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SECONDO CAPITOLO

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Academic year: 2021

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SECONDO CAPITOLO

2 La Collera e le sue funzioni

In questo secondo capitolo approfondiremo alcune tematiche riguardanti il riconoscimento del bambino come essere emotivo sin dalla nascita, parleremo della compromissione del sistema limbico chiarendo quali sono le zone cerebrali coinvolte nell’espressività emotiva. Grazie a Susan Hart e la teoria neuroaffetiva, osserveremo come la nascita di impulsi collerici e aggressivi possano essere dovuti ad un determinato sviluppo neuronale, distinguendo secondo le tappe evolutive del bambino l’intervento dell’emisfero destro e sinistro nella gestione delle emozioni.1

Parleremo del ruolo delle emozioni ed in particolar modo della collera, quanto sia in grado di svolgere un ruolo di coordinamento interno del nostro comportamento. Vedremo come questa emozione così forte e dirompente possa essere una risorsa e uno stimolo per trasformare noi l'ambiente.

Non possiamo trascurare questa stretta relazione che intercorre tra emozione, ambiente e comportamento. Sappiamo molto bene come le emozioni complicano e diversificano il comportamento, influenzandolo e colorandolo. William James psicologo e filosofo statunitense parla di reazione emotiva, definendola come un potente organizzatore del comportamento, poiché reagendo emotivamente, applichiamo una reazione valutativa e attiviamo la circolazione del campo propriocettivo.

La reazione emotiva diventa il risultato dell'interessamento e della partecipazione del nostro organismo ad ogni singola reazione dell'organo stesso. “Il piacere o il dispiacere in effetti non precedono l'azione, ma essi stessi sono l'azione che porta alla continuazione o alla cessazione dello stimolo”2

( Vjgoskij, 2006, p.146)

Parleremo di violenza, aggressività e di strategie comunicative per riuscire a sostenere i genitori nella relazione emotiva con i propri figli e gli educatori nell'ambiente scolastico.

2.1 Un nuovo cervello

Una grande rivoluzione è stata tracciata dalla scienza, difatti dieci anni fa il dogma della neuroscienza era considerare il cervello un contenitore immutabile, si pensava che gli unici cambiamenti potessero verificarsi nei collegamenti sinaptici e nel decesso dei neuroni a causa del loro invecchiamento. Ora la nuova parola d'ordine della neuroscienza è "neuroplasticità", un concetto che identifica il cervello come un organo che cambia continuamente e grazie alle nostre

1 Susan Hart, Cervello,attaccamento, personalità. Lo sviluppo neuro affettivo, Astrolabio Ubaldini, Roma, 2011 2 L.S. Vygotshij, Psicologia Pedagogica, Erickson, Trento, 2006

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esperienze si stabiliscono nuove connessioni con i neuroni o si creano nuovi neuroni; basti pensare all'allenamento musicale quindi alla pratica costante di un musicista che per anni suona tutti i giorni lo stesso strumento, come possa influenzare lo sviluppo neuronale e sollecitare nuove connessioni cerebrali. Da ciò possiamo dedurre che questa visione duttile del cervello può permetterci di trasformare qualunque cosa, i pensieri, le abitudini e quegli automatismi comportamentali. Per riuscire a liberarci da questi dispositivi automatici, bisogna evidenziare nel cervello la struttura che permette la scelta dei comportamenti. Prima di tutto bisogna comprendere che scegliendo sulla base di alcune preferenze (tra ciò che fa piacere e che ciò che fa dispiacere) riconosciamo le situazioni già vissute e attribuiamo ad esse un significato affettivo, manifestando successivamente l'emozione che stiamo provando.

In questo caso riconosciamo l'importanza del lavoro di Susan Hart psicologa e psicoterapeuta dell'età evolutiva che ha sviluppato e delineato la teoria neuroaffettiva, analizzando il ruolo dei legami di attaccamento nella formazione della personalità dell'individuo e il contributo dei fattori genetici, biologici, culturali e ambientali sulla regolazione affettiva. La psicologa teorizza la "psicologia dello sviluppo neuroaffettivo", basata sull’analisi sistematica di tre livelli: neurobiologico, intrapsichico, interpersonale; integrando così, conoscenze neurologiche, psichiche e relazionali, e combinando diversi aspetti della psicologia dello sviluppo, delle teorie psicodinamiche e delle neuroscienze.3

L'idea di Hart si fonda sulla convinzione che l'evoluzione del cervello, quindi il suo sviluppo influenzi il cervello stesso e la formazione della personalità, per questo sia fattori ereditari sia fattori culturali, e ambientali interagiscono tra loro come elementi inscindibili. In poche parole, lo sviluppo della personalità e la strutturazione del sistema nervoso sono determinate sia dalla eredità genetica sia dall'ambiente e si influenzano a vicenda.

Non è un caso che le strutture affettive nel cervello del neonato si sviluppano grazie alla relazione con il sistema nervoso della figura che si occupa di lui, in un processo essenziale di regolazione degli stati fisiologici e psicologici.

Processi tipici del sistema nervoso sono quelli biochimici, che intervengono nella relazione tra fattori biologici e stimolazioni ambientali. Difatti le stimolazioni percepite dal sistema nervoso, influenzano i neuropeptidi4 (piccole molecole di natura proteica che, liberate dalle cellule nervose in risposta a uno stimolo, mediano o modulano la comunicazione neuronale) e gli ormoni, che sono la

3 S. Hart, Cervello, attaccamento, personalità. Lo sviluppo neuroaffettivo, Astrolabio Ubaldi, 2011 4

Massimo Matelli, Carlo Umiltà, Il cervello. Anatomia e funzione del Sistema nervoso centrale, Il Mulino, Bologna, 2007

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base biologica per il funzionamento affettivo, quindi l'equilibrio di queste sostanze neurochimiche nell'organismo hanno ripercussioni sulle strutture affettive.

Sentirsi accettati è la base fondamentale dello sviluppo psichico e affettivo, pensiamo al momento in cui ci sentiamo profondamente amati, accettati, accuditi e coccolati, proviamo la sensazione di affrontare la vita senza aver bisogno di difese o di protezione, riuscendo a raggiungere, grazie alla relazione d'amore per eccellenza con la madre, uno sviluppo fisico, affettivo ed intellettivo.5 Questa sensazione di accettazione può comparire molto presto nel bambino, quasi nel momento del concepimento e soprattutto nei primi momenti di vita, e nei minuti che seguono la nascita.

Secondo Hart la relazione d'attaccamento agisce in modo determinante sulla organizzazione dell'emisfero destro ed in modo particolare sulle aree prefrontali e sulle strutture limbiche regolatrici della emotività. Queste aree esercitano funzioni essenziali nella gestione dei segnali comunicativi, emotivi, visivi ed uditivi; dall'ultimo trimestre di gravidanza al diciottesimo mese di vita del bambino, queste aree stabilizzano e definiscono le proprie funzioni ed il relativo assetto neuronale.

Il cervello umano nel corso della gravidanza e della crescita, sviluppa in tempi successivi le proprie strutture. Lo sviluppo iniziale del cervello sarà necessario alla pura sopravvivenza e si perfezionerà in seguito sino a ventitré-ventiquattro anni, si affineranno le strutture sofisticate della corteccia prefrontale: orbitofrontale e dorsolaterale, deputate al pensiero e ritenute fondamentali per il continuo rimodellamento dei neuroni e delle connessioni neuronali. Questo rimodellamento prosegue per tutta la vita, neuroni nuovi nascono ad un ritmo di millequattrocento al giorno, nel giro dentato dell'ippocampo; mentre le nuove connessioni neuronali, specifiche per funzioni motorie o di pensiero, prendono il posto di neuroni e collegamenti neuronali la cui funzione non è stata esercitata nel tempo e si auto-estinguono grazie ad un processo programmato geneticamente.

2.1.1 Come funziona il cervello neuroaffettivo

Grazie ad un meccanismo cerebrale che metabolizza e organizza le esperienze emotive, distogliendo l'attenzione da un processo dualistico (piacevole/spiacevole), si apprende che esiste un ventaglio di emozioni che possiamo utilizzare per rispondere ad un evento.6 Non esisteranno più risposte stereotipate o definitive ma potremo agire scegliendo diversi comportamenti, questo grazie

5 Davidson Richard J., Begley Sharon, La vita emotiva del cervello, Ponte alle Grazie, Firenze 2013, 6 Luciano Arcuri, Manuale di psicologia sociale, il Mulino, Bologna, 1995

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ad una consapevolezza percettiva reale che descrive la realtà in base alla nostra storia e vi associa le proprie connotazioni affettive; in questo modo inizia lo sviluppo della personalità.

