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CAPITOLO 3 IL CREDIT VALUATION ADJUSTMENT SECONDO I PRINCIPI CONTABILI INTERNAZIONALI E LA TECNICA DI VALUTAZIONE INTERNA 3.1 Il CVA secondo i principi contabili IAS/IFRS

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CAPITOLO 3

IL CREDIT VALUATION ADJUSTMENT SECONDO I PRINCIPI CONTABILI INTERNAZIONALI E LA TECNICA DI VALUTAZIONE INTERNA

3.1 Il CVA secondo i principi contabili IAS/IFRS

Gli International Accounting Standards (emanati fino al 2001) o International Financial

Reporting Standards (a partire dal 2001) sono dei principi contabili di redazione del bilancio

emanati dallo IASB (International Accounting Standards Board) e approvati con regolamento comunitario, il cui scopo è quello di creare un linguaggio contabile comune per le imprese che operano all’interno della Comunità Europea, così da rendere più semplice e trasparente il confronto tra i bilanci e l’informativa finanziaria delle aziende operanti nei diversi Paesi, a beneficio degli investitori53.

L’introduzione degli standards internazionali in ambito comunitario per la redazione dei bilanci d’esercizio e consolidati si è concretizzata nel 2002 con il regolamento C.E. n. 1606/2002, con cui l’Unione Europea ha reso obbligatoria l’adozione dei principi internazionali nei bilanci consolidati delle società quotate e delle banche e assicurazioni a partire dal bilancio 2005. L’Italia, nel recepire la normativa comunitaria con il D.lgs. 38/2005, ha esteso l’obbligo anche ai bilanci d’esercizio delle stesse società, assicurazioni escluse, per l’anno 2006 e ha previsto la facoltà per i bilanci consolidati di tutte le altre società (a esclusione dei soggetti minori) a partire dal bilancio d’esercizio 2005. Quindi, dal 2006 i soggetti obbligati all’utilizzo dei principi contabili internazionali IAS/IFRS per la redazione del bilancio d’esercizio e consolidato sono i seguenti:

 le società quotate;

 le banche e gli intermediari finanziari soggetti a vigilanza;  le società emittenti strumenti finanziari diffusi;

 le società assicurative non quotate con riferimento al solo bilancio consolidato;  le società assicurative quotate.

Invece, coloro che hanno la facoltà, e non l’obbligo, di applicare i principi internazionali nel bilancio consolidato e d’esercizio sono:

 le società incluse nel consolidato di società obbligate a redigere il bilancio consolidato in conformità agli IAS;

53 F. MIGLIORINI, Principi Contabili Internazionali (IAS): Conosciamoli meglio, in www.fiscomania.com,

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 le società sottoposte all’obbligo di redazione o incluse in un bilancio consolidato. I principi contabili internazionali IAS/IFRS determinano l’utilizzo di specifici criteri contabili impostati sulla natura finanziaria dell’informativa di bilancio. Tra questi, troviamo l’utilizzo del metodo del fair value per la valutazione di determinate attività/passività, anziché il criterio del costo. In particolare, due sono i principi che richiedono alle istituzioni di incorporare il rischio di credito nella misura del fair value dei loro strumenti derivati: prima lo IAS 39 “Financial Instruments: Recognition and Measurement”, adottato nel 2004 e reso effettivo a partire dal 2005, poi l’IFRS 13 “Fair Value Measurement”, adottato il 12 maggio 2011 e divenuto effettivo a partire dal 1° gennaio 2013, che lo ha sostituito. Nei paragrafi 69 e 82 della Guida Operativa che accompagna lo IAS 39, si richiede rispettivamente di riflettere nel

fair value la qualità di credito dello strumento e di considerare il rischio di credito come un

fattore determinante nel calcolo del fair value. Tuttavia, questa guida è stata giudicata dallo IASB come vaga e alle volte incoerente, tant’è che molte istituzioni procedevano al monitoraggio del rischio di credito e controparte esclusivamente da un punto di vista qualitativo, ma non quantitativo54. Molte banche, in realtà, non applicavano al fair value un aggiustamento per il rischio di default, ma puntavano a forti politiche interne di gestione del rischio di credito, effettuando transazioni in derivati OTC solo con controparti “investment

grade” o con le banche più solide55.

E’ così che è stato introdotto l’IFRS 13, che ha specificato in modo più chiaro ed esplicito i principi della misurazione del fair value, inclusi gli aggiustamenti relativi al credito che sono gli elementi di nostro interesse. Come affermato già nel capitolo 1, sono stati i forti deterioramenti nella qualità del credito, anche delle controparti considerate “too big to fail”, che si sono verificati durante la crisi finanziaria, che hanno sottolineato la necessità di incorporare il rischio creditizio di controparte nel processo di valutazione dei vari strumenti, soprattutto nei derivati. Di conseguenza, sia le autorità che la maggior parte dei partecipanti del mercato si sono resi conto del bisogno di calcolare in modo più preciso “un aggiustamento alla valutazione del credito” sui loro derivati56. Sebbene il rischio di credito sia sempre stato

54 B.WILSON, J. DREW, IFRS 13 Fair Value Measurement – Incorporating credit risk into fair values, agosto

2012, in www.reval.com, consultato il 14 luglio 2016.

55 ERNST & YOUNG, Credit valuation adjustments for derivative contracts, aprile 2014, in www.ey.com,

consultato il 15 luglio 2016.

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un elemento chiave nella misurazione del fair value, la crisi ne ha evidenziato ancor più l’importanza57.

Innanzitutto, l’IFRS 13 definisce il fair value come « il prezzo che si percepirebbe per la vendita di un’attività ovvero che si pagherebbe per il trasferimento di una passività in una regolare (cioè non forzata) operazione tra operatori di mercato alla data di valutazione, ossia il prezzo di chiusura alla data di valutazione dal punto di vista dell’operatore di mercato che detiene l’attività o la passività». Con riferimento alle passività finanziarie, il concetto di prezzo di “trasferimento” (transfer) costituisce una differenza importante rispetto alla precedente nozione di prezzo di “regolamento” (settlement) prevalente nell’ambito dello IAS 3958. Dunque, per stimare il fair value, non si assume più che la passività venga regolata con la controparte o estinta in altro modo alla data di valutazione, come invece avveniva con lo IAS 39. Adesso, si fa riferimento ai prezzi quotati sul mercato per trasferire una passività simile se questi sono disponibili, altrimenti si valuta la passività ponendoci nella prospettiva dell’operatore di mercato che detiene quello strumento come attività59.

Per quanto riguarda la transazione, il fair value deve essere valutato assumendo che essa avvenga nel “mercato principale” per l’attività o per la passività, definito come «il mercato con il maggior volume e il massimo livello di attività ». In assenza di questo, si deve far riferimento al “mercato più vantaggioso”, ossia «il mercato che massimizza l’ammontare che si percepirebbe per la vendita dell’attività o che riduce al minimo l’ammontare che si pagherebbe per il trasferimento della passività, dopo aver considerato i costi dell’operazione e i costi di trasporto».

