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CAPITOLO VI

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Academic year: 2021

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CAPITOLO VI

«Voleva rendere il Suo romanzo, e quindi la sua trasposizione sulla scena televisiva

o teatrale che sia, […] un gran gioco surreale» (Fabio Storelli, Il mio Palazzeschi)

Il 27 novembre 1998 debutta con successo1 al Teatro Guglielmi di

Massa lo spettacolo teatrale Sorelle Materassi portato in scena dal Teatro Stabile La Contrada di Trieste nella stagione ’98-’99. La regia è di Patrick Rossi Gastaldi mentre la sceneggiatura originale è curata da Fabio Storelli, lo stesso che insieme a Codignola e Monicelli aveva collaborato al copione dello sceneggiato televisivo del ’72.

Tra gli interpreti principali, proprio come era accaduto per lo sceneggiato, vengono selezionati nomi noti del teatro e della televisione italiana contemporanei. Infatti, Isa Barzizza e Lauretta Masiero interpretano le due protagoniste, Teresa e Carolina Materassi (Fig. VI.1 e VI.2), Ariella Reggio veste i panni di Giselda (Fig. VI.3), mentre un giovanissimo Riccardo Salerno ricopre il ruolo di Remo (Fig. VI.4 e VI.5), unica figura maschile in un dramma tutto al femminile, al quale si aggiungono anche i personaggi di Niobe (Maria Grazia Plos), della contessa russa (Mari Delconte) e di Peggy (Elena Senes). La scenografia, i costumi e le musiche vengono curati rispettivamente da Sergio D’Osmo, Fabio Bergamo e Cinzia Gangarella.

1

Recitano così i titoli degli articoli a proposito del debutto teatrale sulle due testate giornalistiche toscane «La nazione» e «Il Tirreno»: «Le «Materassi» in scena con successo. VECCHIE, ADORABILI SORELLE», «La Nazione» 30 novembre, 1998; «” Sorelle Materassi” entusiasma il numeroso pubblico, un trionfo la prima nazionale. APPLAUSI E OVAZIONI AL GUGLIELMI. Consensi anche a scena aperta per Isa Barzizza e la Masiero», Clara Lorenzetti su «Il Tirreno», 29 novembre 1998. Questi riferimenti giornalistici insieme a tutti gli altri che verranno citati successivamente fanno parte della Rassegna stampa – che ho avuto modo di consultare in fotocopia - raccolta a cura del Teatro Stabile «La Contrada» di Trieste a proposito delle rappresentazioni dell’adattamento per la stagione teatrale ’98-’99. Per questioni di sinteticità, ogni qual volta si farà riferimento ad essa si utilizzerà la sigla: RSC.

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200 Alla persona di Fabio Storelli (1937-2011), si è fatto già riferimento nel capitolo precedente riguardo alla sua partecipazione al teleromanzo del ’72 in qualità di revisore linguistico della sceneggiatura definitiva. Possiamo qui aggiungere qualche altra informazione a proposito della sua esperienza professionale. Con il regista dello sceneggiato televisivo Mario Ferrero, egli non condivide, infatti, soltanto la formazione televisiva, ma anche quella teatrale. Contemporaneamente alla sua attività di Capo servizio Sceneggiati presso gli uffici Rai, Storelli si occupa pure di teatro, componendo per il palcoscenico, in risposta alla sua grande passione per il genere e per la letteratura, oltre trenta

commedie originali e non originali. Ciò significa che nell’analisi della

riduzione, come è stato per lo sceneggiato, siamo anche in questo caso portati a tener presente tra i diversi punti di riferimento questa doppia formazione professionale dell’adattatore in modo da trovare più facilmente, in virtù di questa consapevolezza, la spiegazione di alcune trovate narrative.

Oltretutto, avendo Storelli partecipato in prima persona alla stesura dello sceneggiato, sarà stato certamente convinto nello scrivere il copione teatrale dell’inevitabile confronto con il teleromanzo, che all’epoca aveva riscosso grande successo, e forse per questo cerca per la commedia una sorta di autonomia creativa.

L’idea di adattare Sorelle Materassi per il teatro si presenta a Storelli in occasione dei frequenti incontri che intrattiene con l’autore fiorentino durante la fase redazionale della sceneggiatura televisiva del ’72.

Di questi incontri è lui stesso a dare testimonianza (come abbiamo anche accennato nel capitolo V) in un suo intervento anteposto al copione edito in volume dal Teatro La Contrada in occasione dello spettacolo:

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201

«Ho incontrato nel 1972 sei, sette volte “il Maestro” a casa sua […] i giorni in cui veniva redatta la sceneggiatura televisiva di Sorelle Materassi ed io gli portavo le scene appena riscritte e ne ricevevo consigli e suggerimenti».

I consigli e i suggerimenti del “Maestro” raccolti da Storelli non riguardano semplicemente delle indicazioni di tipo tecnico sulla revisione linguistica del copione televisivo, ma piuttosto si allargano a molteplici altre questioni inerenti alla poetica dell’autore, alla sua formazione umana e letteraria e alla giusta interpretazione da affidare al messaggio conclusivo del romanzo. Storelli sembra infatti non voler accettare una lettura tragicomica del finale del romanzo e rifiuta di considerare le due sorelle come due donne esiliate dalla vita:

«[…] osai farGli, ad un certo punto, una domanda, diciamo pure, un po’ scavezzacolla. Come mai le Materassi, con quella loro straordinaria maestria professionale, alla fine del romanzo “scritto” e “pubblicato”, si erano ritrovate in miseria? Non avrebbero dovuto salvarsi da tale disastro […]? […] “Non le sembra Maestro poco futuristico questo finale delle Materassi?”»2.

«In effetti», risponde Palazzeschi dopo una prima esitazione, «le

Materassi è un romanzo realistico, ed a me piace di più il surrealismo»3.

Surrealismo: questa è la parola che sembra suggerire a Storelli il punto d’appoggio dal quale partire per sviluppare il proprio adattamento teatrale.

Si deve anche notare che la scelta stessa del drammaturgo di anteporre al testo teatrale un suo personale resoconto sugli incontri tenuti con Palazzeschi assume quasi la finalità di una sottintesa dichiarazione di poetica, se si pensa che già in questa sede Storelli mette in luce delle prime motivazioni a sostegno delle scelte operate sul testo originale partendo proprio dalle preziose indicazioni ricevute dall’autore:

«Io credo di aver capito allora e di poterlo riferire adesso, cosa veramente volesse Palazzeschi. Voleva rendere il suo romanzo, e quindi la sua trasposizione sulla scena televisiva o teatrale che sia, non solo la storia di due sorelle […] fiori di serra bruciati dall’amore, infantili e bellissime bambole di pezza, luminose ed oscure maschere grottesche, quanto renderlo un grande gioco surreale. […] Il surrealismo di chi ama la vita-che-va-avanti, della poesia che-non-finisce-mai […]

2

FABIO STORELLI, Il mio Palazzeschi, in CTSM, p. 11. 3

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202

surrealismo che può anche concludere un percorso drammaturgico come le mie Sorelle Materassi, affettuosamente dedicate al grande Maestro, […]»4.

Abbiamo visto nel precedente capitolo che è proprio Palazzeschi a proporre per la prima volta per la tv una rappresentazione surrealistica del romanzo. Tuttavia, se Ferrero per i motivi che ben sappiamo, correlati anche alle regole generali imposte dallo sceneggiato dell’epoca, mette da parte il suggerimento dell’autore, preferendo una realizzazione televisiva fedelissima alla pagina, non è dello stesso parere Storelli che, a distanza di più di vent’anni e in tutt’altro contesto, decide di accogliere la

proposta di Palazzeschi presentando al pubblico teatrale

un’interpretazione più irrazionale e suggestiva dell’opera e un’immagine più «vitalistica, attivistica delle sorelle», due ricamatrici «mai donne di sventura quanto sempre caparbiamente attaccate alla vita, aperte

operativamente, anche ingenuamente, verso il futuro»5.

Per far questo il drammaturgo contravviene intenzionalmente all’ impostazione tradizionale del romanzo e intraprende una riscrittura curiosa ed originale, utilizzando all’occorrenza giochi scenici o brani musicali per regalare alla narrazione quell’atmosfera da tabarin e da gioco surreale che Palazzeschi sperava di veder realizzata nello sceneggiato televisivo. D’altra parte, l’ambiente teatrale contemporaneo offre tutt’altri spunti e possibilità espressive rispetto all’ambito televisivo degli anni Settanta e soprattutto, in tempi più moderni e al di là dei consueti limiti rappresentativi, il teatro si dimostra oggigiorno come luogo d’elezione più aperto alla sperimentazione e alla riscrittura delle fonti letterarie6.