Grazie alle nostre connessioni cerebrali, le reazioni comportamentali non saranno più automatiche e istantanee ma sensibili alla nostra storia, tenendo conto di tutto ciò che è già stato vissuto. Per questo motivo sono fondamentali i ricordi d'infanzia, poiché sono alla base delle nostre reazioni future.

Il cervello è costituito da due emisferi: il lobo sinistro dirige la parte destra del corpo ed il lobo destro si occupa di quella sinistra, ma per quanto riguarda le emozioni le cose si complicano7. È stato dimostrato da ricercatori e scienziati che il lobo prefrontale destro custodisce le emozioni come la paura e la collera mentre il lobo sinistro regola le emozioni negative, moderando le espressioni del lato destro.

Una delle incredibili scoperte riguardanti l'area frontale del cervello riguarda l'apparizione delle aree associative: miliardi di neuroni hanno come unica funzione quella di mettersi in relazione fra loro, formando un tessuto pieno di circuiti che ci permettono di pensare. Possiamo così associare delle informazioni, paragonarle, gerarchizzarle, analizzarle. Il lobo frontale non solo ci aiuta ad anticipare e avere coscienza dei nostri atti ma ci apre alla coscienza delle emozioni altrui.

La corteccia prefrontale ci aiuta a dirigere la nostra esistenza verso il meglio, quindi verso la capacità di controllo delle emozioni, piuttosto che verso il peggio cioè il distacco da noi stessi, la perdita della ragione, la disconnessione dalla realtà.

Alcune specifiche funzioni del cervello non si svolgono mai in un unico centro, ogni processo psicologico compromette diverse aree; questo permette di comprendere come ogni funzione coinvolga miliardi di cellule e diverse variabilità di commissioni di circuiti coinvolti nella costituzione della personalità dell'individuo. Ci sono alcuni centri che agiscono in completa autonomia funzionale ad esempio la vista e il linguaggio; tutti gli altri centri sono intimamente interconnessi, tra questi indichiamo: il talamo, l'amigdala, l'ippocampo (fanno parte del sistema limbico) e le aree prefrontali; queste interagiscono tra loro e si attivano a vicenda, al fine di gestire le emozioni ed i ricordi.

Il sistema limbico inoltre svolge l'integrazione tra il sistema nervoso vegetativo e quello neuroendocrino. Possiamo affermare che il sistema limbico è un complesso di strutture encefaliche che partecipano all'integrazione emotiva, istintiva e comportamentale, interviene nella modulazione dello stato affettivo di base e dell'ansia, nelle reazioni di paura e quelle aggressive, nei

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comportamenti alimentari e sessuali. Le strutture corticali e sottocorticali8 che lo comprendono sono:

- il lobo limbico, rappresentato da quella porzione di corteccia cerebrale localizzata sulla faccia mediale degli emisferi, a ridosso del tronco cerebrale;

- l'amigdala è una ghiandola del lobo temporale, la dimensione ricorda una mandorla; attribuisce ai fatti delle preferenze;

- l’ipotalamo è il punto di partenza della organizzazione ormonale;

- il talamo rappresenta il centro di smistamento di tutte le informazioni visive, auditive, tattili e somato-percettive; le informazioni che raccoglie vengono inviate all’amigdala;

- l’ippocampo permette la memorizzazione dei fatti e in particolar modo l'immagazzinamento delle informazioni nella memoria. Questo è stato confermato da alcune ricerche che hanno dimostrato come le capacità di memorizzare si sviluppano sicuramente già nel neonato attraverso le coccole oppure tenendolo in braccio, con atteggiamenti amorevoli e premurosi. Nel feto le prime strutture nervose che giungono alla maturazione sono quelle della base del cervello, deputate alle funzioni vitali. Accanto a queste vi sono centri che raccolgono informazioni provenienti dall'esterno del corpo e permettono la sopravvivenza nell'ambiente.

Sin dalla nascita del bimbo l’amigdala è attiva e si occupa della gestione delle emozioni e specificatamente dell’ansia e della paura; assegnano un’intonazione emotiva ad ogni evento percepito dal corpo e ne condizionano la risposta che può avvenire con modalità endocrine, comportamentali o semplice memorizzazione.

Questo processo attraverso il quale si crea un'emozione è rapidissimo, molto più del ragionamento stesso e grazie alla sua immediatezza provoca situazioni spiacevoli.

Il meccanismo con un piccolo esempio: una persona cammina per strada scorge qualcuno che proviene dal senso opposto, istantaneamente l’amigdala riceve l'immagine del viso che si sta avvicinando, analizza i nostri ricordi e detta la risposta: il cuore batte più veloce, i brividi percorrono il corpo, i muscoli si irrigidiscono; in conclusione l'organismo reagisce ancor prima di aver il tempo di identificare la persona.9

Grazie all’amigdala che riceve le informazioni dai cinque sensi, riconosciamo la persona, siamo sereni oppure andiamo sulla difensiva, cambiamo marciapiede poiché la persona che sta venendo verso di noi è colui che ci ha fatto soffrire tanti anni fa.

L’amigdala reagisce ai pensieri, alle immagini, sono legate a tutte le funzioni vegetative, umorali e nervose che partecipano all'equilibrio dell'organismo; inoltre bisogna precisare che le amigdale sono due e svolgono una funzione molto importante: memorizzano l’impronta emotiva data agli

8 Bear Mark F., Connors Barry W., Paradiso Michael A., Neuroscienze. Esplorando il cervello, Elsevier, Milano, 2007 9 S. Hart, Cervello, attaccamento, personalità. Lo sviluppo neuroaffettivo, Astrolabio Ubaldini, 2011

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avvenimenti. Possiamo definire l’amigdala come un contenitore di memoria in cui si immagazzina in forma primitiva le emozioni riguardanti la relazione positiva e negativa con la figura di accudimento,

L’ippocampo registra gli eventi, grazie all’amigdala con la quale è sempre in connessine. Oltre a trasferire le informazioni, l’amigdala assegna agli eventi una certa importanza: se hanno un relativo significato vengono registrati per breve tempo nell’ippocampo e sempre nello stesso, verranno registrati per lungo tempo gli eventi di rilevante significato emotivo.

L’ippocampo svolge una funzione importante per il pensiero, discrimina gli stimoli, colloca gli avvenimenti nello spazio e nel tempo, dando loro una continuità ed una sequenza, dà alla persona il senso biografico della propria storia all’interno del contesto sociale; permette di passare dalla memoria implicita alla memoria esplicita, struttura funzioni consce e logiche. Inoltre l'ippocampo modula la risposta allo stress dell’amigdala ed equilibria la risposta dell'ipotalamo.

Quando il tessuto neuronale dell'ippocampo si impoverisce, il sistema si squilibria e compariranno disturbi della memoria esplicita perché i ricordi impliciti diverranno prevalenti. In questo modo la risposta emotiva allo stress, evocata dall'amigdala, sarà più automatica, nel senso che essendo meno modulata dall'ippocampo, la risposta risulterà meno controllata dalla volontà.

Nei primi mesi di vita del bambino entrano in gioco meccanismi di difesa che cercano di allontanare dalla coscienza le emozioni dolorose, consegnando la gestione delle emozioni all'area dell’amigdala e alla corteccia orbito frontale destra. In queste aree cerebrali le emozioni vengono gestite lontano dalla coscienza e rimangono ad uno stadio primitivo.

Questo delicato processo avviene prima dei tre anni del bambino. In questo stadio di sviluppo del piccolo le esperienze di trascuratezza, abuso di stress sofferto emotivamente, non possono essere riorganizzate cognitivamente dall’emisfero sinistro poiché non ha ancora raggiunto uno stadio sufficiente di sviluppo.

Riassumendo la memoria emotiva (definita memoria implicita, poiché contenuta in un'area cognitiva) viene conservata nell'amigdala e nell'emisfero destro collegato al vissuto del feto e poi del lattante. In queste aree le emozioni rimangono in uno stadio primitivo senza potersi articolare o comporre in sentimenti, a causa del mancato sviluppo dell’emisfero sinistro.

