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Parte 1 – Il contesto di riferimento

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Academic year: 2021

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Capitolo 1

Internet: una Rete sociale senza precedenti

1.1 La nascita di un mezzo democratico

L’uomo è un animale sociale. Le persone non sono fatte per vivere da sole.

Seneca (De clementia)

Quando Seneca scriveva era il I secolo d.C..

Sono passati venti secoli da allora, le grandi innovazioni tecnologiche hanno cambiato il modo di esprimersi, ma fin dalla notte dei tempi gli esseri umani hanno sentito il bisogno di comunicare, di essere parte integrante di un gruppo. Il bisogno di socialità rappresenta il file rouge che lega l’intera umanità, indipendentemente dall’epoca vissuta, dalla cultura di appartenenza e dagli strumenti a disposizione.

L’uomo in quanto tale è sempre stato spinto dalla sua natura di animale sociale a comunicare sfruttando ogni mezzo a sua disposizione e cercando di ampliare il suo raggio d’azione, grazie all’utilizzo di mezzi via via sempre più efficienti che gli permettessero di comunicare non solo con i membri della sua tribù di

appartenenza, ma anche con persone situate a grandi distanze.

Già nella preistoria si hanno esempi di espedienti utilizzati per la comunicazione a distanza, come segnali di fumo, segnali sonori e in epoca più tarda, il piccione viaggiatore o i messaggeri a cavallo; ma si trattava principalmente di una comunicazione artificiosa e complessa: i messaggi impiegavano settimane, addirittura mesi per arrivare a destinazione, e riguardavano solo informazioni molto importanti.

È solo in epoca recente e con la nascita dei mezzi di comunicazione di massa che si hanno i primi, veri esempi di comunicazione su lunga distanza.

L’intero secolo scorso è stato caratterizzato da grandi innovazioni tecnologiche che hanno permesso all’uomo di spostare il centro della sua attenzione dalla tribù

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o il quartiere di appartenenza a una dimensione che non era ancora globale, ma che gli permetteva di superare le barriere geografiche che fino ad allora avevano limitato la sua capacità di comunicazione.

A partire dal secondo dopoguerra sono i mass media la forma dominante di comunicazione pubblica: stampa, radio e televisione diventano centrali nella quotidianità di ogni fruitore, definendone l’agenda pubblica di interesse.

Se da una parte i sistemi di comunicazione di massa hanno ampliato le

potenzialità di raggiungere gli individui anche a grosse distanze, gli alti costi di produzione e i bassi costi marginali di distribuzione ne hanno limitato la libertà di creare prodotti televisivi, cinematografici e musicali davvero interessanti,

prediligendo soprattutto contenuti superficiali, ma che fossero garanzia di successo economico, riuscendo a soddisfare il maggior numero possibile di persone e “spalmando” così i costi fissi su un pubblico più vasto.

Fabris (2009, p.44), in relazione a quanto detto sopra, afferma che: “La relativa omogeneizzazione dei gusti degli utenti è stata, in larga misura, il riflesso del concentrarsi dell’offerta – distorta dall’imbuto della distribuzione, dalla scarsità di informazione, dalla costruzione dello spazio fisico – intorno ai best seller e alle hit del mercato”.

Non sono infatti i gusti reali dei singoli individui ad essere oggetto di studio, e a essere soddisfatti con una produzione televisiva-cinematografica-musicale

coerente; ciò che i media tradizionali intendono fare è accontentare un pubblico di massa, omologato, con programmi di basso profilo, che non richiedono troppo impegno da parte di chi li guarda e che fanno svagare la mente, programmi che possono essere accettati e accettabili per la stragrande maggioranza di pubblici. Gli obiettivi principali dei produttori di informazione sono da sempre i guadagni in termini di pubblicità e audience che certi programmi “leggeri” possono meglio raggiungere, a scapito della soddisfazione dei bisogni reali dell’audience stessa.

I vincoli politici ed economici sono stati protagonisti della scena mediale per tutto il ‘900 influenzando il modo di fare informazione. I mass media tradizionali si basano infatti su un modello di comunicazione unidirezionale, stabilita da pochi proprietari commerciali che decidono l’agenda pubblica di un vasto numero di

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pubblici eterogenei, con formazione, cultura e stili di vita completamente diversi. Non è un tipo di comunicazione adatta a tutti, nel senso che non possono produrla tutti, proprio a causa degli oneri economici di cui ho accennato prima. È il

classico esempio di comunicazione che sui manuali è definita “one to many”, dove c’è un solo interlocutore che parla a una miriade di riceventi passivi che

ascoltano. Non c’è possibilità di interazione.

I media del XX secolo sono stati fino a poco tempo fa la principale agenzia di socializzazione degli individui (Livolsi, 2003). Il sistema mediale è stato spesso la principale fonte d’informazione, cultura e conoscenza a cui gli individui potevano accedere rispetto a certi aspetti della realtà. Inoltre, la pervasività e

l’autorevolezza di cui questi mezzi hanno goduto, e di cui godono ancora in parte, hanno determinato il nostro agire sociale e comunicativo, al punto che la nostra rappresentazione della realtà e i nostri argomenti di conversazione trovano continui ancoraggi e riferimenti nei contenuti dei mass media.

In seguito, con l’introduzione, nel 19751, dei primi personal computer a uso domestico, si creano i presupposti per dare una sferzata all’enorme potere dei media tradizionali.

Per anni i pc domestici non sono stati in grado di interconnettersi tra loro, erano semplici calcolatori utilizzati per immagazzinare ed elaborare una grossa mole di dati. Fu solo vent’anni dopo circa, nel 19912, con la nascita del World Wide Web,

che venne rivoluzionato, non solo il modo di fare ricerche degli individui, ma anche e soprattutto il modo di produrre informazione e cultura.

In questo nuovo contesto si fa largo la possibilità, per chiunque possieda un pc e una connessione, di interagire, intervenire su questioni di cui prima era solo ascoltatore passivo, creare o ri-creare informazione partendo da quelle esistenti, commentare le opinioni di altri, cooperare insieme a persone geograficamente lontane spinti da un fine comune.

                                                                                                               

1

http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_computer#La_nascita_dei_computer_.281975-1976.29

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Si abbandona l’idea di una sfera pubblica fatta soprattutto di dichiarazioni a senso unico definita dai media classici, per far spazio a una più democratica Rete, nella quale anche i singoli individui possono prendere la parola, e partecipare al dibattito pubblico, potendo scegliere su quali argomenti soffermarsi secondo i propri interessi.

Il sé non è più un sé mediale (Livolsi, 2003), definito semplicemente da ciò che consuma e recepisce dai media a cui è esposto. Oggi, grazie alla Grande Rete3 (Fabris, 2009), sempre più spesso cerchiamo informazioni da soli, ce le creiamo, riformuliamo quelle esistenti.

I new media, soprattutto con l’introduzione di internet e del web 2.0, hanno fornito le basi per creare un nuovo modo di fare informazione.

Gli utenti cambiano il loro approccio nei confronti del tam-tam informativo che li raggiunge. Il fascino della pubblicità ha smesso di incantare il consumatore. Come dimostra uno studio eseguito dalla società di ricerche di mercato Yankelovich Partners, Inc. (2004)4, il 60% dei consumatori ha un’opinione molto più negativa del marketing e della pubblicità rispetto a qualche anno fa, e il 65% si sente bombardato da troppo marketing e troppa pubblicità, il 61% ritiene che la quantità di marketing odierna sia fuori controllo e il 69% è interessato a meccanismo che possono bloccare completamente la pubblicità.

I navigatori, quindi, grazie ai nuovi strumenti, riescono a difendersi

dall’incessante attività pubblicitaria delle aziende, e diventano più critici, selettivi, e autonomi, passando da una politica autoritaria esercitata dai mass media

tradizionali a una politica maggiormente collaborativa basata sulla condivisione.

L’asimmetria informativa che per tutto il ‘900 ha caratterizzato l’individuo, perde di significato, si sgretola di fronte alle nuove opportunità di connessione,

simultaneità e informazione introdotte della rete.                                                                                                                

3  Grande Rete: termini utilizzato da Fabris sul suo libro “Societing” per indicare le

potenzialità e le opportunità che l’introduzione del pc ha portato con sé: quella di aver creato la più grande rete di computer e di persone mai esistita.  

