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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 1. INTRODUZIONE

Lo scheletro dei cetacei viventi mostra profonde trasformazioni rispetto a quello dei loro progenitori terrestri a causa del completo adattamento a uno stile di vita acquatico. Gli arti anteriori sono ridotti e trasformati in pinne e quelli posteriori sono completamente assenti o vestigiali. Nella colonna vertebrale le vertebre cervicali si accorciano e talvolta si fondono, le vertebre toraciche sono presenti in minor numero, mentre quelle lombari aumentano; la regione sacrale scompare e le vertebre caudali aumentano in numero e si modificano a livello del peduncolo caudale per poter supportare la pinna caudale, l’organo propulsivo, durante le oscillazioni dorso-ventrali. Tali cambiamenti portano a una colonna vertebrale caratterizzata da una porzione rigida, costituita dalle vertebre cervicali e toraciche, e una più mobile, ovvero l’insieme delle vertebre lombari e caudali. In aggiunta a queste trasformazioni, lo scheletro delle specie ascrivibili alla famiglia Ziphiidae (sottordine Odontoceti) ha subito altre modifiche legate all’adattamento alle acque pelagiche profonde. Ad esempio il cranio di molte specie di Mesoplodon presenta il rostro interessato da un incremento del tessuto osseo compatto (osteosclerosi) e da un ispessimento delle componenti ossee (pachiostosi); tale ossificazione massiva produce l’osso più denso che esiste in natura (2,60 g/cm2).

Tra le ipotesi avanzate per spiegare tale fenomeno vi è quella che propone il rostro come struttura che favorisce la discesa durante la fase d’immersione dell’animale (osservazioni dirette hanno mostrato che esemplari di queste specie si immergono fino a 1900 m circa di profondità). A questa caratteristica si aggiungono altri elementi peculiari, quali una pinna caudale la cui superficie idrodinamica è evidentemente poco sviluppata e pinne pettorali di ridotte dimensioni.

Lo scopo del presente studio è di comprendere meglio le trasformazioni che hanno interessato lo scheletro di tre specie di zifidi (Ziphius cavirostris, Mesoplodon bowdoini e

Hyperoodon ampullatus) in relazione all’adattamento al nuoto e all’immersione in acque

profonde.

Il presente lavoro ha quindi come oggetto di studio lo scheletro post-craniale e in particolare il rachide. Lo scheletro supporta e protegge i tessuti molli, è responsabile della forma dell’organismo nel suo complesso e delle sue dimensioni ed è coinvolto nella locomozione in quanto associato alla componente muscolare scheletrica, offrendo

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sostegno al corpo e formando sistemi di leve. Poiché il midollo di alcune ossa è in grado di generare i precursori delle cellule del sangue, lo scheletro gioca un ruolo fondamentale anche nell’emopoiesi. Le ossa accumulano inoltre lipidi, soprattutto nel caso dei cetacei, e sono depositi di ioni calcio e fosfato e, di conseguenza, influenzano la galleggiabilità.

Sono stati esaminati quattro reperti conservati presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa e sono state condotte analisi morfo-funzionali a partire dallo studio di alcuni parametri, quali la lunghezza, l’altezza e la larghezza del corpo vertebrale e le dimensioni e il grado di inclinazione delle apofisi, tenendo conto del fatto che questi processi offrono punti d’inserzione per i muscoli coinvolti nella spinta propulsiva.

I parametri presi in considerazione si basano sugli studi condotti da Emily A. Buchholtz (2001, 2004, 2005), che affronta l’analisi dell’osteologia dei cetacei da un punto di vista morfo-funzionale. In questa serie di lavori, si evince lo sforzo della ricercatrice di ottenere dei criteri, basati sulla funzionalità dei diversi segmenti della colonna vertebrale, per definire in modo univoco delle regioni che possano essere sostituite alle classiche unità strutturali dei mammiferi terrestri e che, a differenza di queste ultime, possano esprimere meglio la funzione assolta dalle vertebre lungo il rachide dei cetacei. Questo tentativo ha implicato nel corso degli anni un riesame dei dati ottenuti, che sono stati di volta in volta corretti e adattati per una descrizione morfo-funzionale ottimale.

Nel lavoro pubblicato nel 2001, “Vertebral osteology and swimming style in living and

fossil whales (Order: Cetacea)”, Buchholtz mette in evidenza quattro regioni

morfo-funzionali in funzione della lunghezza relativa dei corpi vertebrali (per lunghezza relativa s’intende la la lunghezza del corpo vertebrale rapportata alla lunghezza totale della colonna vertebrale): il collo, il torace, l’addome e la coda. Viene correlata la lunghezza dei corpi vertebrali cervicali con il grado di adattamento a uno stile di vita acquatico, attraverso una comparazione tra i mammiferi marini meno adattati al nuoto (ad es.

Enydra lutris) e i più adattati (tra cui compaiono alcune delle specie più rappresentative

dei cetacei attuali, tra cui lo zifio). L’unità morfo-funzionale del torace coincide con l’ unità strutturale classica. Questa regione è caratterizzata da una riduzione della lunghezza relativa dei corpi vertebrali a favore di un incremento della superficie di

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contatto intervertebrale anteriore e posteriore, caratteristiche che limitano la mobilità di questa parte della colonna vertebrale. L’unità morfo-funzionale lombare include quindi le ultime toraciche, le lombari propriamente dette, le sacrali e le caudali anteriori e centrali. Un altro punto saliente cui si fa riferimento nel presente studio è il pattern di locomozione: in particolare, gli zifidi sono dotati di un addome dotato di notevole flessibilità, soprattutto nella parte anteriore (questo si evince dalla riduzione della lunghezza relativa del corpo vertebrale nella parte anteriore al peduncolo caudale); il peduncolo caudale forma un continuum con l’addome, costituendo in questo modo un’unità stabile che si muove durante lo spostamento della pinna caudale (il movimento è oscillatorio, come quello della pinna caudale sul peduncolo caudale o blocco pre-caudale).

Nel secondo report preso in considerazione, “Vertebral osteology in Delphinidae

(Cetacea)”, Buchholtz & Schur (2004) riconoscono invece cinque regioni

morfo-funzionali: il collo, il torace, l’addome, il peduncolo caudale e la pinna caudale, identificando il primo nella serie di vertebre il cui corpo vertebrale è dotato da un’altezza evidentemente superiore alla larghezza (e per questo bene distinte dall’addome al quale erano accorpate nello studio del 2001) e il secondo nella serie dei corpi vertebrali la cui altezza è notevolmente ridimensionata fino a diventare minore della larghezza. Inoltre, in questo studio, la lunghezza relativa del corpo vertebrale viene calcolata attraverso il rapporto tra la lunghezza e l’altezza del corpo vertebrale (è a questa formula che si farà rifermento per le analisi del presente studio). Un ulteriore punto cardine, è il riconoscimento di due tipi di addome, unimodale (come negli zifidi e nell’orca) e bimodale (come nel delfino comune), e le rispettive implicazioni funzionali (che vengono descritte nel dettaglio nel paragrafo 1.3.2). Gli autori evidenziarono che nei delfinidi esaminati (fatta eccezione per l’orca e la pseudorca) si osserva un punto di sinclinale alla base della coda. Questo aspetto verrà esaminato anche in questo studio, per mettere in evidenza l’andamento dell’inclinazione dei processi neurali negli zifidi esaminati. Di notevole rilevanza sono infine le considerazioni fatte dagli autori circa la forma del corpo vertebrale e le superfici intervertebrali (per approfondimenti vedi paragrafo 1.3.2).

“Vertebral osteology and complexity in Lagenorhynchys acutus (Delphinidae) with

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terzo lavoro cui si fa riferimento, nel quale i parametri morfometrici sopra citati vengono presi in considerazione per mettere in evidenza variazioni ontogenetiche e relazioni filogenetiche.

