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CAPITOLO 3 IL SACRIFICIO UMANO DI GIOVANI NELLE TRAGEDIE DI EURIPIDE

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CAPITOLO 3

IL SACRIFICIO UMANO DI GIOVANI NELLE TRAGEDIE DI

EURIPIDE

A questo punto del presente lavoro, data la vastità, la complessità e l’eterogeneità del materiale documentario circa il sacrificio umano presso i Greci antichi, si ritiene opportuno limitarsi ad un ambito di ricerca decisamente più circoscritto e settoriale: nello specifico si prenderà in esame la presenza di sacrifici di fanciulli nella tragedia greca, esclusivamente in quella euripidea, e più in particolare del sacrificio di Meneceo nelle Fenicie.

3.1 La tragedia greca: dal sacrificio archetipico o “canto del capro” fino all’età storica

Fatta presente la succitata considerazione, questo lavoro di tesi di laurea non può prescindere da una premessa basilare: quella secondo cui la tragedia greca nasce proprio come rito di sacrificio, in relazione al quale si tiene conto di una fondamentale opera di Burkert.1

Egli parte dall’etimologia del nome “tragedia” che ricollega inevitabilmente alle due parole che la compongono: tra/goj (capro) e w0|dh/ (canto). In proposito ripercorre la storia linguistica del termine “tragedia” riferendosi dapprima alla teoria oggi dominante che risale a Welcker e che deve la sua popolarità soprattutto a Wilamowitz, il quale invocò a suo sostegno l’autorità di Aristotele. Questa teoria intende “tragedia” come “canto del capro”, nel senso di “canto dei danzatori travestiti da capro”. Accanto a questa teoria, Burkert cita l’altro filone di pensiero relativo agli studiosi con interessi storico-religiosi, i quali restano

1Burkert, W. , Origini selvagge. Sacrificio e mito nella Grecia arcaica, in particolare il capitolo

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fedeli all’etimologia antica, che parlava di “canto in occasione del sacrificio del capro”, ovvero “in occasione del premio consistente in un capro”.2

Senza dilungarci sulla vasta letteratura sulle origini della tragedia, particolarmente interessante appare la definizione ideale che dell’espressione tragw?di/a nell’accezione di “canto del capro”, fornisce Burkert: «… una parola che lascia trasparire la smorfia bestiale nell’evoluzione della cultura umana più elevata: il primitivo ed il grottesco nella sua più sublime creazione letteraria.»3 Da ciò si deduce che, qualora si cercasse una spiegazione della parola, si dovrebbe inevitabilmente risalire ad un’epoca più antica, alle fondamenta religiose della tragedia, al culto greco in generale, né sarebbe possibile stabilire a priori se ciò importi per la tragedia attica compiutamente sviluppata.

Riletta in questa ottica, infatti, ossia nella visione dell’essenza del rito sacrificale, ne risulta una nuova prospettiva entro la quale gli stessi drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide rivelano infine uno sfondo rituale.

2

La derivazione di tragw?di/a da sa/turoi = tra/goi fu proposta da Welcker, E.G , Nachtrag

zu der Schrift über die Aeschylische Trilogie nebst einer Abhandlung über das Satyrspiel,

Frankfurt, 1826, p. 240; cfr. von Wilamowitz-Moellendorff, U. , Euripides Herakles I, Berlin, 1889, rist. Darmstadt, 1959, con una diversa numerazione delle pagine: Einleitung in die

griechische Tragödie, Berlin, 1907, pp. 82 sgg; Kleine Schriften I, Berlin, 1935, p. 372; Ziegler,

K. , in RE 2 Ser.VI A (1937), 1917 sgg. ; Pohlenz, M. , Die griechische Tragödie I (seconda ed.), Göttingen, 1954 (trad. it. La tragedia greca, Brescia, 1961); Lesky, A. , Die tragische

Dichtung der Hellenen (seconda ed.), Göttingen, 1964, pp. 15 sgg. ; Patzer, H. , Die Anfänge der griechischen Tragödie, Wiesbaden, 1962, pp. 131 sgg., sostiene la stessa etimologia, ma

respinge qualsiasi rapporto con il ditirambo, tenendo distinti satiri e capre (pp. 52 sgg.). La teoria del capro come premio è difesa da Reisch, E. , Festschrift Th. Gomperz, Wien, 1902, pp. 466 sgg. ; Flickinger, R.C. , The Greek Theatre and its Drama, Chicago, 1919, pp. 1 sgg; Schmid, W. , Geschichte der griechischen Literatur I, 2, München 1934, pp. 46, sgg. ; Pickard-Cambridge, A.W. , Dithyramb, Tragedy and Comedy, Oxford, 1927, pp. 164 sgg. ; mentre Webster, T.B.L. , nell’edizione riveduta (Oxford, 1962, pp. 123 sgg) mostra una tendenza a seguire Welcker-Wilamowitz. Else, G.F. ritiene che la parola tragw?do/j debba sì essere derivata dal capro come premio, ma sia “chiaramente scherzosa o sarcastica”, vale a dir priva di significato: “Hermes” 85, 1957, p. 42, cfr. The Origin and Early Form of Greek Tragedy, Cambridge , 1965, pp. 69 sgg. ; Nillson, M.P. , “NJbb” 27, 1911, pp. 609 sgg. = Opuscula I, Lund, 1951, pp. 61 sgg. collega il sacrificio del capro a cantanti mascherati da capri; Robert, F. ,

Mélanges Ch. Picard II, Paris, 1949; pp. 872-880; Kerényi, K. , Streifzüge eines Hellenisten,

Zürich, 1960, pp. 40 sgg. ; Merkelbach, R. , Die Erigone des Eratosthenes, in Miscellanea di

Studi Alessandrini in memoria di A. Rostagni, Torino, 1963, pp. 496 sgg.

3

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Quanto in realtà la tragedia fosse indissolubilmente connessa ad un rito archetipico, quello dionisiaco4, è attestato storicamente anche dalla presenza al centro dell’orchestra dionisiaca della qume/lh, l’originario altare sacrificale,5

che chiaramente reca in sé la radice etimologica del verbo qu/ein e di qusi/a. Proprio intorno alla qume/lh, la commistione di lamento, musica del flauto, il nome tragw?doi/, tutto convergeva nella situazione di base del sacrificio: l’uomo di fronte alla morte. Burkert, a questo punto si pone l’interrogativo per quale motivo proprio la tragw?di/a si sia trasformata nella tragedia, e non in una ipotetica bow?di/a o in una kriw?di/a, visto che al confronto con il toro o con l’ariete, il capro appariva il meno attraente. La ragione, secondo lui, potrebbe essere in una spiegazione di tal genere: la vittima ha unicamente una funzione rappresentativa, nel caso della tragw?di/a si tratta dell’esplosione e della liberazione di una minaccia ineliminabile in ambito psichico, diretta in effetti contro l’uomo. Nel sacrificio del capro, infatti, secondo Burkert, tali impulsi sono assorbiti in misura minima dal simbolo contro cui si dirigono; contenuto e forma non coincidono e di qui sorge il bisogno di nuove forme d’espressione.6 Il

sacrificio di un toro era divenuto da tempo una cerimonia ufficiale, di stato, parte immutabile e stabilita del rituale della po/lij; nel sacrificio del capro le consuetudini dei villaggi consentivano l’ “improvvisazione” (au0tosxedia/zesqai) di cui parla Aristotele7

, che in seguito, allorchè la tragedia divenne genere letterario codificato, implicò modificazioni ed ampliamenti. La presenza della qume/lh, perciò, permetteva quello che non sarebbe stato possibile

4

Sull’elemento originario del dionisismo nella tragedia greca, tra le numerose opere, si ricordano in particolare: Albini, U. , Nel nome di Dioniso. Il grande teatro classico rivisitato

con occhio contemporaneo, Milano, 1999 e, ovviamente, in chiave filosofico Nietzsche, F. , (a

cura di P.Chiarini-R.Venuti), La nascita della tragedia ovvero grecità e pessimismo, 1995.

5

Fr. 708 Page; cfr. Pohlenz, M. , Gött. Nachr., 1927 e Roos, E. , Die tragische Orchestik imm

Zerrbild der altattischen Komödie, Lund, 1951, pp. 209 sgg.

6

Burkert, W. , Origini selvagge, Op.cit. , p. 27.

7

«Un altro argomento da considerare sarebbe se la tragedia, per quanto riguarda le forme dell’arte, ha già raggiunto o non la completezza, a giudicare sia la cosa in teoria sia in rapporto alla presentazione teatrale. Derivava la sua origine dall’improvvisazione (a0p’ a0rxh=j au0tosxediastixh=j), non solo la tragedia, ma anche la commedia.» : Aristotele, Dell’Arte

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presso un qualsiasi altro altare, e in questo modo la tragw?di/a potè giungere a rappresentare quella che Burkert definisce la “tragica” condition humaine.