4“Consumer Resistance to Marketing Reaches All-Time High Marketing Productivity

Plummets, According to Yankelovich Study”, Aprile 2004, www.yankelovich.com, in  

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In questo nuovo scenario, si assiste alla democratizzazione dell’informazione che segna il passaggio da una società prevalentemente verticale a una marcatamente orizzontale provocando forti ripercussioni su tutte le sfere della società.

Nascono piattaforme online che permettono all’individuo di esprimere questa voglia di socialità ritrovata, cambiando radicalmente i paradigmi di potere e l’architettura su cui si fondavano le società moderne.

L’individuo dimostra di avere la volontà e le capacità di non sottostare più ai diktat imposti dal mercato e dalle aziende produttrici. Questo non appare più legato alle vecchie categorie, come età e ceto sociale, determinate dal marketing tradizionale e ormai obsolete.

Si annullano i vecchi rapporti gerarchici, l’utente assume il potere di decidere sul proprio destino, si coalizza con altri consumatori, ripone sentimenti di fiducia e credibilità ad altri utenti come lui, ha sempre più facilità di accesso a informazioni ed esperienze di consumo maturate da altre persone, per questo, sempre più spesso, prima di acquistare un prodotto si informa sulla rete, valuta i pro e i contro di un bene.

Il radicale cambiamento di direzione, in atto negli ultimi anni, l’ho potuto

constatare in prima persona anche durante lo stage che ho svolto in un’agenzia di web marketing, dove mi sono dovuta rapportare direttamente con “gli abitanti della rete”, rendendomi conto di quanto i loro pareri siano influenti, della fiducia che alcuni si sono conquistati, capaci di rendere “star” un prodotto fino al giorno prima sconosciuto, e di come, soprattutto all’estero, siano consapevoli del loro ruolo e lo sfruttino appieno.

Le piattaforme social, come blog, forum e community la fanno da padrona sul web, basta aprire un topic su un forum per scatenare in pochi minuti un dibattito acceso che può determinare anche la “bocciatura” immediata di un’azienda, senza preavviso e senza mezzi termini. Tutto ruota attorno all’acquisita centralità

dell’individuo e alle aziende non resta che cercare di instaurare un rapporto di reciprocità attraverso i social media.

Nonostante il quadro generale che si sta sviluppando sia piuttosto evidente, molto spesso, anche le agenzie specializzate – che per prime dovrebbero accorgersi e

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anticipare il cambiamento – si presentano ottuse, e concentrano le loro risorse umane quasi esclusivamente sulla progettazione del sito web, sul posizionamento sui motori di ricerca e sull’advertising online. Ancora troppi pochi, almeno a livello italiano, si stanno rendendo conto delle grandi potenzialità offerte da internet, relegando il contenuto – divenuto protagonista indiscusso dell’approccio 2.0 – a un livello secondario di importanza.

Nei prossimi capitoli parlererò in dettaglio del rapporto tra consumatori e social media, soffermandomi soprattutto, sull’enorme empowerment assunto dai consumatori e dalle loro attività sulla rete; mentre adesso, nella prima parte di questo lavoro, mi dedicherò a capire nel dettaglio come cambiano le esigenze e i bisogni dell’individuo postmoderno e come le aziende dovrebbero porsi per inserirsi e comunicare con le nuove comunità online, partendo dai risvolti socio-economici che l’affermarsi della rete e dei nuovi strumenti tecnologici hanno portato con sé.

1.2 Dal Web 1.0 al Web 2.0

Internet rappresenta la prima e più grande rete mondiale di computer alla quale ognuno di noi può accedere liberamente. È entrato a far parte della vita di tutti - almeno nei paesi più industrializzati – quindi, capire come si sta evolvendo diventa un punto cruciale per comprendere come questo ha modificato gli aspetti culturali, comportamentali e motivazionali che sottendono la nostra società.

Oggi le pratiche di utilizzo del computer e di internet si fondano sul concetto di web 2.0, che sottende forti implicazioni socio-economiche rendendolo un concetto di difficile comprensione, al punto che, in letteratura non si riesce a trovarne una definizione univoca che le comprenda tutte:

In the year and a half since, the term "Web 2.0" has clearly taken hold, with more than 9.5 million citations in Google. But there's still a huge amount of

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meaningless marketing buzzword, and others accepting it as the new conventional wisdom.5

Come si evince dalle parole di Tim O’Reilly – colui che per primo ha parlato di Web 2.06 – il dibattito circa la definizione di web 2.0 è ancora aperto e ricco di controversie, ma possiamo comunque affermare che le varie interpretazioni e teorie economiche e sociali che ne seguono, nascono da un nuovo modo di intendere e di usare il web, sia da parte dei navigatori, sia da parte delle aziende.

Per capire profondamente le origini di un fenomeno di tale importanza, sarà necessario tornare agni anni ’90, quando nacque il World Wide Web (WWW) – a opera di Tim Berners-Lee - cioè nel periodo in cui internet si affermava come mezzo di comunicazione e promozione, ma ancora nessuno avrebbe immaginato gli incredibili sviluppi che avrebbe portato.

Nato inizialmente come programma per collegare i laboratori di ricerca scientifica (Balzola, Monteverdi, 2007, p.248), nel 1993 la tecnologia web viene resa

disponibile anche al grande pubblico: chiunque possedesse un computer poteva collegarlo a una rete telefonica e navigare sulla rete.

L’enorme diffusione della tecnologia registrata negli ultimi due decenni, è stata possibile grazie alla progressiva miniaturizzazione dei componenti elettronici e all’aumento della loro potenza e capacità di elaborazione che, secondo la legge elaborata da Gordon Moore molti anni prima (Anderson, 2009) ogni due anni circa, la tecnologia raddoppierà la sua potenza allo stesso ritmo in cui si dimezzerà il suo costo, permettendo una diffusione sempre più capillare del mezzo anche nelle zone meno abbienti del pianeta.

In origine, gli utenti però utilizzavano questo nuovo mezzo solo per una mera consultazione di dati statici e le aziende creavano i propri siti seguendo un approccio tradizionale simile a quello di uno spot pubblicitario. Non era previsto uno scambio di opinioni, ma un unico flusso unidirezionale di informazioni che partiva dall’alto.

                                                                                                               

5  www.oreilly.com/web2/archive/what-is-web-20.html  

6 Tim O’Really parlò per la prima volta di Web 2.0 nel 2004 durante una sessione di

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Lo scoppio della bolla speculativa delle dot-com7 del 2001 ha successivamente

cambiato in modo radicale l’assetto sulla quale poggiava il web fino ad allora, integrando tecnologie che hanno permesso a tutti di diventare protagonisti del Web stesso.

Se infatti, sino a quel momento il web era sostanzialmente associato a un’idea di sito-vetrina (Prunesti, 2010), ancorato al modello di comunicazione one-to-many che era proprio dei media tradizionali, dove gli internauti si limitano a navigare e acquistare sui siti web aziendali, con il passaggio al web 2.0 e l’introduzione di nuove piattaforme più “sociali”, il paradigma è cambiato, gli utenti si sono fatti più critici e consapevoli, e le aziende che non vogliono collassare di fronte a questa nuova e imponente realtà si devono adeguare aprendosi al dialogo e allo scambio di contenuti.

Questo nuovo paradigma non va comunque a intaccare l’infrastruttura tipica della rete, il protocollo di trasmissione dati resta il solito, così come le impostazioni base che regolamentano l’accesso a internet. Si tratta piuttosto di una veste alternativa che il web va a indossare: la grafica dei siti internet aziendali

abbandonano definitivamente lo stile pomposo e vistoso degli ultimi tempi, per indirizzarsi verso un design più sobrio, lineare e intuitivo, dove i contenuti sono messi in risalto e non nascosti dalle immagini.

Sono proprio i contenuti e il modo in cui essi vengono prodotti, che divengono oggi l’elemento fondamentale e distintivo dell’approccio 2.0.