Al fine di indagare la meccanica del nuoto e in particolari gli adattamenti legati all’immersine profonda sono stati misurati la massa e il volume delle vertebre ne è stata calcolata la densità. Se è vera l’ipotesi che il cranio relativamente pesante degli zifidi ha la funzione di favorire la discesa durante le fasi di immersione profonda, una variazione in negativo (rispetto a quella degli altri odontoceti) della massa e della densità potrebbe ulteriormente contribuire a spostare il baricentro verso la parte anteriore del corpo. Pertanto le analisi svolte sono state finalizzate a verificare se negli zifidi esaminati la massa e la densità delle vertebre è minore rispetto a quella degli altri odontoceti. Inoltre è stato verificato se negli zifidi esaminati massa e densità mostrano un andamento simile lungo la colonna vertebrale a quello che si osserva negli altri odontoceti, o se hanno valori relativamente più bassi procedendo verso la regione posteriore della colonna vertebrale. Anche questo fenomeno, se presente, favorirebbe uno spostamento del baricentro verso la parte anteriore del corpo. Le misura di massa e volume delle vertebre e i relativi calcoli di densità sono stati effettuati anche su uno scheletro di

Delphinus delphis (Delphinidae). Le abitudini del delfino comune differiscono da quelle

degli zifidi, soprattutto per ciò che riguarda la profondità d’immersione (non si immerge oltre i 200 m di profondità). I valori del delfino comune sono stati quindi utilizzati come parametri di confronto.

Le misure di massa, volume e densità sono state accompagnate da acquisizione ed elaborazione di immagini con TAC per ricavare informazioni più dettagliate circa la densità e la micro-architettura del corpo vertebrale. La micro-TAC è stata eseguita sulla prima vertebra caudale dello zifio e del delfino comune. La micro-TAC è stata eseguita sulle falangi.

1.1 LO SCHELETRO POSTCRANIALE

Lo scheletro post-craniale include tutti gli elementi ossei e cartilaginei posti lungo l’asse longitudinale a seguire lo scheletro del cranio. Lo scheletro post-craniale è suddiviso in componenti assiali (colonna vertebrale, coste, e sternebre, che giacciono lungo la linea

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mediana) e componenti appendicolari (gli arti anteriori e posteriori e i rispettivi cinti, pettorale e pelvico, posizionati più distalmente) (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Tuttavia nel caso dei cetacei lo scheletro post-craniale ha subito notevoli modifiche. I cambiamenti evolutivi più salienti a carico dello scheletro e della morfologia cui i cetacei sono andati incontro riguardano la scomparsa o la riduzione degli arti posteriori e del cinto pelvico1, la trasformazione degli arti pettorali in pinne, la scomparsa di un collo distinto (il profilo della testa sfuma in quello del tronco) e una forma del corpo idrodinamica simile a quella dei pesci, caratterizzata dalla presenza di pinne impari (pinna dorsale e pinna caudale), frutto di un fenomeno di convergenza evolutiva che ha avuto luogo quando gli antenati terrestri dei cetacei iniziarono a conquistare l’ambiente marino durante il primo Eocene, circa 52.5 milioni di anni fa2 (Buchholtz, 2007; Fish, 1996; Gingerich et al. 2001; Gingerich, 2003; Howell, 1930; Kriegs et al. 2006; Liem et al., 2001; Long et al., 1997; Poli, 2006; Thewissen & Williams 2002; Thewissen et al. 2001; Thewissen et al., 2006; Uhen, 2010).

1. 1. 1 LO SCHELETRO ASSILE

La colonna vertebrale consiste nella successione di unità omologhe, le vertebre (Buccholtz & Stepien, 2009; Liem et al., 2001). La sua struttura varia da specie a specie e nello stesso individuo tra le diverse regioni della colonna vertebrale (fig. 1); alcuni elementi sono tuttavia condivisi (Liem et al., 2001). Tipicamente una vertebra è costituita da un corpo vertebrale (o centrum) e la successione dei corpi vertebrali costituisce la regione di supporto meccanico primaria della colonna vertebrale.

La forma del corpo vertebrale influisce sulla mobilità della colonna lungo il suo asse (Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001).

1. Nei misticeti è possibile ascrivere i tre elementi ossei che costituiscono i rudimenti pelvici al femore e alla tibia, mentre il terzo, il più voluminoso, rimane di incerta attribuzione, mentre negli odontoceti si osserva la presenza di un unico elemento vestigiale, anch’esso di incerta attribuzione (Thewissen et al., 2006).

2. I cetacei moderni comparvero circa 33.7 milioni di anni fa e condivisero l’ambiente marino insieme ai cetacei arcaici fino all’Oligocene (33,90 – 23,03 milioni di anni fa), i quali lasciarono definitivamente il posto ai cetacei moderni durante il Miocene (23,03 – 5,33) (Uhen, 2010; International Chronostratigraphic Chart, v 2013/01).

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Figura 1. Variazione morfologica delle vertebre di Lagenorhynchus acutus (delfinide) lungo il rachide in senso antero-posteriore (dall’alto verso il basso). Le vertebre sono rappresentate in veduta craniale, laterale sinistra e dorsale (da sinistra a destra). Vertebra cervicale (A); vertebra toracica (B); vertebra lombare (C); vertebre caudali (D, E, F); acro neurale (an); corpo vertebrale (c); metapofisi (map); parapofisi (pap); processo neurale (pn); postzigapofisi (pozap); prezigapofisi (przap); processo trasverso (pt); spina neurale (sp). Buchholtz et al., 2005 – modificata in Tinelli, 2008).

Dal corpo vertebrale possono estendersi diversi processi che offrono siti di inserzione per i tendini associati alla componente muscolare e/o forniscono protezione ai tessuti

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Dal corpo vertebrale si diparte il processo neurale, proiettato dorsalmente. La superficie dorsale del corpo vertebrale sottende l’arco neurale, la cui funzione è quella di proteggere il midollo spinale: la successione degli archi neurali costituisce il canale neurale, attraverso cui passa il midollo spinale (Liem et al., 2001; Rommel, 1990). Nei cetacei il canale neurale è particolarmente allargato, per consentire il passaggio di un’ingente quantità di vasi sanguigni e/o la giustapposizione di quantità consistenti di tessuto adiposo che circondano il midollo3 (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002). L’arco neurale è sormontato a sua volta dalla spina neurale che si proietta dorsalmente e che costituisce il braccio di leva che incrementa il vantaggio meccanico dei muscoli epiassiali che flettono dorso-ventralmente il corpo4 (Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001; Pabst, 1990; Pabst, 1993; Rommel & Reynold, 2002). Si osserva inoltre che, mentre nei mammiferi terrestri il processo neurale raggiunge l’altezza massima in corrispondenza delle vertebre toraciche, nei cetacei i processi neurali di maggiori dimensioni si riscontrano a livello della regione lombare5 (Rommel & Reynolds, 2002).

Ai lati del corpo vertebrale possono essere presenti dei processi che si sviluppano distalmente, noti come processi trasversi (Rommel & Reynodls, 2002).

Questi processi sono i processi laterali più comuni e di maggiori dimensioni (Rommel & Reynolds, 2002). Nella regione toracica si distinguono due tipi di processi trasversi, due per ogni lato: le parapofisi e le diapofisi.

3. Questo è il motivo per cui nei cetacei il diametro del canale neurale potrebbe non essere una funzione delle dimensioni del midollo spinale, come invece avviene per i vertebrati terrestri (Rommel & Reynolds, 2002).

4. Vedi approfondimento paragrafo 1. 3. 3

5. Tale caratteristica è associata allo sviluppo della componente muscolare e quindi alla modalità di locomozione: i mammiferi terrestri usano tutti e quattro gli arti per spostarsi sulla terraferma, di conseguenza i muscoli a essi associati sono sviluppati e richiedono estese superfici di inserzione (i processi neurali appunto) nella regione toracica. Al contrario, la locomozione dei cetacei è data sostanzialmente da oscillazioni dorso-ventrali lungo l’asse longitudinale del rachide; questo ha portato alla riduzione degli arti pettorali, ridotti a pinne con funzione direzionale, ai quali è associata una ridotta componente muscolare le cui superfici di inserzione sono proporzionalmente ridotte. Nelle vertebre lombari si osserva la situazione opposta: le spine neurali sono ridotte nei mammiferi terrestri e notevolmente sviluppate nei cetacei, conseguenza del fatto che le spine neurali delle vertebre lombari devono sostenere in questi ultimi ingenti masse muscolari, in particolare quelle dei muscoli assiali responsabili del movimento.

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Le parapofisi si trovano in posizione antero-dorsale e articolano con la superficie prossimale craniale della costa (il capitello) mediante un’articolazione sinoviale o mediante tessuto connettivo.