La tragw?di/a in età storica si emanciperà dal capro: eppure l’essenza del sacrificio pervade ancora la tragedia dopo che ha raggiunto la sua forma compiuta. In Eschilo, Sofocle ed Euripide la situazione del sacrificio, l’uccisione rituale, il qu/ein, è pur sempre sullo sfondo, quando non è al centro. Non a caso Burkert cita come esempi proprio le tragedie in cui l’intera azione si incentra sul sacrificio umano: Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride, Baccanti; Sofocle scrisse una Polissena, Eschilo un Penteo. Euripide impiega il sacrificio umano come motivo secondario in molte variazioni: Eraclidi, Ecuba, Fenicie, Eretteo,

Frisso; fa della stessa morte di Alcesti un sacrificio, e di Qa/natoj, la “morte”,

un sacerdote addetto al sacrificio, i9ereu\j qano/ntwn (v.25), e nell’ Elettra Egisto viene ucciso con un coltello sacrificale in occasione di un sacrificio.8

Di valore più generale, e più importante, è il fatto che qualsiasi modalità di uccisione può essere designata, a partire da Eschilo, come qu/ein; l’ebbrezza di uccidere diviene un bakxeu/ein. Queste metafore non compaiono nella lirica corale arcaica, ma questo linguaggio per immagini non è qualcosa di superficiale: se la tragedia costruisce sul mito degli eroi, ogni eroe ha però il suo culto e perciò il suo sacrificio.9

8

Eur. El. , 758 sgg. , 816, 838. Anche Clitennestra viene al sacrificio: 1125; 1132, 1142; in seguito Oreste dice kathrca/man (1222); cfr. Murray, G. in Harrison, J. , “Themis”, (seconda ed.), Cambridge, 1927, p. 356. Neottolemo viene ucciso a Delfi mentre offre un sacrificio: Eur.

Andr. 1112 sgg. ; Pind. N. 7, 42; Pae. 6, 116 sgg. Nel Cresfonte di Euripide, Polifonte è ucciso

durante un sacrificio (Hygin. Fab. 137). Cfr. la saga di Tito Tazio D.H. 2, 52, 3. Non è forse un caso che lo scolio su Armodio e Aristogitone affermi espressamente che essi compirono la loro impresa 0Aqhnai/hj e0n qusi/aij (Carm. Pob. 895 Page).

9

Ciò è completamento ignorato da Else (Origin, p. 63), il quale scrive: «La fonte costante di contenuto tragico è l’epica eroica, non il culto religioso.» Naturalmente i poeti tragici attinsero all’epica, da Stesicoro eccetera, ma vedono questa “materia” alla luce dell’esperienza che essi stessi hanno della vita religiosa greca, dove appunto un eroe non era una semplice figura letteraria. Ricercare il rito della distruzione, del “sacrificio”, nei casi di Eteocle e Polinice, di Aiace, di Antigone, o del re Edipo, non sarebbe impossibile, anche se porterebbe troppo lontano. È però significativo che anche quei drammi di Euripide che sembrano anticipare Menandro culminano in un sacrificio: Hel. 1554 sgg. ; Ion. 1124 sgg. Merkelback, R. si è soffermato sull’unico dramma dei Maya a noi pervenuto: Der Mann von Rabinal, oder Der Tod

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L’occasione del sacrificio potrebbe essere proprio il punto in cui mito eroico e tragw?di/a coincidevano. Un esempio dimostrativo in proposito viene offerto dalla Medea di Euripide, in cui l’uccisione dei bambini costituisce un “sacrificio segreto”, un a0po/rrhtoj qusi/a. Ciò è confermato dal punto culminante del celebre monologo in cui risuona il linguaggio del rito sacrificale (vv. 1053 sgg.): «Colui al quale non è consentito essere presente al mio sacrificio – questo è affar suo».

A proposito del succitato a0po/rrhtoj qusi/a, Burkert si domanda se esso costituisca una semplice metafora.10 A suffragio di questo suo dubbio ricorre alle raffigurazioni vascolari che mostrano come Medea uccide i suoi figli presso un altare.11 Da queste e da studi archeologici in proposito si è in possesso di informazioni sul rito, celebrato nel tempio di Era 0Akrai/a, sul quale si basa il mito corinzio di Medea12: sette ragazzi e sette ragazze erano rinchiusi per un anno nel santuario di Era, dove si mostravano le tombe dei figli di Medea. Culmine e conclusione del loro periodo di servizio era un sacrificio in occasione della festa di 0Akrai/a : il sacrificio di una capra nera. Si trattava di un olocausto, un e0nagi/zein, legato ad una forma speciale, quella che Meuli definisce “commedia dell’innocenza”: la stessa capra doveva dissotterrare la spada, o coltello, con cui veniva uccisa. La spada era poi nuovamente sotterrata fino all’anno seguente.13 Una volta all’anno lo strumento di distruzione emergeva dal

des Gefangenen, Tanzspiel der Maya- Quiché, a cura di Palm, E.W. Frankfurt, 1961: qui

l’intero dramma è un a!rxesqai in vista del sacrificio umano che ne costituisce la conclusione.

10

Burkert, W. , Origini selvagge, Op. cit. p. 29.

11

Cfr. le prescrizioni sacrificali del tipo gunaiki\ ou0 qe/mij, ce/nw? Ou0 qe/mij, SIG (terza edizione) 1024, 9; 27; Sokolowski, F. , Lois sacrées des cités grecques, nn. 63, 66, “Travaux et mémoires” 18, 1969 ; Eur. I.T. 1226 sgg Pohlenz (I, p. 256; II, p. 105) non comprese il carattere rituale del discoso della Medea 1053 sgg; cfr. il commento di Page D. L. , Oxford, 1938, ad loc. il quale ritiene per altro che le parole siano “semplicemente una macabra metafora”. Le tre raffigurazioni vascolari (Paris, Cab. Des Méd. 876; Louvre K 300; Müchen 3296; si veda Brommer, F. , Vasenlisten zur griechischen Heldensage, (seconda edizione), Marburg, 1960, p. 349) sono riprodotte in Séchan, L. , Etudes sur la tragédie grecque dans ses rapports avec la

céramique, Paris 1926, pp. 403 sgg. e tav. 8.

12

Payne, H.G.G. , Perachora. The Sanctuaries of Hera Akraia and Limenia, I, Oxford 1940.

13

Sul rito Corinzio cfr. Nilsson, M.P. ,Griechische Feste, Leipzig, 1906, p. 58, che però non cita le fonti più importanti: Phot. Ed Reitzenstein s.v. ai0go\j tro/pon; “Ze. Athous” 2, 30, p.

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buio della terra, per poi restarvi sepolto e quasi dimenticato per il tempo rimanente. È evidente che la capra moriva in sostituzione dei ragazzi: dopo, essi erano liberi dal loro impegno. Il mito narrava che i figli dei Corinzi dovevano compiere questo dovere per espiare l’uccisione dei figli di Medea, morti nel recinto di Era 0Akrai/a e lì sepolti. E la strana spada, dissotterrata e nuovamente sotterrata anno dopo anno sarebbe stata proprio quella con cui Medea aveva ucciso i figli.

Non è questa la sede per indagare in che misura il rito, in rapporto al mito, può essere inteso come cerimonia di iniziazione14: in ogni caso, la metafora del qu=ma nel punto culminante del dramma euripideo rinvia ad un rito sacrificale in cui prende forma il mistero della morte.

Concludendo, si può affermare che la tradizione del sacrificio del capro deve essere presa sul serio: essa riconduce ai livelli profondi dell’evoluzione preistorica, e insieme al centro della tragedia. Ciò nulla toglie all’originalità dei

361, 12 sgg. Miller (abbreviato in App. Prov. 4,16; Zenobio e la Appendix Proverbiorum hanno erroneamente o0=ij anziché ai!c ). Marcellus ap. Eus. Adv. Marc. 1,3 (ed. Klostermann, Berlin 1906, Fr. 125). Marcello dice: «dicono infatti che Medea a Corinto, dopo aver ucciso i figli, abbia nascosto là il coltello, e che i Corinzi, mentre secondo la prescrizione data loro da un oracolo conducevano al sacrificio una pecora nera, si trovarono senza coltello: ma la capra, scavando con la zampa, ritrovò il coltello.» Zenobio offre essenzialmente la stessa informazione, ma descrive il rito in maniera più esauriente: «…i Corinzi, che ogni anno celebrano i sacrifici per mano di sette ragazzi e altrettante ragazze, nascondono la spada nel tempio; trascorso l’anno i giovani sorteggiati celebrano il sacrificio, e la pecora… dissotterra con lo zoccolo la spada». La “commedia dell’innocenza” è particolarmente evidente in Fozio: «Coloro che procuravano la vittima da sacrificare dopo aver nascosto il coltello fingevano di aver dimenticato… ( = Paus. Gr. ed Erbse h 2) … dopo aver compiuto il sacrificio nascondono il coltello, e l’anno dopo la vittima destinata ancora una volta ad essere sacrificata … » ( = Paus. Gr. Ed. Erbse a 42; cfr. Zen. Par. I, 27, Hsch. s.v. ai!c ai0=ga Suda ai 235 ecc.) non è del tutto chiaro se il coltello veniva lasciato tutto l’anno sotto terra o se o si rimuoveva e poi si nascondeva di nuovo in segreto, ma questo è irrilevante ai fini del significato del mito. Il destino della capra era proverbiale, Com. Adesp. Fr. 47 Demianczuck, Clearco, Fr. 83a Wehrli; l’aneddoto giunse fino agli Arabi e agli Indiani, Fraenkel, S. ZDMG, 46, 1892, pp. 737 sgg. ; Pischel, R. ZDMG, 47, 1893, pp. 86 sgg. A parte i paremiografi, il testimone principale del rito corinzio è Parmenisco ap. Schol. Eur. Med. 264; vesti nere: Paus. 2,3,7. Che Medea, sia pure contro la propria volontà uccise i figli nel tempio di Era 0Akrai/a era già in Eumelo ( Paus. 2,3,11); poiché sembrava strano che i Corinzi dovessero espiare il crimine di Medea, il mito fu modificato in modo da fare dei corinzi degli assassini dei fanciulli. Sul rapporto con i riti di iniziazione Brelich, A. , Studi e materiali di storia delle religioni, 30, 1959, pp. 227 sgg. cfr. anche Dobesch, G. , “WSt” 75, 1962, pp. 83-9.