Al fine di rendere maggiormente comprensibili i risvolti sociali che il web 2.0 ha portato con sé, di seguito riporto alcuni punti fondamentali individuati da Tim O’Reilly che descrivono il passaggio da web 1.0 a web 2.0:

                                                                                                               

7  Dot-com indica un’azienda che realizza la maggior parte del suo business attraverso

internet. Negli anni ’90, grazie all’introduzione di Netscape nel mondo delle quotazioni, unito alla grande disponibilità di venture capital, furono create numerosissime dot-com, con l’obiettivo di collocarle in borsa. Molte però non avevano una strategia precisa ed efficace, ne seguì così una bolla speculativa del Nasdaq che culminò con il crollo delle borse nel 2001, con conseguenti fallimenti a catena che paralizzarono le iniziative e il mercato per diversi anni.  

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• dalla comunicazione di massa generata dai media mainstream (il cui utilizzo era riservato solo a pochi tecnici e programmatori) ai wiki basati su contenuti collaborativi generati dagli utenti;

• dalla classificazione dei contenuti attraverso la tassonomia all’utilizzo della folksonomia8;

• dalla gestione dei contenuti affidata esclusivamente ad aziende e professionisti, alla possibilità di pubblicare, condividere e gestire i contenuti da parte dei singoli utenti. (Prunesti, 2010, cit. p.61)

                                                                                                               

8  Folksonomia: deriva dall’unione di due termini inglesi “folk” (popolare) e “sonomy”

(contrazione di tassonomia), che si contrappone alla tassonomia proprio per la natura sociale della classificazione dei contenuti. Per tassonomia si intende un sistema di classificazione di tipo top-down ovvero deciso a priori da esperti (si pensi al catalogo di una biblioteca, già suddiviso per materie). La folksonomia, al contrario, basata sui tag (parole chiave associate a un contenuto web e liberamente assegnate dagli utenti), consente di catalogare le informazioni con un processo inverso, ossia di tipo bottom-up, nel quale sono gli stessi utenti a partecipare e decidere in merito ai significati e alla classificazione delle risorse.

In pratica, grazie alla folksonomia, gli utenti possono catalogare le informazioni che per loro sono più importanti e significative, inoltre, attraverso un semplice clic sul tag è possibile ricercare la pagine web che trattano dello stesso argomento.  

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Fig 1.1: fonte: http://www.web-20.it/il-web-20-in-una-sola-immagine/

Il vero cambiamento è rintracciabile nel modo di fare web, aperto e democratico, libero dai vecchi vincoli di potere.

Il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, introduce una serie di strumenti di comunicazione che favoriscono l’abbattimento delle barriere fisiche, a favore dell’interattività e della comunicazione in real time.

Non si tratta di una nuova tecnologia – si sono sì create delle nuove piattaforme di interazione, ma gli ingranaggi che stanno dietro al funzionamento del computer sono sempre gli stessi – cambia invece il modo di usarle, determinando un passaggio evolutivo e di “maturazione” in linea con le nuove esigenze comunicative degli individui.

Il consumatore diviene, così come lo definisce Fabris (2009), comincATTORE, in grado di auto-determinarsi e auto-selezionare i contenuti di suo interesse, senza l’intervento di alcuna forza esterna. Si instaura un rapporto a “tu per tu” tra la

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nuova tecnologia e l’uomo, dove quest’ultimo è in grado di muoversi in totale libertà, processare autonomamente le informazioni online e creare un proprio lifestream9

.

La rete appare coma una piattaforma munita di supporti utili all’utente per compiere una vasta gamma di azioni differenziate: dall’espressione di se stesso, all’interazione, alla creazione di un’intelligenza collettiva (Fabris, 2009). Condividere, intervenire, discutere su argomenti di interesse comune, permette una sorta di partecipazione attiva nella quotidianità di altri utenti. Questo non può che determinare un avvicinamento tra persone che, nonostante conducano vite sostanzialmente diverse, stringono un legame sociale che supera le diversità e accomuna tutti, all’interno della comunità virtuale.

Si è così individui unici all’interno di una collettività, che si trasforma in modo originale e trasversale, grazie al contributo personale di ciascun individuo.

Il web, comunque, è in continua trasformazione – quello in atto non sarà certo l’ultimo stadio evolutivo – e anche se ancora in molti, tra manager e utenti, non riescono a comprendere le potenzialità portate dal 2.0, già si comincia a parlare nell’ambiente di web 3.0.

Il web 3.0 è un approccio che si basa sull’intelligenza artificiale della macchina per gestire l’enorme quantità di contenuti in circolo sulla rete come se fossero un unico grande database.

Queste le parole di Alex Giordano, fondatore di Ninja Marketing, nel corso della Marketing Conference 2.0 tenutasi a Parigi nel 2010:

Io credo che la vera forza del 3.0 sia la sua capacità di puntare al coinvolgimento diretto delle persone. Mi riferisco alla possibilità che ciascuno ha di farsi

imprenditore di se stesso, proprio sfruttando le risorse offerte dalla rete. Le piccole e micro imprese possono utilizzare il web per crescere in maniera concreta, per me questo è il web 3.0, fare di ogni individuo un soggetto attivo10. Dunque, se il web 2.0 punta alle persone, il web 3.0 dovrebbe puntare all’anima.                                                                                                                

9  Lifestream: indica un sistema di registrazione cronologica di tutte le azione che un

utente compie all’interno di una serie di servizi web e piattaforme social.  

10  

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1.2.1 L’empowerment del consumatore: da soggetto passivo a

creatore di valore

L’epoca della modernità, quella razionale, individualista e standardizzata, sta volgendo al termine, per far spazio a una più volatile, incerta e frammentata contemporaneità (Fabris, 2009).

Detta così potrebbe sembrare una cosa negativa, ma, nella realtà, la maggiore frammentarietà del mondo postmoderno ha permesso agli individui di trovare il proprio posto, senza essere obbligato a inserirsi in una delle categorie

preconfezionate per lui dai poteri mediali e commerciali del ‘900.

L’introduzione di internet, che di solito noi individuiamo come elemento scatenante di questo passaggio d’epoca, ha sì permesso il realizzarsi del

postmodernismo, ma è solo grazie agli individui, che hanno deciso cosa farne, se il cambiamento si è realizzato concretamente.

Il consumatore, che è stato per troppo tempo un “burattino” nelle mani dei mass media, ha quindi trovato una tecnologia abilitante che gli permettesse di tagliare quel cordone ombelicale a cui era stato legato, per raggiungere l’autonomia: se per tutto il ‘900 l’unico potere che deteneva il soggetto era quello di cambiare canale o spengere la tv, oggi può essere egli stesso a decidere la propria dieta mediale e a costruire autonomamente una rete di relazioni indipendenti.

Durante il secolo scorso, il pubblico dei media non era che una massa di individui che non si conoscevano tra loro, lontani fisicamente e accomunati soltanto dal fatto casuale di prestare attenzione allo stesso messaggio contemporaneamente.

Negli ultimi anni invece, il bisogno di socialità e di comunicare sembra essere posto con sempre maggiore convinzione e veemenza.

Basta guardarsi in giro per capire come la comunicazione sia diventata una questione sempre più all’ordine del giorno, al punto che, anche in ambito lavorativo, si è registrato un repentino aumento delle figure professionali specializzate, anche in settori come quello dei social media inesistenti fino a qualche anno fa.

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L’accesso di massa alle nuove tecnologie informatiche unito allo sviluppo dei social media ha messo, per la prima volta nella storia dell’umanità, le persone in grado di fare da sole, in proprio e a costi modesti, attività che in precedenza, nell’economia industriale, potevano essere sostenute solo dai grandi poteri

commerciali a causa degli alti costi d’ingresso e di gestione (Benkler, 2007, p. X).

Si è dato così voce ad ogni singolo utente, dando avvio alla creazione di una comunicazione partecipativa che parte dal basso e che può arrivare a influenzare i broadcaster tradizionali, invertendo così il flusso di comunicazione (Prunesti, 2010, p. 20).

Gli individui hanno cominciato a muoversi con più consapevolezza nel complesso mondo della comunicazione, e i nuovi strumenti messi a disposizione hanno permesso di trasformare tale patrimonio in elemento strategico a loro vantaggio passando da uno stato di riceventi passivi a creatori di informazione e di valore. Quest’apertura del web agli utenti non significa però anarchia, bensì maturità e responsabilità affidata a ciascun navigatore che sceglie, nell’interesse proprio e degli altri appartenenti al mondo web, i contenuti che potrebbero soddisfare l’esigenza della collettività.