Le diapofisi articolano invece con la porzione più caudale della superficie prossimale della costa (il tubercolo) e si estendono lateralmente alla base del corpo vertebrale, cioè in posizione postero-ventrale (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Nella parte più caudale della regione toracica e nella regione lombare abbiamo un solo processo trasverso per lato. I processi trasversi sono tendenzialmente sviluppati in lunghezza e in genere sono robusti, ma queste caratteristiche si accentuano maggiormente nella regione lombare (Rommel & Reynolds, 2002). Offrono inoltre punti di inserzione per la muscolatura deputata ai movimenti di flessione e estensione della colonna vertebrale.

Nella vertebra possono inoltre essere presenti strutture accessorie che hanno il ruolo di limitare o aumentare l’azione dei muscoli a esse associati e quindi la rotazione tra le vertebre (Buchholtz & Schur, 2004). Nei cetacei, alla base delle spine neurali delle vertebre toraciche e lombari, sono presenti le metapofisi, processi pari orientati cranialmente e localizzati sul processo neurale, tipicamente alla base della spina neurale (Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001; Rommel, 1990). Questi processi tendono a essere più piccoli rispetto ai processi trasversi e forniscono punti di inserzione per i muscoli assiali, in particolare per il multifido: la loro assenza indica assenza di siti d’inserzione dei muscoli spinali (Buchholtz & Schur, 2004; Pabst, 1990; Rommel, 1990). Le metapofisi di una vertebra si sovrappongono alla spina neurale della vertebra precedente, limitando i movimenti intervertebrali di flessione laterale (Liem et al., 2001; Long et al., 1997; Rommel,1990). Il grado di elevazione delle metapofisi incrementa la lunghezza della leva dei muscoli collegati, aumentando il vantaggio meccanico (Buccholtz & Schur, 2004).

Oltre ai processi che si dipartono dal corpo vertebrale, vi sono le zigapofisi, superfici (o faccette) articolari, che possono essere posizionate o a livello dell’arco neurale, o a livello della spina neurale, o nei processi trasversi. Le zigapofisi sono pari, una per ogni lato della vertebra, e possono esserne presenti due paia, uno sulla superficie craniale e l’altro su quella caudale, con il nome rispettivamente di prezigapofisi e postzigapofisi (Leatherwood & Reeves, 1990; Rommel & Reynolds, 2002). Le zifapofisi sono siti di

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articolazioni intervertebrali, tipicamente sinoviali se le faccette articolari si sovrappongono, che limitano la rotazione lungo l’asse che interseca il piano della superficie delle zigapofisi stesse, limitando i movimenti di torsione (Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001).

Le zigapofisi presenti nelle vertebre della regione cervicale e in quelle più craniali della regione toracica tendono a orientarsi sul piano orizzontale per consentire movimenti di rotazione intorno all’asse e movimenti in senso latero-laterale. Le zigapofisi presenti nelle vertebre più posteriori della regione toracica e in quelle della regione caudale, tendono invece a orientarsi verticalmente per facilitare i movimenti dorso-ventrali (Reeves, 1990; Rommel & Reynolds, 2002). In alcune regioni della colonna vertebrale, le zigapofisi possono essere ridotte o addirittura assenti. Nei cetacei infatti, la colonna vertebrale non deve più opporsi a forze che determinano flessioni sul piano verticale e così le zigapofisi devono solamente limitare l’ampiezza del movimento ondulatorio (Liem

et al., 2001).

Tra una vertebra e quella successiva sono presenti i dischi intervertebrali, elementi assiali soggetti sia a variabilità interspecifica che intraspecifica; si tratta di residui della notocorda che consistono di un anello esterno di natura fibrosa, detto anulus fibrosus, e di una massa interna gelatinosa, nucleus pulposis, un corpo elastico che può regolare la propria forma all’interno delle fibre elastiche dell’annulus. I dischi intervertebrali, che costituiscono il 10-30% della colonna vertebrale, sono strutture elastiche di resilienza che supportano l’azione di forze complesse che agiscono lungo l’asse vertebrale durante la curvatura di quest’ultimo, il loro spessore determina in parte la flessibilità della colonna (Liem et al., 2001; Pabst, 1990; Pabst, 1993; Rommel & Reynolds, 2002).

Sebbene sia possibile riscontrare differenze da specie a specie, la struttura della colonna vertebrale è altamente conservata nei diversi ordini di mammiferi (Buccholtz & Schur, 2004). Per convenzione le vertebre sono divise nelle regioni cervicale, toracica (dorsale nella letteratura più antica), lombare, sacrale e caudale, sulla base di discontinuità morfologiche (Buchholtz et al., 2005; Buccholtz & Stepien, 2009). I confini tra una regione e l’altra coincidono con la presenza degli arti, per cui a livello degli arti anteriori si osserva la transizione dalla regione cervicale a quella toracica, mentre gli arti

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posteriori denotano la transizione dalla regione lombare alla regione caudale (Buccholtz & Stepien, 2009; Winslow et al. 2007).

Tuttavia la colonna vertebrale dei cetacei ha subito cambiamenti tali da non consentire più la divisione della colonna vertebrale nelle regioni sopra citate, in quanto trasgredisce i confini che identificano le classiche regioni vertebrali (cervicale, toracica, lombare, sacrale e caudale), lasciando posto all’identificazione di vere e proprie unità funzionali (cervicale, toracica, lombare, caudale), a loro volta suddivisibili in sub-unità.

Figura 2. Scheletro di un esemplare maschio di Mesoplodon densirostris (Australian Museum, Sydney (Mead, 2002).

Per tale motivo lo studio del richiede dei mammiferi marini obbligati comporta un approccio più funzionale che strutturale, (Buchholtz, 1998; Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004; Buchholtz et al., 2005; Rommel & Reynolds, 2002; Slijper, 1936).

Questa discrepanza che si osserva tra i cetacei e i mammiferi terrestri rende difficile l’interpretazione dell’anatomia vertebrale dei cetacei (Buchholtz & Schur, 2004).

Per la descrizione della colonna vertebrale può essere utile far riferimento alla formula

vertebrale, un codice alfanumerico nel quale la lettera maiuscola indica il tipo della

vertebra (C=cervicale; T=toracica; L=lombare; S=sacrale; Ca=caudale) e il numero che la segue indica la quantità delle vertebre ascrivibili a quel tipo vertebrale (ovvero alla regione della colonna vertebrale); ad esempio la formula vertebrale di Tursiops

truncatus è C7:T13:L14:S0:Ca26 (Rommel & Reynolds, 2002). Usando lo stesso codice

alfanumerico è possibile indicare una singola vertebra e la sua posizione (indicata dal pedice) all’interno della serie vertebrale, ad esempio la terza vertebra cervicale è indicata con l’espressione “C3” (Rommel & Reynolds, 2002).

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Unità strutturali della colonna vertebrale

La colonna vertebrale di un mammifero è tipicamente suddivisa nelle cinque regioni sopra citate, ognuna delle quali è definita sulla base di gruppi di vertebre contigue, simili sia per morfologia che per funzione, a queste regioni corrispondono le unità strutturali della colonna vertebrale (Buchholtz, 2007; Rommel & Reynolds, 2002).

La regione cervicale della colonna vertebrale è costituita dalle vertebre che si trovano in posizione craniale rispetto a quelle che articolano con le coste; raramente è possibile trovare il primo paio di coste associato alle vertebre cervicali6 (Rommel & Reynolds, 2002; True, 1910).

Per ciò che riguarda il numero delle vertebre cervicali, nei cetacei permane la condizione che si osserva in tutti i mammiferi (sette vertebre cervicali)7, ma è comune la fusione (anchilosi) di due o più vertebre cervicali, fino alla fusione delle stesse in un unico elemento in alcune specie (Buchholtz, 2001; Buchholtz et al., 2005; Gingerich et al., 1994 Liem et al., 2001). In Monodon monoceros, Delphinapterus leucas e nei platanistidi, in cui si osserva notevole libertà di movimento della testa rispetto al tronco, la fusione delle vertebre cervicali è rara (Brodie, 1989; Buchholtz, 2001).

Il grado di fusione varia inoltre anche tra individui della stessa specie: in genere si osserva che all’aumentare dell’età aumenta il grado di fusione, motivo per cui, trattandosi di un fattore ontogenetico, tale caratteristica non può essere un valido elemento discriminante a livello di specie (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004; De Smet, 1977).

L’atlante e l’epistrofeo non sono separati da dischi intervertebrali ma articolano mediante articolazione sinoviale, del tutto analoga a quella osservata tra il cranio e l’atlante.

