia è, in genere, presente solo con piante isolate o in nuclei nello stadio di fustaia, dunque come pianta sviluppata del piano dominante che non manifesta una massiccia espansione vegetativa di tipo invasivo. Spo- radici giovani polloni sono apparsi piuttosto isolati e non in dense formazioni cespugliose. Un’ipotesi è che questa differente presenza sia l’effetto di una competizione tra le invasive: alcuni studi (C ALL e N ILSEN , 2005) segnalano una maggiore competitività dell’ailanto in popolamenti misti delle due specie a parità di ottimo ambientale, anche per la più facile capacità di insediamento in aree di recente disturbo; l’unico contesto nel quale la robinia può sopra- vanzare l’ailanto è quello in cui la carenza di luce diventa per entrambe il fat-

Figura 1 – Distribuzione delle invasive all’interno del parco di Monte Ceceri.

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tore limitante. Quest’ultima considerazione degli autori ben si concorda con l’osservazione in campo della maggiore sensibilità, e dunque reattività, della robinia alla carenza di luce. Si consideri, comunque, che l’ambiente mediter- raneo è in genere più idoneo per l’ailanto che per la robinia.

Infine, la concentrazione dell’ailanto è correlata a precisi fattori: la prossimità di cave, soprattutto nel settore sud-est del parco, per una evi- dente maggiore disponibilità di luce e calore e una minore concorrenza, la vicinanza di sentieri, la concomitanza di tagli e schianti di conifere; questi creano improvvisi vuoti di copertura rimpiazzati subito e solo dalle invasi- ve, mentre la rinnovazione di specie autoctone (leccio, soprattutto) riesce a insediarsi soltanto dove le aperture sono minime o la copertura alleggerita progressivamente per diradamento delle chiome delle conifere. Inoltre è anche lo scorretto intervento antropico a facilitare la diffusione dell’ailanto:

in prossimità dei luoghi più frequentati, ad esempio lungo i sentieri, si nota- no spesso strappi o tagli ai fusti, che possono avere una certa accidentalità ma talora anche una certa premeditazione – come quando sui moncherini si nota la superficie netta lasciata da un attrezzo da taglio – in una sorta di forma empirica e incauta di controllo.

5. I POTESI DI GESTIONE DELLE INVASIVE NEL PARCO

L’individuazione di una valida strategia di controllo di specie invasive non può prescindere dalla minimizzazione dell’impatto ambientale, dall’o- biettivo di una sua efficacia duratura nel tempo e nello spazio, e dal conte- sto nel quale è applicata. A Monte Ceceri il contesto è quello di un piccolo parco periurbano in un ambiente con una storia di forte antropizzazione, dunque di un bosco con netta ed esclusiva valenza ricreativa e protettiva, oltreché di grande rilievo paesaggistico. La gestione di una simile area pro- tetta non può che incentrarsi sulla salvaguardia e cura della vegetazione autoctona, come implicito nell’indirizzo di rinaturalizzazione dei rimbo- schimenti individuato dall’apposito piano. È evidente come la lotta alle invasive si ponga come la criticità primaria da affrontare.

Quale soluzione si può favorire l’evoluzione di una possibile «fitoceno-

si resistente» all’invasione. La successione vegetazionale delinea un futuro

assetto potenziale che ben si presta alla repressione naturale di pioniere

eliofile come l’ailanto e la robinia: il bosco a prevalenza di leccio ha tipica-

mente un forte potere ombreggiante al suolo. La priorità non può che esse-

re l’agevolazione e mantenimento di tale copertura profonda, in modo

quanto più continuo nello spazio e stabile nel tempo. Accelerare la succes-

sione in favore del leccio, però, richiede cautela nell’effettuare alleggeri-

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menti della copertura: le aperture generate dovrebbero essere molto picco- le, idonee alla rinnovazione solo di specie tolleranti l’ombra. Dove schianti e abbattimenti di conifere favorirebbero un denso insediamento di ailanto, si pone la possibilità di ricorrere alla piantagione di latifoglie autoctone con chiome sviluppate, soprattutto leccio.