14

Sulle cerimonie di iniziazione fondamentale la sezione introduttiva all’opera di Brelich, A.

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Greci. La specificità di ciò che essi compirono risalta pienamente soltanto al confronto con ciò che è sorto da radici simili in altre culture: riti di caccia e guerra, sacrifici umani, gladiatori, corride. Burkert in proposito avanza la possibilità che la trasformazione e la sublimazione operata dagli autori greci sia tanto fondamentale da far apparire le “origini” primitive ridotte ad un nulla. Si pone anche il quesito se i più grandi poeti non facciano altro che dare espressione sublime a ciò che è presente negli stadi originari dell’evoluzione umana. A tale quesito risponde con una frase di grande effetto: «L’esistenza umana di fronte alla morte – è questo il nucleo della tragw?di/a».15

3.2 Il sacrificio giovanile nelle tragedie di Euripide: involontario e volontario

Partendo proprio dal sacrificio – infanticidio della Medea di Euripide, si ritiene opportuno a questo punto del lavoro in questione passare in rassegna i singoli drammi euripidei in cui sono presenti scene di sacrificio giovanile, distinguendone la tipologia in sacrificio volontario e involontario, e configurando ognuno di essi all’interno del contesto generale della tragedia di appartenenza.

I sacrifici di giovani che periscono di morte violenta e coatta, ma che giungono a trasformare la coercizione del proprio sacrificio in libera scelta sono quelli di Polissena nell’Ecuba e di Ifigenia nell’Ifigenia in Aulide; in questo novero di morte forzata rientrano anche il sacrificio a cui riescono a sfuggire Oreste ed Ifigenia nell’Ifigenia in Tauride , quello di Penteo nel crudele rito dello sparagmo/j nelle Baccanti ed infine quello di una figlia di Eretteo nell’ omonimo dramma pervenuto solo frammentariamente.

I sacrifici di fanciulli che si immolano volontariamente al fine di procurare benefici alla patria o al proprio ge/noj sono quelli di Macaria negli Eraclidi e di Meneceo nelle Fenicie.

15

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A queste due tipologie se ne può aggiungere una terza, in cui il sacrificio umano non riguarda esclusivamente figure giovanili, ma anche persone adulte e per motivi differenti dai due precedenti sopracitati: è il caso di Alcesti nell’omonima tragedia che si immola in nome dell’ u9perapoqnh?/skein per il marito Admeto e di Evadne che si uccide sul rogo per il marito Capaneo nelle Supplici, sacrificio che rientra nella casistica del cosiddetto suttee,16 e di Frisso nell’omonima

tragedia frammentaria, il cui sacrificio, però, rimane incompiuto.

Al di fuori di queste tipologie può essere annoverato un ulteriore rito sacrificale, quello relativo all’uccisione dei figli di Medea effettuato dalla madre stessa e definito da Burkert “sacrificio nascosto”17.

3.3 Il sacrificio involontario o forzato

3.3.1 Ecuba: Polissena

Per quanto riguarda la prima tipologia succitata, ossia il sacrificio giovanile involontario, ma che per volontaria accettazione si trasforma in libera scelta, seguendo la cronologia tradizionale delle tragedie euripidee, il primo esempio viene offerto dall’ Ecuba, scritta negli anni venti, presumibilmente tra il 428 e il 425.18

Nella parte iniziale della tragedia, Ecuba, regina di Troia, presaga del terribile destino che incombe sulla sua città e sul suo ge/noj, durante la notte, in un sogno premonitore, assiste anticipatamente ai tristi avvenimenti per i suoi figli superstiti, Polissena e Polidoro: durante l’incubo vede una cerva sbranata da un lupo. Poiché è venuta a conoscenza dell’apparizione dello spettro di Achille, si augura che la sua richiesta del sacrificio di una prigioniera troiana non riguardi

16

Questo tema, che sarà affrontato più dettagliatamente in corso d’opera, trova un autorevole fonte in Hughes, D.D. , Sacrifici umani nell’antica Grecia, Op.cit, in particolare nel paragrafo

Documentazione di “suttee” nel mito greco?, pp. 108-13.

17

Burkert, W. , Origini selvagge, Op. cit. p. 29

18

Per la cronologia delle tragedie euripidee si vedano Lesky, A. Storia della letteratura greca, Op.cit. , e Zuntz, G. , The Political Plays of Euripides, Manchester, 1955.

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Polissena. Purtroppo, il coro delle donne troiane non può nascondere alla regina che la vittima prescelta è proprio la sua giovanissima figlia: le viene annunciato pertanto che, di lì a poco, giungerà Odisseo a portarla via. Ecuba si ricorda allora di quando Odisseo, coperto di stracci e feritosi di propria mano, si era introdotto di nascosto a Troia per spiare le mosse dei suoi avversari; Elena, però, lo aveva riconosciuto e l’aveva informata. La regina, allora, aveva fatto in modo che l’eroe potesse mettersi in salvo di nascosto, commossa dalle sue suppliche; ed ora spera che Odisseo le dimostri concretamente la sua gratitudine, salvando Polissena dalla morte. Il figlio di Laerte, però, pur riconoscendo di dovere la vita a Ecuba, dichiara cinicamente che tutto ciò che disse in quella circostanza erano solo «parole inventate per non morire» (v.250): l’unica cosa che può fare per Ecuba è salvare lei, ma non Polissena. Ma la fanciulla, che è stata presente al colloquio, pur inizialmente scossa e restia alla propria immolazione, poi, profondamente commossa dalla disperazione della madre, dichiara di accettare volentieri il proprio destino, sicura che la morte la libererà dalle umiliazioni e dagli oltraggi che lei, figlia di un re, avrebbe dovuto sopportare in schiavitù. Con queste parole, Polissena si allontana con Odisseo; poco dopo l’araldo Taltibio, giunto da Ecuba, le descrive, pieno di ammirazione, il coraggioso comportamento della fanciulla, affermando che la sua serenità ha turbato perfino Neottolemo, incaricato di sacrificarla sul tumulo di Achille.

Il personaggio di Polissena, che preferisce eroicamente la morte al disonore della schiavitù, risponde ai canoni dell’educazione aristocratica arcaica (paidei/a); ma l’attenzione del poeta insiste prevalentemente sui particolari adatti a suscitare nel pubblico orrore e pietà. Il coro, che preannuncia ad Ecuba il sacrificio della figlia, si sofferma a descrivere il collo delicato della fanciulla, ancora adorno di monili d’oro, che fra poco sarà reciso dalla spada del carnefice; e Taltibio, rievocando con ammirazione la fierezza di lei al momento del sacrificio, non può

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fare a meno di ricordare con autentica pietà anche la sua bellezza, che ha suscitato la commozione di tutti gli Achei, compreso Neottolemo.19

Sull’atteggiamento eroico di Polissena che trasforma il proprio sacrificio da involontario a volontario si sofferma anche Lesky, che così sostiene in proposito: «nella prima (parte), che può essere chiamata la tragedia di Polissena, la figlia di Ecuba è sacrificata sulla tomba di Achille e subisce la sua amara sorte in atteggiamento magnanimo».20

Polissena dichiara, non a caso, che a farle desiderare la morte, è il nome di dou/lh, e inoltre la prospettiva di un futuro particolarmente doloroso di schiava venduta, per lei, sorella di Ettore (Hec. 357 sgg.). Polissena, infatti, dapprima piange di dover morire schiava, lei, figlia di padre libero (Hec. 420); ma, all’approssimarsi della morte, chiede di essere lasciata libera, per non subire la vergogna di scendere nel regno dei morti come prigioniera, lei regina (Hec. 548 sgg.). Secondo Valgiglio, forse, non c’è un altro passo in Euripide nel quale la virtù taumaturgica della morte appaia in questa luce di calore potente: piuttosto che la schiavitù, la morte, quella morte che permette all’uomo di non essere schiavo e gli garantisce assoluta libertà decisionale.21 Euripide in effetti si pone qui come l’aedo della morte che scende benigna a confortare, a rasserenare, a salvare i miseri, sui quali continua a rifulgere la luce della propria dignità. La nobiltà d’animo della fanciulla, benché provata nelle sciagure, brilla in tutto il suo splendore proprio nella morte: bellezza morale e morte si congiungono in una sintesi ideale.