Poiché il fair value è un criterio di valutazione di mercato, esso deve essere determinato adottando quelle assunzioni che gli operatori di mercato utilizzerebbero per determinare il prezzo dell’attività o della passività, incluse le assunzioni circa i rischi. Tra queste ultime troviamo il rischio di credito: quello relativo alla controparte se lo strumento rappresenta un’attività e quello proprio se lo strumento è una passività. Nel paragrafo 42, l’IFRS 13 afferma esplicitamente che «il fair value di una passività riflette l’effetto di un rischio di

inadempimento», definito come il rischio che un’entità non adempia a un’obbligazione. «Il

rischio di inadempimento comprende anche, tra l’altro, il rischio di credito dell’entità stessa

57 MC CARROLL J., KHATRI G.R., Credit risk in fair value measurement, in Financial Reporting -

Accountancy Ireland, Vol.43 n.6, dicembre 2011, in www.deloitte.com, consultato il 15 luglio 2016.

58 Lo IAS 39 definisce il fair value come« il corrispettivo al quale un bene può essere scambiato, o una passività

estinta, tra parti consapevoli e disponibili in una transazione equa».

59 KPMG, IFRS Practice issues for banks: fair value measurement of derivatives – the basics, settembre 2012, in

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(come definito nell’IFRS 7 Strumenti finanziari: informazioni integrative). Si presume che il rischio di inadempimento sia uguale prima e dopo il trasferimento della passività».

Ciò che si deduce è che, a differenza di quanto previsto da Basilea 3, nel valutare il fair value di una passività, un’entità deve considerare anche l’effetto del proprio rischio di credito (merito creditizio) e qualsiasi altro fattore che potrebbe influenzare la propria probabilità di adempiere o meno all’obbligazione. Tale effetto può variare in base ai seguenti elementi:

a) il fatto che la passività sia un’obbligazione a consegnare disponibilità liquide (una passività finanziaria) o un’obbligazione a fornire merci o servizi (una passività non finanziaria);

b) le condizioni degli eventuali strumenti di attenuazione del rischio di credito correlati alla passività.

Diversamente dalle previsioni di Basilea 3, i principi contabili internazionali considerano due tipi di aggiustamenti del fair value: quello che cattura il rischio di controparte, cioè il Credit

Valuation Adjustment (CVA), e quello che cattura il proprio rischio di default, noto come Debit Valuation Adjustment (DVA). E’ proprio quest’ultimo che viene escluso dal quadro

regolamentare di Basilea 3.

Disallineamenti tra Basilea 3 ed i principi contabili si hanno anche a proposito dell’ambito di applicazione60. Alcune transazioni che sono soggette al calcolo del CVA contabile possono

non essere assoggettate al calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di CVA, come quelle transazioni che il CRR esime dalla quantificazione del requisito patrimoniale (vedi nota 44) o quelle operazioni SFT che l’autorità nazionale può decidere di escludere dall’ambito di applicazione del requisito a fronte del rischio di CVA. Al contrario, altre transazioni per cui è richiesto il calcolo del requisito patrimoniale possono essere escluse dalle banche dal calcolo del CVA contabile, come quelle con controparti definite “strong

CSA”61. Per queste, le banche spesso ignorano il CVA contabile poiché la loro alta qualità creditizia ed gli accordi di CSA con loro stipulati ne rendono irrilevante il valore, anche se risulterebbe più opportuno calcolare un piccolo CVA piuttosto che assumere che sia pari a zero62.

60 EUROPEAN BANKING AUTHORITY, op. cit., pagg.49-50.

61 Le controparti strong sono quelle soggette al versamento giornaliero dei margini, con cui è stipulato un

accordo di CSA (Credit Support Annex), ossia un documento legale che definisce i termini entro i quali devono essere costituiti i collateral tra controparti di uno swap per mitigare il rischio di controparte derivante dalle esposizioni in derivati.

62 SOLUM FINANCIAL, Credit Risk Accounting Under IFRS 13 - CVA, DVA and FVA, maggio 2013, in

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L’IFRS 13 non prevede una metodologia specifica per il calcolo del fair value e delle rettifiche relative, ossia CVA e DVA, ma richiede di utilizzare tecniche valutative che siano appropriate alla disponibilità dei dati e che massimizzino l’uso di dati osservabili sul mercato e minimizzino quello degli input non osservabili. Infatti, esso stabilisce una “gerarchia del

fair value” che suddivide in tre livelli gli input usati nelle tecniche di valutazione63. Gli input di livello 1, ai quale viene data la massima priorità, sono i prezzi quotati in un mercato attivo per attività o passività identiche; gli input di livello 2 sono i dati, diversi dai prezzi quotati inclusi nel livello 1, osservabili direttamente o indirettamente per l’attività o per la passività; gli input di livello 3, ai quali viene data la minima priorità, sono gli input inosservabili. Il fair

value, e di conseguenza anche il CVA ed il DVA, dei derivati OTC viene generalmente

misurato attraverso tecniche di valutazione che utilizzano input di secondo e terzo livello, poiché solitamente non sono disponibili prezzi di mercato ad essi relativi. Sicuramente, ottenere dati sul rischio di controparte affidabili e aggiornati, specialmente per società non quotate, rappresenta una delle principali problematiche connesse ai processi valutativi introdotti dall’IFRS 1364. Infatti, la quantificazione del CVA/DVA richiede l’utilizzo di

modelli matematici complessi, che possono far riferimento anche a parametri non direttamente osservabili sul mercato e quindi legati ad un certo grado di soggettività del valutatore. Per tali tipologie di valutazioni occorre dare ampia disclosure in bilancio.

Nel calcolo del CVA/DVA, occorre far riferimento anche ad eventuali collateral o accordi di compensazione. La collateralizzazione dei derivati (sulla base dei cd. Credit Support Annex previsti dagli ISDA Agreement65), attraverso il versamento di un margine (in genere giornaliero) dalla parte debitrice, corrispondente alle variazioni o parte delle variazioni del

mark to market del derivato, consente una riduzione dell’esposizione al rischio di controparte

e quindi degli impatti dell’applicazione di un CVA o DVA al fair value dei contratti stipulati. Nella negoziazione dei derivati si fa spesso riferimento anche ad accordi che prevedono il regolamento netto della partite creditorie e debitorie in caso di default, ossia gli accordi di compensazione. In presenza di tali accordi, sotto certe condizioni previste dall’IFRS 13, è possibile effettuare il calcolo del CVA o DVA in base all’esposizione netta in termini di rischio di controparte (invece che sui singoli contratti derivati), cioè dopo aver considerato l’effetto compensativo potenzialmente generabile da tali accordi. Successivamente, l’importo

63 DELOITTE, IFRS 13 - Fair Value Measurement, in www.iasplus.com, consultato il 16 luglio 2016.

64 STUDIO C3, IFRS 13 – Considerazioni sul fair value degli strumenti finanziari detenuti dalle imprese, in

www.studioc3.it, consultato il 16 luglio 2016.

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in tal modo determinato deve essere ripartito sugli strumenti con saldo positivo o negativo a seconda che si tratti di applicare un CVA o un DVA.

In particolare, l’IFRS 13 afferma che se un’entità possiede un gruppo di attività e passività finanziarie gestito sulla base della propria esposizione netta al rischio di controparte, le è consentito di «valutare il fair value del gruppo sulla base del prezzo che si percepirebbe dalla vendita di una posizione netta lunga (ossia un’attività) per una particolare esposizione al rischio o dal trasferimento di una posizione netta corta (ossia una passività) per una particolare esposizione al rischio in una regolare operazione tra operatori di mercato alla data di valutazione, alle condizioni di mercato correnti. Di conseguenza, l’entità deve valutare il

fair value del gruppo di attività e passività finanziarie in modo coerente con le modalità con

cui gli operatori di mercato determinerebbero il prezzo dell’esposizione netta al rischio alla data di valutazione».