Altri aspetti interessanti che riguardano la riscrittura storelliana e che si possono qui esemplificare rapidamente, prima di affrontarli in

4 Ivi, p. 12. 5

Ivi, pp. 11-12. 6

Volendo fare qualche esempio, in riferimento all’attuale stagione teatrale, si possono citare la messa in scena da parte della compagnia del Teatro Carcano di Milano de La Coscienza di Zeno di Tullio Kezich, regia di Maurizio Scaparro, di Pinocchio, dal celebre romanzo di Carlo Collodi, adattamento e regia di Ugo Chiti, Arca Azzurra Teatro o, in riferimento ad anni precedenti, si ricordano due versioni de Il Gattopardo, la prima interpretata da Turi Ferro (Teatro Stabile di Catania) e la seconda di Andrea Battistini, con Luca Barbareschi (Teatro Manzoni di Milano).

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203 seguito in riferimento al testo, concernono ad esempio il tono adottato per la narrazione e il taglio attualizzante assegnato alla storia. Nella sua commedia Storelli riprende dal romanzo solo i toni più comici e farseschi rinunciando alla cadenza tragicomica o malinconica appartenente ai momenti più intensi della narrazione palazzeschiana.

Questa scelta si dimostra perfettamente coerente con le puntualizzazioni rivolte dallo stesso commediografo all’autore in occasione dei famosi incontri prima citati. La sua non volontà di interpretare l’esperienza delle due ricamatrici in chiave disfattista e l’assunzione della comicità come unico approccio alla lettura della sua commedia facilitano Storelli nel predisporre la storia in una versione più vitalistica e visibilmente rinnovata, più aperta all’attualità e a un’interpretazione polivalente di certe situazioni o vicissitudini narrate nel romanzo.

Molto probabilmente è vero il parere di certa stampa quando conviene sul considerare quasi necessaria una versione attualizzata e rinnovata dello scritto di Palazzeschi. Proprio perché si rivolge ad un

pubblico teatrale moderno, costituito anche da giovani7, e in ogni caso

molto più avvezzo ad accogliere certe innovazioni interpretative, Storelli si sente in diritto e in dovere di tentare una rilettura inedita dell’opera, attribuendo alle due sorelle «atteggiamenti distanti dall’epoca [dello sceneggiato televisivo], con languori e impeti erotici quasi grotteschi che

possono apparire stridenti alla luce del pudore di sessant’anni fa»8.

D’altronde c’è anche da considerare che il teatro si presenta come un mezzo comunicativo per molti aspetti differente da quello televisivo, specie nella gestione del rapporto con il destinatario. L’opera teatrale non si rivolge, infatti, ad un pubblico vasto e composito come quello del piccolo schermo, bensì a una cerchia di persone più ristretta e

7

«[…] Anche gli spettatori più giovani, all’inizio un po’ scettici nei confronti di una commedia un po’ “datata”, si sono divertiti un mondo nell’assistere ai piccoli ma gustosi battibecchi tra le sorelle, […]», «Corriere di Novara», 14 gennaio 1999, RSC.

8

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204 selezionata che, più di tutto, decide di partecipare allo spettacolo in maniera consapevole e intenzionale.

In virtù di queste considerazioni, parlando in termini di fedeltà, possiamo constatare che dal punto di vista dell’ispirazione letteraria, a differenza di quanto fa Mario Ferrero nello sceneggiato, Storelli ricerca col modello un altro tipo di fedeltà, non di carattere formale e letterale, bensì di natura più interiore e profonda, andando a scavare nel passato di uomo e di artista di Palazzeschi per poter reinterpretare l’opera alla luce di una nuova consapevolezza del testo e della persona dell’autore. Storelli dimostra che la vera essenza di Sorelle Materassi non è da ricercare né nell’impostazione narrativa di stampo tradizionale, né nell’atmosfera di toscanità presente nel romanzo, bensì nella vivacità linguistica dell’enunciazione, nella dimensione di sana/insana follia delle due protagoniste e nella natura fugace e aliena del personaggio di Remo, tutti elementi che per il drammaturgo sono da ricollegare alla vena futuristica e avanguardistica del primo Palazzeschi.

Sulla scena il futurismo si evoca nella vitalità linguistica e lessicale dei dialoghi, nei quali certe battute diventano richiami diretti al ritmo

musicale e provocatorio della poesia palazzeschiana più avanguardistica9,

ma soprattutto nell’interpretazione allegra e bizzarra richiesta dal copione alle due attrici principali si racchiude il tentativo di Storelli di ricreare quella dimensione di stravagante pazzia attribuita da Palazzeschi alle eroine del suo romanzo le quali, dice l’autore, non avendo potuto vivere la loro giovinezza quando era il momento, la vivono «da adulte quando i giochi della vita sono ormai finiti e per questo diventano pazze».

«”Pazze?” Feci io [Storelli]. “Pazze. È lì nella pazzia, che vivono la loro giovinezza, e spendono e spandono a man salva…” In questa pazzia c’è tutta la poesia dei loro personaggi, aggiungo io adesso»10.

9

La «lingua è un costante richiamo a futuristiche acrobazie linguistiche con vocaboli ingegnosamente incastonati in un contesto lessicale estremamente vivace», «L’Arena», 18 gennaio, 1999, RSC.

10

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205

6.1 “Liberamente tratto da”: la proposta teatrale

di Storelli

Quando si fa riferimento a un adattamento teatrale di derivazione letteraria, si ricorre spesso all’uso del termine riduzione pensando di

indicare la «perdita di estensione»11 narrativa che ogni romanzo o ogni

altra forma di origine letteraria sono necessariamente destinati a subire nella loro trasposizione scenica.

Rispetto al genere filmico o al genere sceneggiato, il teatro presenta infatti delle regole di rappresentazione ben più rigide e vincolanti, pur condividendo con i due generi prima citati la stessa natura di linguaggio eterogeneo o, meglio ancora, la stessa conformazione di sistema sincretico, dal momento che l’opera teatrale, tanto quanto il

film, è il risultato finaledell’interazione di più codici messi insieme.

Nella definizione di genere teatrale Cesare Segre individua due differenze principali tra teatro e romanzo. La prima concerne «l’incastonamento del diegetico (narrazioni) nel mimetico» del dramma rispetto «al mimetico (discorsi diretti) nel diegetico» del romanzo, mentre la seconda riguarda l’occultamento nel teatro della figura del narratore che risulta invece nel romanzo importante termine di

mediazione tra lettore e personaggi12.

È bene anche ricordare brevemente che sono inoltre caratteristiche specifiche del genere drammatico l’identità tra il tempo del discorso e il tempo dell’enunciazione, la simultanea connotazione reale e simbolica dello spazio scenico, il carattere performativo dei dialoghi e dei gesti compiuti dai personaggi sulla scena e quindi il maggiore grado di implicazione del destinatario nell’interpretazione degli

eventi drammatizzati13.

11

GIORGIO TINAZZI, op. cit. 2007, p. 71. 12

CESARE SEGRE, Introduzione, op. cit. 1984, p. I. 13

(8)

206 A differenza del lettore, lo spettatore è immesso direttamente all’interno del sistema della narrazione «sia pur col diaframma, diversamente graduato nel tempo, della quarta parete mancante». Egli diventa «testimone» diretto degli eventi rappresentati e compie su di essi un’operazione di giudizio senza ricorrere a una figura di mediazione.

In aggiunta, dovendosi necessariamente svolgere entro determinati confini spazio-temporali, l’opera teatrale si caratterizza rispetto ad altri generi narrativi per la densità figurale e per un ritmo

narrativo particolarmente concentrato ed accelerato14.

Restando sul piano generale dell’analisi della riduzione teatrale e riflettendo sulle caratteristiche del teatro esemplificate da Segre, è necessario dunque che lo sceneggiatore/adattatore rivisiti l’intero

intreccio della vicenda, destinando alla rappresentazionemomenti singoli

della storia e lasciando che eventuali informazioni secondarie presenti nel romanzo siano comunicate al pubblico per via indiretta mediante l’inserimento, come ci dice ancora Segre, di intrecci collaterali o di altrettanti efficaci «espedienti di natura connotativa» come la fuga di

notizie o gli a parte recitati dai singoli personaggi15.