Polissena non desidera solo morire liberamente, ma si preoccupa anche del decoro della sua persona. Quando infatti il sacrificante le recide col ferro la gola, l’eroina moribonda pone molta cura (pollh\n pro/noian) per cadere

19

Biondi, I. , Graece et Latine, Op.cit. , vol. III, pp. 1079-80.

20

Lesky, A. , Storia della letteratura greca, Op.cit. , vol. II, p. 490.

21

Valgiglio, E. , Il tema della morte in Euripide, “Biblioteca della rivista di studi classici”, edita e diretta dal Prof. Vittorio D’Agostino, Torino, 1966, p. 49.

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decorosamente (eu0sxh/mwn), nascondendo quelle parti che il pudore voleva nascoste agli sguardi degli uomini.22

Su questa linea del sacrificio “coercitivo”, ma che assume in itinere la valenza di libero arbitrio volontario, si colloca anche il critico Battezzato23, il quale sostiene che nell’Ecuba Polissena si sacrifica per onorare i nemici che hanno sterminato i Troiani e distrutto la sua città. Secondo lo studioso questo costituisce un caso unico ed estremo di anomalo “sacrificio volontario” in favore di un gruppo che non è quello della propria famiglia o comunità. Anche per questo non viene profetizzata a Polissena fama immortale nel futuro, cosa invece normale per chi accetta il sacrificio. Euripide, non a caso, sceglie di non presentare la sua morte come forzata, nonostante lo sia: questo, infatti, avrebbe gettato una luce ancora peggiore sull’esercito dei Greci, e sarebbe stata ritualmente controproducente. La morte di Polissena risparmia ad Ecuba anche il dovere della vendetta. Sono tuttavia importanti i motivi che Polissena adduce per spiegare la sua accettazione del sacrificio. Lasciare la vita liberamente significa rifiutare di essere degradata ad oggetto di scambio commerciale: Polissena prima era “considerata degna di prìncipi” (v. 366), e ora rifiuta di essere venduta in cambio di “argento”, per un prezzo in denaro (v. 360) e rifiuta di essere data in sposa a uno schiavo “comprato chissà dove” (v. 365). Polissena, come l’Achille dell’ Iliade, non accetta che la sua vita sia soggetta a un prezzo, e preferisce sacrificarla “liberamente”. Il coro immediatamente nota che Polissena si è dimostrata “degna” della propria origine nobile (vv. 380-1) rifiutando di morire da schiava. Come tutti i doni aristocratici, fa notare ancora Battezzato, il dono della vita fatto da Polissena, proprio per essere stato fatto liberamente, e senza nessuna esplicita richiesta di avere un contraccambio, non viene lasciato senza ricompensa. Polissena viene “ripagata” in maniera appropriatamente aristocratica e

22

I versi 569-70 vengono ripresi di Ovidio e tradotti in Met.XIII, 479-80, ritraendo lo stesso atteggiamento per la sua Polissena: cfr. Ovidio, Metamorfosi, a cura di Bernini, F. , p.206, Bologna, 1989. Il motivo è poi rimasto legato alla morte di Polissena (Galen. XIV, p. 236 K. ; Liban. IV, 1088 R.).

23

Euripide, Ecuba, Introduzione, traduzione e commento a cura di Battezzato, L. , pp. 72 sgg. , Milano, 2010.

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“maschile” dall’esercito dei Greci. Il suo cadavere viene adornato con una fulloboli/a (vv. 573-4), cioè con il lancio di foglie ed oggetti che era riservato in onore di atleti (cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, a giovani maschi di origine aristocratica).

All’interno del sacrificio di Polissena, non manca, come spesso accade in altre tragedie euripidee, l’occasione per uno spunto polemico in chiave critico-illuministica da parte dell’autore stesso contro i sacrifici umani, praticati là dove basterebbe un sacrificio di buoi (vv.260-261: «Era la legge che vi costringeva a fare sacrifici umani su una tomba, dove conviene piuttosto fare sacifici bovini? [bouqutei=n]»).24

Conclude Valgiglio, riguardo al sacrificio di Polissena, che «morire le è imposto, ma è anche il suo desiderio; essa ama la necessità di morire (esempio perfetto di

amor fati); essa vuole morire per non apparire quello che non è, cioè

filo/yuxoj».25 In realtà, Polissena, come non conosce le gioie della vita, così

ignora l’ebrezza della morte; la morte è la liberazione della sua prossima e inevitabile condizione servile, come è testimoniato dal v. 637: tou= zh=n de\ luprw=j krei=sso/n e0sti katqanei=n.

Ella muore solo per salvare se stessa, senza alcuna finalità di tipo collettivistico; ciò potrebbe apparentemente essere visto come atto di egoismo, o, quantomeno, non funzionalizzato al conseguimento del kle/oj. In realtà i critici sono concordi sul fatto che la nobiltà del suo comportamento non è inferiore a quelle altre eroine del mondo sacrificale euripideo. In proposito la studiosa Schmitt26 fa una distinzione tra la Polissena dei vv. 177-215, in cui la fanciulla appare sconvolta e recalcitrante al suo destino imposto, e quella dei vv. 342 sgg. in cui manifesta la sua assoluta disponibilità a sottoposi al sacrificio: paradigmatici in proposito le parole : «Sono pronta a seguirti (rivolgendosi ad Odisseo), perché è destino e perché voglio morire. Se non acconsentirà, sembrerò ignobile e vile».

24

Musso, O. , (a cura di) Euripide, Tragedie, vol. II, Op.cit. , pp. 74-75.

25

Valgiglio, E. , Il tema della morte in Euripide, Op.cit. , p. 113.

26

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124 3.3.2 Ifigenia in Aulide: Ifigenia

Anche l’Ifigenia in Aulide, benchè rappresentata a distanza di circa vent’anni, presenta una situazione sacrificale analoga rispetto a quella dell’Ecuba, ossia una circostanza iniziale di coazione che, con l’evolvere dello sviluppo drammaturgico, sfocia in una condizione di e0leuqeri/a, ossia di libera scelta e di personale arbitrio da parte della protagonista. Tuttavia fa subito notare Valgiglio che all’esperienza monolitica di Polissena, in cui la gioia della vita è praticamente spenta fin dalla notizia del suo sacrificio, in Ifigenia si nota una netta duplicità di atteggiamento: la figlia di Agamennone infatti dapprima invoca la vita, successivamente desidera la morte. Sempre Valgiglio rileva inoltre che, «come per Ifigenia è un assurdo desiderare la morte, per Polissena è un assurdo desiderare la vita, data la sua condizione».27

Nell’ Ifigenia in Aulide il tema della morte come personale decisione non è limitato ad un episodio, ma si estende a tutta la tragedia. La situazione che impone la necessità del sacrificio si delinea fin dal prologo (vv. 87 sgg.), con alterna vicenda di propositi e d’azione. Agamennone, dopo aver tergiversato, nel momento di una decisione così grave, all’arrivo in Aulide di Clitemestra con Ifigenia ad Argo, si rende conto della necessità di sacrificare la figlia, pur suo malgrado (vv. 443; 511-12). Il destino si manifesta inesorabile nella volontà divina e nell’atteggiamento ostile dell’esercito nei suoi confronti. Di questa necessità, però, non sa rendersi conto la giovane Ifigenia, che supplica, piangendo, il padre di non ucciderla, perchè dolcissima cosa per l’uomo è la vita; il nulla è la morte; pazzia è voler morire; meglio vivere male che morire bene (kakw=j zh=n krei=sson h2 kalw=j qanei=n vv. 1252).