3.2 Il CVA nel gergo finanziario

Finora abbiamo visto che i fattori che hanno indotto le banche a riporre la propria attenzione sul CVA sono stati di tipo regolamentare (Basilea 3) e contabile (IAS/IFRS) e così ne abbiamo visto il relativo trattamento. In realtà, esistono anche fattori di tipo gestionale. Infatti, a seguito della stretta creditizia del 2008 (cosiddetto credit crunch), il front office delle banche si è reso conto della necessità di una migliore quantificazione, di una più accurata determinazione dei prezzi (pricing) e di una più adeguata gestione del rischio di controparte. Alcune banche hanno allestito dei CVA desk specifici finalizzati alla gestione dei costi e ricavi legati al rischio di CVA, cui vengono corrisposti compensi in cambio di un isolamento dalle perdite derivanti dal rischio di controparte. Ecco che risulta importante capire anche la definizione del CVA che viene usata quotidianamente nella prassi interna delle banche, che comunque si lega molto a quella di tipo contabile.

Nel gergo finanziario, il CVA, in particolare il cosiddetto CVA “unilaterale”, viene generalmente considerato come il prezzo del rischio di credito di controparte che le imprese devono riflettere nel valore delle loro transazioni in derivati, principalmente di tipo OTC. Esso dovrebbe riflettere la miglior stima attuale della potenziale perdita che l’impresa subirebbe nella transazione in caso di default della controparte. Infatti, se al momento del

default della controparte l’impresa dovesse ricevere un determinato ammontare (quindi nel

caso di fair value positivo), subirebbe una perdita poiché non potrebbe ottenere quell’importo nella sua totalità. Così, il CVA non rappresenta altro che un aggiustamento al valore del derivato conseguente alla potenziale vulnerabilità dello stesso. Supponiamo, ad esempio, che

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la Banca 1 abbia firmato un contratto di interest rate swap, ossia un derivato sulle variazioni dei tassi di interesse, con la Banca 2. Ipotizziamo anche che per la Banca 1 il valore di mercato dello swap sia di 10 milioni di euro, ma che a un certo punto circolino sul mercato notizie che fanno ipotizzare che la Banca 2 rischi di essere insolvente e dunque non possa onorare le obbligazioni nei confronti della Banca 1. Il valore dello swap a questo punto verosimilmente scenderà, per esempio, a 7 milioni di euro. In sostanza, la Banca 1 subirà una perdita sullo swap pari a 3 milioni di euro, che deve essere rilevata a conto economico e che costituisce proprio il Credit Valuation Adjustment66.

Poiché generalmente i derivati OTC vengono prezzati facendo riferimento alla curva dei tassi

risk-free, il CVA viene allora definito come la differenza tra il valore di un derivato OTC

senza rischio d’insolvenza e il valore effettivo del derivato che tiene conto del possibile

default della controparte, se prendiamo in considerazione un unico contratto (CVA a livello di

contratto). Pertanto, in formule:

𝐶𝑉𝐴 = 𝑉𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑘 𝑓𝑟𝑒𝑒 − 𝐹𝑎𝑖𝑟 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜

espressione che può anche essere riscritta come:

𝐹𝑎𝑖𝑟 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 = 𝑉𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑘 𝑓𝑟𝑒𝑒 − 𝐶𝑉𝐴

Dalla formula di cui sopra si può osservare come il CVA costituisca un termine positivo che la Banca 1 deve sottrarre al prezzo risk-free quando valuta la sua posizione nei confronti della Banca 2, per tenere in considerazione il rischio di default di quest’ultima. Ciò implica che il

fair value del derivato che incorpora il rischio di insolvenza sia inferiore rispetto al valore che

non include tale rischio. Ma questo non ci sorprende affatto: se fosse data alla Banca 1 la possibilità di scegliere se negoziare con una controparte priva di rischio di default o con una controparte rischiosa come la Banca 2, sicuramente sceglierebbe quella priva di rischio, a meno che non venisse compensata dalla Banca 2 con uno sconto sul prezzo della transazione. Questo sconto è proprio il Credit Valuation Adjustment. Il fatto che il valore di un titolo negoziato con una controparte soggetta al rischio di default sia inferiore rispetto al valore

66 W. VECCHIATO, E. VIRGUTI, Il rischio di controparte, in Newsletter AIFIRM - Risk Management

Magazine, anno 8, n°2, aprile-maggio-giugno 2013;

BORSA ITALIANA S.p.A., Il CVA - Credit Value Adjustment, 23 febbraio 2015, in www.borsaitaliana.it, consultato il 18 luglio 2016.

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dello stesso titolo negoziato con una controparte che ha una probabilità di default nulla è una caratteristica tipica di ogni asset. Questo dipende dal fatto che quando si investe in attività rischiose si richiede un premio come compenso per l’assunzione del rischio, che implica un rendimento superiore ed un prezzo inferiore rispetto ad un’attività priva di rischio. E’ ciò che accade anche per le obbligazioni: sappiamo che il rendimento di obbligazioni rischiose è più alto rispetto a quello di ipotetiche obbligazioni risk-free e questa differenza (positiva) tra rendimenti, nota come credit spread, implica un prezzo più basso per l’obbligazione rischiosa se confrontato con quello dell’obbligazione default-free67.

Va osservato che, in questo caso, viene considerato il solo rischio di default della controparte (Banca 2). In realtà, anche il rischio di default della banca che sta effettuando il calcolo (Banca 1) influenza la valutazione del derivato. Oltre che al CVA, è opportuno dunque fare riferimento anche al DVA (Debit Valuation Adjustment), che rappresenta l’altra faccia della medaglia: non è altro che il CVA inteso dal punto di vista della controparte, che riflette il costo per la controparte derivante dall’insolvenza dell’operatore. In altre parole, esso rappresenta il prezzo del rischio di credito proprio dell’impresa, che deve essere incorporato nel prezzo degli strumenti valutati al fair value, principalmente derivati OTC. Esso dovrebbe riflettere la miglior stima attuale del potenziale guadagno che l’impresa otterrebbe nella transazione nel caso in cui essa stessa fallisse. Infatti, se al momento del proprio default l’impresa dovesse versare un determinato importo alla controparte (quindi nel caso di fair

value negativo), otterrebbe un guadagno poiché non pagherebbe quell’ammontare nella sua

totalità. Di conseguenza, la formula per il calcolo del fair value dal punto di vista della Banca 1 diventa:

𝐹𝑎𝑖𝑟 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 = 𝑉𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑘 𝑓𝑟𝑒𝑒 − 𝐶𝑉𝐴 + 𝐷𝑉𝐴

Mentre il CVA rappresenta uno sconto per la Banca 1 per il rischio di insolvenza della controparte, il DVA rappresenta il compenso che la Banca 1 deve riconoscere alla controparte per il proprio rischio di default.