La mancata elaborazione emotiva attraverso una esternalizzazione narrativa o tramite raffigurazioni (poiché manca ancora uno sviluppo cognitivo), provoca un sovraccarico emotivo e conseguentemente si ha un alterato controllo dei comportamenti aggressivi, impulsivi, l’individuo subisce un effetto angosciante e peggiora l’espressione affettiva e sessuale, la regolazione del comportamento alimentare; ovviamente tutto avviene a livello inconscio e genera una sensazione di

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instabilità delle relazioni interpersonali, dell'immagine di sé e dell'umore ed una marcata impulsività.

La psicologa Susan Hart sostiene che i bambini privati di cure, abbandonati, sottoposti ad uno scarso accudimento o a insufficienti stimolazioni sensoriali ed affettive si possono osservare degli effetti simili a quelli che si riscontrano dei bambini traumatizzati, incidendo sulla formazione della loro identità ed è stato evidenziato anche un ridotto sviluppo dell'emisfero sinistro, rispetto ai bambini che hanno potuto godere di cure adeguate.

La consapevolezza della permanenza della figura di accudimento, secondo Hart, comincia a svilupparsi tra i sette e i dodici mesi, ma solo tra diciotto mesi e due anni con l'ulteriore sviluppo dell'ippocampo e della corteccia orbito frontale, il bambino ha la possibilità di consolidare il senso della permanenza dell'oggetto nel tempo e nello spazio. In questa età il ricordo formato nell'ippocampo si trasferisce alla corteccia prefrontale che gli conferisce un significato di memoria. Si sviluppa così, il senso della presenza materna anche quando questa è assente, questo sottende un sufficiente sviluppo della corteccia prefrontale che interiorizza l’immagine e non si associa a nessuna emozione spiacevole; mentre nel caso in cui le aree prefrontali non raggiungano uno sviluppo sufficiente o non siano adeguatamente sviluppate le connessioni cortico-ippocampali, l'assenza della madre viene vissuta emotivamente come una perdita10.

L'emisfero destro rimane dominante fino ai tre anni del bambino, finché egli non acquista una certa autonomia motoria e linguistica. Fino a quel momento l'emisfero destro è profondamente condizionato dal rapporto con la persona che si occupa del piccolo; la madre o chi per lei relazionandosi con il bimbo stimola la capacità dell'emisfero di regolare e di gestire le emozioni, di elaborare emotivamente gli avvenimenti, di cogliere il nucleo essenziale delle situazioni.

Nell'emisfero destro la corteccia cerebrale orbito-frontale è fondamentale nel riconoscere, elaborare e regolare le informazioni emotive fondamentali, questo permette una rappresentazione mentale degli altri e sollecita la percezione del senso di identità, senza il quale sarebbe difficile avere un’emotività corretta e percepire quelle altrui.

Le problematiche associate all'emisfero destro comportano atteggiamenti impulsivi ed iperattivi che ostacolano anche il riconoscimento delle espressioni facciali altrui. Possiamo aggiungere che alcune lesioni nelle connessioni tra le aree prefrontali dell'emisfero destro e le aree limbiche e diencefaliche causano gravi disturbi di personalità.

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2.2 La collera e le sue proprietà

Si potrebbe definire la collera il male del secolo. Guardandoci intorno, sembra che questa emozione sia il leitmotiv di gesti quotidiani: stalking, mobbing, bullismo, ospiti televisivi che urlano in tv, conduttori che costruiscono a tavolino conflitti, reality show realizzati con lo scopo di far arrabbiare i partecipanti. È diventato difficile anche sopportare i rumori dei vicini. Tanto che spesso si prende la pistola e si spara contro di loro.

Ci capita di sentire persone che affermano ".... Ultimamente sempre più spesso ho degli scoppi d’ira nei momenti sbagliati. Anche se cerco di controllarmi, non ci riesco….". Si vive questa emozione sentendola invadente e frustrante, condizionando l'incapacità di riuscire a gestirla. Ed è proprio questo il problema: quando arriva la collera deve essere vissuta, poiché se viene soffocata continuerà a ribollire come un vulcano e finirà per uscire nei momenti meno opportuni.

La maggior parte delle persone esprime la propria aggressività quando pensa di subire un torto, sfogando verso l'esterno il proprio sentire e innescando un litigio; altri invece, la reprimono o la trattengono, aumentando così la probabilità che la rabbia inespressa diventi malattia.

Cinzia Tani giornalista e scrittrice insieme a Rosario Sorrentino, neurologo e componente della American Academy of Neurology e Post Doctoral Research Fellow alla Columbia University of New York, hanno dato una spiegazione alla collera definendola "un’emozione primaria come la gioia e il dolore, che fa parte delle emozioni fondanti dell’essere umano e ci accompagna, in modo più o meno costante, per l'intero corso dell’esistenza".11

( Tani e Sorrentino, 2009, p.33)

La collera può essere anche un segnale di allarme che ci avverte di una minaccia dall’esterno, ma anche qualcosa che in quel momento sta prendendo il sopravvento dentro di noi, nel nostro intimo. E’ un’emozione che non ha sempre una connotazione negativa: infatti, può stimolare verso il raggiungimento di un traguardo, può essere la spinta per agire e reagire nei confronti di circostanze per noi spiacevoli; altre volte può trasmettere la sensazione insopportabile di aver subito un’ingiustizia e in quel caso ci dà la carica per cercare di ottenere il rispetto dagli altri e di noi stessi.

Se la usiamo per conquistare un traguardo, rafforzare una decisone, combattere un’ingiustizia, non ci nuocerà, ma se invece è solo un modo di reagire alla frustrazione, causando ripetute ferite fisiche o psichiche agli altri e a noi stessi, sarà ovviamente dannosa.

Quando una persona non riesce a controllare la collera, il problema non riguarda l'incontrollabilità emotiva ma l'inefficacia stessa dell'emozione di non riuscire ad ottenere ciò per cui la collera esiste

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ed è emersa, questo ci può far riflettere sull'esistenza di altre emozioni connesse alla collera, in quel momento.

Diversi psicologi affermano che l'errore più comune è pensare che ogni stato d'animo sia isolato dagli altri: nessuno è solo arrabbiato, solo triste o sono felice. Coesistono più emozioni quando viviamo un evento e per riconoscerle e distinguerle è utile attuare un processo di consapevolezza di ciò che proviamo e prenderci il tempo necessario per viverlo.

La collera fa parte della triade dell’ostilità insieme al disgusto e al disprezzo. Tali sentimenti si presentano spesso in combinazione e pur avendo origini, vissuti e conseguenze diverse risulta difficile identificare l’emozione che predomina sulle altre, ma possiamo affermare che hanno una stretta relazione fra loro.

Molti sono i termini linguistici che si riferiscono alla collera: rabbia, esasperazione, furore ed ira e rappresentano lo stato emotivo intenso della collera; altri invece esprimono lo stesso sentimento ma con intensità minore, come: l’irritazione, il fastidio, l’impazienza.

Sappiamo chela collera provoca degli effetti, reazionie più si favorirà questa emozione rispetto alle altre, più facilmente e rapidamente si ripresenterà in modo naturale in futuro: questo avviene facilitando quei processi neuronali che sottendono l'emergere dell'emozione della collera, creando delle abitudini che formano il nostro carattere e temperamento. La creazione dell'abitudine è data a livello neuronale, in quanto, ogni volta che si ha un passaggio di informazioni (stimoli, percezioni) si produce una proteina che andrà a sviluppare e stimolare le connessioni neuronali, se vengono percorse sempre le stesse connessioni (reazione emotiva collerica), incoraggiandole così a svilupparsi maggiormente rispetto ad altre, si avrà un più rapido l'impulso nervoso (avrò una rapida reazione collerica, perché scelgo sempre questa via)12.

Tuttavia la struttura del nostro cervello non è rigida, i circuiti cerebrali continuano a cambiare in funzione delle nostre attitudini ed esperienze. Il carattere dell'individuo diviene il risultato dell'interazione tra il genoma dell'essere umano e la sua storia personale, non bisogna attribuire troppa importanza né al primo aspetto né al secondo. Il nostro modo di reagire emotivamente al mondo che ci circonda è sia innato sia acquisito, si modifica nel tempo ed in ogni momento perché influenzato da una serie di cambiamenti interni ed esterni.