Ma il lavoro di riduzione, come sottolinea anche Elvio Guagnini16,

può assumere diverso valore anche in base al significato che si decide di affidare alla pratica di riscrittura di un testo letterario. Ciò dipende essenzialmente dal grado di licenza interpretativa che il traduttore assume nei confronti del modello da adattare o anche dai diversi tipi di

condizionamenti provenienti dall’ambiente socio-culturale di

destinazione dell’opera che, come abbiamo già evidenziato sopra, può essere un pubblico eterogeneo, informato o no sul contenuto del testo originario. 14 Ivi, pp. 23-24. 15 Ivi, pp. 11-13. 16

(9)

207 Questa doppia influenza porta dunque a due modi diversi di intendere la riduzione: uno di tipo esclusivamente meccanico, l’altro di tipo più manifestamente interpretativo.

Tralasciando qui la prima tipologia d’approccio, ci interessa di più indagare su cosa accade al testo letterario quando a un livello di riscrittura drammaturgica si vengono a imporre scelte tecniche ed elementi di valutazione a sfondo interpretativo.

Quando, infatti, uno sceneggiatore è intenzionato ad offrire al pubblico una lettura personale ed originale del testo di partenza, allora si parla di progetto di drammaturgia, cioè di approccio critico al modello:

«Il regista insomma, lungi dal porsi come semplice mediatore tecnico dell’adattamento, diventa interprete di un testo e come tale intacca anche il livello strutturale, non più solo quello legato alle arti propriamente sceniche (attori, ambientazione, ecc.) […]»17.

In questo caso la selezione delle scene, l’organizzazione dell’intreccio, l’evidenziazione o l’occultamento di alcune tematiche del romanzo, ma anche la gestione di aspetti più tecnici della pratica teatrale come la composizione di monologhi o di dialoghi, di didascalie o note di interpretazione, assumeranno un valore aggiunto fungendo da strategici strumenti di comunicazione indiretta tra il traduttore e il pubblico destinatario dell’opera.

Viene qui in aiuto la definizione di traduttore suggerita da Eco18 per il quale il vero traduttore è colui che assume un atteggiamento critico nei confronti della materia letteraria, ponendosi come figura di mediazione intelligente tra il testo di partenza e quello di arrivo in relazione al contesto di destinazione dell’opera. L’unica differenza è che nella traduzione interlinguistica l’opera di questa figura tende a mantenersi implicita, «tende a non mostrarsi», mentre nell’adattamento

17

ANGELA GUIDOTTI, Intersezioni fra generi, in «Proteo»,2, 1996, pp. 10-11. 18

«nel passaggio da materia a materia l’interpretazione è mediata dall’adattatore, e non lasciata alla mercé del destinatario […]», UMBERTO ECO, Traduzione e interpretazione cit. in NICOLA DUSI, op. cit. 2003, p. 159.

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208

diventa «preponderante ed esplicita»19. Secondo il parere del critico,

dunque, da noi condiviso ampiamente, le scelte testuali o interpretative

effettuate da chi si appresta a trasmutare20 da un codice a un altro o da

una forma espressiva a un’altra un testo di partenza saranno tanto più efficaci e coerenti quanto più terranno conto dell’ambiente effettivo e ideale di destinazione dell’opera.

Di conseguenza, il significato di fedeltà nella relazione tra due testi assume necessariamente carattere relativo e polivalente. Abbiamo fatto accenno precedentemente al tipo di fedeltà adottata da Storelli in relazione al suo progetto di riduzione teatrale dell’opera palazzeschiana. Sulla base sia del pensiero di Eco che dell’opinione parallela di Segre il quale, parlando di specifico teatrale, riferisce sul processo di

«pertinentizzazione»21 dell’opera, si può sostenere che, rispetto

all’interpretazione di Poggioli o di Ferrero, quella di Storelli appare dunque come esempio più avanzato di traduzione letteraria, per lo meno più critica e più problematica poiché, pur partendo anch’essa dallo studio diretto del testo, in parte lo supera e lo trascende, nell’ottica di una comprensione più profonda dei motivi e delle tematiche in esso contenute.

Col suo adattamento Storelli cerca di dimostrare di aver inteso la modernità del testo palazzeschiano e l’unica sua missione sembra quasi essere quella di liberare l’«energia inespressa che traspare tra le righe del romanzo e che forse Palazzeschi» solo per cautela lascia «in punta di penna»22. 19 Ibidem. 20 Il termine è di Eco. 21

Nel suo saggio Segre parla di due tipi di «pertinentizzazione» dell’opera teatrale: una interna, relativa «alla struttura dell’opera e alle sue parti» e l’altra esterna che, a sua volta, può essere suddivisa in almeno tre sottocategorie principali: sincronica, diacronica ed acronica. In virtù di queste distinzioni di categoria, lo studioso vuole dimostrare che una fabula è sempre «il risultato di un’interferenza» e che le sue «qualità costruttive» dipendono dall’«armonizzazione di due sistemi di implicazioni e di presupposizioni, uno logico, l’altro consuetudinario e letterario», CESARE SEGRE, op. cit. 1984, pp. 24-26.

22

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209 In un’intervista è lo stesso drammaturgo a dichiarare che nel romanzo di Palazzeschi c’è «una vitalità sotterranea, inesplosa, tutta da riportare alla luce, da far risorgere con una necessaria dose di autonomia

creativa, in modo coraggioso e artisticamente coerente»23.

Ma dato che il progetto di riscrittura drammaturgica di Storelli rispetto al modello letterario risulta particolarmente evidente, si deve necessariamente parlare per il suo testo teatrale di libera interpretazione. Non a caso il titolo della commedia è accompagnato dalla formula “due tempi in quattro quadri liberamente tratti da…” che stabilisce fin da subito, nel raffronto coi destinatari dell’opera, in che termini di giudizio e di valutazione l’autore ha deciso di porsi rispetto al modello letterario, rivendicando l’autonomia del testo teatrale e spostando il metro di comparazione con l’originale in termini di equivalenza artistica.

Ma qui si vuole anche dimostrare che, nonostante l’autonomia d’interpretazione, il testo di Palazzeschi ha offerto comunque a Poggioli e Ferrero e offre anche in questo caso a Storelli una base comune di partenza.

Concordando infatti con il parere di Elvio Guagnini, il

“liberamente tratti da” che accompagna l’opera di Storelli ha in fondo dei margini di valutazione non così ampi proprio perché nel suo caso il testo letterario preso a modello presenta già di per sé degli interessanti spunti da sfruttare in un’operazione di adattamento teatrale. Per Guagnini

Sorelle Materassi è

«[…] tutto un muoversi di notazioni, di figure, di atti, didascalie scenicamente utili, battute e altri elementi necessari per una eventuale riorganizzazione drammatica e di transcodificazione»24.

In sintesi, a proposito dell’adattamento di Storelli, potremmo concludere che la definizione di libera interpretazione si deve in parte al sostegno critico che il drammaturgo dà alla commedia in rapporto alla

23

«Il Tirreno», 26 novembre, 1998, s. f., RSC.

24

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210 sua conoscenza approfondita della poetica e dell’esperienza umana palazzeschiana e in parte all’accortezza e alla creatività con le quali sa sfruttare al massimo gli spunti teatrali già presenti nel romanzo, «facendo testo» di tutte le indicazioni dello scrittore fiorentino e confermando con la sua messinscena le potenzialità drammaturgiche di

Sorelle Materassi.

6.2 Sorelle Materassi teatrale: «una commedia sospesa

nell’aria»

Vediamo adesso più da vicino le scelte drammaturgiche realizzate da Storelli partendo prima dagli aspetti più esteriori della rappresentazione ovvero dall’ambientazione e dalla resa della scenografia per poi passare all’analisi della costruzione dell’intreccio e della veste linguistica del testo teatrale che sono gli aspetti sui quali è più evidente l’intervento interpretativo del commediografo. Va inoltre specificato che in questo mio lavoro si fa esclusivamente riferimento al copione teatrale e alle critiche apparse in occasione della prima interpretazione della commedia negli anni ’98-’99 sotto la regia di Patrick Rossi Gastaldi, consapevole anche del fatto che ogni messa in scena è sempre sottoposta a possibili rivisitazioni in base alle scelte artistiche delle diverse compagnie e regie.