E’ interessante notare che l’inclusione nel fair value del proprio rischio di credito crea un effetto controintuitivo: quando il credit spread di un operatore aumenta e quindi la percezione di mercato sulla sua solvibilità diminuisce, il suo DVA aumenta, comportando un profitto nel

67 D. BRIGO, M. MORINI, A. PALLAVICINI, Counterparty credit risk, collateral and funding – With pricing

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suo book di derivati. Chiariamolo con l’esempio riportato nella Tabella 3.1: inizialmente le attività hanno un valore pari a 1000, le passività sono pari a 800 e il risultato netto è di 200. L’aumento dello spread creditizio dell’operatore comporta un aumento del DVA, supponiamo pari a 40, in quanto aumenta il rischio di default dell’operatore stesso, e di conseguenza una riduzione delle sue passività (760). Rimanendo fisso il valore delle attività in virtù della mancata variazione della qualità creditizia delle controparti, l’operatore registra un profitto pari a 4068.

Tabella 3.1 L’effetto controintuitivo del Debit Valuation Adjustment.

Prima Dopo

Attività (derivati) 1000 1000

Passività (derivati) -800 -800+40=-760

Risultato netto 200 240

Fonte: J. GREGORY, Counterparty credit risk and credit value adjustment: a continuing challenge for global financial markets, Wiley, Chichester, 2012.

Non a caso i guadagni (e le perdite) in termini di DVA sono esclusi dalla determinazione del capitale regolamentare, proprio per evitare che il deterioramento della propria qualità creditizia comporti un beneficio ed un risparmio di capitale.

La combinazione di CVA e DVA è conosciuta come CVA “bilaterale”, ossia:

𝐶𝑉𝐴 𝑏𝑖𝑙𝑎𝑡𝑒𝑟𝑎𝑙𝑒 = 𝐶𝑉𝐴 𝑢𝑛𝑖𝑙𝑎𝑡𝑒𝑟𝑎𝑙𝑒 − 𝐷𝑉𝐴

che deve essere sottratto al valore risk-free del derivato (o portafoglio di derivati nei confronti di una controparte).

La formula vale sia quando CVA e DVA vengono calcolati separatamente, cioè assumendo l’indipendenza tra il rischio di credito proprio dell’impresa e della controparte, sia quando vengono quantificati congiuntamente, ossia assumendo la dipendenza tra i due rischi. La differenza sta nel fatto che in quest’ultimo caso i calcoli devono tener conto della probabilità di default congiunta della controparte e dell’impresa e, quindi, possono essere effettuati solo dalle banche che sono in possesso di sistemi di calcolo più sofisticati.

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3.3 Le componenti del CVA e la tecnica di valutazione interna

L’aspetto fondamentale che riguarda il Credit Valuation Adjustment è costituito dalla metodologia di calcolo relativa. Questa rappresenta una vera e propria sfida per le banche poiché risulta essere piuttosto complessa. Infatti, le banche devono procedere alla quantificazione delle tre componenti del CVA, che sono:

1) l’esposizione;

2) la probabilità di default della controparte; 3) il tasso di recupero (recovery rate).

In primo luogo, il CVA dipende dall’esposizione, che può essere definita come la perdita che un’istituzione subirebbe sul proprio portafoglio in caso di default della controparte. Essa costituisce la componente di rischio di mercato del CVA, infatti è legata ai movimenti potenziali dei cosiddetti “fattori di rischio generici” o “variabili di mercato sottostanti”, da cui dipende il valore del portafoglio di derivati in essere. Essa viene ricavata dalla stima del valore di mercato futuro del portafoglio. Spesso ci si riferisce anche all’exposure profile, ossia il profilo dell’esposizione, dove il termine “profilo” allude alla dimensione del tempo, cioè al fatto che la stima dell’esposizione deve essere effettuata per ogni data futura sino alla scadenza del contratto. L’esposizione è dunque chiaramente una misura “time-sensitive”, in virtù del fatto che una controparte può fallire in qualsiasi momento, anche a distanza di anni dal momento della quantificazione. L’esposizione tiene conto sia dei dati correnti di mercato che di diversi scenari di evoluzione delle condizioni di mercato: si può idealmente distinguere tra l’esposizione corrente, cioè la massima perdita che si potrebbe subire se la controparte fallisse oggi, e l’esposizione futura, ossia la perdita che si potrebbe sostenere se la controparte fallisse ad un certo momento nel futuro. Va specificato che, generalmente, nel calcolo dell’esposizione per convenzione si assume che il valore di recupero in caso di default sia pari a zero. Inoltre, bisogna osservare che il CVA si fonda sull’esposizione “positiva”, cioè su quegli scenari per cui il portafoglio di derivati ha un valore di mercato positivo69. Infatti, è solo in caso di valore positivo che l’istituzione può rivendicare un credito nei confronti della controparte e, dunque, può perdere se la controparte non risulta in grado di far fronte ai propri impegni. In caso di valore negativo, invece, è l’istituzione stessa ad essere in debito con la controparte e quindi l’insolvenza di quest’ultima non influisce in alcun modo sulla sua posizione, non generando né perdite né guadagni.

69 Al contrario del CVA, il DVA è basato sull’esposizione “negativa”, cioè su quegli scenari per cui il

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In secondo luogo, il CVA è influenzato dalla struttura a termine degli spreads creditizi quotati sulla controparte (“counterparty credit spreads term structure”). Quindi, il CVA cattura un secondo tipo di esposizione, che è quella relativa ai movimenti degli spreads di credito o della curva di credito della controparte. Da tale curva si può ricavare quella della probabilità di

default, dunque il CVA dipende dalla probabilità che le controparti dei derivati falliscano o

subiscano un downgrade prima della scadenza dei vari contratti70: questa è la componente di rischio di credito del CVA. Bisogna sottolineare il fatto che il CVA non dipende esclusivamente dal rischio di default, ma anche da quello di migrazione, in quanto anche cambiamenti nella qualità del credito della controparte influenzano la struttura a termine della sua probabilità di default. Quest’ultima può risultare crescente o decrescente: come evidenziato empiricamente tramite i rating storici, nella qualità creditizia esiste un punto di “ritorno alla media” (mean-reversion) che fa sì che imprese con un buon merito creditizio tendano a subire dei downgrades e quindi mostrino probabilità di default crescenti nel tempo, mentre imprese di cattiva qualità creditizia abbiano più probabilità di fallire nel breve termine piuttosto che nel lungo e quindi presentino probabilità di default decrescenti71.

In virtù del fatto che i principi contabili hanno favorito l’uso di input di mercato osservabili, generalmente vengono utilizzate probabilità di default ricavate dal mercato (market-implied o

risk-neutral) piuttosto che da dati storici. I credit default swaps (CDS) costituiscono lo

strumento più comunemente utilizzato per ricavare le probabilità di default “market-implied”, tramite tecniche di bootstrap. Tuttavia, il mercato dei CDS non risulta così ampio e profondo da coprire tutte le controparti per cui il CVA viene calcolato, così vengono utilizzati anche

spreads creditizi di altri strumenti di mercato, come i bond. Per quelle entità per cui un

mercato di CDS non è disponibile, vengono utilizzate metodologie “proxy spread” per generare spreads creditizi da cui estrarre le probabilità di default, le quali si fondano sulla combinazione di informazioni relative agli spreads di soggetti simili alle controparti in questione. Altre banche utilizzano anche indicatori del merito creditizio come i rating interni. La terza ed ultima componente del CVA è costituita dal tasso di recupero, che identifica la percentuale che la banca può recuperare in seguito al default della propria controparte, rispetto al totale che le spetterebbe72.