2.2.1 Aggressività

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L'aggressività è considerata da molti specialisti una dimensione innata, dal momento che è necessaria per la sopravvivenza. Altri studiosi confondono il termine aggressività con violenza, attribuendo a quest’ultima una connotazione innata e naturale appartenente all'uomo.

La parola aggressività deriva dal latino: ad-gredior (andare verso) è dunque l'andare dell'essere, il suo slancio vitale. Erich Fromm in questo caso ci aiuta a comprendere la distinzione tra aggressività difensiva (processo adattivo innato, al servizio dell'individuo e della specie) e distruttiva che rappresenta una crudeltà specifica della specie umana. Quest'ultima è del tutto inesistente nella maggior parte dei mammiferi, la distruttività è paragonabile alla violenza.13

L'aggressività difensiva è l'energia messa al servizio del bisogno di affermazione di sé, di amore e di realizzazione; è necessaria alla difesa di sé, dei valori e dei propri limiti.

Nei bambini piccoli troviamo una certa aggressività che è normale, fa parte dello sviluppo e raggiunge il suo culmine verso i due anni. In questo periodo il bambino costruisce il sentimento della sua identità, prova i suoi limiti, ed i comportamenti aggressivi sono delle reazioni a pulsioni che non sa ancora elaborare. Quando il piccolo esprime possesso per gli oggetti e non vuole condividerli con nessuno cerca di trasmettere una affermazione di sé14, cerca di reagire ad una minaccia di frustrazione, si protegge contro il dolore della privazione, possiamo dire che rappresenta una aggressività difensiva verso il controllo del suo spazio, degli oggetti e verso il coinvolgimento emotivo con i genitori. Il bambino di due anni non riesce ancora a gestire i suoi impulsi, quando fa del male non è cosciente di quello che infligge agli altri poiché non è ancora capace di distaccare l'attenzione da sé per mettersi al posto degli altri15.

Esterna la rabbia e la paura, così facendo prova la sua capacità di ferire ed esercita un potere sull'adulto, ma adottando questi comportamenti aggressivi incontra degli ostacoli: i genitori non sono contenti; le vittime piangono o rispondono picchiando. Da queste reazioni il piccolo comincia a credere nell'esistenza dell'altro diverso da sé, impara a considerare gli altri e la loro realtà, impara a dialogare ed a negoziare. Il bambino non potrà imparare a capire i suoi sentimenti e a gestirli se le risposte dei genitori sono violente o se viene punito per i suoi atti aggressivi, senza avere la possibilità di instaurare un dialogo tra adulto e sé stesso.

Per evitare la violenza è necessario instaurare un dialogo. Esiste un linguaggio violento ma anche un linguaggio non-violento, quello che ascolta, rispetta, riconosce l'altro, condivide le emozioni, esprime i suoi bisogni. Il linguaggio della non-violenza permetterà al bimbo di riconoscere e condividere le proprie emozioni ed evitare ogni giudizio.

13 E.Fromm, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, 1983

14 Winnicott Donald, Psicoanalisi dello sviluppo, Armando Ed., Roma, 2004

15L.S.Vygotskij, Psicologia pedagogica. Manuale di psicologia applicata all’insegnamento e all’educazione, Erickson Ed., Trento, 2006

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2.2.2 “V” di Violenza e “V” di Vendetta

Le prime definizioni del termine emozione sono risalenti ad un trascorso filosofico e storico associato ad Aristotele, egli affermava: "Colui quindi che si adira per ciò che deve e con chi deve, e inoltre come, quando e per quanto tempo si deve, può essere lodato!"16(Aristotele, 1986, p.354) Nell’Etica Nicomachea Aristotele compie un'indagine filosofica sulla virtù, la personalità e la vita retta. Aristotele pensa di controllare la vita emotiva con l'intelligenza. Le passioni, quando ben esercitate, hanno una loro saggezza: guidano il nostro pensiero, i nostri valori, la nostra stessa sopravvivenza. Le persone possono facilmente impazzire e Aristotele capiva che il problema non risiede nello stato d'animo in sé ma nell'appropriatezza dell'emozione e della sua espressione. Aristotele difende l’idea che la collera associata ad una reazione vendicativa è eticamente encomiabile, e degna di rispetto ed onore. Questo perché secondo il filosofo una persona viene ritenuta virtuosa quando esprime la collera nel momento giusto, nel modo giusto e verso la persona giusta, allora possiamo definire questa emozione giustificabile; mentre colui che non reagisce alla collera con un atto vendicativo, è una persona sottomessa e quindi merita di essere umiliato. Secondo Aristotele le condizioni necessarie per attuare una reazione vendicativa sono le caratteristiche nobili e forti della persona, nel caso in cui la persona non reagisce con atti vendicativi è considerata un debole, un sottomesso.

Seneca in opposizione ad Aristotele afferma che una persona virtuosa non è dominata dalla collera, non fa parte della sua anima.17

Quando si subisce un torto si può scegliere, attraverso un'analisi emotiva e grazie ad un processo cognitivo e quindi non istintuale, di reagire in modo vendicativo o meno, di sentirsi vittima o no. Socrate riflettere sulla scelta che può fare l'individuo, cioè se vendicarsi o meno, e può verificare se l'azione subita è stata intenzionale o meno e porre attenzione nei riguardi di chi ci ha danneggiato. Aristotele afferma che la reazione vendicativa è giustificabile nel momento in cui l'altro si assume la responsabilità di aver commesso intenzionalmente il danno.

Altro illustre filosofo contemporaneo, Charles L. Griswold cerca di verificare quando la reazione vendicativa viene vista come eticamente giusta.18

Cerca di fare una lista di condizioni che giustificano la vendetta come appropriata. Si parte dal presupposto che la vendetta riguarda aspetti personali e soggettivi e si giudicano gli atti subìti come azioni intenzionali ed intenzionate a infliggere una sofferenza.

16 Aristotele, Etica Nicomachea, BUR , 1986 17

N. Liii, Passion and Emotions, Ed, J.E.Fleming, 2012, in particolare è stata affrontata il capitolo: The nature and ethics of vengeful anger

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Quindi la vendetta è ammessa: contro le persone che sono direttamente responsabili della nostra sofferenza; quando l'altro non prova pentimento, non chiede perdono e non si assume la responsabilità del danno inflitto; allo stesso modo, la vendetta non è giustificabile per accrescere la propria autostima, poiché in questo caso il problema da affrontare non è il torto subito ma la scarsa autostima che si ha di sé, quindi se la vendetta si infligge per provare soddisfazione e godimento si cede alla pura crudeltà.

È naturale provare collera e desiderare di vendicarsi ma questo non significa che la vendetta è sempre giustificabile. Queste poche indicazioni sopra citate si possono utilizzare, secondo Griswold per ricavare una guida che possa far riflettere su quale sia la scelta migliore da seguire.

Una reazione può essere ritenuta giusta solo se viene confrontata con ciò che provo, quindi comprendo l'emozione che sto vivendo, attraverso un processo cognitivo per arrivare a scegliere cosa è meglio fare.

La violenza non è direttamente legata all'ingiustizia, alla frustrazione, quanto all'impotenza di gestire le proprie emozioni in situazioni difficili, alla difficoltà di esprimere i propri bisogni e di avere soddisfazione. Dietro alla violenza c'è l'impotenza.

La violenza non è collera ma il fallimento della collera; mentre l'odio è l'accumulazione di sentimenti di ingiustizia, di sconforto e di frustrazione che non hanno trovato via di uscita.

Quando non riusciamo ad affermarci, ad essere ascoltati, a risolvere un problema, ci sentiamo impotenti, inermi, proviamo vergogna e cresce dentro di noi il risentimento. I troppi bisogni non soddisfatti, la mancanza di potere e di controllo sulla vita sono all'origine della violenza.

La violenza dilaga anche nella scuola, esistono casi in cui i bambini reagiscono all'autorità: al preside, alle insegnanti, verso gli stessi compagni; spesso si accusa la disoccupazione, la crisi economica, di valori e manca un senso di giustizia, di rispetto, di prospettive future. Spesso dimentichiamo quanti bambini sono stati colpiti e violati fisicamente, danneggiati psicologicamente da insegnanti, genitori e tutte queste sofferenze che non sono state ascoltate si trasformano in odio. La violenza dei bambini è una reazione alla violenza istituzionale19 che subiscono ed è anche l'espressione di un rancore rivolto contro dei genitori che non sanno essere tali; è un rancore rivolto verso la società che addomestica le menti e controlla gli atteggiamenti degli esseri umani.