6.2.1 Ambientazione spazio-temporale

Rispetto al romanzo di Palazzeschi, Storelli nella sua commedia decide di spostare l’azione in avanti e di ambientare la vicenda tra il 1924 e il 1930 «in una cittadina italiana, prossima a una grande città».

Il diverso riferimento cronologico è giustificato da alcuni giornalisti in relazione al culto della bellezza e della gioventù impersonate dalla figura di Remo ed attribuite per un richiamo analogico al periodo fascista:

«L’azione scenica si svolge tra il 1924 ed il 1930, sull’onda di canzoni alla moda, di un fascismo al potere, sotteso nel personaggio maschile, nel culto della

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211

bellezza e della virilità, che gli consentono di muoversi tra le galline del “suo” pollaio come un vero re»25.

La spiegazione potrebbe essere plausibile ma anche più semplice: magari il drammaturgo ha voluto unicamente spostare la vicenda in un periodo più vicino alla data di composizione del romanzo, il 1934, quasi come un gesto di tributo indiretto all’autore, oppure, per agevolare il pubblico nella contestualizzazione dell’opera, ha preferito un periodo storico di più rapida focalizzazione rispetto al più lontano

«millenovecentodiciotto»26.

La scelta invece di non precisare il luogo puntuale dell’azione è molto più tendenziosa poiché sottolinea la volontà del drammaturgo di mantenere attivo nel testo un certo grado di ambiguità e indeterminatezza spazio-temporale tanto nei confronti dell’originalità della vicenda che sta per essere rappresentata, quanto nell’intenzionalità di elevare la storia delle due sorelle a una dimensione generalizzata e panitaliana, universalmente valida in qualsiasi contesto quotidiano.

Questa scelta porta, come già messo prima in evidenza,a un forte

ridimensionamento della toscanità27 presente nel romanzo che, come

sottolinea anche il regista Gastaldi, è per Storelli solo «una sorta di copertura attraverso la quale Palazzeschi ha voluto conferire all’opera

nobiltà e un linguaggio raffinatissimo»28. Risemantizzandola, come dice

Dusi29, e spostando l’interesse su altri aspetti giudicati di maggiore

importanza, il drammaturgo finisce col trattare come accidentale una proprietà del romanzo, la toscanità appunto, giudicata fino a quel momento da critici e precedenti interpreti, primo fra tutti Ferrero, come

25

«Il Giornale di Vicenza», 3 marzo, 1999, s. f., RSC. 26

«Avevano cinquant’anni [Teresa e Carolina] all’epoca in cui si inizia questo racconto e nell’anno millenovecentodiciotto precisamente», Sorelle Materassi, p. 29.

27

«Fabio Storelli […] nel rileggere il romanzo di Aldo Palazzeschi toglie la maschera di “favola campagnola” ad un testo in realtà duro, ambiguo, ricco di tranelli e pieghe misteriose […]»; «[…] nell’allestimento teatrale le “Sorelle Materassi” hanno perso per strada l’accento toscano ma non l’eccezionale, coinvolgente carica umoristica. […]», RSC.

28

PATRICK ROSSI GASTALDI, Una giovinezza ritrovata, in CTSM, p.13. 29

«Se la strategia di una trasposizione giunge a trasformare alcune proprietà del testo di partenza da accidentali ad essenziali, o viceversa, essa può arrivare a risemantizzare la situazione testuale, e scoprire così nuove forme e livelli di equivalenza […]», NICOLA DUSI, op. cit. 2003, p. 135.

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212 qualità essenziale dell’opera. A dimostrazione della scelta di Storelli basti ricordare il suggerimento datogli dallo stesso Palazzeschi sul fatto di «svernacolare» di più il testo della sceneggiatura televisiva, a cui si è fatto accenno nel capitolo di riferimento:

«rispetto a quello [lo sceneggiato televisivo] l’edizione odierna presenta un quasi totale abbandono della toscanità, peraltro non incoraggiata neanche dall’autore. La scelta si rivela felice, […] particolarmente perché, sottratta alla piccineria del pur toscanissimo ambiente – zitelle, artigianato, avarizia -, la situazione diventa spassosamente universale»30.

Per quanto riguarda invece la ricostruzione scenica, l’intera vicenda si svolge complessivamente all’interno di uno spaccato di villetta italiana fatta coincidere con la stanza laboratorio delle due protagoniste. Anche in questo caso l’allestimento della scenografia assume un valore fortemente simbolico. Innanzitutto l’adozione di una scena fissa mantenuta sempre uguale per tutta l’opera evidenzia l’attenzione di Storelli per il ruolo di centralità affidato da Palazzeschi allo spazio interno della casa già presente nelle pagine del romanzo (Fig. VI. 10).

Posizionando al centro del palcoscenico un gigantesco armadio, Storelli sintetizza in un unico elemento visivo la natura polivalente della grande stanza laboratorio. Come tende a precisare anche il regista Gastaldi, «la necessità di concentrare la vicenda in un unico luogo ha spinto verso una sintesi visiva che ha dato quale risultato una

scenografica non del tutto realistica»31. Il grande armadio, infatti, ricopre

all’occorrenza diverse funzioni; diventa dispensa nella scena della cambiale, sala prove della sartoria nell’incontro con la contessa russa, terrazzino dal quale si cala Remo con la fune e infine tabernacolo destinato ad ospitare la gigantografia del giovane dopo la sua partenza.

La multifunzionalità di questo oggetto d’arredo è intesa dall’attrice Isa Barzizza come un ulteriore elemento di surrealismo dell’allestimento teatrale - «Il regista ha creato un ambiente non

30

«La Stampa», 20 dicembre, 1998, s. f., RSC. 31

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213

naturalistico ma di impronta surreale»32 - un simbolo della vena

trasformista delle due protagoniste.

Sul proscenio sono invece sistemate le sedie, il tavolo da lavoro e i diversi arredi che identificano la destinazione della stanza a atelier

sartoriale, «il tutto descritto in modo molto puntuale e veritiero»33. Nella

scenografia non mancano persino i «teli sparsi ovunque, pezze ripiegate,

sete, ricami, lenzuola, mutandine»34 come nella stanza descritta da

Palazzeschi nel suo romanzo, mentre sul davanzale esterno del palcoscenico viene ricostruito un fittizio balcone al quale sono appoggiate delle tende ricamate col nome del marchio di fabbrica delle due cucitrici.

Storelli inserisce inoltre sul palcoscenico una scala praticabile e una finestra, segni evidenti e consapevoli del valore simbolico di questi due elementi all’interno dell’immaginario palazzeschiano. La scala, posizionata a fianco dell’armadio, conduce a un ipotetico piano superiore dove sono collocate le camere da letto. Da lì, recita la didascalia,

«scenderanno le Materassi e salirà e scenderà Remo»35.

Una grande finestra al contrario si apre sullo sfondo della scena «da cui si vedono le fronde di un albero, al primo quadro, piene di fiori primaverili, al secondo verde di foglie estive, al terzo qualche foglia

marrone bruciato autunnale, al quarto rami rinsecchiti invernali»36.

Il mutare del colore delle foglie, chiaro riferimento alle quattro stagioni dell’anno, scandisce visivamente i quattro quadri scenici in cui è suddivisa l’intera pièce teatrale. In questo modo le quattro stagioni,

annunciate in ogni scena attraverso un breve sottotitolo37, anziché

32 «La Provincia», 12 gennaio, 1999, s. f., RSC. 33

PATRICK ROSSI GASTALDI, Una giovinezza ritrovata, in CTSM, p. 13. 34 CTSM. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37

QUADRO PRIMO: “È primavera…svegliatevi bambine”; QUADRO SECONDO: È estate “Trotta, trotta cavallino”; QUADRO TERZO: “L’autunno fa cader le ultime foglie”; QUADRO QUARTO: “L’inverno”, CTSM. Si nota inoltre che, escluso l’ultimo sottotitolo, tutti gli altri riprendono versi di canzoni popolari tratte dal repertorio della musica leggera italiana: Mattinata fiorentina (1941) di

(16)

214 assumere un valore cronologico, hanno un valore unicamente metaforico poiché «mirano a descrivere non solo alcuni momenti significativi della vicenda, ma soprattutto a sviluppare mettendole in luce quattro forme diverse di nevrosi per l’amore impossibile che le Materassi nutrono verso

il nipote Remo»38. Storelli sintetizza, pertanto, visivamente la parabola

evolutiva tutta interiore delle due protagoniste facendo coincidere la primavera e l’estate con i momenti di massima felicità e sintonia tra le due donne e il giovane nipote e l’autunno e l’inverno con la successiva fase di rottura ed allontanamento di Remo da casa Materassi.