Anche il commovente argomento delle lacrime della figlia, però, non ha la forza sufficiente per far desistere Agamennone dal suo proposito, al quale lo tiene aggiogato la forza superiore dell’ a0na/gkh (v. 443) che si impersona nell’esercito, furiosamente stimolato dalla passione di navigare verso la terra dei barbari, e che

27

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125

trae autorità dai qe/sfata qea=j (vv. 1264 sgg.)28 Ifigenia, in pratica, non sente ancora la necessità che avverte il padre, e intona il canto lamentoso sulla sua sorte infelice (vv. 1279 sgg.). Essa a questo punto non comprende ancora la ragione per cui deve morire; sa però che deve comunque morire, come si deduce da più passi (vv. 1281-2; 1312 sgg. ; 1331-2); in questi ultimi versi la fanciulla prende coscienza del tragico della sua sorte: la sua tragedia comincia a questo punto. Al verso 1368 ha inizio la r9h=sij dell’offerta volontaria di Ifigenia: qui l’eroina appare persuasa della necessità della morte. Poco dopo la fanciulla dimostra di avere capito anche le ragioni per cui deve morire e che il sacrificio è necessario, anche se come atto di libera scelta. La base su cui poggia la sua decisione è la consapevolezza della necessità del sacrificio. In proposito scrive Lyritzès: «to\ ku/rion ai1tion th=j metastrofh=j … ei0=nai to\ o3ti e0pei/sqh a0krada/ntwj peri\ tou= a0feu/ktou th=j qusi/aj.»29

Per il critico greco, quindi, l’elemento basilare della decisione consapevole di Ifigenia sta nel to\ a1feukton , cioè nel suo carattere di “inevitabilità”. A ciò si oppone parzialmente Valgiglio che sostiene invece che l’elemento centrale sta nel qa/rroj th=j a0pelpisi/aj ossia il “coraggio della disperazione”, di cui parla subito dopo anche lo studioso greco.

Per il suo mutamento, secondo Valgiglio, non vale l’obiettività del sacrificio; da una posizione di necessità obiettiva, l’eroina infatti passa su un piano di necessità soggettiva, dall’idea di inevitabilità a quella dell’opportunità: il processo si interiorizza e si fa personale.30 Ifigenia, pertanto, si rende conto della necessità della sua morte dovuta anche alla pressione della volontà dell’esercito, accetta la realtà dei fatti, e pensa come l’esercito e come Agamennone, che è meglio morire

28

Su Agamennone come personaggio non vile (anche se non eroico, come del resto i personaggi euripidei in genere), ma profondamente umano, drammatico e ricco di intensa vita interiore, si veda Valgiglio, E. , L’Ifigenia in Aulide di Euripide, “Rivista di Studi Classici” IV, pp. 183 sgg. , 1956 e Lyritzès, S. , 9O fo/boj tou= qana/tou ei0j th\n 0Ifige/neian th\n e0n Au0li/di tou= Eu0ripi/dou, “Platon”, p. 62, 1954.

29

Lyritzès, S. , , 9O fo/boj tou= qana/tou ei0j th\n 0Ifige/neian th\n e0n Au0li/di tou= Eu0ripi/dou, Op.cit. , p. 63.

30

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perché solo così si apre la via all’impresa che sola può salvare la Grecia. Ifigenia accetta di morire lieta, istintivamente, così come prima istintivamente non voleva morire: si tratta di un caso di perfetto amor fati. La necessità che aveva dato l’avvio alla sua decisione è passata nell’ombra, non conta più come coercizione esterna, ma agisce come necessità dall’intimo: la necessità si è “sostanziata” col personaggio, si è tramutata in volontà di morire, in una specie di slancio di devozione; da creatura soggetta, Ifigenia si è resa indipendente, ed ora è lei a volere; la volontà esterna si è innestata nella sua, e vi si è identificata: esercito, Agamennone, a0na/gkh , Ifigenia stessa sono adesso uno spirito unico. Proprio lei è la sintesi espressiva delle varie forze che hanno concorso alla determinazione del suo sacrificio, e, tramite esso, della salvezza della Grecia.

A questo punto Ifigenia subisce un cambiamento radicale ed improvviso: la morte, prima deprecata come il peggiore dei mali, ora è invocata come il migliore dei beni. Ne nasce un’apparente contraddizione su cui si è a lungo soffermata la critica.31 Tuttavia alcuni critici negano l’elemento della contraddizione.32 Questo perché, nonostante la repentinità del mutamento, non manca tuttavia una certa graduale preparazione; Ifigenia è infatti già rassegnata a morire ai vv. 1279 sgg. ; dice lei stessa che la nuova idea le è venuta dopo profonda riflessione ( e0nnooume/nh, v. 1374), raccoglie nel suo travaglio interiore tutti gli elementi che gradualmente sono venuti a sua conoscenza: infine lo stesso temperamento giovanile favorisce gli sbalzi psicologici dell’entusiasmo improvviso.

Questo mutamento trasforma completamente Ifigenia, facendola conscia della sua sorte la quale però non è solo quella di morire, ma anche quella di essere collocata al centro di tutta la “grandissima Ellade” che ora guarda a lei sola:33 da

31

In proposito cfr. Valgiglio, E. , L’Ifigenia in Aulide di Euripide, “Rivista di Studi Classici” V, p. 58, 1957. Lyritzès, S. , 9O fo/boj tou= qana/tou ei0j th\n 0Ifige/neian th\n e0n Au0li/di tou= Eu0ripi/dou, Op.cit., pp. 63 sgg. Lesky, A. , Euripide, “Entret. sur l’ant. class.” VI, pp. 145 sgg. Genève, 1958.

32

Cfr. Pasquali, G. , Studi sul dramma attico. II- Menandro e Euripide, Atene e Roma, pp. 67-8, 1918; Perrotta, G. , L’Ecuba e le Troadi di Euripide, Atene e Roma, p. 271, 1925.

33

Cfr. Thuc. II, 11; 9Ella\j h9 megi/sth pa=sa ((v. 1378) sta in grande rilievo per l’accostamento dei due aggettivi, per la posizione centrale occupata nel verso, per l’insistenza delle tre parole costituenti un soggetto martellato dalla sua stessa lunghezza, dal momento che si tratta di un

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127

lei, infatti, dipendono il passaggio delle navi e la rovina dei Frigi, da lei dipende che mai più i barbari oltraggino e rapiscano le donne greche. Liberare e salvare la Grecia è il suo compito. Ciò che conferisce a Ifigenia a questo punto il massimo slancio di entusiasmo è proprio il fatto di trovarsi al centro dell’interesse di tutti i Greci. Non più quindi un sacrificio individuale, come era stato per Polissena, non più rivolto ad una sola città, ma alla patria comune dei Greci, cioè del mondo civile.34 Il motivo della salvezza di Ifigenia diventa perciò indissolubile da quello della libertà per la Grecia. Non a caso alcuni studiosi, tra cui Valgiglio, concordano con l’idea secondo cui a questo punto della tragedia « al centro sembra stare con prevalente importanza il motivo patriottico-nazionalistico-politico, che sta alla base della celebrazione dell’eroina, la quale si esalta all’idea di garantire alla Grecia l’indipendenza e la supremazia sui barbari schiavi».35

Secondo altri, invece, più che il contesto ideologico-nazionalistico, il tema del sacrificio di Ifigenia in questo passo si lega soprattutto ad una valenza religiosa, sulla quale si insiste qui molto di più che negli altri episodi; non a caso il nome di Artemide compare sedici volte. Su questa linea si pone, ad esempio, Melotti, che propone invece una esegesi di tipo rituale-cultuale. 36 In proposito egli fa rilevare che ad Aulide restano tracce di un santuario di Artemide nel quale si svolgevano riti che sono stati messi in relazione con altri due importanti centri di culto: i santuari di Artemide a Brauron e a Munichion. In tutti e tre i santuari, in base agli studi effettuati, sono stati individuati riti cosiddetti di “separazione”. Le giovani, in età prematrimoniale dovevano trascorrere un periodo di isolamento in queste località. Il temporaneo distacco dalla famiglia e dalla città le preparava a quello

tetrametro trocaico catalettico, più esteso dell’abituale trimetro giambico delle parti dialogate e recitate del dramma attico.

34

Valgiglio, E. , Il tema della morte in Euripide, Op.cit. , p. 77, sostiene che Euripide è qui orientato verso un idea cosmopolitica; in proposito cita anche, come preannuncio di un motivo ellenistico, il Fr. 1047 N. ; a3paj me\n a0h\r ai0etw?= pera/simoj / a3pasa de\ xqw\n a0ndri\ gennai/w| patri/j.

35

Valgiglio, E. , Il tema della morte in Euripide, Op.cit. , p. 78.