L’utente assume un ruolo da protagonista. Il sé non è più un sé mediale, ovvero un sé definito dai contenuti scelti e trasmessi dai tradizionali mezzi di

comunicazione, bensì narrazione, si racconta, mostra la propria personalità attraverso blog, wiki, social network, forum e partecipa alla creazione di conoscenza e informazione.

Inoltre, i costi decrescenti di calcolo, comunicazione e immagazzinamento dei dati, hanno permesso a un numero considerevole di persone di avere libero

accesso ai mezzi di produzione di informazione, al punto che chiunque nel mondo può partecipare alla comunicazione mediale.

Nasce così un fiorente settore non commerciale della produzione di informazione, conoscenza e cultura, dove la condivisione è il principio fondamentale entro cui ruota l’intero sistema mediale.

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La rete pervade ormai la nostra quotidianità, è diventata parte integrante dei nostri gesti quotidiani: lavoriamo, giochiamo, parliamo con amici o persone lontane, condividiamo i nostri interessi, i nostri pensieri, i nostri stati d’animo, tutto sulla rete.

Internet diventa specchio della realtà, dove per realtà non si intende un artificio creato ad hoc da individui o poteri economici, ma una realtà aumentata, dove il nostro essere fisico si fonde con quello mediale, in un unico grande IO.

Le innovazioni e i nuovi strumenti messi a disposizione dai new media hanno potenziato talmente tanto le capacità dell’individuo sia come singolo che come facente parte di un gruppo, che si è passati da un’architettura sociale guidata dai grandi poteri economici, a un’architettura nella quale ai grandi poteri economici si sono affiancati gli individui, con i loro pensieri, le loro tradizioni e i loro modi di essere.

Ciò che sorprende, a questo punto, è la miopia di molti di fronte a questo inevitabile cambiamento. Spesso si interpreta il fenomeno in atto come un fenomeno di transizione, “alla moda”, piuttosto che come riflesso del nuovo protagonismo dell’individuo in un sociale che cambia forma e contenuti.

L’individuo non solo è più attento, selettivo, competente ed esigente, ma partecipa alla creazione di contenuti, condivide valori ed emozioni, determinando spesso il successo o il fallimento delle aziende che si trovano a dover fronteggiare questa nuova minaccia/opportunità .

La classica divisione tra azienda che detiene il potere e consumatore passivo cessa di esistere. Fabris (2009, p.48) paragona il “vecchio” consumatore moderno a “una sorta di Alice nel paese delle Meraviglie, che si aggira spaesato, ma incantato nel mondo seduttivo e scintillante delle merci”.

Il nuovo individuo mediale, rifiuta il suo ruolo di soggetto passivo e ricettivo, disorientato di fronte ai continui messaggi pubblicitari a cui è esposto e si trova a collaborare con le aziende, non solo per quanto concerne l’attribuzione di

significati e di un valore di marca condiviso, ma anche per la produzione dei bene stessi.

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Si instaura quindi una comunicazione di tipo partecipativo, dove l’azienda deve essere disposta a rivedere la sua posizione di “regina” indiscussa, e cominciare collaborare con i suoi utenti, se non vuole che questi lo facciano da soli e si sentano trascurati.

Questa nuova acquisita centralità dell’utente è così potente che nel 2006 il Times decide di incoronarlo “uomo dell’anno”, pubblicando in copertina un computer con uno specchio al posto dello schermo con la scritta “You”, ovvero “tutte le persone che hanno partecipato all’esplosione della democrazia digitale”,

utilizzando internet per creare e condividere informazioni, contenuti e immagini11

Fig. 1.2: fonte: www.time.com/time/covers/0,16641,20061225,00.html

L’informazione non è più un bene destinato a pochi, a ognuno è data la possibilità di interagire con chi pubblica contenuti online, ma non solo, è anche possibile pubblicare contenuti in totale autonomia. L’utente si ritrova così “padrone” del mezzo e diviene giornalista ogni qual volta desidera condividere con la comunità web il proprio materiale.

                                                                                                               

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Il vero valore non è nella rete: è nella produzione e nel consumo, ai margini, là dove trasformiamo i bit in significato (Anderson, 2009, p.245).

La conferma del “potere” assunto dall’utente si trova, per esempio, nella modalità di diffusione di alcuni avvenimenti di attualità che sono diventati di pubblico dominio in brevissimo tempo grazie all’uso dei social network e che hanno fatto da cassa di risonanza.

Le ribellioni che hanno preso piede in Tunisia a fine 2010, e che si sono propagate rapidamente in tutto il medio-oriente, sono un esempio calzante di come la Rete è stata in grado di dare voce alle popolazioni, in particolare le fasce più giovani, contro i regimi dittatoriali che li affliggevano, contro la corruzione, la mancanza di libertà d’espressione e la violazione dei diritti umani.

Queste rivolte, che i giornalisti hanno ribattezzato con il nome di “Primavera araba”, hanno rapidamente preso piede grazie alla diffusione delle immagini trasmesse dalle TV satellitari arabe e dei nuovi canali di comunicazione informatici.

La vera novità sono proprio quest’ultimi: per la prima volta i popoli di Tunisia, Egitto, Libia, Siria e molti altri paesi del mondo arabo, hanno potuto dialogare tra loro, informare gli altri sulle oppressioni esercitate dal proprio regime e

condividere la loro voglia di libertà.

I social network, in particolare Twitter e Facebook, sono quindi diventati – per i paesi del medio-oriente – il mezzo di informazione e di condivisione di un’ideale, al fine di creare una coscienza comune, e, per gli occidentali, punto di riferimento per capire cosa stesse accadendo in quelle regioni.

In quest’ottica i social network sono andati via via occupando una posizione di primo piano nella mobilitazione sociale in paesi dove il controllo delle autorità sui mezzi di comunicazione era molto rigido, aumentando le possibilità per il popolo di collaborare, coordinarsi e dare voce ai loro reclami e permettendo la diffusione di testi, video e immagini, che altrimenti sarebbero stati censurati dai normali canali di comunicazione.

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Quello che vado qui sottolineando, non è certo il potere della rete di cambiare un sistema politico e sociale radicato, non è infatti attraverso questi mezzi che si creano i presupposti per uno stato democratico, quanto piuttosto le nuove opportunità che tali mezzi di comunicazione hanno portato. La libertà di

espressione che in quei paesi è stata per troppo tempo repressa ha trovato nuovi strumenti per manifestarsi. I social network sono stati, in questo contesto, decisivi per mobilitare le masse e dare un po’ di organizzazione a una protesta mossa dal basso.

Gli strumenti tecnologici messi a disposizione dal web rappresentano una delle “armi” migliori, di cui l’individuo dispone per rendersi più informato e critico.

1.2.2. Switching cost e opportunità per le imprese

Gli strumenti 2.0, insieme ai cambiamenti sociali e culturali degli ultimi anni, hanno profondamente modificato le relazioni che si creano sul mercato fra produttori e consumatori, togliendo lo scettro del potere alle aziende, destinate così a ridimensionarsi e a rivedere completamente la propria strategia di mercato, per darlo ai consumatori.

L’innovazione portata dai new media e le implicazioni economiche che ne derivano, ovvero la nascita di un sistema dove le vecchie regole di contrattazione monetaria vengono affiancate da una nuova, prepotente economia non monetaria – l’economia dell’informazione – trova le aziende impreparate e disorientate, in quanto l’economia dell’informazione è un modello completamente discorde da quello a cui siamo abituati: è basato sul gratis, sugli interventi spontanei dei navigatori della rete, sulla diffusione di servizi gratuiti e software “open source”, che mettono in moto un meccanismo di partecipazione e condivisione nuovo sia per i consumatori che per le imprese. Ma, mentre i consumatori si sono fin da subito cimentati con i nuovi strumenti, sentendosi a proprio agio in questo ecosistema, la stessa cosa non si può dire delle aziende.

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Le aziende, abituate com’erano a pensare in termini di concretezza e tangibilità, si trovano smarrite di fronte a un’economia nella quale le due variabili in questione perdono di significato.

Incapaci di comprendere una realtà fondata sul gratis, in opposizione con le regole di mercato sulla quale si erano basate fino a quel momento le loro transazioni, le aziende si sono trovate costrette ad affrontare questo nuovo scenario senza avere le “armi” e le competenze giuste per farlo.