Il senso del trascorrere cronologico del tempo è, invece, affidato ad altri elementi sempre di tipo scenografico o acustico. Rispetto al primo quadro, dove tra gli arredi da lavoro sono posizionati sulla scena soltanto due telai illuminati dalla flebile luce di qualche candela, nel terzo quadro si nota sul grande tavolo centrale una macchina da cucire (la «svizzerotta» utilizzata da Carolina) che fa diventare il laboratorio più simile ad un’azienda se si aggiungono anche le « decine e decine di scatoloni l’uno sull’altro a formare stipi, sciffonerie»39 posizionati ai lati del palcoscenico e il rumore assordante di più macchine da cucire proveniente da un ipotetico sottoscala che fa intendere al pubblico l’impiego di alcune lavoranti da parte delle Materassi. I due telai del primo quadro, ormai inutilizzati, restano presenti sulla scena, ma non

sono più illuminati dalle candele bensì da una luce più «“moderna”»40.

Nell’ultimo quadro il passare del tempo è affidato a un altro segnale acustico: il fischio scoppiettante di una macchinetta da caffè proveniente dalla cucina mentre l’odore inebriante della bevanda invade ipoteticamente tutta la sala del laboratorio.

Alberto Rabagliati, Trotta, trotta cavallino (1934) di Daniele Serra e Ultime Foglie (1972) di Gigliola Cinquetti. Di queste poi, Mattinata fiorentina acquista un significato particolare poiché richiama simbolicamente e direttamente la città di Firenze e, dunque, la Toscana di Palazzeschi.

38

PATRICK ROSSI GASTALDI, Una giovinezza ritrovata, Ivi, p. 13.

39 CTSM. 40

(17)

215 L’inserimento di questi nuovi elementi di arredo è destinato, dunque, non solo a dare la sensazione di una progressione temporale della vicenda, ma a testimoniare anche un avvenuto processo di modernizzazione all’interno delle abitudini lavorative e quotidiane delle due protagoniste. Nelle didascalie però lo sceneggiatore tende bene a precisare che questi oggetti d’arredo presenti sulla scena simboleggiano solo apparentemente un segno di modernità: in realtà sono da interpretare come segni di decadenza e di corruzione delle due protagoniste, oggetti simbolo del loro rapporto ambiguo col progresso:

Carolina lavora una cucitura di un ricamo “a macchina”.

Questa macchina da cucire è già un segno di decadenza, anche se apparentemente è un segno di progresso.

Pertanto, da un lato le nuove invenzioni e i nuovi macchinari vengono apprezzati e riconosciuti come utili al lavoro, dall’altro vengono condannati per le conseguenze dannose che hanno sull’umanità, avendo prodotto il consumismo, la degenerazioni dei costumi e la facile corruzione:

TERESA Altri tempi quelli della stola… CAROLINA Altri tempi…

TERESA Che brutta gente che c’è adesso…Gente mediocre.

CAROLINA Gente nuova che comanda…Certo la svizzerotta fa miracoli. […]

TERESA Tu speri che mi metta a gridare: viva il progresso.

Questo non è progresso: è solo velocità. Io sempre a mano finisco. Con la macchina non mi ci vedrai mai. […].

Le riflessioni sul progresso di Teresa e Carolina sono le riflessioni della società odierna, un modo di Storelli per inserire nella commedia una polemica tutta attuale. C’è però da riconoscere che anche Palazzeschi aveva un rapporto ambiguo e polemico con la modernità. La frase pronunciata da Teresa seguita dalla perentoria esclamazione «La macchina è un’invenzione diabolica», sembra quasi pronunciata dallo stesso Palazzeschi quando ammette di non aver mai scritto a macchina e

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216 di aver sempre preferito per la scrittura la sua amata e fidata penna stilografica41.

6.2.2. Intreccio e struttura

Nel processo di risemantizzazione dell’opera palazzeschiana Storelli non include semplicemente un certo distacco dalla toscanità

presente all’interno del romanzo, ma realizza anche altri importanti

modifiche sul piano dell’intreccio come, ad esempio, il finale dell’opera al quale affida un significato importante.

Innanzitutto, dal punto di vista strutturale, l’autore divide la commedia in due atti. Il primo atto è a sua volta ripartito in tre dei quattro quadri precedentemente descritti, ovvero primavera, estate ed autunno, mentre l’ultimo quadro, l’inverno, costituisce col secondo atto un tempo unico, più breve rispetto al primo ma più intenso dal punto di vista dell’azione.

Per quanto riguarda, invece, la sistemazione e la successione degli eventi all’interno dell’intreccio, lo sceneggiatore non solo drammatizza

ex novo alcuni passi diegetici del romanzo, ma colloca in un nuovo ordine

alcune scene principali, anticipando, posticipando o condensando in un unico frangente momenti significativi della vicenda. Nella selezione delle scene rappresentate si nota, inoltre, come sia dato maggiore rilievo agli episodi del romanzo a forte carattere mimetico o farsesco (vedi, ad esempio, la scena della cambiale o le operazioni di travestimento delle due protagoniste) mentre le parti eccessivamente descrittive o valutate come secondarie sono definitivamente eliminate o notevolmente ridotte a semplice citazione.

41

Nell’intervista rilasciata dall’autore ad Alberto de Laura – Un’ora con Aldo Palazzeschi, seconda rete rai, 22 novembre 1971, ADAP –lo scrittore confessa al giornalista il suo amore per la penna stilografica, «unica cosa moderna nella sua casa» (l’autore risiedeva all’epoca a Roma, in un vecchio palazzo dietro piazza Navona), commenta de Laura. E alla giornalista Lina Agostini, nell’intervista su «Radiocorriere TV», lo scrittore spiega con finta modestia: «Sono rimasto l’ultimo scrittore a usare ancora la penna, ma non saprei scrivere in altro modo le mie poesiucole», «Radiocorriere TV», 1972.

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217 Una prima modifica d’intreccio necessaria all’economia del racconto teatrale riguarda la scelta di avviare l’azione drammatica in

medias res facendo coincidere il punto d’inizio della commedia più o

meno con la parte centrale dell’opera. Remo è già entrato a far parte della vita delle due protagoniste, ha compiuto vent’anni ed è ormai abitualmente fuori casa per via delle sue gite notturne a Firenze in compagnia degli inseparabili amici.

Pertanto, tutti gli eventi che precedono l’avvio dell’azione teatrale sono comunicati al pubblico mediante antefatti, inseriti a più riprese nei diversi quadri narrativi oppure citati di volta in volta sotto forma di ricordi o accenni da parte dei protagonisti. Ad esempio, nel primo quadro, attraverso gli iniziali scambi di battute tra Teresa e Carolina, le due donne esprimono il loro disappunto per lo sconveniente episodio di Laurina (ribattezzata nella commedia col nome di Adelina) oppure in un momento di pesanti insulti a Giselda fanno accenno al suo infelice passato:

TERESA Io Remo lo aspetto qui… perché voglio sapere da lui, in persona… cos’è questa nuova… Da Remo lo voglio sapere…

CAROLINA Teresa, questa nuova, cosa?