36

Melotti, M. , Ifigenia e iniziazione, in La macchina del temp, 2002 e dello stesso autore ulteriori spunti in Cantarella, E. – Gagliardi, L. - Melotti, M. , Diritto e sessualità in Grecia e a

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definitivo, che sarebbe presto giunto col matrimonio. Il padre che uccide la figlia, in quest’ottica rituale ha pertanto un valore simbolico: rappresenta l’allontanamento della figlia dalla casa paterna. Tanto più che lo stesso matrimonio veniva celebrato con rituali non dissimili da quelli funerari: la ragazza veniva allontanata dalla sua casa proprio come se fosse un cadavere, e, non a caso, Ifigenia viene mandata a chiamare proprio con il falso proposito di andare sposa ad Achille e spesso ricorre l’ironia tragica dell’ambiguo matrimonio non con l’eroe greco, ma con Ade. Molto spesso nel mito morte e matrimonio si confondono e la ragazza che si prepara alla cerimonia viene rappresentata proprio come “sposa di Ade”, il dio dei morti. D’altra parte lo stesso periodo di isolamento costituiva una sorte di morte temporanea e per questo, nell’immaginario, veniva spesso rappresentato come un’uccisione. In realtà si trattava solo di una morte simbolica: sostiene infatti Melotti che quando il sacerdote abbassa il coltello sacrificale su Ifigenia, la ragazza scompare, e, misteriosamente, si materializza una cerbiatta (l’animale ucciso dal padre)37

, in altre versioni un’orsa. Anche questa immagine ha un valore rituale: la ragazza che trascorre il suo periodo lontano dalla città, spesso nei boschi, assume infatti i tratti simbolici di un animale. In molti casi si praticavano anche forme di travestimento: le ragazze riunite a Brauron venivano chiamate le “orsette di Artemide”. Sempre a Brauron, Ifigenia era oggetto di un culto speciale: secondo la tradizione venne infatti sepolta lì e gli uomini, a cui fosse morta la moglie durante il parto, dedicavano alla sua tomba delle preziosissime vesti.38

37

Sul finale controverso di questa tragedia, illuminante è una osservazione di Lesky, Storia

della letteratura greca, vol. II, op.cit. , p. 520, il quale sostiene che proprio «la parte finale è

stata tramandata in condizioni disperate. Un frammento in Eliano (Hist. an. 7, 39) sembra provenire dalla conclusione autentica, in cui Artemide appariva come dea ex machina e annunciava di avere salvato Ifigenia, sostituendole una cerva, e di averla assunta al servizio del proprio culto. Questa conclusione è perduta (forse Euripide la lasciò incompleta) ed è stata sostituita dal racconto di un messaggero a Clitemestra, il quale riferisce del prodigio avvenuto durante la scena del sacrificio. Questo racconto, che forse fu già composto per la rappresentazione postuma, deve avere perduto a sua volta l’ultima parte: ciò che ora si trova alla fine è un’integrazione tarda, probabilmente bizantina».

38

Sul mito di Ifigenia e i riti di passaggio femminili si vedano: Brelich, A. , Paides e Parthenoi, Op.cit. ; Dowden, K. , La vergine e la morte: l'iniziazione femminile nella mitologia greca,

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129

Lesky va oltre la prospettiva sia ideologico-nazionalistica, sia rituale-antropologica e vede il fulcro tematico del sacrificio di Ifigenia in quella rivoluzione dei processi psicologici che caratterizza in modo sempre più accentuato i personaggi dell’ultima produzione euripidea. Fa rilevare infatti che già in drammi precedenti erano presenti spunti di rappresentazione di uno stato d’animo mutevole: basti pensare semplicemente alle figure di Admeto o Eracle; qui però il mutamento che si compie nell’anima di una giovane ragazza, che passa dal terrore della morte e dall’appassionata volontà di vivere all’abnegazione tranquilla e affatto volontaria, diventa per la prima volta l’oggetto del dramma. Certo, il mutamento di Ifigenia non viene osservato da Euripide in tutte le sue fasi, ma di certo sostiene Lesky, l’Ifigenia in Aulide significa un grande passo in avanti verso il dramma moderno, anche se si tratta solo di un inizio. Il poeta mostra al pubblico del tempo, sia pure con grande penetrazione, il punto di partenza e il punto di arrivo di un’evoluzione psicologica. Nelle figure della grande poesia, soprattutto in quelle della tragedia, l’uomo greco esigeva la costanza della fu/sij. Con l’innovazione dell’ Ifigenia in

Aulide Euripide restò isolato e perciò non fu compreso neppure dai grandi

ammiratori della sua arte. Aristotele nella Poetica39 biasima la tragedia perché l’Ifigenia atterrita dalla morte e quella del sacrificio eroico, a suo parere, non costituiscono una figura unitaria.

Genova, 1991; Lyons, D. , Gender and immortality: heroines in ancient Greek myth and cult, Princeton 1997; Hughes, D.D. , I sacrifici umani nell’antica Grecia, Op.cit. ; Faraone, C. ,

Playing the Bear and Fawn for Artemis. Female initiation or substitute sacrifice? , in Dodds, D.

B. (a cura di), Initiation in ancient Greek rituals and narratives : new critical , London –New York, 2003.

39

Proprio il cambiamento repentino di Ifigenia di fronte alla morte, porta Aristotele a definire il suo atteggiamento a0nw/maloj (incoerente): « tou= de\ a0nwma/lou h9 e0n Au0li/di 0Ifige/neia, ou0de\n ga\r e1oiken h9 i9keteu/ousa th|= u9ste/ra|.» 15, 17-18 («Di incoerente, l’Ifigenia in Aulide, perché quella che prega non assomiglia per nulla a quella che è dopo.» trad. a cura di Gallavotti, C. , Aristotele, Dell’arte poetica,pp. 52-3, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano, 1990). Sul carattere di “incoerenza” di Ifigenia insistono anche Di Benedetto, V. , Euripide:

teatro e società, Op.cit., che parla in proposito di metabolai/, cioè di improvvisi mutamenti

psicologici della fanciulla e Ferrari, F. , in Euripide, Ifigenia in Tauride, Ifigenia in Aulide, Op.cit. , che si sofferma in particolare sulla metagnoi/hj (pentimento) al verso 1424, che segna per lui un passaggio brusco ma sostanziale all’interno della psicologia della fanciulla.

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130 3.3.3 Ifigenia in Tauride: Ifigenia e Oreste

Un particolare tipo di sacrificio, anch’esso ascrivibile nella categoria di quelli involontari, ma in questo caso incompiuto e non realizzato (a0te/lestoj), è quello che viene offerto da Euripide nell’Ifigenia in Tauride.40

Quest’opera, più di ogni altra nel novero delle tragedie euripidee, rappresenta il dramma di due giovani dello stesso sangue che si salvano da un mondo rozzo e barbarico. L’effetto è tanto più sensibile in quanto il riconoscimento (a0nagnw/risij) è preceduto da un altro motivo spesso usato da Euripide: uomini uniti da strettissimi legami naturali rischiano, per una sorte avversa, di uccidersi a vicenda. Ifigenia, che Artemide ha salvato dal sacrificio in Aulide, è diventata sacerdotessa della dea nel paese dei Tauri. Un’usanza selvaggia, però, vuole che il sangue degli stranieri sia offerto alla dea, e Ifigenia deve consacrare i sacrifici. Oreste è perseguitato da una parte delle Erinni, anche dopo la sentenza dell’Areopago ed ha ricevuto da Apollo l’ordine di portare in Attica la statua di Artemide taurica. Pilade lo accompagna anche in questo cimento. Essi ora però devono cadere vittime sull’altare della dea per volere del re barbarico Toante, per mano proprio della sorella sacerdotessa Ifigenia.

Euripide fonde qui con l’Ifigenia dell’epica altre figure femminili: l’attica Artemide-Tauropolos, venerata ad Ale, o l’assimilabile Ifigenia di Brauron (Pausania registra un culto di Artemide-Ifigenia a Trezene ed in vari luoghi dell’Attica legati a memorie di Ifigenia), e la Vergine taurica assimilata alla figlia di Agamennone (Erodoto, IV, 103).

L’esperienza di Oreste ad Atene, estesamente narrata ai vv. 942-71 di questa tragedia (in particolare i vv. 947-60 suonano come un ai1tion delle Antesterie), si integra con la destinazione dello co/anon di Artemide e le prescrizioni cultuali di

40

Sul significato di questo termine nell’ambito cultuale rilevante è l’uso che ne farà qualche decennio dopo Platone in Fedone, 69c, dove assume l’accezione di “non iniziato” ai misteri, con chiaro rimando a quelli Orfici. Già Euripide per altro in Baccanti 40 aveva usato il termine con analoga semantica, allorchè Dioniso nel prologo, in un passo chiaramente corrotto, si esprime in questi termini: «Bisogna che questo paese capisca bene, anche contro voglia […..] che non è iniziato (a0te/leston) al mio culto.» Sulla lacuna del verso Musso in Euripide, Tragedie, vol. III, p. 540, Op.cit. , propone la seguente integrazione: «che sono un dio, che colpirà di nascosto colui».

(20)

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Atena alle conclusioni, facendo di una vicenda dall’ambientazione esotica, un dramma “attico” in senso pieno.41

Di questa sua condizione di sacerdotessa “assassina”, Ifigenia si mostra all’inizio del dramma completamente inconsapevole, come testimoniano i vv. 226 sgg: «Irroro gli altari del sangue degli stranieri che urlano pietoso grido, che versano pietosa lacrima.»42

Su tali riti barbarici, Euripide manifesta già nel primo episodio la sua dura stigmatizzazione: attraverso le severe parole della fanciulla che così si esprime verso i cruenti rituali del tempio maledetto: «I riti della dea! No, per me sono sottigliezze assurde: lei, se qualcuno tocca del sangue o puerpera donna o un morto, gli vieta di accostarsi ai suoi altari perché lo considera contaminato , ma poi lei stessa gode di umani sacrifici. […] Nessun nume, a giudizio mio, può essere immorale.» (vv. 380-91).