Nonostante l’idea che “ogni cosa ha il suo prezzo” (Anderson, 2009) sia un’idea sostanzialmente moderna, non le ha impedito di radicarsi in tutto il tessuto sociale e soprattutto nel tessuto dell’azienda, che ha sempre visto nella vendita dei beni e quindi nei ricavi il loro fine ultimo, al punto che non riusciamo a dare valore a un bene se non attraverso il denaro.

Ora, questo trionfalismo del mercato (Anderson, 2009), in cui tutto si riconduce a un mero scambio di moneta sta, in un certo senso, volgendo al termine e se ben interpretato, questo passaggio, potrebbe offrire enormi opportunità, non solo ai consumatori, ma anche alle imprese commerciali, che avranno gli strumenti a disposizione per rafforzare il rapporto con i propri clienti e arrivare così a conoscere i loro reali bisogni, aspettative, desideri.

La rete è stata spesso mal interpretata, paragonata a un enorme negozio online che permette ai clienti di comprare a prezzi scontati 24 ore su 24.

Questa ha invece aperto il mercato anche a tutta una serie di piccole-medie imprese che prima ne erano escluse a causa degli enormi costi di gestione. Nel commercio tradizionale la facevano da padrone i pesci più grandi, le grandi aziende che avevano la possibilità di investire, mentre quelle più piccole

restavano a guardare.

È grazie alle opportunità offerte da internet che si sviluppa un altro tipo di marketing, quello de “la coda lunga”.

Il termine “coda lunga”, in inglese “long tail”, è stato utilizzato per la prima volta nel 2004 da Chris Anderson, in un articolo di Wired Magazine (di cui è direttore),

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che dopo aver a lungo monitorato e studiato le dinamiche del mercato arriva a dimostrare come la rete abbia portato a una redistribuzione della ricchezza.

12

Fig. 1.3, fonte: www.thedailybit.net/index.php?method=section&action=zoom&id=2386

La teoria nasce dalla possibilità della rete di eliminare i limiti fisici (località e spazialità) che invece erano presenti negli store tradizionali, permettendo così anche ai business di nicchia di raggiungere le loro porzioni di pubblico. Nasce in questo modo il marketing della coda lunga, in altre parole una

moltitudine di nicchie di mercato che prima restavano invisibili e non servite e che ora diventano target economicamente attraenti, al punto che oggi generano volumi di vendita complessivamente maggiori dei prodotti di testa rappresentati dai best-sellers.

Il mercato dei best-sellers, ovvero il mercato di massa, era quindi solo una deformazione imposta dall’inefficienza della distribuzione, dovuto a una scarsità di spazio e di risorse economiche atte a conservare un prodotto a lungo.

Ad esempio, una libreria tradizionale non può contenere un numero infinito di libri, perché gli spazi costano, e deciderà di tenere solo quelli maggiormente richiesti che assicurano un profitto, mentre online, siti come amazon.com riescono                                                                                                                

12  La figura mostra graficamente il concetto di Long Tail, dove la parte alta della curva di

domanda rappresentata il consumo di massa (i best sellers), mentre la parte gialla è rappresentata da tutto quell’insieme di prodotti di nicchia che sul web generano elevati volumi di vendita.  

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ad avere una lista di titoli potenzialmente infinito, includendo così anche quei libri che in una tradizionale libreria non avrebbero venduto o avrebbero venduto poco, e che in rete invece trovano il loro pubblico di riferimento.

In questo nuovo scenario a trarne vantaggio sono tutte le piccole realtà

commerciali che altrimenti non sarebbero state in grado di essere conosciuti e fare promozione, e allo stesso tempo l’utente che ha la possibilità di raggiungere ciò che davvero gli interessa, senza essere costretto a un consumo di massa13.

Oltre ad aprire il mercato a prodotti e servizi di nicchia che tradizionalmente non avevano un pubblico, per operare in maniera ottimale sulla rete un’azienda deve prima di tutto attuare un cambiamento dall’interno, si rende necessaria una ridefinizione delle sue politiche gestionali, permettendo a tutti gli addetti, e non solo all’area marketing, di collaborare alla costruzione di valori da associare al brand.

L’azienda deve essere umanizzata, laddove sono i dipendenti a rappresentare il reale valore del brand: i dipendenti sono ciò che l’azienda è. Dare voce a loro significa “metterci la faccia” e attivare una comunicazione più sincera, veritiera e allo stesso tempo professionale.

L’azienda deve quindi passare da una strategia di tipo push, una comunicazione asettica volta a spingere un prodotto sul mercato attraverso i tradizionali mezzi di comunicazione di massa, a una di tipo pull, indirizzata a comprendere il mercato, ovvero un’azienda che si mette in ascolto.

Inoltre, internet è in grado, grazie alla sua enorme potenza di registrazione e di calcolo dati, di immagazzinare istantaneamente nei suoi server i comportamenti degli utenti sulla rete e tutta una serie di informazioni sulla storia di ognuno di loro (cosa impensabile per le classiche ricerche di mercato svolte da agenzie specializzate) che permettono alle aziende di conoscere realmente e intimamente i navigatori e mettere in atto un’attività di advertising personalizzata, finalizzata a “colpire” solo le persone davvero interessate (Shapiro, Varian, 1999, p.9).

                                                                                                               

13  Motori di ricerca come Google hanno fatto sì che ogni utente tramite una ricerca

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Fig. 1.4. fonte: www.alfemminile.com/dieta-dimagrante/dimagrire-consigli-astuzie-d37123.html

Come possiamo vedere dall’esempio qui sopra, ho aperto il sito di

alfemminile.com, e ho cliccato su uno degli argomenti presenti in prima pagina: le astuzie per ritrovare la forma fisica prima dell’estate.

Se guardiamo l’intera finestra notiamo che i banner pubblicitari inseriti trattano tutti argomenti collegati a quello principale: come le terme (osservare che si parla di terme in Toscana, regione in cui attualmente mi trovo) e un’assicurazione medica. Tutti servizi che rimandano al benessere e alla cura del proprio corpo.

Fig. 1.5. fonte: http://www.alfemminile.com/tendenze-moda/trend-autunno-inverno-2012-2013-d41126.html

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Se passiamo dalla salute alla moda, come vediamo dallo screenshot qui sopra, cambiano anche i banner pubblicitari. Essendo il pubblico di alfemminile composto da molte mamme, appare naturale trovarsi di fronte a una

sponsorizzazione di GAP Kids, noto marchio di abbigliamento americano per bambini e adulti.

Questo sistema di associazione contenuto-inserzione permette alle aziende di fare pubblicità14 con molta più facilità, con la certezza che la sponsorizzazione dei loro prodotti arriverà proprio al loro target di riferimento.

Ma in un sistema sociale come questo i banner pubblicitari e i software di gestione dell’advertising non sono l’unico modo per raggiungere il proprio pubblico e di certo questo non basta a comunicare con loro. Oltre alla visibilità pagata, online, si può sviluppare una visibilità guadagnata, frutto della

produzione di contenuti da parte delle aziende stesse15.

Come accennavo prima, in questo cambiamento di rotta le piattaforme social si rivelano adatte agli obiettivi che le imprese dovrebbero prefiggersi.

I social network non hanno infatti esclusivamente uno scopo ludico: se adeguatamente inseriti tra gli strumenti del marketing mix aziendale, questi possono facilitare largamente la creazione di network di relazioni.