6. Se presenti, tali coste non si estendono fino allo sterno, a differenza delle coste che articolano con la prima vertebra toracica (Rommel & Reynolds, 2002).

7. Costituiscono un’eccezione i lamantini (Trichecus spp.), che hanno 6 vertebre cervicali, i bradipi bidattili (appartenenti al genere Choloepus) che invece hanno un numero variabile di vertebre cervicali compreso tra cinque e otto e, infine, i bradipi tridattili (genere Bradipus) che sono caratterizzati da vertebre cervicali in sovrannumero, fino a un massimo di dieci vertebre (Buccholtz & Stepien, 2009; Rommel & Reynolds, 2002s).

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La morfologia di queste due prime vertebre cervicali determina il grado di movimento del cranio rispetto alla colonna vertebrale; per lo più si tratta di movimenti in senso dorso-ventrale e latero-laterale, in cui la torsione e la rotazione sono limitate (Rommel & Reynolds, 2002). La presenza di un collo distinto, che consente alla testa di muoversi indipendentemente, avrebbe costituito un impedimento al movimento nell’acqua: la riduzione del movimento tra le vertebre cervicali dovuto alla loro fusione ha la funzione di stabilizzare il capo, fatto importante quando la forza propulsiva origina a livello dell’estremità posteriore del corpo.

Tale caratteristica riduce o annulla eventuali deviazioni a livello delle giunzioni intervertebrali

Le spine neurali delle vertebre cervicali sono molto brevi e inclinate in direzione caudale (Buchholtz & Schur, 2004).

Le parapofisi si trovano in posizione antero-dorsale e articolano con la superficie prossimale craniale della costa (il capitello) mediante un’articolazione sinoviale o mediante tessuto connettivo.

Esclusi l’atlante e l’epistrofeo, le vertebre cervicali possono essere caratterizzate da due processi trasversi, diapofisi e parapofisi, che tendono a ispessirsi nelle vertebre toraciche.

La regione toracica è caratterizzata dalla presenza di coste più o meno mobili (Rommel & Reynolds, 2002). Le vertebre toraciche hanno la funzione di supportare il tronco e proteggere gli organi interni; costituiscono inoltre siti di inserzione sia per i muscoli degli arti pettorali che per la porzione anteriore dei muscoli implicati nei movimenti dell’addome e della coda (in Buchholtz, 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

È possibile distinguere morfologicamente la prima vertebra toracica è la prima vertebra le cui diapofisi articolano con il tubercolo della prima costa; il capitello articola invece con le parapofisi della settima vertebra cervicale. Per definizione la prima vertebra toracica è la vertebra articola con il primo paio di coste che si estendono verso lo sterno. Le vertebre che articolano con le coste sono dotate di superfici articolari, le faccette

costali, che possono essere localizzate sul corpo vertebrale, oppure sui processi trasversi

o in entrambi. Nei mammiferi terrestri, spesso, le spine neurali che caratterizzano le vertebre della regione toracica sono più lunghe rispetto a quelle presenti nelle vertebre di altre regioni della colonna vertebrale, al fine di fornire un vantaggio meccanico per il

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muscoli del collo; questo non si osserva nei cetacei, nei quali i movimenti della testa sono ridimensionati e la necessità di avere spine neurali di grandi dimensioni viene meno se si considerano le forze del galleggiamento (Rommel & Reynolds, 2002; Liem et

al., 2001).

Il numero delle vertebre toraciche non varia sensibilmente rispetto a quello delle vertebre toraciche dei mammiferi terrestri (Buchholtz et al., 2005; Rommel & Reynolds, 2002; Slijper, 1936).

La regione lombare supporta il tronco insieme alle vertebre della regione toracica. Tipicamente le vertebre di questa regione sono flessibili più in senso dorso-ventrale che laterale, grazie all’assenza di coste e zigapofisi. Il numero di vertebre lombari è strettamente associato a quello delle vertebre toraciche: una riduzione di quest’ultime porta spesso a un aumento in numero delle prime (Rommel & Reynolds, 2002). Le vertebre lombari sono visibilmente in sovrannumero: la serie delle vertebre lombari dei cetacei include oltre alle vertebre lombari che si evolvono già come tali anche le vertebre omologhe alle vertebre sacrali dei mammiferi terrestri sulla base delle radici del nervo pudendo; dedusse inoltre che il numero variabile delle vertebre lombari è associato a quello delle vertebre post-sacrali, ovvero “lombari caudali”, non identificabili come “caudali” per l’assenza di segni riconducibili a archi emali (Buchholtz & Schur, 2004; Buchholtz et al., 2005; Slijper, 1936).

La prima vertebra lombare è simile per forma all’ultima vertebra toracica, ma si distingue da quest’ultima in quanto è la prima vertebra in posizione caudale rispetto alla gabbia toracica che non articola con le coste; le variazioni morfologiche che caratterizzano la regione lombare non sono particolarmente evidenti tra vertebre adiacenti, si tratta piuttosto di un cambiamento graduale che portano, a livello dell’ultima vertebra lombare, a una forma più robusta e massiccia con un processo neurale ridimensionato.

Le spine neurali raggiungono all’interno di questa serie lo sviluppo massimo in altezza; si osserva inoltre che, nei delfinidi, la loro inclinazione subisce variazioni a livello delle vertebre anticlinali, vale a dire vertebre che presentano un’inclinazione opposta rispetto a quella osservata nelle vertebre toraciche (De Smet, 1977; Rommel, 1990).

La regione sacrale è assente nei cetacei, condizione associata alla scomparsa del cinto pelvico o a una riduzione di esso a rudimento vestigiale: dal momento che non esiste

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un’articolazione tra i rudimenti pelvici e la colonna vertebrale, non esiste tecnicamente un sacro e, di conseguenza, non è possibile distinguere una regione sacrale nei mammiferi marini che conducono uno stile di vita totalmente acquatico (Rommel & Reynolds, 2002).

La regione caudale corrisponde alla regione della colonna vertebrale che supporta la base della pinna caudale. Sebbene molto variabile, il numero delle vertebre caudali dei cetacei è maggiore rispetto a quello che si riscontra nei mammiferi terrestri. Nei cetacei le vertebre caudali sono molto robuste, in quanto associate all’organo che ha funzione propulsiva (appunto la coda) (Rommel & Reynolds, 2002). Nei cetacei, alle vertebre caudali sono associate ossificazioni intervertebrali a forma di V o Y (ossa chevron o ossa a forcella), la cui funzione è aumentare il vantaggio meccanico dei muscoli ipoassiali che flettono ventralmente la coda.

Per definizione le ossa chevron sono associate alla vertebra che le precede, quindi la prima vertebra caudale è la vertebre la cui superficie ventrale articola cranialmente con le superfici articolari posteriori del primo osso chevron, il quale articola cranialmente con la superficie ventrale dell’ultima vertebra lombare (De Smet, 1977; Rommel & Reynolds, 2002).

La successione delle ossa chevron, omologhe ai processi emali (o emapofisi), forma il canale emale, costituito dalla serie di archi emali, all’interno del quale i vasi sanguigni che irrorano la regione caudale sono protetti; in questo modo se ne previene l’occlusione durante la flessione della pinna caudale (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Le vertebre caudali sono caratterizzate da corpi vertebrali di ridotte dimensioni e processi trasversi inclinati leggermente all’indietro che fungono da punti di inserzione per i muscoli deputati alla propulsione (Reindeberg, 2007). I processi che si dipartono dal corpo vertebrale scompaiono definitivamente nelle ultime vertebre caudali in corrispondenza del peduncolo caudale.

Unità funzionali della colonna vertebrale

Mentre le unità strutturali della colonna vertebrale sono identificate in funzione di discontinuità morfologiche, le unità funzionali (fig. 3) sono regioni del rachide le cui

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2004). Le unità funzionali sono divisibili in sub-unità sulla base dell’inclinazione delle spine neurali e dell’individuazione del punto della sinclinale: il punto di transizione angolare tra le spine neurali delle vertebre della regione mediana del torace e quelle della parte posteriore del torace definisce il punto sinclinale (Sljiper, 1936); Buchholtz & Schur, 2004, identificarono le unità funzionali in funzione dei parametri CL (lunghezza del corpo vertebrale), CH (altezza del corpo vertebrale)e CW (larghezza del corpo vertebrale) in veduta craniale. Tali parametri, che furono già presi in considerazione dagli stessi autori in lavori pregressi (Buchholtz, 1998; Buchholtz, 2001) sono stati estrapolati da Sljiiper, (1946), che prese in considerazione i parametri CL, CW e CH al fine di stimare il momento di forza e il momento di resistenza lungo la colonna vertebrale, un lavoro recentemente ripreso e avvalorato da Cozzi et al. (2009) e Zotti et al. (2011), i quali applicarono gli stessi principi allo scheletro assile di cetacei e quattro cani rispettivamente.