In ogni caso, è solo apparentemente ovvio che per reprimere le invasive con l’ombreggiamento – il modo più naturale ed efficace – è necessario prima riuscire a portarle sotto copertura, condizione alla quale sfuggono natural- mente e rapidamente. Perciò è proponibile di ricorrere a tagli a carico dell’ai- lanto, magari in posizione alta sulla ceppaia, in modo da rimuoverlo dalla posizione di dominanza ma anche costringerne le ceppaie a ricacciare in una certa condizione di ombreggiamento; la ripetizione sistematica nel tempo dell’intervento, con la costanza della copertura, è verosimile possa produrre un decisivo indebolimento della pianta. L’osservazione di qualche ceppaia, tagliata in passato e ora aduggiata con vecchi ricacci molto piccoli, necrotiz- zati e di consistenza spugnosa, è un segno incoraggiante in tal senso.

La problematicità maggiore si presenta dove il principale mezzo di lotta, la copertura, non può essere utilizzato. È il caso dei tanti punti pano- ramici del parco. In queste situazioni la lotta può essere solo diretta, e sono da evitare interventi di esclusivo taglio per l’evidente rischio di aggravare la scomparsa della visuale panoramica; perciò, è uno dei pochi contesti nei quali è ipotizzabile il ricorso a presidi chimici sistemici che uccidano le radici delle piante trattate. È un tipo di intervento al quale deve spettare sempre la più bassa priorità, ma è opportuno ricorrervi con modalità accu- ratamente pensate e inserite in una precisa pianificazione in una linea di gestione responsabile. Varie sono le cautele necessarie: prediligere applica- zioni dirette sulle superfici di taglio dei fusti, piuttosto che dispersive come lo spray sulle chiome, ricorrere a dosi e concentrazioni adeguate (le indica- zioni in materia non mancano: USDA, op. cit.), ed effettuare sperimenta- zioni preliminari su piccole aree, nonché un monitoraggio periodico dei ricacci in base al quale programmare alcuni trattamenti successivi. La soste- nibilità di tale rimedio è resa anche possibile dalle modeste superfici in esame di Monte Ceceri, che ne permettono un’applicazione estremamente localizzata e contenuta.

Particolare attenzione meritano gli individui femminili fertili di ailan-

to: questi rappresentano il primario focolaio di invasione della specie, per

l’abbondanza di produzione di seme e la facilissima germinazione. Nel deli-

neare una scala di priorità degli interventi le azioni a carico di queste piante

dovrebbero occupare il primo posto, e nei riguardi delle disseminanti pre-

senti non solo all’interno, ma anche nell’immediato esterno dell’area da

tutelare. La cercinatura sulla parte bassa del tronco può portare a morte la

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parte aerea della pianta per prevenire la disseminazione; nel caso di fusti sottili si può anche effettuare un taglio netto con asportazione del tronco. È chiaro che in seguito si pone sempre l’insidia di vigorosi ricacci, da trattare con le analoghe metodologie già proposte: combinare azioni di taglio con l’ombreggiamento di piante autoctone – già presenti o da impiantare – o piuttosto con l’uso di presidi chimici. Questi ultimi possono essere applica- ti col taglio dei ricacci, ma anche in concomitanza con la cercinatura stessa;

in questo caso una valida alternativa è l’applicazione delle sostanze in tagli distanziati sul fusto, che dovrebbero causare nella pianta un trauma, e così un ricaccio, meno violento della cercinatura.

Potrebbe rivelarsi interessante anche un’altra modalità di applicazione di sostanze chimiche: quella di tipo endoterapico, capace di portare alle radici la sostanza evitando il trauma del taglio sul fusto, che è la causa del più o meno immediato ricaccio. Diffusa in fitopatologia, questa tecnica non è nota in ambito di lotta diretta a queste invasive, perciò la sua efficacia è da sperimentare. È chiaro che, anche in caso di positività dei suoi effetti, sarebbe una tecnica da usare in ambienti molto circoscritti, se non esclusivi di poche specifiche piante di strategica eliminazione.

Sia l’opzione dell’impianto di latifoglie autoctone che l’uso, anche ripetuto, di diserbanti sono scelte onerose, ma l’importanza dell’obiettivo ne vale la considerazione, specie nel caso di piante strategiche come le por- taseme di ailanto.