Attraverso la creazione di pagine social dedicate ai fans della marca, le aziende possono crearsi un accesso diretto e comunicare istantaneamente con il loro pubblico, creando maggiore engagement rispetto alla comunicazione offline. L’attenzione che gli utenti rivolgono ai social network è infatti aumentata notevolmente negli ultimi anni, a scapito dei siti aziendali che vengono visti semplicemente come un prolungamento dell’attività offline, ancorati a un

approccio 1.0 del web. Risulta dunque, non solo interessante, ma anche opportuno                                                                                                                

14  La rete ha altamente modificato il modo di fare pubblicità. L’algoritmo di Google

AdSense permette di associare advertising e contenuto consultato, senza che il brand sponsorizzato sia visto di cattivo occhio dall’utente stesso. L’algoritmo viene vissuto come qualcosa di indipendente dalla volontà umana (anche se nella realtà non è proprio così), mentre se la stessa contestualizzazione fosse stata fatta su una rivista, quindi su un medium classico, tale rivista avrebbe perso credibilità ai nostri occhi, in quanto

risulterebbe “sensibile alle mazzette”. Tratto da: Anderson C., 2009, Gratis, Milano, Rizzoli, p. 154  

15  Lupi M., Elementi di un piano di comunicazione online, p.38 in: Di Fraia G. (a cura

di), 2011, Social Media Marketing. Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Milano, Hoepli  

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per le aziende cominciare a comunicare con i propri clienti là dove i clienti si trovano. Naturalmente, l’utilizzo delle piattaforme nei social media va pianificato con attenzione, basandosi su una strategia che differenzia anche l’approccio a seconda del canale (ad esempio Twitter può essere utilizzato per il lancio

immediato di news categorizzate attraverso l’utilizzo di hashtag; mentre Facebook per la pubblicazione di contenuti creativi a cui possiamo allegare immagini o inserire link di rimando, ad esempio al nostro sito aziendale, oppure fare offerte a tempo, attivare un concorso e molto altro…).

Le aziende devono necessariamente sviluppare una solida strategia “social” a lungo termine, che sia in grado di gestire gli effetti della rete e che allo stesso tempo riesca a trarne vantaggio. Laddove si verifichi una mancanza, o l’azienda sia particolarmente inattiva si comunicherà la nostra inefficienza, suscitando disaffezione negli utenti.

In definitiva, le nuove piattaforme 2.0 possono:

• aumentare la brand awerness, in quanto la presenza online del brand e la diffusione virale di contenuti fa sì che le aziende abbiano maggiori probabilità di entrare in contatto con gli utenti e di essere conosciuti; • aumentare il dialogo con il proprio pubblico di riferimento, creando un

modello di comunicazione bidirezionale;

• aumentare le vendite, grazie, ad esempio, alle promozioni dedicate a fans, ma soprattutto grazie al rapporto diretto e sincero che si sviluppa tra brand e cliente;

e inoltre:

• differenziare il prezzo dei beni. I consumatori possono avere valutazioni diverse rispetto a un determinato prodotto e online è possibile operare tariffe diverse secondo le caratteristiche del cliente e la sua disponibilità a pagare. Inoltre, in caso di eccesso di offerta si può istantaneamente ridurre il prezzo di un bene o servizio (es: biglietto aereo) (Shapiro, Varian, 1999, pp.54-55);

• ridurre i costi. Fare promozione online necessita di un minor budget rispetto a quello che serviva sui media tradizionali.

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Purtroppo ancora oggi, nonostante i tanti esempi di errate strategie comunicative condotte online e l’insistente ampliarsi di piattaforme finalizzate alla creazione di rapporti diretti tra azienda e utenti, esiste un forte divario comunicativo tra questi.

Secondo un’indagine condotta da Pivot (2012) emerge che le imprese si

impegnerebbero poco nella gestione efficace del customer care 2.0, infatti ben il 52% degli intervistati tra coloro che si occupano di Social Media Marketing, è addirittura arrivato a ignorare quali fossero davvero i benefici che gli utenti vorrebbero trarre da una loro eventuale partecipazione ai canali social dell’azienda. Appare evidente che l’autorità dell’azienda ha tuttora una supremazia sull’ascolto reale dei suoi clienti.

Osservazione confermata anche dal grafico qui sotto:

Fig. 1.6. fonte: http://2012.pivotcon.com/the-perception-gap-is-real-and-deep-research

Mentre i navigatori iscritti ai social desidererebbero ricevere incentivi all’acquisto, come i coupon (83%), ricompense per gli utenti maggiormente

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collaborativi (70%) e contenuti esclusivi dedicati (58%); le aziende continuano a pensare che il massimo beneficio che un follower voglia trarre sia confinato ad una buona gestione del customer service (59%), seguito da un aiuto per prendere decisioni d’acquisto (58%).

Di Fraia (2011, p.20) afferma che: “Un’azienda che non è presente in rete o nei social media è un’azienda che comunica la propria assenza”.

Niente di più vero. Inoltre se un’azienda non è presente in rete, non esimerà i suoi fans dal parlarne lo stesso; ma è altrettanto vero che la “smania” di esserci a tutti i costi, senza avere un piano ben preciso e di lungo termine porta a gravi errori che avranno forti effetti negativi sull’immagine e la reputazione di marca e quindi sul ROI16.

C’è una grossa differenza tra il far finta di ascoltare e l’ascoltare e comprendere davvero i bisogni dei clienti.

L’azienda necessita di un management in grado di leggere tra le righe, che si faccia interprete dei desideri e delle necessità degli utenti e che sviluppi una sorta empatia con quest’ultimi.

Negli ultimi anni le aziende si sono trovate a fronteggiare enormi “switching cost”17 provenienti dall’introduzione delle nuove tecnologie informatiche. Queste devono valutare attentamente i costi e le opportunità derivanti dal passaggio da un sistema di gestione a un altro, anche in termini di strategie di marketing future. Infatti, essere attivi sulla rete significa dedicarcisi a 360°, dialogare con il proprio pubblico (anche quando ci troviamo di fronte a commenti negativi), servono ingenti risorse monetarie e umane, non basta semplicemente aggiornare i profili con le ultime novità del mercato.

Un classico esempio di cattiva gestione, anzi di mancata gestione delle attività sulla rete è quello di Kryptonite che nel 2004 venne accusata di vendere lucchetti                                                                                                                

16

ROI= Return On Investment, spesso chiamato anche "indice di redditività del capitale investito", indica la redditività e l'efficienza economica di una determinata strategia di marketing, ovvero, quanto rende il capitale investito in una determinata azione di mercato.

17

Gli switching cost sono i costi di transizione che, in questo caso l’azienda, deve affrontare per passare da un sistema di gestione a un altro.  

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che si potevano aprire tramite una semplice penna bic. Il video amatoriale che provava l’inefficienza del lucchetto, grazie al passaparola, fece il giro della rete, provocando all’azienda in questione un danno di immagine enorme.

L’azienda che inizialmente sottovalutò il potere di diffusione del video non disse niente, credendo che il fenomeno sarebbe stato circoscritto a qualche

consumatore.

Dieci mesi dopo l’azienda aveva già cambiato 380.000 lucchetti in tutto il mondo per una cifra che si aggirava intorno ai 10 milioni di dollari18.

Oggi, a 8 anni di distanza dall’accaduto, digitando su Google la parola chiave “lucchetto Kryptonite”, alla prima posizione della serp troviamo un forum dedicato agli appassionati della bici dove parlano del video incriminato19. Questo è il potere della rete.

1.3 Un nuovo modello economico: la Freenomics

Il valore zero è stato per lungo tempo sconosciuto alle civiltà antiche.

Ci sono voluti millenni di storia affinché qualcuno fosse in grado di descriverlo e rappresentarlo.

I primi a pensare al concetto di zero furono i babilonesi, intorno al 300 a.C.. Venne poi sdegnatamente rifiutato da molte civiltà successive, come quella romana e quella greca, che vedevano lo zero come l’assenza di qualcosa, come un concetto astratto inutile da rappresentare.

Perché rappresentare qualcosa che non esiste?

Furano successivamente gli indiani a inventare lo zero, poiché cominciarono a pensare alla numerazione come a un concetto astratto – quello che realmente è – da dissociare dalla realtà fisica; quindi, da non rappresentare con figure

geometriche come facevano i greci, o con sassolini che scorrevano su un abaco come i babilonesi (Anderson, 2009, pp.41-43).

                                                                                                               

18  www.bloginazienda.com/340-caso-lucchetti-kryptonite  

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C’è dunque una lunga tradizione che ha rifiutato completamente il concetto di zero. Il problema non era certo la scarsa intelligenza dei nostri antenati, quanto l’assenza di concretezza che non permetteva di rappresentarlo in natura. La scarsa predisposizione mentale a rappresentare qualcosa che non esiste, che sfuggiva a qualsiasi regola fisica ed economica, ha avuto le sue ripercussioni anche nell’attuale società; ovviamente in termini completamente diversi, ma l’uomo contemporaneo non è certo immune a questo limite di rappresentazione e comprensione che ha percorso l’intera umanità.