Dopo queste parole illuminanti sul criticismo razionalistico euripideo riguardo ai riti sacrificali umani, Ifigenia, avvenuta ormai l’a0nagnw/risij, decide a tutti i costi di salvare il fratello anche se dovesse rinunciare a mantenere in vita se stessa. Ma Oreste pensa soltanto alla salvezza comune o alla morte con la sorella. In questo caso le somiglianze con l’ Elena, rappresentata all’incirca negli stessi anni, appaiono decisamente visibili: anche Elena infatti aveva consigliato al marito di fuggire dall’Egitto senza di lei, ed anche Menelao voleva dividere con lei il ritorno o la morte. Si tratta di figure femminili, sia quella dell’Ifigenia in Tauride, sia quella dell’Elena, a giudizio di Lesky, che: «… mancano del grande atteggiamento eroico dei personaggi sofoclei, ma si guadagnano la nostra simpatia con gesti toccanti di generosità, di abnegazione e di fedeltà».43

Anche il finale di questa tragedia rivela palesi somiglianze con quello dell’Elena: Ifigenia fa credere al re barbaro Toante che è necessario purificare la statua della dea ed i prigionieri, ed inoltre che la purificazione va fatta in mare; dopo una

41

Definizione fornita da Storia della civiltà letteraria greca e latina, diretta da Lana, I. e Maltese, E.V. , vol. I, p.403, Torino, 1998

42

Traduzione a cura di Ferrari, F. in Euripide, Ifigenia in Tauride, Ifigenia in Aulide, p.109, Milano, 1992, dove, per altro, si sottolinea da parte del curatore che la traduzione è congetturale di un testo corrotto.

43

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lotta drammatica raccontata dal secondo a1ggeloj, essi riescono a fuggire sulla nave che aveva portato Oreste e Pilade. A questo punto Atena compare come dea

ex machina, ma in circostanze singolari. I tre congiurati sono già in viaggio sulla

nave, con la statua, quando un’ondata li respinge sulla spiaggia. Questo nuovo pericolo, che Toante vuole subito sfruttare, è introdotto soltanto per motivare l’intervento di Atena. Si vede così che il deus ex machina non ha l’unica funzione di sciogliere i nodi. Non meno importante, alla fine dell’opera, è la fondazione del culto da parte della divinità. Per quanto Euripide nel corso della tragedia segua la propria strada, alla fine la sua poesia rientra nel solco di culti che il suo pubblico ateniese conosceva ed amava: qui infatti Artemide istituisce i suoi culti di Ale e Braurone.

Sull’atteggiamento fortemente illuministico di Euripide riguardo ai sacrifici umani già gli studi geografici ed etnografici a lui contemporanei avevano dimostrato che tutti gli uomini onorano gli dei, ma con nomi e con riti diversi a seconda del carattere dei popoli, e la storiografia erodotea era stata molto esplicita nel sottolineare la relatività delle usanze (no/moi, no/mima), che regolano i rapporti fra l’uomo e la divinità, considerandole tutte ugualmente degne di rispetto.44

Euripide, invece, non esita a dimostrare il suo orrore per i sacrifici umani dei barbari, dando rilievo alla superiore spiritualità greca. Il poeta era ben consapevole che, in tempi ormai antichissimi, questi riti crudeli avevano avuto luogo anche in Grecia (Ifigenia nel paese dei Tauri ne è l’esempio) e volle rammentarlo al suo pubblico attraverso le parole stesse di Atena. Infatti, alla fine della tragedia, la dea, imponendo di costruire un tempio di Artemide ad Ale, dice anche che, per onorare la dea nella sua festività annuale, si dovrà scalfire il collo di un uomo con la spada in modo da farne uscire qualche goccia di sangue, in memoria dell’antico, cruento sacrificio. In questo modo, Atena stessa, la divinità

44

Sul relativismo nella storiografia erodotea, opere fondamentali risultano: Nenci G., Reverdin, O. , (eds), Hérodote et les peuples non-grecs, “Entretiens Hardt” 35, Genève 1990 e Hartog, F. ,

The Mirror of Herodotus: The Representation of the Other in the Writing of History, University

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che il pubblico di Euripide considerava devotamente la propria patrona, testimonia che, dai tempi antichi, non erano cambiati gli dei, ma la concezione che gli uomini avevano di loro e le forme di culto con cui li veneravano. In questo senso, i Greci si erano innalzati al di sopra dei “barbari” ed avevano raggiunto un grado superiore di spiritualità.45 Tuttavia, proprio questa possibilità di confronto implicava che anche la religione greca era umanamene determinata e non poteva avere valore assoluto di verità: era il relativismo dei sofisti che dava la sua risposta al problema dell’evoluzione delle figure divine.

Sulla stessa direttiva si pone anche Valgiglio46, il quale osserva che il sacrificio imposto, tradizionalmente inserito nel rito di valore religioso sostanziale, quale quello di Ifigenia in Eschilo, Ag.228 sgg. , dello stesso Euripide Iph. T. 24 sgg. , 359 sgg. e in Lucrezio (I, 84 sgg. , il quale prende più dall’Ifigenia taurica di Eurpide che dall’Ifigenia in Aulide ), cede il posto all’offerta volontaria, inserita in un rito formale, svuotato dell’idea religiosa, e rinnovato nel significato umano, che ne crea la ragion d’essere. L’atto, sempre secondo Valgiglio, da divino, si umanizza; quello che era un atto di barbarie, dai Greci stessi ormai rifiutato, e particolarmente da Euripide, come manifestazione crudele di una religione in decadenza, diventa un atto di civiltà nobilissima, una prova di elevata virtù. L’odiosa costrizione si trasforma in slancio di devozione; il rito religioso, svuotato nei suoi elementi tradizionali, diventa in questo contesto un rito umano, dai risvolti ormai laicizzati e legati più ai no/moi graptoi/ che non ai no/moi a1grafoi, secondo l’accezione sofoclea dell’Antigone.

3.3.4 Baccanti: Penteo

Si è ritenuto opportuno includere in questa prima casistica legata al sacrificio involontario o forzato, anche le Baccanti, l’ultima tragedia composta da Euripide,

45

Sulla questione spunti interessanti in De Romilly, J. , Les barbares dans la pensée de la

Grèce classique, “Phoenix” 47 , 4. pp283-292, 1993.

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per altro durante il suo “volontario” esilio in Macedonia, presso la corte del re Archelao a Pella. L’elemento imprescindibile del particolare rito sacrificale contenuto in questo dramma è il suo indissolubile legame con il dionisismo ed i riti ad esso connessi, che evidentemente trovano ampio spazio nell’ultima produzione tragica di Euripide, in cui si assiste ad un duplice atteggiamento fideistico: il tentativo, per altro vanificato, di recuperare in forma di palingenesi aspetti della religiosità tradizionale, e l’anelito verso nuove forme spirituali, di cui il dionisismo appariva il terreno più fertile e soddisfacente. Non a caso, infatti, a giudizio di Lesky, l’opera di Euripide è largamente dominata da quella compenetrazione fra sentimento elementare e pensiero razionale che esprime altrettanto bene la sua personalità come l’idea dell’uomo che era propria di un’epoca in cui attraverso le rovine della tradizione si facevano strada dappertutto le concezioni nuove.47 Partendo da questa osservazione, si comprende come alla fine della produzione euripidea, quasi a simboleggiare queste tensioni, si trovino le Baccanti.48

L’argomento è offerto da uno di quei miti sull’ostilità incontrata dal culto di Dioniso in cui si rispecchia non tanto un processo storico, che avrebbe accompagnato l’introduzione del culto, quanto la difesa della ragione contro l’estasi dionisiaca. Qui è il re tebano Penteo che si oppone al dio e gli offre la possibilità di riportare un crudele trionfo. Penteo nel finale è straziato dalle Menadi, la cui schiera è guidata da sua madre Agave e dalle sue sorelle: questo tema era già stato trattato da Eschilo nel dramma perduto Penteo.

Proprio nel 407, quando Euripide accetta l’invito del re Archelao a trasferirsi in Macedonia, in Grecia il dionisismo conosceva una forte opposizione, tanto che era ormai scomparso definitivamente da alcune regioni dell’Ellade: al contrario alla corte di Pella e nell’ancora boscosa e selvaggia Macedonia, Euripide trovava ampie occasioni di contatto con questa ambigua e rivoluzionaria spiritualità.

47

Lesky, A. , Storia della letteratura greca, vol. II, Op.cit. , p. 520.

48

Per le Baccanti di Euripide, ed in particolare per il commento introduttivo, resta fondamentale Dodds, E.R. , Euripides Bacchae, Oxford, (II ed.), 1960.