Sulla scia dei lavori di Sljiper, Buchholtz (1998) stimò la variabilità dei parametri dimensionali CL, CW e CH lungo il rachide di uno stesso individuo. Come nel lavoro precedente, a differenza di McShea (1992 e 1993), Buchholtz et al. (2001, 2004) esaminarono i parametri morfometrici di nuotatori quadrupedi e cetacei in modo tale da poterli esprimere in termini percentuali al fine di poter attuare un confronto anche tra individui di specie che differiscono notevolmente in dimensioni, ad es. Balaenoptera

physalus e Tursiops truncatus; per inferenza furono stimate anche le unità funzionali

lungo il rachide (tab. 1), descritte di seguito.

L’unità funzionale del collo corrisponde alla regione cervicale e conserva il parallellismo con la regione cervicale dei mammiferi terrestri; consiste delle prime sette vertebre il cui corpo vertebrale presenta un notevole accorciamento (bassi valori di CL) lungo l’asse longitudinale; si osserva inoltre un incremento dell’altezza (CH) e della larghezza (CW) (Buchholtz & Schur, 2004). L’andamento di questi parametri rappresenta un adattamento dello scheletro legato alla sua stessa funzione propulsiva (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001).

L’unità funzionale del torace è caratterizzata da vertebre con corpi vertebrali relativamente lunghi, la cui sezione trasversale è pressoché circolare, ovvero l’altezza del corpo vertebrale equivale più o meno alla sua larghezza (CW ̴ CH) (Buchholtz & Schur, 2004). Le spine neurali di queste vertebre sono inclinate in posteriormente (Buchholtz &

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Schur, 2004). Anche l’unità funzionale del torace è sovrapponibile alla regione toracica dei mammiferi terrestri, in quanto caratterizzata dall’articolazione con le coste e quindi strettamente associata alla gabbia toracica (Buchholtz & Schur, 2004).

Da un punto di vista funzionale e meccanico la regione toracica non gioca un ruolo essenziale nel nuoto: è tipicamente caratterizzate da zigapofisi e articolazioni con coste aventi sia capitello che tubercolo (coste bifide), mentre nella regione posteriore le coste presentare una sola testa articolare e/o mancare di connessioni con lo sterno.

Questa struttura conferisce un certo grado di rigidità (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004). Per ciò che riguarda le proprietà meccaniche la regione toracica offre supporto longitudinale e sostegno della muscolatura del diaframma (Rommel & Reynolds, 2002).

L’unità funzionale dell’addome è compresa tra la regione toracica e quella caudale, e include vertebre che sono tipicamente classificate secondo la nomenclatura classica come le ultime vertebre toraciche, lombari, sacrali e caudali anteriori e intermedie (fig. 3) (Buchholtz, 2001; Buchholtz, 2007). Per ciò che riguarda il confine tra le unità funzionali del torace e dell’addome, Buchholtz (2001) considera regione toracica della colonna vertebrale le vertebre comprese tra quelle cervicali (anteriormente) e quelle soggette a una variazione morfologica rispetto alle caratteristiche peculiari delle vertebre della regione toracica stessa, definizione piuttosto arbitraria. In genere si può affermare che l’aumento della lunghezza del corpo vertebrale, la forma a cilindro del corpo stesso e l’assenza di articolazione con le coste e/o con lo sterno sono fattori che incrementano la flessibilità tipica dell’addome (Buchholtz, 2001).

Le spine neurali delle vertebre toraciche offrono inoltre un vantaggio meccanico ai muscoli del collo che sorreggono la testa relativamente pesante dell’animale.

Nei delfinidi in cui è possibile identificare una sinclinale, la regione dell’addome è divisibile in tre sub-unità, anteriore, mediana e posteriore, sulla base dell’inclinazione delle spine neurali: alla regione di transizione angolare corrisponde la regione di transizione da una sub-unità all’altra (Buchholtz & Schur, 2004).

Nei delfinidi che presentano caratteri derivati ad esempio, la transizione dall’unità funzionale dell’addome all’unità funzionale della coda si verifica all’interno della sub-unità mediana dell’addome (fig. 3) (Buchholtz & Schur, 2004).

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Tabella 1. Colonna vertebrale: confronto tra le unità strutturali nei mammiferi terrestri e nei cetacei; nell’ultima colonna sono riportate le unità funzionali e le rispettive sub-unità della colonna vertebrale dei cetacei (Buchholtz & Schur, 2004).

Figura 3. Colonna vertebrale di Lagenorhyncus acutus (delfinide) in veduta dorsale e laterale sinistra: in alto sono riportate le unità strutturali del rachide; in basso sono riportate le unità funzionali e le rispettive sub-unità (Buchholtz & Schur, 2004).

Nella regione dell’addome le spine neurali sono i principali punti di origine dei muscoli epiassiali deputati alla locomozione, che si inseriscono posteriormente a livello delle vertebre della regione del blocco pre-caudale e della pinna caudale. L’importanza di questa regione risiede nel ruolo che gioca nella locomozione in quanto fulcro della propulsione: è nell’addome che si trova il sito di generazione delle intense contrazioni muscolari responsabili della propulsione (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004).

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L’inclinazione delle spine neurali e degli archi neurali sono correlati all’anatomia del lunghissimo del dorso e del multifido (Buchholtz, 2001; Liem, 2001; Slijper 1936).

L’addome è costituito da vertebre le cui dimensioni si riducono mano a mano che occupano una posizione più caudale, ma nel complesso si mantengono pressoché omogenee nella forma.

Dal punto di vista funzionale la regione caudale è divisa in due unità: blocco pre-caudale (tail stock) e pinna caudale (fluke).

Le vertebre dell’unità funzionale del blocco pre-caudale, che corrisponde al peduncolo caudale, sono compresse in senso latero-laterale: l’altezza del corpo vertebrale è maggiore rispetto alla larghezza (CH >> CW). Tale morfologia spiega la funzione di questa robusta regione della colonna vertebrale, idonea a supportare la pinna caudale (Buchholtz, 2001). Nella regione del blocco pre-caudale, le zigapofisi sono assenti e sia le spine neurali che i processi trasversi si riducono notevolmente mano a mano che si procede in senso antero-posteriore, conferendo notevole flessibilità a questa regione della colonna vertebrale, deputata alla propulsione (Reindeberg, 2007).

L’unità funzionale più caudale della colonna vertebrale è ben definita e oscilla sulla serie vertebrale, più stabile, del blocco pre-caudale (Buchholtz, 2001). Le vertebre che appartengono all’unità funzionale della pinna caudale hanno il compito di fornire supporto alla pinna caudale stessa, costituita da tessuto molle (strato cutaneo, strato sottocutaneo, blubber e legamenti, che circondano un nucleo di tessuto fibroso più denso) lungo la linea mediana (Buchholtz, 2001). Tali vertebre sono caratterizzate da lunghezza e altezza molto ridotte e maggiore ampiezza (CW > CL e CH), sono quindi compresse in senso dorso-ventrale e mancano di processi trasversi e neurali (Buchholtz, 2001). Queste vertebre possono essere distinte dalle altre vertebre caudali per l’assenza di archi emali, (Buchholtz, 2001; De Smet, 1977). Rimanendo nell’ambito dell’ordine Cetacea, si osserva che tutti i gruppi tassonomici sono soggetti a un aumento relativo della lunghezza delle vertebre della pinna caudale, caratteristica che si spiega con l’esigenza di mantenere in questa regione dello scheletro un certo grado di flessibilità (Buchholtz, 2001).

Nei campioni osteologici le vertebre ascrivibili a tale unità funzionale sono facilmente riconoscibili grazie alla loro forma, dotata tipicamente di superfici convesse (Slijper, 1936; Watson & Fordyce, 1993).