Gli esempi in tal senso sono molteplici, si pensi all’eccessiva tutela della proprietà intellettuale che ha visto coinvolte tutte le maggiori case discografiche al mondo. You Tube prima e i-Tunes dopo, hanno scardinato i paradigmi che reggevano l’economia moderna, offrendo agli utenti la possibilità di ascoltare o scaricare musica gratuitamente.

Le case di produzione si rivelano spesso ottuse e incapaci di intuire i vantaggi del “donare”, bollando tale gesto come pirateria e combattendola a suon di denunce. Ciò che i discografici non capiscono è che offrire musica gratis non significa perdere introiti, anzi, molto spesso significa guadagnare di più: significa ampliare le possibilità di contatto con il pubblico reale e potenziale, significa vendere un numero maggiore di biglietti per i concerti, aumentare le vendite del merchandise, e perché no, anche dei dischi.

Questo perché l’informazione è un bene esperienza (Shapiro, Varian, 1999, p.6) – non se ne può conoscere il valore prima di averlo consumato – e in genere c’è una sorta di riluttanza nell’individuo a comperare qualcosa che non conosce.

È quindi necessario un meccanismo di consultazione preventiva che trova nelle nuove strumentazioni informatiche la sua naturale alleata. Produrre informazione ha costi elevatissimi, ma non la sua distribuzione (una volta prodotta la prima copia, il costo di produzione delle copie successive è prossimo allo zero), dunque, la possibilità di trasformare l’informazione in una sequenza di bit permette alle aziende di veicolare gratuitamente i contenuti online e agli utenti di fruire preventivamente dei beni informazione di suo interesse.

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Inoltre, la generazione attuale, la Generazione Google (Anderson, 2009, p.11), nata nell’epoca della diffusione degli strumenti 2.0, vede nella rete e nella sua gratuità il normale andamento dell’economia da esportare anche fuori da questa. Se per tutto il ‘900 il concetto di gratis è stato sostanzialmente una strategia di marketing limitata all’offerta di sampling (campioni gratuiti) e offerte tre per due, con il passaggio al nuovo millennio si comincia davvero a parlare di gratis. Questo nuovo modello di economia, che si innesca con internet e il web 2.0, prende il nome di “Freenomics”, dove gli utenti hanno la possibilità di utilizzare informazioni e servizi di base gratuitamente, e la facoltà di scegliere se

sottoscrivere degli abbonamenti o pagare per utilizzare un servizio completo e maggiormente professionale.

Su internet quasi nulla è a pagamento (Anderson, 2009): si possono trovare progetti collaborativi come Wikipedia, software open source, ma anche musica, video e la maggior parte dei servizi offerti da Google.

Questo non vuol dire che le aziende non guadagnano più ma che trovano altri modi per farlo, più indiretti.

Inizialmente si è anche cercato di trasportate le vecchie regole del marketing sulla rete, ma il nuovo approccio cooperativo unito alla filosofia democratica della rete, non lo hanno reso possibile. È nato un nuovo modello di fare economia fondato sul gratis e le aziende si dovranno arrendere di fronte a questo nuovo modo di lavorare, comunicare e studiare.

1.3.1 L’informazione: un bene non rivale

L’informazione è stata, per tutto il ‘900, “cosa per pochi”, gestita dai grandi poteri commerciali, che decidevano quali dovevano essere gli argomenti di interesse, focalizzando l’attenzione solo su alcuni grandi temi e lasciandone in ombra molti altri.

L’evoluzione di internet e del web 2.0 ha invece rivoluzionato il modello di produzione e ricezione dell’informazione, facendola diventare finalmente un bene pubblico e democratico.

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La produzione e la distribuzione di conoscenze e informazioni è infatti diventata la fonte principale di creazione di valore, generata da processi di aggregazione sociale spontanei e spesso innescati da motivazioni non monetarie.

Nonostante la nascita di questa nuova economia non regolata dal denaro, si è inizialmente cercato di limitarne la diffusione attraverso l’introduzione di norme sulla proprietà intellettuale, creando così una scarsità artificiale.

La natura stessa dell’informazione – oggetto della protezione legale – è però quella di un bene con caratteristiche tipiche del bene pubblico e per questo non soggetto a limitazioni.

L’informazione è fonte di esternalità positive (ossia di benefici per la collettività): più l’informazione è diffusa e usata più tende a crescere il beneficio sociale.

Infatti, il reale valore della rete risiede proprio nella sua capacità di fornire accesso immediato e gratuito alle informazioni. L’informazione è un bene pubblico puro la cui libertà di consumo consente idealmente la massimizzazione del benessere sociale.

Le normative messe in atto (soprattutto per proteggere le grandi imprese commerciali) hanno quindi dovuto cedere il passo alla rete, forte di una cultura partecipativa fondata sulla collaborazione volontaria e gratuita.

L’informazione, in quanto democratica e a costo zero, può oggi essere consumata da chiunque, senza per questo escluderne il consumo da parte di altri individui – che in economia prende il nome “non rivale” – ed essere processata, modificata, manipolata infinite volte.

Ogni utente può fare suo un testo, un’immagine, un video e modificarlo per creare qualcosa di ancora diverso.

Le possibilità di ri-produzione e di modifica sono infinite. La grande novità sta proprio nel fatto che l’informazione diventa input e output del processo di produzione (Benkler, 2007) (per creare un contenuto nuovo bisogna

necessariamente avere libero accesso a quello esistente), partendo dal quale ognuno potrò costruirsi il suo personalissimo percorso di vita.

In questo modo, si dà avvio a una produzione totalmente inedita gestita

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azioni individuali crea, anche se a volte inconsapevolmente, un nuovo, più ricco e sincero ambiente informazionale (Benkler, 2007).

Ogni informazione è adesso “a portata di clic”.

1.4 Si riaccende la voglia di comunità

“Nella rete nascono continuamente vere e proprie tribù: forum, newsgroup, chat line creano ogni giorno nuovi legami e relazioni sociali.

Può sembrare un paradosso, ma Internet è la prova lampante che la modernità, con i suoi universalismi, è in crisi profonda”.

Così parlava Michael Maffesoli, sociologo parigino, nel 1998, durante un convegno sul “Sistema produttivo e sociale nella Rete” presso l’Università di Urbino20.

Ma già dieci anni prima, nel 1988, all’uscita del suo libro “Il tempo delle tribù” Maffesoli è stato profetico, segnando una completa rottura con le ideologie contemporanee.

La crisi della cultura contemporanea e il ritorno alla socialità e alla comunità descritte da Maffesoli in tempi non sospetti sono oggi ampiamente confermate. La società postmoderna e i new media hanno messo in crisi un intero sistema

industriale, riaccendendo negli individui la voglia di comunità, la voglia di recuperare quei valori volti al ri-radicamento (Cova, 2010) sociale in totale controtendenza con l’era moderna in cui prevaleva un’ottica di crescente affermazione individuale.

Se fino agli anni Novanta prevaleva un modello di società moderna basato sulla ricerca del progresso inteso come sradicamento del singolo individuo dalla collettività, con il passaggio al nuovo millennio si è assistito all’affermazione di un modello differente fondato appunto sul recupero di valori sociali che creassero senso di appartenenza, come il recupero dei legami, dell’autenticità dei rapporti e del valore della comunità.

                                                                                                               

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Ciò è confermato dal fatto che oggi emergono continuamente nuove forme di socialità, seppure con una configurazione inedita e diversa rispetto alle tradizionali strutture di aggregazione sociale. Il motore che spinge verso la creazione di questi nuovi gruppi sembra avere più motivazioni passionali ed emozionali piuttosto che razionali e contrattuali.

C’è un “ritorno alle origini”: il relazionale prevale sul razionale, il gruppo sull’individuo, l’affetto sul cognitivo, il locale sul globale.

Gli individui infatti collegano al gruppo forti legami emotivi, una sottocultura condivisa, esperienze simili, facendo sì che l’appartenenza a questi

raggruppamenti diventi più importante della presenza nelle aggregazioni macrosociali, come famiglia, chiesa e scuola.

Inoltre, grazie alle nuove tecnologie, come quelle dei blog, si passa da un flusso comunicazionale di tipo top-down, gestito direttamente dal mercato e dai poteri commerciali, a flussi di comunicazione bottom up che riducono l’asimmetria informazionale del modello top-down per creare un sistema basato su continui feed back e gestito dagli utenti.