70 Nel calcolo del DVA si fa riferimento alla propria probabilità di default e non a quella delle controparti. 71 J. GREGORY, op. cit., pag. 32.

72 Nel calcolo del DVA il tasso di recupero rappresenta quanto la controparte può recuperare a causa del default

della banca. Poiché si tratta di una percentuale del totale che la banca dovrebbe effettivamente versare alla controparte, significa che la banca sta perdendo meno di quanto dovrebbe e, quindi, sotto un certo punto di vista sta guadagnando.

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Il recovery rate è strettamente connesso alla loss given default, che ne rappresenta il complemento a uno, ossia:

𝑙𝑜𝑠𝑠 𝑔𝑖𝑣𝑒𝑛 𝑑𝑒𝑓𝑎𝑢𝑙𝑡 = 1 − 𝑟𝑒𝑐𝑜𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑟𝑎𝑡𝑒

Sempre in relazione al fatto che i dati osservabili sul mercato risultano prediletti, le banche tendono ad usare tassi di recupero ricavati proprio dal mercato, che dipendono dalla seniority del portafoglio di derivati e dal tipo di controparte. Va detto che questa pratica semplifica molto il calcolo del CVA.

La quantificazione di queste tre componenti si inserisce in un processo di stima del CVA che è stato messo a punto dalle varie istituzioni finanziarie per sopperire a quelle mancanze dei principi contabili internazionali, che non hanno specificato una particolare metodologia da poter implementare per il calcolo di questa misura. Si tratta di una tecnica di valutazione interna che prevede una formula per la quantificazione del CVA che si distacca da quella prestabilita dallo schema di Basilea 3, nonostante, come vedremo più avanti, vi siano delle similitudini con la formula prevista nell’approccio regolamentare avanzato. Inoltre, come abbiamo visto parlando della possibile revisione del framework del rischio di CVA, il

regulator sta cercando di apportare cambiamenti che rendano le due formule sempre più

allineate. La differenza rimane comunque nel fine: se la formula “interna” viene utilizzata nella prassi soprattutto per fini contabili e di pricing, quella di Basilea 3 ha come obiettivo quello della stima del capitale regolamentare necessario per coprire le perdite inattese derivanti dal rischio di CVA.

In realtà, nella pratica le banche non hanno sviluppato un’unica metodologia per il calcolo del CVA per portafogli di derivati OTC. Esiste una varietà di metodi e approcci di diverso grado di complessità e quantità di dati di input, che richiedono l’uso di tecnologie più o meno avanzate e che, dunque, differiscono sostanzialmente per il loro costo. Nel presente lavoro, si è ritenuto utile ed opportuno andare a trattare quello che appare come il metodo più sofisticato tra quelli utilizzati da banche o altre istituzioni finanziarie che possiedono ampi portafogli di derivati, ossia quello che si basa sull’esposizione attesa. Tramite questo approccio vengono simulate le variabili di mercato da cui è influenzato il fair value del contratto derivato in essere, viene quantificata l’esposizione attesa rivalutando il derivato per ogni scenario simulato e, infine, il profilo dell’esposizione ottenuto viene usato per determinare il CVA tramite l’applicazione della probabilità di default della controparte. Si tratta, dunque, di un approccio piuttosto complesso che deve essere necessariamente implementato da soggetti esperti e che richiede l’utilizzo di sistemi di Information Technology significativi. Gli approcci alternativi più semplici generalmente si basano solo sull’esposizione corrente dei

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derivati, senza la simulazione di possibili scenari futuri, risultando così meno precisi e puntuali e meno realistici73.

La tecnica più sofisticata si articola in una successione di cinque fasi, che sono: 1) la generazione degli scenari di mercato;

2) la valutazione degli strumenti in portafoglio; 3) il calcolo dell’esposizione a livello di controparte; 4) il calcolo della probabilità di default della controparte; 5) l’applicazione della formula del CVA74.

3.3.1 La generazione degli scenari di mercato

Innanzitutto, consideriamo un portafoglio di derivati OTC negoziati con una determinata controparte. Il primo step del processo di stima del CVA consiste nella simulazione di potenziali scenari di mercato per un insieme predeterminato di date future 𝑡𝑘, con 𝑘 =

1, … , 𝑁, usando modelli di evoluzione di quei fattori di rischio che influenzano il valore delle transazioni effettuate. Ogni scenario di mercato costituisce la realizzazione congiunta di un insieme di fattori (price factors) che influenzano i valori delle transazioni presenti nel portafoglio. Tra questi fattori troviamo, ad esempio, tassi di interesse, prezzi di azioni, prezzi di materie prime e così via.

Esistono comunque due metodi per generare i valori futuri dei fattori di rischio:

“Path-Dependent Simulation” (PDS) e “Direct Jump to Simulation Date” (DJS), rappresentati nei

Grafici 3.1 e 3.2 per il fattore 𝑋(𝑡𝑘).

73 ERNST & YOUNG, op.cit.

74 M. PYKHTIN, S. ZHU, A guide to modelling counterparty credit risk, GARP Risk Review, luglio-agosto

2007, in www.ssrn.com, consultato il 23 luglio 2016.

M. PYKHTIN, D. ROSEN, Pricing counterparty risk at trade level and CVA allocations, Finance and Economics Discussion Series, Division of Research & Statistics and Monetary Affairs, Federal Reserve Board, Washington, ottobre 2010.

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Grafico 3.1 Path-Dependent Simulation. Grafico 3.2 Direct-Jump to Simulation Date.

Fonte: M. PYKHTIN, S. ZHU A Guide to Modelling Counterparty Credit Risk, GARP Risk Review, luglio-agosto 2007, in www.ssrn.com.

Il primo metodo consiste nel simulare un “percorso” del fattore di mercato nel tempo, in modo tale che ogni simulazione descriva una possibile traiettoria dal tempo 𝑡0 al tempo 𝑡𝑁, ossia la data di simulazione più lontana. Il secondo consiste nella simulazione diretta dal tempo 𝑡0 fino ad ogni tempo 𝑡𝑘.

Per semplicità, ci limitiamo a dire che i possibili scenari vengono generalmente identificati tramite equazioni stocastiche differenziali (SDE), con cui si ottiene la medesima distribuzione dei fattori di rischio sia che venga utilizzato il metodo PDS sia che venga usato il metodo DJS.

Inoltre, in contesti come il pricing del rischio di controparte, e quindi appunto il calcolo del CVA, si fa solitamente riferimento a misure risk-neutral piuttosto che real. Ciò significa che i parametri dei modelli di evoluzione (drift, volatilità e correlazione75) vengono calibrati non attraverso dati storici dei fattori di rischio di mercato, ma tramite dati di mercato, in modo tale da assicurare che non vi sia arbitraggio nella negoziazione di quei titoli che dipendono dai fattori di rischio considerati. Utilizzare dati storici significherebbe assumere che il passato sia una buona indicazione di quello che accadrà in futuro, ma ciò non risulta sempre vero.

3.3.2 La valutazione degli strumenti in portafoglio

Il secondo step consiste nella valutazione degli strumenti in questione alle diverse date di simulazione, utilizzando gli scenari simulati relativi ai fattori di rischio di mercato sottostanti. La valutazione viene effettuata per ogni transazione presente in portafoglio. Dunque, per ogni data di simulazione e per ogni scenario simulato, deve essere calcolato il valore di ogni

75 Con drift si intende il trend delle variabili di mercato, con volatilità la loro incertezza futura e con correlazione

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transazione effettuata. Ciò che si ottiene è una distribuzione dei valori delle transazioni ad ogni data di simulazione.