TERESA Quella di Adelina, che è incinta e che c’è venuto pure il curato a testare il terreno…

CAROLINA Bè ma adesso…a che serve? C’ha pensato la Niobe ad aggiustarla… (e ridacchia) è pratica di queste cose…

[…]

TERESA Si fosse scordata che a casa nostra è solo un’ospite, lei? Un’ospite! […]

CAROLINA Un calcio in culo…e no! Lasciami dire… Teresa! In culo, in culo…te lo sei scordato Giselda, che dopo quello che t’aveva usata e sforzata e sbertucciata davanti e di dietro come gli era parso e piaciuto e un calcio in culo ti dette… tu qua venisti a bussare. Qua… a casa nostra. E noi fesse, le mammalucche, le schizzapiscio…

Già da queste ultime battute si possono qui anticipare due importanti considerazioni di tipo linguistico-sociale, che rendono ancora più evidente l’indipendenza formale del testo teatrale rispetto all’opera di partenza, considerazioni sulle quali si ritornerà al momento delle osservazioni finali. L'aggressività verbale e l’uso sovrabbondante di

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218 espressioni volgari è, infatti, una prerogativa esclusiva del testo storelliano. Nel romanzo di Palazzeschi il ricorso a battute salaci è del tutto assente o coincide semplicemente con l’uso di espressioni

popolari42, spesso e volentieri toscane, che hanno come unica finalità

quella di aggiungere un’ulteriore nota di colore alla veste realistica del romanzo. Nella commedia, la finalità sembra essere certamente un’altra e rientra, a mio parere, in quella ricerca di comicità che Storelli punta in tutti i modi a mettere in evidenza. Non si spiegherebbe altrimenti come mai a pronunciare certe espressioni nel corso della commedia siano proprio le stesse sorelle Materassi che, appartenendo a un ceto sociale medio-borghese, paradossalmente non potrebbero in una situazione verosimile esprimersi in termini coloritamente scurrili.

Nel secondo quadro, alle prese con i capricci e l’insistente curiosità delle contessa russa (Fig. VI. 8), Teresa e Carolina informano lei ed il pubblico sul passato di Remo, sui suoi genitori e sulla sua infanzia trascorsa in Ancona, mentre nell’ultimo quadro il meccanismo del recupero di episodi passati è affidato al ricordo. Sono trascorsi due anni dall’allontanamento di Remo da casa Materassi e le due donne si ritrovano adesso a ricordare insieme i dispiaceri e i disagi economici subiti tanto durante la loro giovinezza a causa della dissolutezza paterna, quanto nei mesi immediatamente successivi al pagamento della cambiale, avendo dovuto lavorare faticosamente per sopperire, questa volta, alle spese folli del nipote. Sempre sulla scia della reminiscenza, Storelli inserisce in questo frangente anche il ricordo delle perdute esperienze amorose delle due sorelle, episodio che nel romanzo appartiene invece alla parte iniziale del racconto. Riportando alla

42

A mo’ d’esempio, si riportano qui gli insulti che, all’interno del romanzo, le due sorelle insieme a Niobe rivolgono ai vicini di casa accorsi al loro cancello subito dopo l’allontanamento di Giselda. È il momento di massima volgarità verbale, possiamo dire, per le due sorelle Materassi che in questa scena esprimono finalmente, in maniera spontanea e liberatoria, il loro disappunto verso le malelingue del vicinato. Come si può notare però si tratta comunque di offese contenute e di sapore popolaresco che non hanno nulla a che vedere con l’oscenità verbale delle battute rivolte dalle stesse a Giselda nell’adattamento teatrale: «Cosa volete, si può sapere? Braconi! […] Chiacchieroni! Pettegoli! […] Boccaloni! Sudicioni! Schifosi! […] Musi di ciuco! […] Puzzoni!»,

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219 memoria le fattezze fisiche e i nomi di vecchi corteggiatori e spasimanti, Teresa e Carolina giustificano la loro comune condizione di zitelle non con il disinteresse verso gli uomini o il matrimonio ma con il destino avverso a cui si sono piegate:

CAROLINA Si vede che la nostra stella era di restare zitelle, lavorare per vivere, avere un nipote che c’ha gettato sul lastrico…E piano, piano risalire la china…Mah!

TERESA Mah!

In questo quadro il recupero della memoria è marcato anche linguisticamente attraverso l’uso ricorrente del verbo ricordare inserito a intervalli regolari nello scambio di battute tra le due sorelle:

CAROLINA […] Non avere nemmeno quello, ti ricordi? e per tre mesi sani sani… CAROLINA […] Passai tutta la notte in un orgasmo totale… […] ricordi? Quasi una follia.

[…]

CAROLINA Filiberto venne subito dopo. M’aveva chiesta, ricordi? […] TERESA Si…si…ricordo.

Si nota inoltre che il tema del dissesto finanziario sofferto in gioventù e in vecchiaia dopo il pagamento della cambiale è convogliato nella commedia in un unico momento scenico attraverso un forte processo di osmosi narrativa che colloca simultaneamente le difficoltà economiche sopravvenute agli sperperi del nipote, dimostratesi ben più gravi da affrontare, e quelle incontrate nel periodo della loro giovinezza. Le due sorelle si sentono diverse dal padre perché, anziché subire passivamente come il genitore, nei tre mesi successivi alla firma della cambiale, ormai ridotte alla fame, hanno saputo reagire con un attivismo nuovo, con operosità e «coraggio di vivere»:

CAROLINA Miracolo che non siamo morte di crepacuore, tu ed io. Come nostro padre.

TERESA Gli sarà mancato il coraggio di vivere, a nostro padre. Noi lo abbiamo avuto.

CAROLINA Sì, noi alla fine lo abbiamo avuto. Ah sì, nella vita ci vuole coraggio. […].

Se Storelli, a differenza di Palazzeschi, non lascia semplicemente intendere al lettore una lenta ma possibile speranza di ripresa economica

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220 per le due protagoniste ma, viceversa, la presenta al pubblico come un fatto già accaduto e superato, è perché anche questa operazione è pertinente all’intenzione di dare un’immagine vitalistica delle due donne.

Anche la scelta di inserire nel medesimo contesto il ricordo delle sventure economiche e di quelle amorose risponde alla stessa finalità. Rispetto al romanzo, Storelli non solo sposta il momento del ricordo dei passati corteggiamenti, ma non mette mai in evidenza nel dialogo che intercorre tra le due sorelle la natura totalmente fantastica ed inventata dei loro amori, cosa che invece è puntualmente rimarcata nel romanzo

dai commenti ironici e canzonatori della voce narrante43. Storelli non

riprende volutamente il tono derisorio adottato nel romanzo poiché, anziché essere interessato a demistificare i sogni della due ricamatrici

rivelandoli come irreali, concentra di più l’attenzione sulla comicità44 che

scaturisce dal mettere in scena due donne, ormai avanti con l’età, che provano ancora una forte attrazione erotica e una curiosità viva verso il genere maschile.

Così, per dare la stessa impressione di malizia e reticenza presenti nel romanzo, il commediografo nel tradurre in battute la pagina narrativa si avvale sì di un sovrabbondante uso di puntini di sospensione, che evidenziano anche graficamente lo scompiglio emotivo provocato nelle due donne dal ricordo ma, per porre di più l’accento sul tema della sensualità e dell’attrazione fisica, arricchisce il dialogo di ulteriori particolari, insistendo sulla descrizione fisica degli spasimanti che nelle parole delle due eroine nel romanzo è del tutto assente:

43

«Non era vero niente. Di una conversazione normale la sua [di Carolina] fantasia […] aveva portato le cose fino a quel termine, facendola diventare una violenza bella e buona […] L’ascoltatrice [Teresa], che sapeva non rispondere le cose a verità, o quanta esagerazione vi fosse, rimaneva indifferente al racconto, fredda, evasiva […] la verità è che tutte e due conoscevano gli uomini per sentito dire, per il più vago sentito dire. Non era facile, mi penso, trovarne altre due che li conoscessero meno», Sorelle Materassi, pp. 44-46.

44

È l’assenza di ironia a differenziare la comicità di Storelli da quella di Palazzeschi. L’autore fiorentino, infatti, nell’illustrazione della stessa scena, è più interessato a innescare una riflessione profonda nel lettore, analoga a quella teorizzata da Pirandello nel suo saggio Sull’umorismo in relazione al famoso esempio della “signora imbellettata”; Storelli, invece, dimostra di essere interessato esclusivamente al riso e reinterpreta la dissonanza tra verità e fantasie amorose solo da un punto di vista esteriore.