Quando le esigenze, i bisogni non vengono ascoltati, si sceglie un unico canale per esprimerli: la violenza poiché rappresenta l'ultimo tentativo di trasmettere un messaggio, diviene uno sforzo disperato per combattere la terribile impotenza per farsi ascoltare.

19 N. Liii, Passion and Emotions, Ed J.E.Fleming, 2012, in particolare è stata affrontata il capitolo: The nature and ethics of vengeful anger

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Reprimere la necessità di essere ascoltati, il desiderio di comunicare e di dialogare con le proprie emozioni e riuscire a renderle visibili sembra impossibile, e questa impossibilità aumenta un senso di frustrazione e assegna potere ed energia alla collera.

Ogni essere umano ha il diritto e il bisogno di essere ascoltato, di poter gestire la propria vita e sentire il potere che si ha su di essa.

È molto difficile accompagnare il bambino nella sua crescita, è spesso faticoso, esasperante ma non dobbiamo sottovalutare la violenza e l'ingiustizia, altrimenti rischiamo di alimentarla. Bisogna sostenere il piccolo ad esprimere la propria sofferenza, la collera in modo da sentirsi libero e artefice della propria vita.20

La collera è una delle emozioni più difficili da gestire, poiché trasmette una forte energia, ci sentiamo potenti e possiamo sentire un certo piacere nel dominare gli altri; difatti quando percepiamo un senso di potere e lo esercitiamo, la violenza è il passo successivo.

Di solito l'adulto non vuole vedere la rabbia provenire da se stesso, veste i panni di un giustiziere, giustifica il suo comportamento autoritario, fermo, imponente per correggere gli altri ed imporsi su di loro.

Una persona tiranna esprime con più facilità il desiderio di ammazzare e torturare, piuttosto che mettersi in discussione e lasciar emergere i maltrattamenti e le umiliazioni subite nella propria infanzia. È molto più facile umiliare, offendere, uccidere, torturare che riesaminare quel senso di impotenza e collera emerso dalla relazione con i genitori.

Quando si picchiano i propri figli o si litiga con il marito, bisogna ricordare che sono tutti tentativi di vendicare ciò che ci è successo da piccoli. Difatti quando l'aggressore è più forte, la vittima deve sottomettersi reprimendo la propria collera, solo quando la vittima sarà in una posizione di potere potrà approfittarne per liberarsi dalla sua collera e qualsiasi essere vulnerabile può farne le spese. In precedenza abbiamo visto come di fronte ad un evento le emozioni che si provano sono diverse e allo stesso tempo esprimono una intensa connessione fra loro. Quando proviamo collera, allo stesso modo possiamo provare tristezza, angoscia, disprezzo, odio e altre. In particolare sull'ultima emozione è molto particolare e influenzata da una percezione soggettiva dell’evento; possiamo odiare qualcosa o qualcuno senza esserne coinvolto personalmente, quindi non è per forza associato ad un dolore ad una sofferenza intima. Mentre, la collera scatena una reazione vendicativa ed ha una relazione molto stretta con la nostra intimità, con il nostro sistema valoriale e con il nostro corpo poiché quest'ultimo manifesta contemporaneamente e concretamente un cambiamento fisiologico ed endocrino.

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Sia la vendetta sia il perdono sono legati ad un processo di memoria, difatti l'entrambe possono manifestarsi successivamente all'emozione che si sta provando, quindi possiamo spostare nel tempo la reazione associata all'emozione di collera che abbiamo provato in precedenza.

Al desiderio di vendetta sottostà un desiderio più profondo, quello che l'altro subisca e senta più sofferenza rispetto a quella che io ho subito; l'intento è dare una lezione, creare più sofferenza di quella che ho provato, ma non in modo improvvisato e caotico, difatti la vendetta è studiata, preparata, organizzata, non è una rappresaglia spontanea e furiosa.

Attuare una reazione vendicativa significa constatare di aver subito qualcosa di negativo, e si agirà approvando la classica legge del taglione: tu fai del male a me ed io lo faccio a te con maggiore forza e impeto. Questo tipo di reazione non è pienamente soddisfacente, nel senso che dopo aver inflitto la punizione all'altro, questo non farà stare meglio perché la punizione non sarà mai abbastanza, neanche un giudizio del tribunale potrà soddisfare il malessere e la sofferenza che sottende la vendetta. Il turbamento emotivo è dato dall'impotenza di non poter correggere il male ricevuto, niente e nessuno potrà restituire ad una madre la figlia morta, la vendetta non aiuta a tornare indietro nel tempo, non soddisfa e placa la sofferenza e la collera che si prova.

Vi è un altro aspetto da associare all’emozione collerica che provoca una reazione vendicativa, si tratta dell'autostima. Attuare una reazione vendicativa significa essere consapevole dell'evento subito, e questo mette in gioco l'aspetto dell’autostima. Facendo l'esempio degli atti di bullismo può apparire più chiaro questo concetto, poiché colui che vuole vendicarsi andrà a colpire i soggetti che hanno una scarsa autostima di sé, in questo modo accrescerà l'autostima del vendicante a discapito di chi subisce.

La vendetta può essere utilizzata per acquisire più autostima di sé, può servire per giocare alla pari con chi ci sta minacciando, sembra che aiuti, ma in realtà incita solo a far del male agli altri, e crea ancor più disequilibrio tra il più forte e il più debole; è un'illusione pensare di accrescere la nostra autostima e provare una soddisfazione personale nel attuare una strategia vendicativa.

2.2.3 La collera accende la vita

La collera incontrollata influenza le relazioni e quella trattenuta influenza la salute ma guardarla senza giudicarla permette di trasformare la collera in energia creativa.

Le manifestazioni frequenti di collera allontanano gli altri, mentre trattenerle a lungo condiziona il nostro stato di salute, rischiando di ammalarci e trasformando la collera repressa in malattia psicosomatica, spesso a carico dello stomaco o della pelle. Trattenerla significa rischiare di provocare atteggiamenti esplosivi con il rischio di danneggiare noi stessi, gli altri o all’ambiente.

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La collera è un sentimento che deve essere trattato nel modo giusto, poiché causa problemi non solo a noi. Eppure nonostante apparteniamo ad una società civile che ci guida verso un’etica, un’educazione civica, dei valori morali è comunque difficile gestirla21

. Viviamo quasi un paradosso poiché siamo evoluti, pieni di buone intenzioni e sentimenti nobili ma come risulta da diverse psicoterapie, la collera mal gestita e mal espressa è uno dei problemi principali del nostro tempo. Come dicevamo è difficile gestirla poiché subentrano diversi stati emotivi che la arricchiscono e le danno forza come: l’insofferenza prolungata, il malcontento, la sensazione di non essere amati o ascoltati o considerati, un forte senso di ingiustizia, il narcisismo ferito, il rancore inespresso, il rimuginare sospettoso, l’affermazione negata e tanto altro ancora.

La collera possiamo tradurla con una semplice frase: “c’è qualcosa di cui non ne posso più!”.(Filliozat, 2002, p57) Si esprime un no forte rivolto ad una certa situazione, un no che non ha avuto l’opportunità di esprimersi nel modo giusto e al momento giusto, per mille motivi più o meno validi e si è gonfiato smisuratamente fino ad esplodere.

Se riflettiamo bene sulla collera, scopriamo che spesso viene dal passato. Chi è sempre arrabbiato o si arrabbia facilmente non ha potuto o non è riuscito a difendersi da situazioni che lo hanno fatto sentire solo, annientato, inferiore. L’evento che gli fa scattare la collera oggi è una sorta di eco di quella ferita e questo va riconosciuto al più presto. L’importante è riuscire a tradurre ciò che la collera ha da dire in una richiesta, viene espressa nel presente, lasciando alle spalle il passato22. Esistono diversi modi per incanalare la collera: attività sportive, ludiche in cui si vive una sana competizione che può stimolare la motivazione a migliorare e a integrarsi con gli altri.

Il punto importante da comprendere a proposito della collera è che, nonostante venga spesso etichettata come emozione negativa, da evitare in noi come negli altri, di fatto diventa negativa e soprattutto distruttiva, quando non viene riconosciuta e usata in modo inappropriato nel momento in cui emerge, e viene repressa con conseguenze dannose non solo per se stessi.