Le tecniche di valutazione sono diverse a seconda del tipo di strumento finanziario preso in considerazione ma hanno un elemento in comune: devono essere svolte nel più breve tempo possibile, poiché ogni strumento in portafoglio deve essere valutato a molte date di simulazione per migliaia di scenari.

3.3.3 Il calcolo dell’esposizione a livello di controparte

Il terzo step consiste nel calcolo dell’esposizione per ogni data di simulazione e per ogni possibile realizzazione dei fattori di rischio di mercato sottostanti. In particolare, si fa riferimento all’esposizione “a livello di controparte”, che può essere ottenuta a partire dall’esposizione “a livello di singolo contratto”.

Innanzitutto, sappiamo che, in generale, l’esposizione può essere definita come la perdita che una banca subirebbe sul proprio portafoglio di derivati in caso di default della controparte, ossia nel momento in cui l’istituzione è costretta a chiudere la posizione con la controparte insolvente. Per determinare la perdita derivante dall’insolvenza, è conveniente assumere che la banca entri in un contratto simile con un’altra controparte per mantenere invariata la sua posizione. Così, dal momento che la posizione rimane la medesima, la perdita è data dal solo costo di sostituzione del contratto al tempo del default.

Se il valore del contratto al momento dell’insolvenza risulta negativo per la banca, questa procede alla chiusura della posizione pagando tale valore alla controparte insolvente, entra in un contratto simile con un’altra controparte e riceve il valore di mercato del contratto, ottenendo così una perdita netta pari a zero. Se invece il valore del contratto risulta positivo per la banca, questa chiude la posizione ma non riceve alcun ammontare dalla controparte insolvente, entra in un contratto simile con un’altra controparte, paga il valore di mercato del contratto e subisce una perdita netta pari a quest’ultimo valore. Così, supponendo che la banca abbia stipulato un singolo contratto derivato con una controparte, possiamo dire che l’esposizione a livello di contratto è data dal massimo fra zero ed il valore di mercato del contratto. In formule, indicando con 𝑉𝑖(𝑡) il valore del contratto 𝑖 al tempo 𝑡, abbiamo che:

𝐸𝑖(𝑡) = 𝑚𝑎𝑥{𝑉𝑖(𝑡), 0}

Tuttavia, in genere, le transazioni effettuate con una controparte sono varie. In questo caso, la perdita massima che la banca può subire in caso di insolvenza della controparte è pari alla

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somma delle esposizioni relative ad ogni singolo contratto (cd. esposizioni a livello di contratto), ossia: 𝐸(𝑡) = ∑ 𝐸𝑖(𝑡) 𝑖 = ∑ 𝑚𝑎𝑥{𝑉𝑖(𝑡), 0} 𝑖

Questa, però, rappresenta la formula appropriata solamente nel caso in cui la banca non abbia attuato tecniche di mitigazione del rischio di controparte. In realtà, per ridurre la propria esposizione, la banca può procedere ad esempio alla stipula di accordi di compensazione (netting agreements). Si tratta di contratti giuridicamente vincolanti che consentono l’aggregazione delle transazioni in caso di default, ossia la compensazione delle transazioni aventi valore negativo con quelle aventi valore positivo, in modo tale che solo il valore positivo netto (e non lordo) vada a costituire l’esposizione. Quindi, l’esposizione verso una controparte creata da tutte le transazioni appartenenti ad un determinato netting agreement si riduce al massimo tra il valore netto del portafoglio (cioè la somma algebrica dei valori dei contratti) e zero:

𝐸(𝑡) = 𝑚𝑎𝑥 {∑ 𝑉𝑖(𝑡), 0 𝑖

}

Chiariamo con un esempio il fatto che con un simile accordo l’esposizione risulta ridotta: supponiamo che la banca abbia stipulato due contratti derivati con la stessa controparte e che ad un certo punto questi abbiano valore opposto per la banca, ad esempio +1 milione € e –1 milione €. Se il cliente fallisce in quel momento, cosa succede? In assenza di netting, i due contratti vengono trattati separatamente e quindi abbiamo un’esposizione pari a +1 milione € per il primo e pari a zero per il secondo: l’esposizione totale è pari a +1 milione €. In presenza di netting, invece, i valori dei due contratti vengono sommati algebricamente e quindi l’esposizione risulta pari a zero, ossia +1 milione € – 1 milione € = 0.

Un’altra possibile tecnica di mitigazione del rischio di controparte che riduce l’esposizione è quella della collateralizzazione (collateral o margin agreement), in virtù della quale la controparte deve concedere in garanzia strumenti finanziari o contante a favore della banca non appena il valore del portafoglio di derivati supera una certa soglia. Allora, se oltre ad accordi di compensazione, la banca stipula anche accordi di collateralizzazione, indicando con 𝐶(𝑡) l’ammontare di collateral disponibile per la banca al tempo 𝑡, l’esposizione diventa:

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𝐸(𝑡) = 𝑚𝑎𝑥 {∑ 𝑉𝑖(𝑡) − 𝐶(𝑡), 0 𝑖

}

Inoltre, può accadere che la banca stipuli non uno ma 𝑘 accordi di compensazione con la medesima controparte e allo stesso tempo lasci alcune delle sue negoziazioni fuori da qualsiasi accordo. Supponendo che non vi siano accordi di collateralizzazione, l’esposizione risulta pari a: 𝐸(𝑡) = ∑ 𝑚𝑎𝑥 { ∑ 𝑉𝑖(𝑡), 0 𝑖𝜖𝑁𝐴𝑘 } 𝑘 + ∑ 𝑚𝑎𝑥{𝑉𝑖(𝑡), 0} 𝑖∉{𝑁𝐴}

dove 𝑁𝐴𝑘 rappresenta il 𝑘-𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 accordo di compensazione con la controparte.

La somma interna del primo termine (∑𝑖𝜖𝑁𝐴𝑘𝑉𝑖(𝑡)) rappresenta la somma dei valori di tutti i

contratti coperti dal 𝑘-𝑒𝑠𝑖𝑚𝑜 accordo, mentre quella esterna rappresenta la somma delle esposizioni di tutti i 𝑘 accordi. Il secondo termine (∑𝑖∉{𝑁𝐴}𝑚𝑎𝑥{𝑉𝑖(𝑡), 0}), invece, è semplicemente la somma delle esposizioni a livello di contratto di quelle transazioni che non appartengono a nessun netting set.

C’è da osservare che, in virtù del fatto che il valore dei contratti cambia nel tempo a seconda dei movimenti dei fattori di mercato sottostanti, solo l’esposizione corrente è conosciuta con certezza, mentre quella futura è incerta e dipende dagli scenari di mercato che sono stati simulati. Quindi, il calcolo dell’esposizione a livello di controparte tramite la formula di cui sopra deve essere ripetuto per ogni data di simulazione e per ogni possibile realizzazione dei fattori di rischio di mercato sottostanti.