(23)

221

ROMANZO

Teresa parlava sempre del figliolo di un avvocato stato in quei pressi a villeggiare trent’anni prima, e divenuto poi il migliore avvocato di Firenze. Di un altro ancora che aveva impiantato con molta fortuna un’industria di oggetti casalinghi famosissima, divenendo ricco e autorevole. […] Carolina nei suoi racconti, si mostrava ossessionata dalla brutalità del maschio; e più ne era stata lontana e più se ne allontanava, più nella fantasia di vergine quella immagine cresceva e n’era, al solo pensiero trepidante e sconvolta come se quelle cose che non erano avvenute mai fossero avvenute il giorno avanti. Rifiutatasi al figliolo di un medico dopo una lotta molto vivace, quello aspettatala una sera l’aveva acciuffata malamente e in un impeto di desiderio sbattuta contro una siepe. Narrava di essere sfuggita per un miracolo alla stretta del forsennato, cadendo poi in un deliquio […]

ADATTAMENTO

TERESA: Eh sì…ero una bella ragazza, come te, per altro. Ti ricordi Guglielmo, il figliolo dell’avvocato…che venne a villeggiare da queste parti…Alto, spalle quadrate, un bel portamento e vestiti sempre tagliati benissimo… […] Sì…sì…Gaetano…Quello che aveva impiantato con tanta fortuna un’industria di casalinghi… […] Anche lui mi piaceva ed io piacevo a lui. Un po’ bassotto. Ma un grande garbo, elegante anche lui, bei denti, belle mani e dalle mani riconosci che è un signore… […] CAROLINA: Io per esempio tanto per fare un esempio me lo sarei sposato Filiberto…quel gravo ragazzo di

Filiberto…buono e gentile,

sì…Soprattutto dopo questi terribili giorni, quell’atto brutale che subii dal Professore di violino, mascalzone…prima con parole gentili mi aveva portata a passeggiare nel vialetto…poi mi aveva acciuffato malamente, lui…Io mi

svincolai, lottai come una

forsennata…quello mi aveva sbattuta contro un albero…riuscii a scappare.

Caddi in un deliquio… […]

Oltre ai numerosi casi di analessi e condensazione narrativa si riscontrano nella commedia anche esempi di prolessi, tradotti dallo sceneggiatore sotto forma di minacciosi presagi o richiami metonimici. Giselda all’inizio, parlando a proposito della gestione degli affari di casa Materassi, anticipa con fare provocatorio e ironico il futuro fallimento finanziario che ricadrà sulle due ricamatrici ad opera dell’ambizioso fattore Fellino:

GISELDA (continuando ad alta voce) E poi dite pure a quel ladro di Fellino…il colono che piace tanto a voi…quando lo incontrate, che i conti del podere, sono tutti sbagliati…

CAROLINA E chi lo vuole incontrare quel cafone! (alludendo a Giselda) Non lo sopporto più!

TERESA Puzza di stalla e di stallatico…

GISELDA Quello, scherzando, scherzando…vi scolomba il podere… TERESA Cosa?

(24)

222

GISELDA E ve lo faccio capire io… Vi scolomba… Sapete una colomba che apre le ali e fru fru fru fru… si alza in volo e scompare? ... Ecco, vi scolomba il podere, ve lo fa scomparire, quello, Fellino… credete a me. Fru fru fru fru…

e poco prima della scena della cambiale, rimproverando le sorelle di coprire sempre le spese del nipote, con fare fatalistico preannuncia per le due donne una fine simile a quella del padre:

GISELDA Sissignore, glieli coprite. Ora il vostro conto è quasi allo zero, scende, scende…Stiamo sull’orlo del precipizio…Io, alle sorelle padrone questo ce lo debbo dire…Che prendano provvedimenti e subito. Altrimenti loro si possono ritrovare dalla sera alla mattina come nostro padre…fallite.

La sventura presagita da Giselda è destinata però a rappresentare per le due zitelle soltanto una breve seppur difficile fase di passaggio, superata la quale le due donne ritorneranno a godere della precedente serenità economica. Lo preannuncia indirettamente al pubblico lo stesso Remo che, pur avendo appena obbligato le due zie a firmare la tanto temuta cambiale, a conclusione del primo atto, rassicura la zia Giselda che, una volta estinti i debiti ed allontanatosi lui stesso dalla casa, ritornerà per le Materassi un periodo di ordine e la serenità:

GISELDA Ma insomma mi dici cos’è successo?

REMO Zia, è successo che estinguo tutti i debiti e mi trovo un lavoro. Io tra due giorni al massimo mi tiro fuori dalle spese… Qui, di casa.

Vado via.

Questa casa tornerà ad essere tranquilla, le zie potranno lavorare in pace, ne avranno proprio bisogno di pace e lavoro…

Ed in questo modo l’azienda tornerà a fiorire. E tu zia quando c’è tempesta, canta sempre, canta.

L’episodio della cambiale è identico nel libro e sul palcoscenico e ciò dimostra che, come sostenuto in precedenza, esso è il momento della storia di maggiore spessore drammatico. Se Storelli decide non solo di far coincidere l’episodio con il momento di massima tensione della sua commedia, ma anche di rappresentarlo così come si presenta nel romanzo è perché ritrova sulla pagina una scena già adibita ad essere rappresentata, con un tale ritmo interno e una tale densità di dialoghi che non necessitano di un ulteriore lavoro di adattamento.

(25)

223 Da questo punto di vista infatti tanto le note quanto i dialoghi del copione sono molto simili ai passi del romanzo e presentano in più punti delle citazioni letterali dell’opera:

ROMANZO

«Bisogna finirla con questa gente che viene a chiedere.»

Decisa ad affrontarlo con energia, Teresa lo fissò: «Vengono a chiedere il loro avere», esordì calma, mascherando le proprie batterie, quindi ergendosi un poco: «bisogna finirla con lo spendere sproporzionato alle possibilità, bisogna finirla col fare dei debiti che non possiamo pagare».

Il nipote la osservava misurandone la resistenza in rapporto all’intenzione. «E quelli che ci sono?» lasciò scivolare con disinvoltura fanciullesca e maliziosa. «Quelli che ci sono prima o poi bisogna pagarli, altrimenti penseranno gli altri a farseli pagare.»

«No.»

«No, che?» «Bisogna pagarli tutti insieme, non vi è altro rimedio», sillabò risoluto: «tutti insieme».

Teresa rise amaro. «Tutti insieme? ...» Fingeva di capire in ritardo. […] «Tutti insieme, già, e con che? Non lo sai che non abbiamo più un soldo, non abbiamo che dei debiti […]»

«Giusto per questo bisogna pagarli tutti insieme.»

«Con che?» gridò furiosa.

«Con una cambiale», rispose calmo il nipote.

ADATTAMENTO

REMO Zie! Dobbiamo finirla con tutta questa gente che viene a chiedere. […]

TERESA Dobbiamo finirla di fare debiti che non si possono pagare.

[…]

TERESA noi pagheremo quello che crederemo di pagare! Non siamo in dovere di farlo.

REMO No!

CAROLINA No, che? TERESA No, che?

REMO Bisogna pagarli tutt’ insieme, non v’è altro rimedio.

TERESA Tutti insieme? Già e con che? Lo sai che non abbiamo più un soldo in banca?

REMO Giusto, e proprio per questo che vanno pagati tutti insieme.

CAROLINA Con che denaro? Se tutti i soldi li abbiamo dati a te?

REMO (come la cosa più ovvia) Con una cambiale.

Anche le note di rappresentazione sembrano parafrasare in maniera diligente il testo narrativo, soprattutto quelle finalizzate a descrivere il grado di sconvolgimento emotivo e fisico delle due donne al momento della notizia della cambiale o subito dopo essere state liberate dalla dispensa dopo aver firmato la tanto famigerata carta:

(26)

224

ROMANZO

Carolina che non aveva mai distolto gli occhi dal nipote, si alzò sempre fissandolo e, […] gli si scagliò avvinghiandosi al corpo, stringendolo con tutte le forze e scoppiando in lacrime. Remo non ebbe un movimento di repulsa: si lasciò avvinghiare. […] Lo graffio, e lui si lasciò graffiare. E quando tirandone la testa verso la sua ne cercò la bocca, egli glie l’abbandonò […].

«Via! Via! Via!» strillava Teresa assalita da un furore femmineo incomposto: «Via! Via!» strappando la sorella dal corpo del giovane.

[…]

A un tratto si sentì del rumore nel sottoscala, un assestamento di corpi, quindi due colpi secchi e forti, risoluti, […].

Il giovane, […] aprì, […] si fece da una parte rispettosamente, per lasciar posto al passaggio delle zie.

Le due donne che aspettavano ferme in piedi dietro l’uscio, uscirono di fila. Teresa a testa alta, […]. Era una regina caduta in mano alla plebaglia […]. Veniva avanti in questo modo con nella mano la cambiale firmata […]. Carolina, a testa bassa, i capelli disciolti […]. Remo […]. Fece per prenderla [ la cambiale] dalla mano della zia, ma il pezzetto di carta cadde […] prima ancora di essere lambita da quella mano indegna. Non vi fu nemmeno questo contatto fra il nipote e la zia: egli si dovette piegare per raccoglierla.