Infine è fondamentale valutare la differenza di gestione da riservare all’ailanto e alla robinia. Essendo la sostanziale minaccia portata dal primo, mentre la seconda appare più spesso confinata nel piano dominante dal quale sarà destinata a scomparire, pare più opportuno lasciare la robinia all’invecchiamento e alla morte naturale – sfruttandone il positivo apporto di azoto al terreno e considerata anche la scarsa insidia riproduttiva delle sue fruttificazioni – piuttosto che sottoporla alla medesima lotta diretta da adottare per l’ailanto. Di certo andrebbe monitorata costantemente una sua eventuale rinnovazione.

6. C ONCLUSIONI

In un’epoca di grande attenzione rivolta alla conservazione degli

ambienti naturali e della biodiversità, diventa un impegno di primo piano

affrontare la problematica delle invasioni vegetali. È una consapevolezza già

maturata in molti paesi esteri, ma appena agli albori in Italia, dove specie

come l’ailanto e la robinia mostrano una libera e massiccia espansione sul

territorio. In questo lavoro è stato riportato un esempio applicativo in un’a-

rea protetta dove l’affermazione dell’ailanto, molto più della robinia,

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minaccia di alterare l’assetto vegetazionale naturale per un rimboschimento di ambiente collinare mediterraneo sulla via della rinaturalizzazione.

Posta l’opportunità di un approccio ecologico e sostenibile nell’indivi- duare una strategia di controllo delle invasive, la priorità si pone nell’azione indiretta, favorendo la minimizzazione dell’invasività dell’area con la garan- zia della copertura stabile e autoctona del suolo, dunque con una valida cura colturale del bosco. Interventi diretti e ripetuti di taglio delle invasive in sinergia con l’ombreggiamento possono deprimerne progressivamente la vitalità, meglio dei soli tagli, di norma controproducenti. Laddove l’ombra non possa giungere, si pone la possibilità di sperimentare l’efficacia di applicazioni chimiche localizzate ed a basso impatto ambientale. Le prime piante di cui tentare l’eliminazione dovrebbero essere le disseminanti di ailanto, in quanto sono fondamentali focolai di invasione per la specie.

I toni probabilistici con cui si stima l’efficacia di ogni proposta gestio- nale mettono in luce il fattore critico della problematica: l’ancora scarsa conoscenza ecologica delle due specie. Sono necessarie ricerche rivolte a individuare, prima ancora che valide strategie di controllo, delle solide basi di conoscenze ecologiche e dati certi su cui impostarle.

Inoltre, assume rilievo la dimensione temporale. È percepibile come i ritmi dell’ailanto e della robinia siano ben diversi da quelli delle usuali spe- cie forestali nostrane, e questa rapidità di sviluppo ed espansione sul terri- torio dovrebbe imprimere un’accelerazione anche alla gestione in fatto di monitoraggio e applicazione tempestiva degli interventi. Quindi, prima di tutto, in fatto di consapevolezza del problema. Pena, una crescita di diffi- coltà nel tenere sotto controllo specie così aggressive, fino anche all’impos- sibilità.

R INGRAZIAMENTI

Si ringraziano il Prof. Ciancio ed il Prof. Maetzke, rispettivamente relatore e correlatore della tesi di laurea nell’ambito della quale è stato svol- to questo studio, per la disponibilità ed i suggerimenti offerti nello svolgi- mento del lavoro.

SUMMARY

Invasive forest species control in a protected area

Biological invasions are one of the main causes of world biodiversity loss. In

forestry, a great management problem may be that of exotic plants introduced in the

past and then turned out to be invasive, threatening all those forests whose identity is a

conservation goal. In Italy this question has not yet been given much attention. This

paper focuses on two species widely spread on Italian territory: tree of heaven

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(Ailanthus altissima (Mill.) Swingle) and black locust (Robinia pseudoacacia L.). After a description of their characteristics and the state of the art on general control methods, the experience in a Tuscan protected area is illustrated: here the distribution of the two species has been surveyed and studied, in order to hypothesize management guidelines for their control.

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