L’output di queste prime tre fasi è dunque un insieme di realizzazioni dell’esposizione nei confronti di una determinata controparte ad ogni data di simulazione, dove ogni realizzazione corrisponde ad uno degli scenari di mercato generati. Il processo è schematizzato nel Grafico 3.3, dove vediamo che per un set di date future vengono generati potenziali scenari per i fattori di rischio considerati, sulla base dei quali vengono calcolati i valori delle transazioni. Così, per ogni data di simulazione si ottiene una certa distribuzione dei valori dei contratti a cui corrisponde una determinata distribuzione dell’esposizione nei confronti di una controparte.

Data l’intensità dal punto di vista computazionale richiesta, specialmente per le banche con portafogli di derivati OTC piuttosto ampi, spesso si cerca di ridurre il più possibile il numero

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delle date di simulazione e quello degli scenari futuri. Ad esempio, il numero degli scenari viene spesso limitato a poche migliaia e le date di simulazione vengono scelte in modo tale da avere intervalli giornalieri o settimanali durante il primo mese, intervalli mensili per il primo anno, intervalli annuali fino a cinque anni e così via.

Grafico 3.3 Il framework di simulazione per il calcolo dell’esposizione a livello di controparte.

Fonte: M. PYKHTIN, S. ZHU, A Guide to Modelling Counterparty Credit Risk, GARP Risk Review, luglio-agosto 2007, in www.ssrn.com.

L’esposizione futura può essere visualizzata per mezzo dei profili dell’esposizione, noti come

exposure profiles, che possono essere ottenuti calcolando alcune statistiche della distribuzione

dell’esposizione ad ogni data di simulazione. Tra le varie misure di esposizione, da cui poter ricavare i profili di esposizione semplicemente ripetendo il calcolo di tali misure per tutte le date di simulazione, abbiamo76:

 Esposizione di picco (Peak Exposure) o esposizione potenziale futura (Potential

Future Exposure, PFE): elevato percentile (solitamente 95 o 99%) della distribuzione

di esposizioni per una certa data futura anteriore alla scadenza della transazione di più lunga durata compresa nel netting set. La PFE è dunque analoga al VaR77: una PFE ad

un livello di confidenza del 99% rappresenta l’esposizione massima che si può avere nel 99% dei casi migliori o, in altre parole, l’esposizione minima che si può avere

76 COMITATO DI BASILEA PER LA VIGILANZA BANCARIA, Convergenza internazionale della

misurazione del capitale e dei coefficienti patrimoniali, giugno 2006, pag. 279.

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nell’1% dei casi peggiori. La differenza sta nel fatto che la PFE deve essere definita a più di una data futura. Infatti, per ottenere il profilo di PFE, i valori di esposizione di picco vengono calcolati per tutte le date di simulazione.

 Esposizione potenziale futura massima (Maximum Potential Future Exposure, MPFE): la massima esposizione potenziale futura tra tutte quelle calcolate alle varie date di simulazione. Essa rappresenta l’esposizione peggiore che la banca può avere in tutto il periodo di simulazione.

 Esposizione attesa (Expected Exposure, EE): media aritmetica della distribuzione di esposizioni per una certa data futura anteriore alla scadenza della transazione di più lunga durata compresa nell’insieme di compensazione. Per ottenere il profilo di EE, i valori di esposizione attesa vengono calcolati per tutte le date di simulazione.

 Esposizione attesa effettiva (Effective Expected Exposure, EffEE): per una certa data, esposizione attesa massima a quella data o a una data anteriore. In alternativa può essere definita come la maggiore fra l’esposizione attesa a quella data e l’esposizione effettiva alla data precedente. Di fatto, l’esposizione attesa effettiva è l’esposizione attesa soggetta al vincolo di non-decremento nel tempo.

 Esposizione positiva attesa (Expected Positive Exposure, EPE): media ponderata nel tempo delle esposizioni attese, laddove i pesi sono dati dalla proporzione rappresentata da una singola esposizione attesa sull’intero intervallo di tempo.

 Esposizione positiva attesa effettiva (Effective Expected Positive Exposure, EffEPE): media ponderata nel tempo dell’esposizione attesa effettiva sull’arco del primo anno oppure, se tutti i contratti compresi nell’insieme di compensazione scadono prima dell’anno, sull’arco di tempo corrispondente alla scadenza del contratto con più lunga durata, laddove i pesi sono dati dalla proporzione rappresentata dalle rispettive esposizioni attese sull’intero intervallo di tempo.

I profili di esposizione, e quindi l’esposizione nel tempo, vengono in qualche modo determinati da due tipi di effetti: la diffusione e l’ammortizzazione. L’effetto diffusione tende ad incrementare l’esposizione, dal momento che man mano che il tempo passa aumenta la possibilità che i livelli dei fattori di rischio sottostanti si allontanino significativamente da quelli correnti. L’effetto ammortizzazione, invece, tende a ridurre l’esposizione nel tempo poiché riduce i flussi di cassa che sono ancora esposti al default. Si tratta di due effetti che agiscono in direzione opposta, che possono essere più o meno presenti a seconda del tipo di strumento finanziario preso in considerazione.

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3.3.4 Il calcolo della probabilità di default della controparte

Il quarto step della quantificazione del CVA è costituito dal calcolo della probabilità di

default della controparte78. Il tipo di probabilità che viene utilizzato è quello risk-neutral, che riflette il prezzo di mercato del rischio di default e si distingue dal tipo real, che invece rappresenta la stima della probabilità di default attuale. Chiariamo la differenza tra i due tipi di probabilità con un esempio: supponiamo che un bond dia origine a due possibili risultati, cioè un guadagno di 100 € con probabilità 99% o un guadagno pari a 0 € con probabilità 1%. Il prezzo da pagare dovrebbe essere pari a 99 (99% × 100 € + 1% × 0 €). Nessun soggetto razionale, tuttavia, sarebbe disposto a comprare questo bond, dal momento che il payoff atteso sarebbe pari al prezzo pagato e ci sarebbe il rischio di perdere tutto. Infatti, gli investitori razionali sono avversi al rischio e non accettano il rischio se non si aspettano un rendimento positivo. Supponiamo che l’investitore sia disposto a pagare 97 €: la riduzione di prezzo pari a 2 € rappresenta il compenso per l’incertezza del rendimento, che può essere inteso come un premio per il rischio di default, ossia come il premio che l’investitore vuole ricevere per accettare il rischio di insolvenza. Affinché il prezzo da pagare sia 97 €, le probabilità devono essere pari a 97% e 3%. Supponiamo anche che l’investitore sia preoccupato per la liquidità del bond in previsione della necessità o della volontà di venderlo in futuro e sia disposto a pagare 94 €. L’ulteriore riduzione di prezzo di 3 € costituisce il premio per la liquidità. Affinché il prezzo da pagare sia 94 €, adesso le probabilità devono essere pari a 94% e 6%. Queste ultime non rappresentano le probabilità di default reali, ma probabilità di default neutrali al rischio, perché costruite in modo tale da far “quadrare i conti”, assumendo che gli investitori non siano avversi al rischio e accettino la “scommessa” iniziale. Se il prezzo di mercato del bond fosse 94 €, allora la probabilità di default neutrale al rischio sarebbe il 6%, ma questa è solo una probabilità “artificiale” ricavata dal prezzo di mercato, che non ha niente a che vedere con la probabilità di default attuale del bond, che è pari all’1%.