ADATTAMENTO

CAROLINA Non metto firme, io!

Intanto Carolina si è avvinghiata a Remo, si mette a batterlo con disperazione, piangendo. Non escono parole, ma solo grida, urla bestiali, mozziconi di suoni. Carolina lo graffia e Remo si lascia graffiare. Inerte, immobile.

Poi con quel suo tipico gesto, Carolina cerca la bocca di Remo e lo bacia. Teresa li scioglie dall’abbraccio “gelosa”, inviperita, furente.

TERESA Via, via, via!!!!!!

Carolina è strappata dall’abbraccio, resta sola, piange.

[…]

Due colpi dall’interno della dispensa, alla porta.

Remo rapidamente apre, guarda, sorride, si fa da parte per lasciarle passare. Escono le zie, due regine di pezza scarmigliate. Teresa tiene in mano la cambiale, Carolina a testa bassa.

Remo fa per prendere la cambiale. Teresa la lascia cadere.

Storelli dimostra persino di essere attento ai minimi particolari di

questo intenso momento della storia, aggiungendo nella sceneggiatura personali suggerimenti o valutazioni per conferire in questo caso un ulteriore grado di corrispondenza tra commedia e romanzo. Ciò si nota, ad esempio, quando precisa il tipo di contrasto che deve scaturire tra la drammaticità della scena e il canto intonato da Giselda dal primo piano

(27)

225 oppure lo spessore d’intonazione da assegnare alla “i” del nome di Niobe pronunciato da Teresa dalla dispensa:

«Giselda dalla sua stanza si mette a cantare […] I versi di Sterbini (Rossini) hanno una certa contrapposizione tragicomica con la situazione delle due zie chiuse nella dispensa.

[…]

(Palazzeschi scrive: “Con un “i” così lungo e così fine da sembrare un filo di vetro)». Prendendo ad esempio questa sequenza teatrale, possiamo allora più esplicitamente avvalorare quanto ammesso da Elvio Guagnini a proposito della commedia di Storelli quando riconosce che nella sua opera il drammaturgo ha saputo sintetizzare mimeticamente quanto già indicato nel romanzo palazzeschiano, riprendendo in maniera dettagliata e brillante dei frammenti di testo già scenicamente utili e dunque di per sé potenzialmente rappresentabili.

Ma l’esempio più innovativo della rivisitazione drammaturgica di Storelli riguarda soprattutto il finale del romanzo che viene sostituito nella commedia con una rappresentazione eccentrica e vorticosa del matrimonio tra Remo e Peggy. A tal proposito nell’ultimo atto si inverte intenzionalmente l’ordine dei fatti, facendo seguire all’originale scena conclusiva delle due donne davanti alla gigantografia del nipote, l’arrivo della lettera di Remo che preannuncia le nozze con la giovane americana. In questo modo la collocazione del matrimonio nel finale trova una sua dipendenza logica e consequenziale in vista della riorganizzazione dell’intreccio, ma a mio parere, Storelli decide di dare maggior rilievo a quest’ episodio più che altro per motivazioni di tipo scenico e interpretativo. Lo conferma anche il regista Gastaldi quando dice: «Siamo a teatro […] e un finale in crescendo con il matrimonio di Remo e la gioia delle zie rende di più di quello sfumato e malinconico del romanzo, con le donne sole che

guardano le fotografie»45. In sostanza, è la spettacolarità la motivazione

prevalente che spinge alla scelta di una rilettura del finale e, senza dubbio, l’episodio nuziale è molto più spendibile sulla scena di quanto non lo sia l’effettiva pagina conclusiva del romanzo.

45

(28)

226 Nella dimensione corale dell’allestimento sulla scena e negli effetti scenografico-musicali prescelti a rappresentarla, il drammaturgo concentra nel finale della sua commedia l’atmosfera surreale e da tabarin suggerita da Palazzeschi, giocando molto sull’impatto scenico e coreografico. Nel suo copione sono tante le indicazioni che si possono ascrivere a questa finalità.

Innanzitutto i preparativi delle due donne per il matrimonio assumono la stessa dimensione bizzarra e grottesca del travestimento domenicale. Proprio come in quell’episodio, Teresa e Carolina entrano in competizione l’una con l’altra, si insultano e si scherniscono a vicenda: sono due spose che ambiscono al matrimonio con lo stesso uomo, Remo. Molto probabilmente a Storelli sembra più pertinente spostare il battibecco delle due sorelle in questo momento della narrazione giudicandolo più sensato e confacente a una competizione di tipo amoroso.

Si nota poi che tanto la vestizione con gli abiti da sposa quanto l’imbellettamento avvengono rigorosamente sulla scena: in questo modo il senso della mascherata, della farsa, il gioco dell’essere dell’apparire che traspare in ogni zona del romanzo diventa prontamente percepibile dal pubblico teatrale. Le due sorelle subiscono una vera e propria trasformazione davanti agli occhi dello spettatore, abbandonano con facilità gli abiti vecchi e rivestono nuovi panni, assumono espressioni strane, bislacche, animalesche. Non sono più loro ma altre donne. Diventano definitivamente pazze.

Recita il copione teatrale:

[…]

Le due sorelle si guardano negli occhi e poi come se un solo pensiero fosse nato nelle loro teste, si spogliano dei loro casti grembiulini ed indossano il vestito lungo da sposa che ognuna di loro si era preparato, anche questo segretamente e si gettano sulle pezze di velo, svolgendole a pieni metri.

CAROLINA Oh la mia bella Cocorita… TERESA E brava la mi’ Bracona!

Una a destra, l’altra a sinistra della scena, bestialmente digrignano i denti, […] Con il velo in testa si fermano, si guardano. Poi si mettono a frugare in due cassetti e tirano fuori ciprie e rossetti.

CAROLINA Attenta a non sporcarti troppo, muso di ciuco!

TERESA E tu non sfarinarti con la cipria anche le cosce sogliola fritta! Si impiastricciano la faccia. Sempre gemendo e affannate.

(29)

227 Per intensificare ancora di più l’effetto straniante e grottesco, il drammaturgo aggiunge, come accompagnamento alla recitazione, dei brani musicali dissonanti rispetto all’occasione rappresentata: durante il travestimento il motivo è quello di una «fragorosa marcetta», mentre la sfilata degli sposi fiancheggiati dalle due sorelle è scandita da una «marcia

militare»46. Anche se i brani adottati non sono gli stessi, le due colonne

sonore inserite nella commedia sembrano fare eco alla competizione della banda musicale e della Fanfara descritta nel romanzo al momento dell’arrivo e dell’uscita dei due sposi sul sagrato della chiesa:

«La banda municipale di Compiobbi intonò la marcia trionfale dell’Aida, quindi ebbe principio la Messa accompagnata dal mistico coro della Norma. […] Terminata la cerimonia, all’uscire della chiesa la banda di Compiobbi, […], suonò il brindisi della Traviata. […] E la Fanfara di Settignano, pur avendo un repertorio alquanto ristretto, bisognava riconoscere che lo svolgeva con impeto fuor dal comune»47.

Anche gli abiti di Remo e Peggy sono originali e stravaganti, non sembrano neanche due sposi:

Scendono Remo, un vestito, come dice lui easy and free: una accozzaglia di colori sgargianti e festosi, e la paglietta in testa.

E Peggy, in abito da sposa. Gonna corta ed un velo a fiori verdi e rosa. Incredibile.

Intanto le due zie così “acconciate come due maschere”, proprio come le descrive Palazzeschi nel romanzo, iniziano ad accompagnare i due sposi in una sfilata che assume le fattezze di una

danza macabra. Ridono; ancheggiano, a mossettine, a passettini e se possibile scendono in platea per proseguire in mezzo al pubblico il loro incedere nuziale.

Questi movimenti inconsulti e strambi sono a loro volta seguiti dalle parole di Teresa e Carolina che, rivolgendosi direttamente al pubblico, lo invitano a non credere a quanto avviene perché si tratta solo di un’illusione, una buffonata:

CAROLINA Non ci credete, è una buffonata qualunque… TERESA È un matrimonio senza amore…

46 CTSM. 47 Sorelle Materassi, pp. 261-263.

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