Spesso gli adulti insegnano e giudicano il bambino cattivo e sbagliato quando esprime la collera ed ancora oggi viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività, alla violenza e al capriccio.

Spesso le persone sono spaventate dalla propria collera, temono di compiere azioni sconsiderate e di conseguenza, si rifiutano di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita di esprimerla. Reprimendo la collera aumenteranno le probabilità che esplodi in momenti inopportuni e soprattutto verso persone e situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della stessa; da qui è facile comprendere come nasca il bullismo, poiché i deboli sono un bersaglio facile.

21

Rosenberg B.M., Le sorprendenti funzioni della rabbia, Ed Esserci, Reggio Emilia, 2006 22 B.M. Rosenberg, Le parole sono finestre oppure muri, Ed Esserci, Reggio Emilia, 2003

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È importante riconoscere la collera quando emerge, poiché usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in sé stessi in quanto non è necessario che si arrivi ad una esplosione vulcanica affinché si esprima. Riconoscerla in tempo significa che si sta attivando un meccanismo di protezione che ci segnala che c’è qualcosa che non va: una insoddisfazione data da una frustrazione che giudichiamo inaccettabile: qualcuno gli sta facendo del male; i nostri diritti vengono violati; i nostri desideri e bisogni non sono soddisfatti. Dunque in qualunque modo venga espressa, agisce comunque come segnale d’allarme23

.

2.2.4 Diverse strategie per trasformare la collera

Possiamo attuare diverse strategie per placare questa emozione: telefonare ad un amico per raccontargli l’accaduto e smaltire così il primo strato di collera e magari osservare la situazione sotto un altro punto di vista e comprendere profondamente come ci si sente.

Per fare chiarezza dentro di noi e stabilire con l’interlocutore un equilibrio emotivo, lo psicoterapeuta americano Thomas Gordon ha elaborato il sistema dei cosiddetti “messaggi-io”, e non solo24.

Thomas Gordon, psicologo clinico stretto collaboratore di Carl Rogers, propone la filosofia rogersiana in un linguaggio concreto e operativo con l’intento di rendere accessibili ed utilizzabili dal vasto pubblico alcune delle abilità psicologiche che caratterizzano il setting psicoterapeutico. Gordon mette a punto e condivide delle abilità di comunicazione e di risoluzione dei conflitti interpersonali che, attraverso un approccio strutturato, rendono le persone e i gruppi più efficaci. Descrive un programma per i genitori in cui indica le condizioni necessarie per favorire lo sviluppo integrale della persona, individuando tre punti cruciali:

a. chiarezza dei messaggi espressi in prima persona; b. attitudine all’ascolto;

c. rispetto dei valori e delle aree di libertà delle persone.

Il clima è quello rogersiano: grande importanza rivestono l’accettazione, l’autenticità, l’empatia, la corretta comunicazione nel rapporto fra adulti e bambini al fine di promuovere l’autofiducia, l’autocontrollo, l’autodisciplina, la creatività, sviluppando così negli studenti il senso di autonomia e di responsabilità.

23 Rosenberg B.M., Le sorprendenti funzioni della rabbia, Ed Esserci, Reggio Emilia, 2006 24 T.Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani, Teramo, 1991

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Genitori, maestri e professori non sono stati preparati a comunicare efficacemente, e a trovare soluzioni ai conflitti senza che i contendenti ne escano o vincitori o vinti. Si rapportano in modo sbagliato, bloccano la creatività del bambino, ne diminuiscono la fiducia in sé stessi, finiscono, così, col favorire la dipendenza anziché l’autonomia e con il controllare l’azione anziché promuovere lo sviluppo e l’iniziativa personale. Nessuno ha insegnato a maestri e professori a impostare una valida relazione con gli allievi e a gestire le dinamiche interne di una classe. Gordon si propone, quindi, di insegnare a impostare una relazione efficace con gli studenti, ed a gestire le dinamiche interne di una scolaresca attraverso:

- procedimenti che portano l’insegnante a “trasformare sé stesso” nel modo di trattare con gli allievi;

- insegnare ai docenti ad incoraggiare e stimolare maggiori responsabilità nei giovani a loro affidati25.

Inoltre Gordon propone una tecnica relazionale, definita Messaggio-Io molto interessante e molto simile all’idea di Comunicazione Non Violenta di Rosenberg, si basa sul principio di parlare di sé, definendo con precisione alcuni tratti di noi stessi, in questo modo entrambe le parti, sia l'adulto sia il bambino, sono in contatto con i reciproci vissuto personali:

1. quando tu… (definendo con precisione ciò che ci ha disturbato); 2. mi sento… (raccontando le nostre emozioni);

3. perché io… (condividendo le nostre aspettative);

4. e io ti chiedo di… in modo da… (esprimendo i nostri bisogni attuali e le motivazioni). Di pari importanza sono altre due tecniche che Gordon propone per modificare il proprio atteggiamento e incoraggiare anche gli altri a farlo:

- l’ascolto attivo;

- la risoluzione dei conflitti con il metodo del problem solving.

Tutti e tre questi processi: Messaggio-Io; ascolto attivo e problem solving, sono necessari nell'instaurazione di relazioni efficaci, nel ridimensionare l'evento conflittuale, nel creare nuovi spazi in cui riconoscere se stessi e agli altri, nel riconoscere l'altro come un essere potenzialmente ricco di creatività, passioni, inventiva. In particolare l'ascolto attivo presuppone, uno sforzo da parte dell'adulto di usare un nuovo vocabolario, evitando parole come controllare, ordinare, punire, esigere, porre dei limiti ed altre, a favore di uno nuovo, caratterizzato dall’uso di parole quali collaborare, ascoltare, confrontarsi, andare d’accordo e altre. L’ascolto attivo presta una attenzione totale al soggetto, al quale si restituisce a livello verbale e non verbale un feedback, facendo

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comprendere al soggetto che l'adulto è in una posizione di ascolto, incoraggia a il bambino a proseguire nel dialogo ed infine l'adulto che riflette il vissuto del bambino senza giudicarlo.

Il successivo metodo del problem solving aiuta a risolvere alcuni conflitti, solitamente molto complessi, e per affrontarli si seguono delle fasi: si espone il problema, si fanno alcune proposte di soluzioni, si valutano gli aspetti negativi e positivi di queste proposte, successivamente si sceglie la proposta più idonea, si cerca di attuarla e infine si verificano i risultati. Questo è un metodo per risolvere i conflitti in modo che non ci siano né vincitori né vinti, l'obiettivo è installare nuovi processi di risoluzione dei problemi sia in famiglia sia nell'ambito scolastico. La caratteristica di tale metodo consiste nel vedere il conflitto come un problema da risolvere, pertanto si ricercano attivamente le soluzioni. In questo caso i conflitti sono considerati normali avvenimenti, non pericolosi o distruttivi, bensì naturali e positivi; il conflitto e la sua risoluzione permettono il consolidamento e rafforzamento del rapporto tra insegnante-alunno e genitore-figlio.

Il beneficio di esprimere la collera va oltre il sollievo di togliersi un peso, significa ridefinire le relazioni con se stessi e con gli altri.26

2.3 Educazione ai sentimenti

Educazione significa cambiamento, se non ci fosse niente da cambiare, non ci sarebbe niente da educare. Abbiamo visto che ogni sentimento è il meccanismo stesso della reazione, cioè una certa risposta dell'organismo a un qualsiasi stimolo dell'ambiente.

Per il pedagogo/educatore non ci possono essere emozioni inaccettabili e indesiderabili, al contrario, egli deve sempre fare affidamento sui sentimenti cosiddetti inferiori, egoistici, come su quelli più importanti, fondamentali e forti, per sostenere il fanciullo nel costruire il carattere emotivo della personalità. Deve cadere la distinzione tra sentimenti inferiori e superiori, egoistici e altruistici, negativi e positivi, poiché qualsiasi sentimento ha un significato, un valore e l'educatore può utilizzarlo per direzionare educando verso altri stimoli.

L'educazione dei sentimenti si configura sempre come una loro rieducazione, cioè cambiamento della direzione della reazione emotiva innata.