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Sterno e coste

Lo sterno e le coste giocano un ruolo importante della mobilità della colonna vertebrale: lo sterno conferisce stabilità alla gabbia toracica mediante l’articolazione con le e offre punti di inserzione per i muscoli ipoassiali; le coste coadiuvano lo sterno nel conferire stabilità al torace e limitare la rotazione tra le vertebre con le quali articolano (Buchholtz & Schur, 2004; Poli, 2006).

Lo sterno, in posizione ventrale, è costituito da elementi che prendono il nome di sternebre, delle quali la prima prende il nome di manubrio e quella più caudale di

xiphisterno. In alcuni odontoceti sono fusi a formare un’unica unità, caratteristica che si

è evoluta secondariamente se si considera che durante l’embriogenesi le sternebre si formano come elementi separati (Rommel & Reynolds, 2002).

Le coste sono strutture rigide a forma di bacchetta che si sviluppano durante l’embriogenesi come strutture omologhe dei processi trasversi. Le coste sono posizionate lateralmente rispetto alla colonna vertebrale, nelle quali è possibile distinguere due segmenti: uno prossimale che prende il nome di costa toracica e uno distale detto costa sternale (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Mentre nella maggior parte dei mammiferi le coste sternali sono cartilaginee, quelle dei cetacei sono calcificate come in rettili e uccelli. L’articolazione tra i due segmenti determina un leggero incremento della flessibilità del torace.

L’articolazione tra le prime coste e la colonna vertebrale avviene per mezzo di due processi articolari (coste bifide), il capitello e il tubercolo. Il primo articola mediante articolazione sinoviale con la superficie laterale del corpo vertebrale o con la parapofisi, in posizione postero-ventrale; il secondo articola con il processo trasverso detto

diapofisi, che si diparte dalla base del corpo neurale in posizione antero-dorsale,

mediante articolazione sinoviale oppure mediante tessuto connettivo, (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Nella vertebre posteriori della regione toracica le coste sono dotate di un singolo processo articolare (coste a testa singola). Nel caso dei cetacei questa caratteristica è dovuta alla perdita del capitulum, per cui rimane il tuberculum che articola con il processo trasverso (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002).

Le ultime coste sono spesso fluttuanti, ovvero non articolano né con lo sterno né con le vertebre; queste coste sono associate nei cetacei alla muscolatura epiassiale del tronco

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e della coda, mentre la loro importanza come elementi di supporto del diaframma può essere definita marginale (Liem et al., 2001; Poli, 2006; Rommel & Reynolds, 2002). In merito alle coste fluttuanti, associate alle rispettive vertebre mediante un legamento, sono sorte problematiche nell’identificazione del confine tra la regione toracica e quella lombare, per risolvere le quali sono state proposte diverse soluzioni: alcuni studiosi ritengono che si debbano considerare toraciche solo le vertebre che presentano faccette articolari per l’articolazione con la costa; altri invece (Sljiper, 1936) ritengono che si debbano considerare tali anche le vertebre prive di faccette articolari, a prescindere che articolino con una coppia di coste o con una sola. Nel 1977 (De Smet) propose che coste fluttuanti fossero prese come punti di riferimento per designare la regione

toraco-lombare.

Le coste dei cetacei sono inclinate in senso dorso-craniale nella regione anteriore e in senso ventro-caudale in quella posteriore (Rommel & Reynolds, 2002). I cetacei sono dotati di una gabbia toracica molto mobile, indispensabile per sopperire alla necessità di notevoli variazioni di volume dei polmoni durante le immersioni (variazioni causate da un progressivo aumento della pressione con la profondità), tuttavia le coste dei cetacei sono meno robuste rispetto a quelle degli animali che vivono in ambiente subaereo, in quanto in ambiente acquatico non devono più sostenere il peso del corpo; questa è la ragione per cui un cetaceo, una volta spiaggiato, non è in grado di ventilare adeguatamente i polmoni e, di solito, soffoca (Liem et al., 2001; Rommel & Reynolds, 2002). Come già detto, talvolta si osserva nei cetacei che la prima costa articola con l’ultima vertebra cervicale, caratteristica che contribuisce a limitare la flessibilità non solo della regione toracica ma anche di quella cervicale.

1.1.2.

CONSIDERAZIONI CIRCA LA MOBILITÀ DELLA COLONNA VERTEBRALE

I cetacei si sono evoluti a partire da mammiferi terrestri, in particolare da artiodattili, animali corridori e quindi altamente specializzati per muoversi velocemente sulla terraferma (Bianucci & Landini, 2007; Gingerich et al., 2001; Orliac et al., 2010; Spaulding et al., 2009; Thewissen et al., 2007; Uhen, 2010): il passaggio da artiodattilo a delfino ha richiesto trasformazioni profonde nella forma del corpo.

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I mammiferi, i rettili e gli uccelli hanno invaso l’ambiente acquatico dopo essersi evoluti in ambiente terrestre, sono cioè nuotatori secondari, a differenza dei pesci, che discendono da progenitori acquatici e definiti di conseguenza nuotatori primari (Liem et

al., 2001). Nei nuotatori secondari si osserva la tendenza a sviluppare una colonna

vertebrale composta da un grande numero di vertebre uniformi che imita le strutture anatomiche dei pesci (Sljiper, 1936). L’adattamento a uno stile di vita acquatico implica quindi consistenti trasformazioni a livello strutturale che conducono a un fenomeno di convergenza evolutiva con i pesci (che è il risultato di un’omoplasia), associato ai limiti imposti dall’ambiente fisico circostante e al raggiungimento di uno stile di nuoto efficiente finalizzato principalmente alla ricerca di cibo, ovvero capacità di sfruttare un’altra risorsa, di occupare un’altra nicchia (Beatty & Rothschild, 2008; Fish, 1993a; Fish, 1996; Gray et al., 2007; Reidenberg, 2007).

Gli adattamenti di natura strutturale, che si sono evoluti indipendentemente nei cladi di mammiferi marini (ordini Cetacea, Pinnipedia e Sirenia) (Fish, 1996; Liem et al., 2001) permettono di annoverare i cetacei tra i nuotatori più abili e veloci: Orcinus orca arriva a sostenere una velocità di 50 km/h. La forma idrodinamica del corpo in concomitanza alla regressione degli arti pelvici, alla presenza delle pinne pettorali, dorsale e caudale e all’assenza di protrusioni esterne (perdita del padiglione auricolare, presenza di un bulbo oculare piatto e genitali interni) hanno dotato questi animali di caratteristiche simili a quelle dei pesci pelagici più veloci quali gli scombridi (Pabst, 2000; 2006; Reidenberg, 2007). Tali trasformazioni hanno consentito a questi animali di vincere la resistenza creata dall’acqua circostante (Reidenberg, 2007).

La perdita (o il notevole ridimensionamento) delle appendici posteriori hanno modificato gli arti in pinne pettorali; questo ha portato allo sviluppo di superfici idrodinamiche che aumentano la portanza, riducono la resistenza (riducendo il costo energetico), direzionano il nuoto e frenano il movimento in avanti (Reidenberg, 2007). La produzione della spinta è invece ottimizzata dallo sviluppo della pinna caudale (Fish, 1993a; Fish, 1996; Fish et al., 2007; Lang, 1966; Williams, 1989).

Tutti questi adattamenti morfologici rivestono notevole importanza nella prevenzione del rollio, del beccheggio e dell’imbardata (fig. 4) (Reidenberg, 2007).

Poiché l’acqua produce una forte spinta idrodinamica, lo scheletro di un cetaceo non deve più opporsi a flessioni verticali, come invece accade nelle specie terrestri.

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Figura 4. a) rollio (oscillazione del corpo intorno al proprio asse longitudinale); b) beccheggio (oscillazione del corpo intorno al proprio asse trasversale); c) imbardata (oscillazione del corpo intorno all’asse verticale passante per il baricentro). Il punto rappresenta il centro di massa o baricentro. Immagine estrapolata da Fish, 2003 (modificata).

Tuttavia la colonna vertebrale deve far fronte a notevoli forze compressive durante il movimento in un mezzo relativamente denso qual è l’acqua e deve essere sufficientemente flessibile da consentire movimenti ondulatori propulsivi (Liem et al., 2001); l’esistenza di una regione flessibile lungo lo scheletro assile, la sua estensione e la relativa posizione lungo il rachide sono la chiave per il riconoscimento di uno stile di vita acquatico (Buchholtz, 2001). Il nuoto dei cetacei si realizza tramite oscillazioni del tronco e della coda sul piano verticale: i movimenti sono più pronunciati nella lunga regione lombare, che può comprendere fino a 21 vertebre (Liem et al., 2001) e la colonna vertebrale risulta più flessibile proprio in corrispondenza di questa serie.