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Il tema della mani/a dionisiaca come manifestazione suprema della potenza dell’irrazionale non era nuovo. Già nell’Iliade (VI, 130-140), Diomede, quando incontra il guerriero licio Glauco, rievoca l’empio comportamento del re di Tracia, Licurgo, nei confronti del dio appena giunto nella sua terra; dinanzi alla violenza del re, Dioniso, terrorizzato, si rifugiò nelle profondità del mare, presso Teti, mentre Licurgo, per il suo sacrificio, fu punito con la cecità e con la morte prematura. Il passo dell’Iliade, secondo Biondi, è degno di nota per due motivi: Dioniso vi è indicato per la prima volta con l’epiteto di maino/menoj, “folle”, “furioso”, e di lui si dice che è seguito soltanto da donne, che portano il tirso (un lungo bastone adornato di nastri, di tralci d’edera, e sormontato da una pigna conficcata sulla punta) come insegna del loro culto.49

In Grecia il dionisismo si diffuse nell’VIII secolo a.C. , un periodo in cui la vasta opera di colonizzazione provocò grandi cambiamenti, anche religiosi, favorendo la tendenza al sincretismo fra divinità di paesi diversi e l’introduzione di nuovi culti, a carattere orgiastico e misterico. Questi ultimi trovarono larga diffusione fra gli appartenenti delle classi sociali più umili, emarginati dalla religione olimpica, che tendeva a privilegiare l’aristocrazia della quale era espressione diretta, e che escludeva da una partecipazione attiva al culto le donne (salvo rare eccezioni) e gli schiavi. Tuttavia, le manifestazioni più violente del dionisismo, e soprattutto la celebrazione notturna dei riti, non mancarono di suscitare perplessità in un popolo abituato a considerare come massimo valore il senso della misura (metrio/thj , meso/thj); perciò si tentò ben presto di fissare anche il culto di Dioniso in forme canoniche con caratteristiche comuni, benché in regioni diverse. La festa era sempre una pannuxi/j (si protraeva cioè un’intera notte, al lume delle fiaccole), vi prendevano parte soltanto donne (però, ad Atene esisteva un sacerdote di Dioniso), le quali, indossando pelli di cerbiatto, dette nebridi, e

49

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impugnando il tirso, si recavano in corteo sui pendii dei monti, accompagnate dalla musica dei flauti, dei cembali e dei tamburi.50

L’intensità ossessiva del suono contribuiva a provocare la mani/a, una specie di “invasamento” mistico, durante il quale le donne, dette a seconda delle regioni Menadi, Tiadi, Baccanti, Lene, si abbandonavano a danze dai movimenti sfrenati e convulsi. La cerimonia raggiungeva il culmine nel rituale sanguinoso del

sacrificio detto diasparagmo/j, “lacerazione”, “sbranamento”, durante il quale

la vittima veniva uccisa e fatta a pezzi con le nude mani. I brandelli venivano poi distribuiti tra i fedeli e mangiati crudi (w9mofagi/a), per entrare in contatto diretto con la divinità. In Macedonia questi elementi selvaggi e sconcertanti del dionisismo si mantennero più a lungo che altrove; e qui Euripide, per il quale la dialettica spesso drammatica fra razionalità e irrazionalità aveva sempre costituito un motivo di grande interesse, potè assistere a questi inquietanti aspetti del culto del dio, modificati o scomparsi nelle altre regioni della Grecia.

La dimostrazione di come culti e sacrifici dionisiaci in età storica fossero abbondantemente diffusi in tutta l’Ellade, è garantita dal fatto che, prima di Euripide, anche altri poeti tragici erano stati attratti dal tema del dionisismo; abbiamo infatti notizia di un Penteo, scritto da Tespi, che aveva come protagonista lo stesso re di Tebe presente nel dramma euripideo; nel 467 a.C. era stata messa in scena una tetralogia imperniata sulle sventure del re tracio Licurgo, opera di Polifrasmone; anche lo stesso Eschilo aveva composto due tetralogie, dedicate una a Licurgo e una a Penteo. Purtroppo, di questi drammi andati perduti non si possiedono che scarsissime notizie, così che le Baccanti di Euripide sono, allo stato attuale delle conoscenze, l’unico dramma sul dionisismo; una situazione quasi paradossale per un genere letterario che ha un legame assai stretto e universalmente riconosciuto con il culto di Dioniso.

50

Sul dionisismo, spunti rilevanti nel Dizionario di Antichità Classiche di Oxford, vol. I, pp. 682-4, s.v. Dioniso, Op.cit. e Schlesier, R. , Daimon und daimones bei Euripides, “Saeculum” XXXIV, pp. 267-79.

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In questo dramma di Euripide il protagonista assoluto, in praesentia o in absentia è Dioniso; nello svolgimento tutto è calcolato per esaltare il dio, la cui potenza, accompagnata da una natura ora benevola, ora crudele, infrange inesorabilmente ogni umano tentativo di opposizione. Tutti gli dei sono onnipotenti e possono interferire come vogliono nelle azioni umane; tuttavia le loro opere presentano caratteristiche immutabili di comprensibilità e di coerenza (anche quando può sembrare che non sia così, ciò dipende dai limiti dell’intelletto umano), mentre Dioniso è il dio “folle” per antonomasia.51 La sua arma è la pazzia, che inganna le vittime della sua collera con mille false immagini di verità (ne sono evidenti simboli il travestimento, la maschera, la metamorfosi, l’allucinazione), le confonde e infine le distrugge, o meglio, le spinge a creare da sé i presupposti per la propria distruzione. Trionfo dell’irrazionalità, la potenza di Dioniso sembra farsi beffe in ogni momento della ragione umana, umiliandola e togliendole ogni possibilità di conoscenza che non avvenga attraverso la mani/a, cioè attraverso la negazione di se stessa e l’accettazione del qau=ma, il “prodigio”, attraverso il quale si attua il gioco magico e terribile del dio: chi però si oppone al suo nume non può sottrarsi dal crudele rito sacrificale del diasparagmo/j, in cui precipita inesorabilmente anche Penteo accecato dalla sua u3brij.

La crudeltà della conclusione del dramma con lo straziamento delle carni di Penteo ha spinto gli studiosi a formulare ipotesi opposte: secondo alcuni, Euripide avrebbe voluto stigmatizzare l’eccessiva violenza di certi aspetti del dionisismo, facendo di Penteo l’eroe che perisce nel tentativo di arginare questo culto sanguinario; secondo altri, le Baccanti testimonierebbero invece l’adesione del poeta, negli ultimi anni della sua vita, ad una religiosità opposta a quella olimpica, serena ed equilibrata; ciò sarebbe stato determinato dal disorientamento che la guerra aveva causato in quegli anni ad Atene, e che aveva finito con l’intaccare anche i valori religiosi tradizionali. Tuttavia, è probabile che si debba cercare in altra direzione: il dramma era infatti destinato al pubblico della

51

L’argomento è ampiamente trattato nelle pagine introduttive di Euripide, Baccanti, a cura di Di Benedetto, V. , Milano, 2004.

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Macedonia, una regione meno evoluta rispetto alla cultura ateniese, ed ancora assai legata a riti e celebrazioni connesse con l’agricoltura e con il ciclo delle stagioni. Una di queste cerimonie, che segnava il ritorno della buona stagione, culminava con l’uccisione dell’Inverno, che era raffigurato in vesti femminili e che veniva fatto a pezzi, proprio come Penteo; né bisogna trascurare il fatto che, nella fase più antica, Dioniso è una divinità strettamente connessa alla vegetazione e all’agricoltura ed egli stesso, come Dio/nusoj Zagreu/j, è sottoposto all’uccisione e allo smembramento da parte dei Titani. In base a questa seconda ipotesi è presumibile ritenere che Euripide avesse voluto risalire, con il suo dramma, alle fonti stesse del dionisismo, in un paese che ancora lo celebrava con forme di culto ormai scomparse ad Atene.

Questo motivo del sacrificio sul corpo “lacerato” della cultura pagana, troverà ampi motivi di reprints anche nella successiva cultura cristiana-bizantina: gli antichi avvertirono in modo particolare l’intensità dello spirito lirico e religioso della scena finale, con il disperato pianto di Agave sul corpo lacerato del figlio, accostandolo al pianto della Vergine sul Christus Patients; lo testimonia l’opera di un dotto bizantino dell’ XI secolo, un dramma intitolato Xristo\j pa/sxwn, che mostra chiare reminiscenze euripidee, in particolare desunte dalle Baccanti.52

3.3.5 Eretteo: figlia di Eretteo

Come ultimo esempio di sacrificio involontario o forzato, si è ritenuto opportuno inserire anche l’episodio del sacrificio di una delle figlie di Eretteo nell’omonima tragedia di Euripide, per noi perduta, ma non per questo meno significativa. Il contesto mitico rimanda ad Atene assediata dai Traci guidati da Eumolpo, allorchè Eretteo, re degli Ateniesi, mentre l’esercito nemico sta per invadere il territorio, si reca a Delfi per interrogare l’oracolo sul da farsi per riportare la

52

Sul rapporto tra le Baccanti di Euripide ed il Christus Patiens, significative informazioni in Rizzo, I. , Sul ' Christus patiens ' e le ' Baccanti ' di Euripide , “Siculorum Gymnasium Ν. S.” XXIX, 1,1977. Notizie in proposito anche in Dizionario di Antichità Classica di Oxford, s.v.

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