Si concretizza dunque una nuova definizione di individuo, dove questo si fa produttore di contenuti e di idee, oltre che semplice consumatore,

riappropriandosi di un potere che precedentemente era in mano solo alle imprese. L’atto stesso di condividere, intervenire, consigliare, discutere su argomenti di interesse comune, permette una sorta di partecipazione attiva alla quotidianità degli altri utenti che determina un avvicinamento tra persone. Indipendentemente dalle loro appartenenze sociali e dalla vite sostanzialmente diverse che

conducono, stringono con gli altri un legame sociale che supera le diversità, e accomuna tutti all’interno delle comunità online.

Ancora una volta, tutto questo è possibile grazie al fenomeno del web 2.0, che sembra dare maggiore rilevanza alla dimensione sociale piuttosto che a quella tecnologica, dove i cambiamenti tecnologici riguardano soprattutto la crescente partecipazione e interazione da parte dei navigatori.

Il web 2.0 non è soltanto una questione di numeri, ossia l’aumento dei partecipanti alla comunità web, esso è piuttosto un fenomeno che va a innovare il consueto

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modo di intendere la socializzazione, che è in linea con il ritrovato bisogno di ri-radicamento sociale dell’uomo.

La filosofia che sottende la rete coincide esattamente con le esigenze

dell’individuo postmoderno, che desidera portare la propria unicità all’interno della dimensione sociale.

In rete ci si mette in gioco, si è esposti al parere di moltissimi utenti, a volte sconosciuti, con i quali si impara a interagire a seconda dell’argomento, della tipologia del dibattito e in base al sito sul quale viene ospitato il confronto. Non esiste più soltanto la ristretta cerchia di amici con i quali affrontare discussioni, fatte di sole parole scritte, ma esistono gruppi di persone differenziate e

discussioni composte da immagini, suoni e parole che arricchiscono il patrimonio culturale di ciascun individuo.

Nello specifico si potrebbe sostenere che le persone condividono un determinato spazio sociale all’interno della rete, caratterizzato da due dimensioni, il luogo e il tempo (si può conversare con chiunque nel mondo, simultaneamente), e specifici codici simbolici, regole sociali e particolari attitudini al consumo.

Ma attenzione: parlare di comunità in un’epoca postmoderna non significa affatto un ritorno alla chiusa comunità tradizionale.

La comunità postmoderna è più instabile ed effimera della comunità tradizionale, in quanto ogni soggetto al suo interno mantiene la propria autonomia ed è libero di uscire dal gruppo quando lo desidera. Il controllo che viene esercitato su ciascun membro della comunità è molto meno pressante e coercitivo, mentre il rischio assunto da ciascun individuo è maggiore rispetto a quanto accade nelle comunità di tipo tradizionale (Cova, 2010, pp. 10-11).

La creazione di comunità virtuali, oltre a rappresentare la risposta a un’esigenza dell’uomo postmoderno sempre più disorientato, rappresenta enormi opportunità per le imprese.

L’azienda infatti può essere in grado di individuare e raggiungere il proprio target attraverso i luoghi (reali o virtuali) in cui si aggrega spontaneamente nel corso dei diversi momenti della giornata. Esse non devono più sforzarsi per cercare di prevedere i comportamenti di consumo, ma possono sfruttare questa forma di

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auto-segmentazione della clientela che sceglie autonomamente di partecipare a gruppi e comunità di prodotto o di marca21.

A molte aziende non resta che capire che la modernità individualista, razionalista e progressista non esiste più e che questa tribalizzazione del mondo non è

semplicemente una moda effimera, ma una nuova esigenza dell’individuo che ha cambiato le pratiche sociali e di conseguenza le pratiche di consumo.

1.4.1 Le tribù postmoderne

Michael Maffesoli ricorre metaforicamente alla nozione classica di tribù nel tentativo di “trovare le parole meno false possibili per dire ciò che è” (Maffesoli, 2004): laddove mancano concetti già formati per descrivere la socialità

postmoderna22

è necessario accontentarsi di nozioni già esistenti, di metafore che siano in grado di descrivere nella maniera più adeguata possibile ciò che sta nascendo.

Osservando il ritorno di valori arcaici e la rinascita della comunità, Maffesoli stabilisce un legame tra il tribalismo e l’immaginario postmoderno di

ri-radicamento, tenendo tuttavia sempre presente che in questo caso, come ho già accennato prima, si tratta di un tribalismo diverso da quello del passato, che prende forma in determinate occasioni e si nutre di passioni momentanee e volubili.

Le nuove tribù postmoderne non hanno un fine da raggiungere, non si

riconoscono in un progetto – economico o politico – da realizzare: la sola ragion d’essere è il “desiderio di un presente vissuto collettivamente” (Maffesoli, 2004, p.125), e allo stesso tempo“l’oggetto della tribù, che crea legame fra i suoi membri, non è affatto limitato a un prodotto o a una marca (…). La tribù può                                                                                                                

21  I gruppi auto-generati in rete possono essere molto rilevanti per la comprensione dei

bisogni e delle sensazioni associate a una marca, più di qualsiasi altra ricerca di mercato. Chi aderisce a tali raggruppamenti virtuali già condivide i sistemi valoriali promossi dalle aziende, dunque questi saranno anche più disposti a collaborare con essa per creare dei prodotti o servizi idonei alle loro esigenze.  

22  La socialità postmoderna è caratterizzata da un ruolo attivo dell’individuo,

appartenente a molteplici gruppi di natura effimera, contro il “sociale” dell’era moderna dove le organizzazioni erano di natura politica-economica basate sul contratto.  

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essere incidentalmente sotto certi aspetti, una collettività di consumo, ma in realtà è molto più di questo: si colloca contemporaneamente all’interno dell’ambito commerciale e al di fuori di esso. (…) Si può dire quindi che una tribù, nel senso di costellazione neotribale, è sì generatrice di consumo, ma non è – o non è soltanto – una tribù di consumatori” (Cova, 2010, pp. 25-26).

Dunque, le neotribù o tribù postmoderne, come denominate da Cova (2010) – data la diversa definizione antropologica che le distingue dalle antiche comunità del passato – sono delle aggregazioni sociali aperte, con elevato ricambio, e forte coinvolgimento affettivo, all’insegna di elementi passionali condivisi23.

Si tratta di un gruppo di persone diverse tra loro, per origini, età e appartenenza sociale, ma unite da una passione comune, in nome della quale si possono svolgere azioni collettive.

Queste aggregazioni non sono create dall’operazione mediatica di un agente esterno, ad esempio un marketing manager, ma sono comunità virtuali

scarsamente strutturate ed eterogenee che nascono spontaneamente e naturalmente sulla base di forti interessi comuni, benché effimeri.

Sono qualcosa in più rispetto a semplici aggregazioni di individui: le neotribù sono vere e proprie comunità emozionali24.

Questa forma di tribalismo postmoderno è per certi versi del tutto inedita. Ad apparire nuova è l’ampiezza del fenomeno e il tipo di persone coinvolte. Non coinvolge semplici gruppetti di adolescenti, o aggregazioni di individui

socialmente emarginati, ma persone che indipendentemente dalle caratterizzazioni personali condividono una passione.

                                                                                                               

23  Definizione di neotribù di Bernard Cova: “Una tribù postmoderna (o neotribù) è un

insieme di individui non necessariamente omogeneo (in termini di caratteristiche sociali obiettive), ma interrelato da un’unica soggettività, una pulsione affettiva o un ethos in comune. Tali individui possono svolgere azioni collettive intensamente vissute, benchè effimere”.

Tratto da: Cova B., 2010, Il marketing tribale. Legame, comunità, autenticità come valori

del Marketing Mediterraneo, seconda edizione, Milano, Gruppo24Ore, p.18  

24  Definizione data da Michael Maffesoli durante l’intervista rilasciata a Repubblica, in:

Figura

Fig 1.1: fonte: http://www.web-20.it/il-web-20-in-una-sola-immagine/
Fig. 1.2: fonte: www.time.com/time/covers/0,16641,20061225,00.html
Fig. 1.3, fonte: www.thedailybit.net/index.php?method=section&action=zoom&id=2386
Fig. 1.4. fonte: www.alfemminile.com/dieta-dimagrante/dimagrire-consigli-astuzie- www.alfemminile.com/dieta-dimagrante/dimagrire-consigli-astuzie-d37123.html
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