La colonna vertebrale trasmette delle forze che contribuiscono al movimento. Tali forze dipendono dalla morfologia e dalle proprietà meccaniche dei segmenti che formano la colonna vertebrale, ovvero vertebre e legamenti a esse associati (Long et al., 1997). La relazione che sussiste tra il grado di curvatura della colonna vertebrale e la morfologia delle sue componenti è specie-specifica (Gal, 1993b; Long et al., 1997).

I pattern potenziali di una postura dinamica, ottenuti mediante la contrazione muscolare del muscoli multifido e lunghissimo del dorso, dipendono dalle dimensioni e dalla forma

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delle superfici intervertebrali e dai limiti meccanici che la presenza dei processi vertebrali e delle faccette articolari implicano (Pabst, 1990). È chiaro quindi che si riscontrano adattamenti non solo a livello macroscopico, ma anche a livello della singola vertebra (nei cetacei le cui vertebre assumono una forma simile a quella di un disco manifestano un fenomeno di convergenza evolutiva con i pesci, la cui colonna vertebrale è ben adattata a resistere alla compressione) e, ancora, a livello della sua microstruttura (Liem et al., 2001; Grey et al., 2007).

Forma del corpo vertebrale

La forma delle vertebre incide notevolmente sul grado del movimento che è possibile attuare lungo la colonna vertebrale (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004). La meccanica dell’ondulazione lungo la colonna vertebrale varia quindi tra le diverse regioni dell’asse vertebrale in funzione della morfologia delle vertebre che la compongono (Long et al., 1997; Slijper, 1946).

I caratteri che maggiormente incidono sulla mobilità di una vertebra rispetto a quelle adiacenti sono la lunghezza del corpo vertebrale (CL) e la il grado di curvatura delle superfici intervertebrali del corpo vertebrale (fig. 5): le superfici piatte e quelle convesse rappresentano i due estremi ma è possibile trovare forme intermedie, le quali influenzeranno il movimento lungo il rachide in modo diverso, a seconda che prevalga l’una o l’altra forma (Buchholtz & Schur, 2004).

Le vertebre dotate di un corpo vertebrale a forma di disco hanno superfici di contatto intervertebrale piuttosto estese grazie al notevole sviluppo in altezza (CH) e larghezza (CW) del corpo vertebrale stesso e pertanto conferiscono alla colonna vertebrale una stabilità elastica: il movimento determinerà un limitato grado di dislocamento della vertebra rispetto a quella che la precede a causa di una ridotta lunghezza del corpo vertebrale; tali fattori limitano la flessibilità lungo l’asse (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004). Il corpo vertebrale dotato di scarsa lunghezza, che nei cetacei è spesso associato a un numero di vertebre elevato, implica sostanzialmente una condizione di stabilità lungo la colonna vertebrale (Buchholtz & Schur, 2004). Le vertebre il cui corpo vertebrale è sviluppato in lunghezza, assumono una forma a cilindro (CL >> CW e CH). Tale condizione è in genere associata a uno scarso numero di vertebre e determina un certo grado di flessibilità della colonna vertebrale (Buchholtz & Schur, 2004).

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Un altro elemento da tenere in considerazione è la forma delle superfici: più le superfici craniale e caudale del corpo vertebrale sono convesse, ovvero non parallele, maggiore è la curvatura che si può ottenere (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004).

Per comprendere meglio quanto appena detto, si tenga presente che:

1. le superfici di contatto intervertebrali a livello delle epifisi di due vertebre adiacenti sono parallele quando l’animale assume una postura neutra; una curvatura della colonna vertebrale si ottiene quando l’angolo tra le superfici di ogni centro vertebrale subisce variazioni (Pabst, 1990);

2. se si assume costante la rotazione angolare, un aumento della lunghezza del centro incrementa lo spostamento in termini assoluti della superficie posteriore della vertebra rispetto all’asse della vertebra a essa anteriore (fig. 5) (Buchholtz & Schur, 2004); quindi una forma a cilindro fornisce un dislocamento (e quindi una flessibiliità) maggiore rispetto alla forma a disco (Buchholtz 2001; Buchholtz & Schur, 2004);

3. assumendo come costanti lo spazio intervertebrale e la rotazione angolare l’interferenza, e quindi l’attrito, tra due vertebre adiacenti aumenta se le dimensioni del corpo vertebrale aumentano (l’altezza e la larghezza del corpo vertebrale sono quindi rilevanti) (Buchholtz & Schur, 2004);

4. supponendo che lo spazio intervertebrale sia costante, le superfici confesse favoriscono la rotazione riducendo l’interferenza tra i margini del corpo vertebrale con quello delle vertebre adiacenti; quindi superfici intervertebrali convesse conferiscono più mobilità rispetto a quelle tendenzialmente piatte (fig. 5).

Numero delle vertebre e dischi intervertebrali

Se tutti gli altri fattori sono mantenuti costanti, un aumento del numero di vertebre e quindi di articolazioni intervertebrali, aumentano i siti di rotazione tra le vertebre stesse e, di conseguenza, la flessibilità della colonna (Buchholtz, 2001; Buchholtz & Schur, 2004).

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Il numero delle vertebre è inversamente correlato al grado di differenziazione delle serie vertebrali morfologicamente distinte: questa affermazione è di particolare interesse poiché mette in relazione l’aumento di un fattore (numero di vertebre, traducibile in termini di complessità della colonna vertebrale) con il decremento di un altro (differenziazione lungo la colonna vertebrale) (Buchholtz et al., 2005; Williston, 1914). È stato inoltre ipotizzato che la selezione possa aver favorito l’aumento del numero delle vertebre poiché il numero elevato delle stesse consente una maggiore specializzazione e divisione interna di lavoro tra le parti (Buchholtz et al., 2005; McShea, 1992).

Una maggior numero di vertebre significa maggior numero di dischi intervertebrali. La lunghezza dei dischi intervertebrali è inversamente correlata alla rigidità della colonna vertebrale, sia in estensione dorsale (sollevamento della pinna caudale) sia in flessione ventrale (abbassamento della pinna caudale).

Schematizzando, si possono identificare quattro condizioni limite (esistono condizioni intermedie le cui caratteristiche determineranno il relativo grado di rigidità/flessibilità):

1. Forma a disco (lunghezza poco sviluppata rispetto gli altri due parametri dimensionali) con superfici intervertebrali piatte (fig. 5A): quest’ultime limitano le rotazioni intervertebrali, quindi il dislocamento lungo l’asse longitudinale della vertebra rispetto alla vertebra anteriore è ridotto. Questo limite è compensato da un notevole numero di vertebre: la colonna vertebrale è in questo modo rigida ma elastica, grazie all’elevato numero di siti intervertebrali (a livello dello spazio intervertebrale vi sono i dischi intervertebrali che giocano il ruolo di strutture di resilienza).

2. Forma a disco con superfici intervertebrali convesse (fig. 5B): in questo caso si aumenta il grado di rotazione, ma il dislocamento di una vertebra rispetto alla precedente è comunque ridotto; in questo caso l’elasticità, tipica di colonne vertebrali caratterizzate da un elevato numero di vertebre, viene meno.

3. Forma a cilindro (lunghezza notevolmente maggiore rispetto alla lunghezza e all’altezza) con superfici intervertebrali piatte (fig. 5C): il grado di dislocamento tra due vertebre adiacenti è notevole grazie allo sviluppo in lunghezza del corpo vertebrale, ma a causa delle superfici intervertebrali piatte la colonna vertebrale

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è piuttosto rigida, condizione data da un basso rapporto tra la lunghezza totale dei dischi intervertebrali e la lunghezza totale dei corpi vertebrali.

4. Forma a cilindro con superfici intervertebrali convesse (fig. 5D): questa combinazione è la più efficace in termini di rotazione. Il corpo vertebrale può essere soggetto a un consistente dislocamento lungo l’asse longitudinale rispetto alla vertebra precedente.