Esiste un meccanismo psicologico nell'educazione dei sentimenti e riguarda: le reazioni emotive; la loro particolare struttura e i modi diversi in cui si esprimono queste reazioni, una volta dati determinati stimoli. Ad esempio il sentimento della paura provato dal bambino, è associato ogni volta ad una circostanza, che da sola, sarà capace in seguito di provocare nel bambino la paura. Il sentimento della paura può essere associato ad altri sentimenti che non sono stati espressi o ascoltati dalla persona, ad esempio può essere associato al sentimento di dolore, dispiacere e così

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via. Basti pensare alla cosiddetta reazione preventiva: il bambino per la prima volta tende fiduciosamente le mani verso una fonte di calore ma una volta fatto e dopo aver provato dolore per aver toccato il fuoco compare una seconda emozione, la paura. Il dolore fortemente vissuto ha provoca la reazione di paura, e immediatamente verrà associato al fuoco la relazione tra queste due emozioni. Quindi l'effetto emotivo di certi eventi e determinate reazioni risultano essere la causa dell'attivazione di un'intera serie di nessi emotivi27.

Le emozioni vanno considerate come un sistema preventivo di reazioni che comunicano all'organismo il suo immediato comportamento futuro e ne organizza le forme.

Per il pedagogo le emozioni diventano uno strumento estremamente prezioso per l'educazione alle diverse reazioni.

Il comportamento più significativo è quello collegato alle emozioni, se vogliamo suscitare, provocare alcune forme di comportamento necessarie, dobbiamo fare in modo che le reazioni lascino in lui una traccia emotiva. Le reazioni emotive esercitano una grande influenza su tutte le forme del nostro comportamento e sui momenti del processo educativo.

Proviamo a pensare come possa essere più significativo educare attraverso un lascito emotivo intenso; l'apparato delle emozioni è come uno strumento specificatamente adatto e preciso, attraverso cui è più facile incidere sul comportamento. Se desideriamo ottenere dagli alunni una migliore memorizzazione o un lavoro soddisfacente, dovremmo provvedere a stimolarli emotivamente28.

La ricerca ha dimostrato che un evento arricchito emotivamente inciderà molto di più sulla crescita del soggetto, di uno che risulta emotivamente indifferente.

L’educatore si deve impegnare affinché gli allievi riflettano e apprendano una materia ma anche che la "sentano". Ciò non avviene spesso e l'insegnamento decorato da una sfumatura emotiva è raro. Prima di comunicare una certa conoscenza, il maestro deve provocare un'adeguata emozione nell'alunno e provvedere affinché questa emozione sia collegata al nuovo sapere. Così verrà impresso soltanto quel sapere che è passato attraverso il sentimento dell'alunno. Ogni nozione deve essere preceduta da una sorta di sete di conoscenza.

Per quanto riguarda l'educazione delle emozioni, il compito pedagogico essenziale è quello di controllarle e integrarle nella rete complessiva del comportamento, in modo che esse, strettamente legate a tutte le altre, non irrompano nel processo di apprendimento in modo alterato e disordinato.

27 L.S.Vygotskij, Psicologia pedagogica. Manuale di psicologia applicata all’insegnamento e all’educazione, Erickson Ed., Trento, 2006

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Psicologicamente, la capacità di padroneggiare i propri sentimenti non è altro che la capacità di dominare le loro espressioni esteriori, le loro reazioni.

In questo modo, il sentimento viene disciplinato solo attraverso il controllo della sua espressione motoria, imparando ad esempio a non esprimere smorfie quando si assaggia qualcosa di orripilante, vincendo così sullo stesso disgusto. Questo deriva dal potere straordinario che lo sviluppo dei comportamenti coscienti e la loro gestione hanno sull'educazione dei sentimenti.

La padronanza delle emozioni è il problema di ogni processo educativo ed a prima vista può sembrare soppressione del sentimento, in realtà significa accoglienza del sentimento e collegamento con altre forme di comportamento e di orientamento29.

Il gioco rappresenta il miglior meccanismo educativo dell'istinto ed è la forma ottimale di organizzazione del comportamento emotivo. L'attività ludica del bambino è sempre emotiva, risveglia in lui sentimenti forti e chiari e li impegna a coordinare le emozioni con le regole del gioco e con il suo scopo finale.

2.3.1 Potere e obbedienza

Il rifiuto delle emozioni è fortemente legato al senso di potere e sottomissione.

Nella storia abbiamo vissuto momenti in cui il potere esercitato verso cittadini ed esseri umani era così forte da imprimere nel nostro cervello la necessità di non ascoltare le conseguenze e i sentimenti associati alle azioni dure e crudeli. Pensiamo alla seconda guerra mondiale, all'Olocausto in cui la sottomissione di pochi al potere ha permesso un massacro umano di proporzioni indescrivibili.

L'obbedienza30 è la forza delle società gerarchiche, la otteniamo ammaestrando i bambini fin da piccoli, a costo di soffocare le loro emozioni primarie.

Una delle sfide che oggi si trova a compiere l'educazione riguarda l'insegnamento del rispetto dell'altro e non più della sua sottomissione, l'insegnamento dell'empatia piuttosto dell'obbedienza. Bisogna rivoluzionare sé stessi prima di promuovere una rivoluzione umana globale.

Alla parola potere è interessante affiancare la parola civilizzazione che ha come sinonimi: progresso, evoluzione, avanzamento, luce; una civilizzazione umana dovrebbe sviluppare il senso civico, cioè il rispetto dell'altro e della comunità. I bambini diventano portavoce di questa nuova civilizzazione, essi imitano i comportamenti dei genitori, imparano in modo naturale il rispetto e la buona educazione, questo se i genitori sono educati e rispettosi nei confronti dei piccoli.

29

Daniel Goleman, L’intelligenza emotiva, BUR, Milano,2013

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Se il rispetto diventa un dovere, vuol dire che è stato trasmesso con delle minacce e con il terrore; l'educazione fatta attraverso la paura o gli ordini non crea senso civico, ma una civiltà servile. Spesso i bambini se obbligati, rifiutano di fare quello che farebbero spontaneamente. Difatti gli adulti intervengono con molta insistenza per farli interagire o per mettere fine ad un conflitto, ad esempio la contesa di un gioco, obbligando il bambino ad agire come l'adulto desidera ed immancabilmente la situazione degenera. I bambini si aggrediscono, si rubano i giochi, forse perché sono resi insicuri da adulti che intervengono troppo; spesso i grandi dimenticano che i bimbi, per piccoli che siano, necessitano di un elemento fondamentale "la Libertà".

2.3.2 Insegnante e alunno

L'attività educativa scolastica trasmette tradizioni, credenze, pratiche della comunità, forgia le opinioni collettive, lasciando più o meno spazio all'opinione personale. Spesso la scuola non insegna ai ragazzi di pensare da soli, la grande preoccupazione è quella di far entrare delle nozioni nella testa degli allievi e di insegnar loro a pensare come pensano tutti.

I diversi argomenti che vengono discussi a scuola riguardano diverse discipline, ma nessuno di questi parla della collera, delle emozioni, della gestione nonviolenta dei conflitti, non si parla dell'affettività e di come gestirla.

Per avere successo nella vita il Q.I.(Quoziente Intellettivo) non basta, ciò che ci permette di fare la differenza non sono solo le competenze, ma anche e soprattutto la capacità di gestire le nostre emozioni e di comunicare.

Le emozioni hanno un linguaggio ed una grammatica che sarebbe molto utile imparare, poiché difficilmente qualcuno ci insegna a: parlare in pubblico, vincere la timidezza, rispondere all'aggressività, affermarsi, ascoltare, piangere, motivare gli altri, capire le reazioni degli altri, affrontare le avversità e i cambiamenti, risolvere i conflitti, ect.

Forse sarebbe meglio iniziare a parlare di intelligenza dei rapporti sociali equiparandola ad altre forme di intelligenza come quella linguistica, spaziale, musicale, logico-matematica ed altre che lo stesso Howard Gardner ha evidenziato dei suoi studi scientifici.

Howard Gardner psicologo e professore all'Università di Harvard ha acquisito notorietà nella comunità scientifica grazie alla sua teoria sulle intelligenze multiple31. Egli rinnova la vecchia concezione di intelligenza, vista come fattore unitario e misurabile tramite il Quoziente Intellettivo (Q.I.), sostituendola con una definizione più dinamica e articolata.

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Ogni essere umano ha fin dalla nascita delle potenzialità biologiche che assumono una particolare combinazione in ogni stadio di sviluppo, rendendo così unico il profilo intellettivo.