5. I dischi intervertebrali influenzano la flessibilità della colonna vertebrale, ma non giocano nessun ruolo nel determinare la curvatura della colonna nel suo complesso, in quanto tale curvatura è imputabile solamente all’angolo che si forma tra le facce articolari di coppie di vertebre adiacenti, che dipende a sua volta dalla forma delle superfici articolari (Rommel & Reynolds, 2002).

Figura 5. Variabilità nella morfologia del corpo vertebrale. Corpi vertebrali poco sviluppati in lunghezza e caratterizzati da superfici intervertebrali pressoché piatte conferiscono stabilità elastica alla colonna vertebrale (A); corpi vertebrali poco sviluppati in lunghezza e caratterizzati da superfici intervertebrali convesse consentono movimenti di rotazione accompagnati da un dislocamento minimo (B); corpi vertebrali sviluppati in lunghezza e dotati di superfici intervertebrali piatte rendono rigida la colonna vertebrale (C); vertebre dotate di corpi vertebrali lunghi con superfici intervertebrali convesse saranno in grado di impartire un movimento di rotazione ad ampio raggio (D) (Buchholtz & Schur, 2004).

Alla luce di ciò si può comprendere come l’accorciamento del collo limiti la mobilità del capo (riducendo di conseguenza la resistenza) e come l’allungamento delle vertebre

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intervertebrali, consentendo di stabilizzare la colonna nonostante l’allungamento del corpo (Reindeberg, 2007).

Pattern anatomici

Per comprendere meglio l’aspetto anatomo-funzionale del rachide dei cetacei, sulla base della morfologia delle vertebre dell’unità funzionale dell’addome, in particolare la regione antero-mediale, e del peduncolo caudale, Buchholtz (2001) identificò tre gruppi anatomo-funzionali, che hanno permesso di interpretare lo stile del nuoto alla luce delle differenze riscontrate. Da ciascun pattern è possibile ricavare, per inferenza, il grado di flessibilità della regione del rachide presa in considerazione:

1. Pattern 1. Queste caratteristiche consentono di dedurre che la parte anteriore e centrale dell’addome è soggetta a un movimento ondulatorio, in cui la ridotta lunghezza d’onda e la notevole ampiezza dipendono dalla lunghezza relativa dei corpi vertebrali. Le ondulazioni si interrompono a livello del peduncolo caudale a causa della loro scarsa lunghezza, la quale al tempo stesso incrementa la rigidità di queste vertebre, sulle quali oscilla l’unità funzionale della coda. I misticeti

Balaenoptera musculus, Balaenoptera acutorostrata e Megaptera novaeangliae

e i physeteridi Physeter catodon e Kogia sima mostrano questo tipo di pattern. La parte antero-mediale dell’addome e il blocco pre-caudale sono quindi, da un punto di vista funzionale, ben distinti.

Gli attuali misticeti sono caratterizzati da corpi vertebrali sviluppati più in larghezza che in altezza, caratteristica che si ripercuote a livello della mole di questi animali, il cui corpo risulta essere più compresso dorso-ventralmente rispetto a quello dei fiseteridi.

2. Pattern 2. Si riscontra nei cetacei che possiedono vertebre compresse in senso antero-posteriore nella regione centrale dell’addome, anteriormente rispetto al peduncolo caudale (compresso in senso latero-laterale in modo più marcato rispetto a quello tipico del pattern 1) con il quale costituiscono un continuum, un’unità stabile che forma un lungo peduncolo rigido che si muove durante lo spostamento della pinna caudale, essenzialmente oscillatorio, con fulcro

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sull’ultima vertebra del blocco pre-caudale. Sebbene uniformi, le vertebre anteriori dell’addome sono caratterizzate da corpi vertebrali relativamente più lunghi. Il risultato è un peduncolo caudale ben distinto sia rispetto alla porzione anteriore dell’addome sia all’unità funzionale della pinna caudale. Questo pattern si osserva negli zifidi, nei monodontidi, nei delfini di fiume e nella Pseudorca. Tuttavia gli zifidi e i delfini di fiume sono degni di nota: i primi si distinguono in quanto caratterizzati da corpi vertebrali la cui lunghezza relativa è maggiore rispetto a quella riscontrata negli altri gruppi e un peduncolo di minori dimensioni (il tutto si traduce con una maggiore flessibilità dell’addome); i secondi sono invece caratterizzati nel complesso da un’esigua quantità di vertebre toraciche e lombari.

3. Pattern 3. Ciò che si osserva nei cetacei caratterizzati da questo pattern, simile al pattern 2 per ciò che riguarda la ridotta lunghezza relativa dei centri vertebrali della prima metà dell’addome e del blocco pre-caudale, ma tale lunghezza si accorcia ulteriormente nella parte antero-mediale dell’addome, in cui le vertebre assumono una forma discoidale (nel pattern 2 la parte antero-mediale dell’addome è tipicamente costituita da vertebre a forma di cilindro), con il risultato che si osserva una notevole rigidità non solo nel blocco pre-caudale, ma anche a livello dell’addome. Il peduncolo caudale è soggetto inoltre a una maggiore compressione laterale rispetto al pattern 2. All’interno di questa categoria è possibile distinguere due casi: nel primo, che chiamiamo 3A, l’estensione della regione caratterizzata da corpi vertebrali ridotti in lunghezza è poco estesa e, di conseguenza, la colonna vertebrale è relativamente flessibile (come in Orcinus orca e nei focenidi); nel secondo caso, 3B, l’estensione della regione di vertebre compresse lungo l’asse longitudinale è notevole e di conseguenza la rigidità aumenta in maniera consistente e la flessibilità è limitata alla regione più caudale (il blocco pre-caudale); tale condizione è tipica di alcuni delfini quali Lissodelphis borealis e Lagenorhynchus acutus.

Processi neurali

La morfologia delle vertebre e la meccanica dell’ondulazione della colonna vertebrale varia tra le diverse regioni dell’asse e potrebbe essere importante nel controllare la

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trasmissione della forza e la deformazione lungo l’asse del corpo. Ciò significa che l’estensione della curvatura varia non solo lungo la colonna vertebrale, ma si ripercuote anche nelle fasi di sollevamento e abbassamento della pinna caudale.

Le variazioni regionali nella curvatura lungo l’asse sono dovute anche alle dimensioni dei processi neurali; è abbastanza intuitivo che, assumendo CL costante, all’aumentare della lunghezza antero-posteriore dei processi, l’interferenza tra vertebre adiacenti aumenta e, di conseguenza si riduce la libertà di movimento di un corpo vertebrale rispetto al precedente (Buchholtz & Schur, 2004; Liem et al., 2001; Long et al., 1997; Slijper, 1946). La tensione dei muscoli sulle spine neurali si realizza prevalentemente lungo il piano sagittale, per cui un aumento della larghezza sul piano sagittale fa della spina neurale un braccio di leva in grado di far fronte alle forze che vi agiscono; la forma a lama e l’esiguo spessore della spina neurale sono spiegati con il fatto che non esistono forze particolari che agiscono lateralmente.

I bracci di leva trasmettono una forza (determinata dalla tensione dei muscoli che si inseriscono) a un punto di rotazione, cioè il fulcro, collocato tra i corpi.

Maggiore è la superficie d’inserzione dei muscoli (superficie del braccio di leva), maggiore è la forza muscolare che può essere applicata: all’aumentare della lunghezza della spina neurale quindi aumenta il vantaggio meccanico (Fish & Hui 1991; Liem et al., 2001; Pabst, 1993):

momento di rotazione = forza muscolare x lunghezza del braccio di leva

Si consideri che l’aumento del vantaggio meccanico si attua a spese della velocità della contrazione muscolare (Buchholtz & Schur, 2004).

È stato dimostrato che in Delphinus delphis l’altezza dei processi neurali è strettamente associata alla stabilità di determinate regioni del rachide: mentre nella regione lombare i processi neurali, più sviluppati in altezza, conferiscono stabilità in questa regione della colonna vertebrale, quelli della regione caudale forniscono un basso vantaggio meccanico ma, al tempo stesso, consentono maggiori rotazioni angolari e maggiore

velocità di contrazione muscolare (Long et al., 1997). Nel caso in cui caso in cui sulla stessa spina neurale agiscano più forze (più muscoli)

secondo diverse direzioni, allora l’orientamento della spina neurale coincide con la risultante di tutte le forze e la spina neurale sarà orientata in senso opposto rispetto alle forze che prevalgono: ad esempio nei mammiferi terrestri dotati di teste

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