Il professor Gardner voleva uscire da un'antica concezione di intelligenza, in cui si vede protagonista Q.I. che si presume misuri l'intelligenza del bambino, ma altro non fa che creare un conformismo sociale ed intellettivo e non potrà mai rappresentare le qualità peculiari di una persona.

Gardner evidenzia diverse forme di intelligenza: linguistica, matematica, interpersonale, intrapersonale, cinestetica, musicale, visivo - spaziale, naturalistica, esistenziale. Queste intelligenze multiple rappresentano i diversi modi, negli esseri umani, di elaborare le informazioni e questi modi sono indipendenti gli uni dagli altri.

In particolare egli riconosce nell'intelligenza intrapersonale tutti quei comportamenti che richiamano l'autonomia e la gestione e conoscenza di sé, quindi ritroviamo individui che sono consapevoli di ciò che vogliono, sanno individuare i propri punti di forza e di debolezza, sanno riconoscere i propri stati emotivi indicando i fattori e le soluzioni che li hanno provocati. Daniel Goleman chiama questo tipo di intelligenza descritta da Gardner, Intelligenza Emotiva.

I problemi affettivi sono all'origine del 98% delle difficoltà di apprendimento, e siamo consapevoli che i bambini lavorano meglio quando vogliono bene al loro professore.32

Secondo Rogers, psicologo clinico e mentore di Gordon, sviluppa la teoria della personalità centrata sulla persona, secondo la quale l'individuo è composto da complessi processi cognitivi, emotivi, biologici e di altro tipo ed è in grado di autorealizzarsi. Pone molta enfasi sulle capacità di apprendimento dell'individuo, vista come capacità connaturata nell’essere umano, tutta la vita è apprendimento: si impara a camminare, si impara a parlare, si fanno conquiste, a volte si incorre nell’insuccesso o si incontrano notevoli difficoltà, ma si procede comunque.

Il progresso umano è il frutto della capacità di apprendere, innata nell’uomo. E’ evidente che l’apprendimento è facilitato se è “significativo” e se avviene in un ambiente favorevole.

Rogers ritiene fondamentale, nel processo educativo, la relazione tra insegnante e alunno basata sulla stima reciproca e sul rispetto. Nell’insegnamento egli considera fondamentale, non tanto il contenuto culturale, destinato a cambiare grazie alle scoperte scientifiche, ma l’acquisizione delle abilità di ricercare, documentarsi, osservare ecc., di “imparare ad imparare”33.

Verso i due anni e mezzo i piccoli incominciamo la scuola materna, si ritrovano in venticinque in una classe, durante la ricreazione i bambini di diverse età si raggruppano, corrono, fanno rumore, alimentando uno stress ed una tensione che si riversa nel momento di apprendimento in classe, nella quale spesso sono costretti a restare seduti per più di un'ora. Sono tipicamente repressi, devono

32 J.S. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, 2015 33Goleman Daniel, L’intelligenza emotiva, BUR, Milano,2013

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quotidianamente affrontare la paura del rifiuto, del ridicolo, della repressione, del fallimento; e nessuno si preoccupa di ascoltare i loro sentimenti, allora impareranno a gestirli a modo proprio34. Alcuni si isolano, altri si legano molto alla maestra, altri diventano iperattivi, mordono, picchiano, il loro comportamento viene giustificato da una tendenza caratteriale, ma nessuno si rende conto che il loro temperamento ha una causa.

In un ambiente rispettoso dei loro bisogni fisici, affettivi, intellettuali ed anche spirituali questi comportamenti non emergerebbero.

Non è semplice mettere in discussione il sistema scolastico, spesso si banalizzano le attitudini dei bambini, classificandoli ed etichettandoli e non si mettono in discussione le capacità educative dell'insegnante e del sistema educativo.

Se all’interno di una progettazione educativa manca l’attenzione verso elementi quali: l'autonomia, la creatività, la responsabilità, la motivazione, la capacità di operare e di gestire i conflitti; il bambino sarà privo di conoscenze basilari e non riuscirà ad agire da protagonista nella sua vita, poiché è stato sottomesso ad imparare e a non pensare con la propria testa35.

Per questo, l’ambito scolastico svolge un ruolo fondamentale, in particolare la figura del docente, personalità centrale nella formazione e strutturazione dell’identità del bambino. La funzione del docente, in passato, era considerata essenzialmente “un’attività di trasmissione” della cultura. Rogers ritiene che il processo di acquisizione delle conoscenze richiede la partecipazione attiva del soggetto.

L’alunno non può essere considerato un soggetto passivo destinatario dell’intervento didattico, ma deve essere necessariamente attivo; infatti la costruzione di un concetto, la soluzione di un problema o l’acquisizione di particolari capacità, come quelle dello scrivere, del leggere, del nuotare ecc., richiedono l’attività dell’alunno. Questo significa che egli è il protagonista della propria istruzione (attività di acquisizione delle conoscenze) e della propria formazione (attività di acquisizione di capacità e di atteggiamenti).

Quindi la funzione del docente non è quella di “fare lezione”, di spiegare determinate argomenti, ma di creare delle situazioni che consentano agli alunni di operare a livello fisico e psichico. Il docente deve essere in grado di creare delle situazioni di apprendimento, degli itinerari di apprendimento.

In quest’ottica, il docente deve individuare attraverso quali attività gli studenti possono pervenire all’acquisizione di conoscenze e delle capacità; pertanto il suo compito non è quello di presentare i

34

Foglio Bonda Piergiorgio, Disturbi psicologici dello sviluppo infantile, FrancoAngeli, Milano, 1994

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concetti, ma quello di creare le situazioni idonee che consentono agli alunni di costruirli. Secondo Rogers l’insegnante diventa così un “facilitatore” dell’apprendimento la cui qualità principe sarà la capacità di stabilire un efficace rapporto interpersonale con gli allievi e a tal fine è importante che il docente piuttosto che essere un pozzo di scienza “sappia ascoltare”. La condizione educativa ideale è allora quella in cui rispetto, empatia e congruenza facilitano il conseguimento di quel livello di autoconsapevolezza che permette all’alunno di cogliere dall’interno il suo processo formativo e di sintonizzarsi su di esso per tendere in modo efficace verso l’autorealizzazione. Spesso si ricercano ricette pronte per essere eseguite che aiutino i genitori a capire cosa bisogna dare ai propri figli, affinché affrontino al meglio la loro vita. L'ingrediente fondamentale per la riuscita di una vita felice sembra essere la fiducia in sé stessi36, oggetto generico che comprende diversi aspetti: la fiducia di base, la fiducia nei propri desideri, nei propri sentimenti, nel proprio giudizio, nelle proprie capacità, nella propria attitudine a entrare in relazione con gli altri e essere utile.

La fiducia di base è quella più antica, rappresenta una fiducia che il bambino ha del proprio corpo che permette di sentirsi a proprio agio in tutte le circostanze. Trasmette un sentimento di sicurezza interiore.

La fiducia nell'altro è la certezza che egli (il genitore) risponderà ai bisogni del piccolo, è la fiducia che il bimbo sente nelle proprie capacità di essere degno dell’attenzione dell’adulto e di essere capace di attirare il suo sguardo.

Questi primi due tipi di fiducia si realizzano nei primi due anni della nostra vita.

Nel decorso del secondo anno di età emerge nel bambino la coscienza di sé, di esistere in modo distinto e separato dagli altri, di avere dei desideri propri e sviluppare la capacità di opporsi ai desideri degli altri, ed in primo luogo verso i genitori. La consapevolezza di sé si avvale della fiducia nelle proprie sensazioni, nelle proprie percezioni e delle proprie emozioni, è dunque la fase in cui si esprime la capacità di dire “NO!”.

La fiducia nelle proprie idee è quella che ci permette di resistere all'influenza della società, di pensare con la propria testa, di mettere in dubbio i pregiudizi. Questo tipo di fiducia ha bisogno di una forte energia poiché per resistere ad essere se stessi in mezzo agli altri, si ha bisogno di una grande forza interiore.

Per riuscire un giorno a diventare indipendenti, sapersi organizzare e vivere in maniera autonoma bisogna imparare a fare da soli. Questo è l'effetto dello sviluppo della fiducia nelle proprie risorse creative, nelle proprie competenze e nelle proprie capacità, aspetti che si costruiscono e realizzano grazie all'esperienza.

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