In questo esempio abbiamo fatto riferimento ai bond, ma una situazione analoga l’avremmo nel caso in cui avessimo a che fare con i credit default swap. Infatti, le probabilità di default neutrali al rischio vengono derivate dagli spreads creditizi osservati sul mercato, che possono essere ricavati dai credit default swaps (CDS) o dai bond. Nel caso in cui la controparte non presenti strumenti quotati sul mercato, vengono utilizzate metodologie proxy che combinano informazioni derivanti dagli spreads di soggetti simili alla controparte in questione. Comunque, se la controparte risulta dotata di CDS scambiati attivamente sul mercato, è il

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metodo che fa riferimento ad essi ad essere il più utilizzato. I credit default swaps sono i più diffusi fra i derivati creditizi79, cioè contratti il cui valore finale dipende dal merito di credito

di una o più entità commerciali o sovrane. Si tratta, in particolare, di contratti che offrono protezione contro il rischio di insolvenza di una specifica società (reference entity). Il compratore della protezione ottiene il diritto di vendere alla pari le obbligazioni della società che possiede quando si verifica l’ “evento creditizio”80, obbligandosi però ad effettuare

pagamenti periodici a favore del venditore fino alla scadenza del CDS o finché si verifica l’evento creditizio. Il CDS spread non è altro che il rapporto tra il pagamento su base annua effettuato dal compratore e il capitale nozionale del CDS, che corrisponde al valore nominale delle obbligazioni.

Da un punto di vista matematico, conoscendo lo spread creditizio al tempo 𝑡 (indicato con 𝑠(𝑡)) ed il recovery rate (indicato con 𝑅), la probabilità che la controparte fallisca tra il tempo 0 ed il tempo 𝑡 può essere ricavata come complemento a uno della funzione di sopravvivenza, ossia tramite la seguente equazione:

𝑃𝐷(0, 𝑡) = 1 − 𝑒−𝜆(𝑡)𝑡 dove

𝜆(𝑡) = 𝑠(𝑡) 1 − 𝑅

Il tasso di recupero viene generalmente posto pari a 0,4 per coerenza col mercato dei CDS81. Comunque, 𝑃𝐷(0, 𝑡) è una probabilità cumulativa. Un’approssimazione della probabilità marginale tra le date 𝑡𝑘−1 e 𝑡𝑘 può essere ricavata tramite la differenza fra le probabilità cumulate al tempo 𝑡𝑘−1 e al tempo 𝑡𝑘, ottenendo:

𝑃𝐷(𝑡𝑘−1,𝑡𝑘) = 𝑒−𝜆(𝑡𝑘−1 )(𝑡𝑘−1 )− 𝑒−𝜆(𝑡𝑘 )(𝑡𝑘 ) dove 𝜆(𝑡𝑘−1 ) =𝑠(𝑡𝑘−1) 1 − 𝑅 e 𝜆(𝑡𝑘 ) = 𝑠(𝑡𝑘) 1 − 𝑅

79 J. HULL, Fondamenti dei mercati di futures e opzioni, Pearson, Milano, 2005, pagg. 479-487.

80 Tra gli eventi creditizi troviamo la bancarotta, il mancato pagamento di capitale o interessi e la ristrutturazione

del debito.

81 P.G. GIRIBONE, S. LIGATO, P. RAVIOLA, Studio ed implementazione della metodologia Credit Value

(22)

3.3.5 L’applicazione della formula del CVA

Arrivati all’ultima fase, abbiamo a disposizione tutti gli elementi per poter quantificare il

Credit Valuation Adjustment di un portafoglio di derivati negoziati con una certa controparte

(CVA a livello di controparte). Ci si riferisce in particolar modo al CVA unilaterale, che considera esclusivamente il rischio di insolvenza della controparte e non quello proprio della banca. Quest’ultima viene considerata come default-free.

Il CVA può essere definito come il valore atteso neutrale al rischio della perdita scontata che la banca può subire in caso di default della controparte, ossia:

𝐶𝑉𝐴 = E𝑄[𝑑𝑖𝑠𝑐𝐿] La perdita scontata 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐿 è definita come:

𝑑𝑖𝑠𝑐𝐿 = 1{𝜏≤𝑇}(1 − 𝑅)𝐵0 𝐵𝜏

𝐸(𝜏)

dove

 𝑇 è la scadenza più lontana tra quelle delle varie transazioni presenti nel portafoglio;  𝜏 è il momento del default della controparte;

 𝐸(𝜏) rappresenta l’esposizione verso la controparte al momento del default, che tiene conto di tutti i netting e margin agreements;

 R è il tasso di recupero, ossia la frazione (costante) dell’esposizione che la banca può recuperare in caso di default della controparte;

 𝐵0⁄ è il fattore di sconto risk-free dell’esposizione, dove 𝐵𝐵𝜏 𝜏 rappresenta il valore futuro di un’unità di valuta investita oggi al tasso di interesse per la scadenza 𝜏;

 1{𝜏≤𝑇} è un “indicatore di funzione” che assume valore uno se l’argomento è vero, mentre assume valore zero se l’argomento è falso. Nella formula, esso fa sì che la perdita si abbia solo nel caso in cui l’istante del default della controparte preceda la scadenza più lunga dei vari contratti.

Sulla base di questa equazione, il CVA diventa:

𝐶𝑉𝐴 = E𝑄[𝑑𝑖𝑠𝑐𝐿] = (1 − 𝑅) ∫ E𝑄 𝑇

0

[𝐵0

(23)

dove 𝑃𝐷(0, 𝑡) costituisce la probabilità neutrale al rischio che la controparte si renda insolvente tra il tempo 0 ed il tempo 𝑡. Come visto nella quarta fase, viene ricavata dalla struttura a termine degli spreads sui credit default swaps mediante una formula specifica. E’ opportuno sottolineare che nell’equazione il valore atteso dell’esposizione scontata al tempo 𝑡 risulta condizionato rispetto al fatto che il default della controparte si verifichi al tempo 𝑡. Questa condizione è significativa quando la dipendenza tra l’esposizione e la qualità creditizia della controparte è rilevante, ovvero quando siamo in presenza del cosiddetto

right/wrong-way risk. Si parla di wrong-way risk quando al peggiorare della qualità creditizia

della controparte l’esposizione tende ad incrementarsi, si tratta invece di right-way risk quando quest’ultima tende a ridursi. Questi rischi sono meno significativi per contratti su tassi di interesse piuttosto che per derivati su materie prime, crediti e azioni, quindi la maggior parte delle banche assume l’indipendenza tra esposizione e merito creditizio della controparte, in quanto la quota più rilevante di rischio di controparte ha origine da derivati su tassi di interesse. Assumendo tale indipendenza, la formula del CVA si semplifica nel seguente modo: 𝐶𝑉𝐴 = (1 − 𝑅) ∫ E𝑄 𝑇 0 [𝐵0 𝐵𝑡𝐸(𝑡)] 𝑑𝑃𝐷(0, 𝑡) dove E𝑄[𝐵0

𝐵𝑡𝐸(𝑡)] è ora indipendente dall’evento del default e non richiede la simulazione di

quest’ultimo. Ponendo E𝑄[𝐵0

𝐵𝑡𝐸(𝑡)] = 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐸𝐸(𝑡), la formula può essere riscritta come:

𝐶𝑉𝐴 = (1 − 𝑅) ∫ 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐸𝐸(𝑡)

𝑇

0

𝑑𝑃𝐷(0, 𝑡)

Come abbiamo visto nella terza fase del processo di stima del CVA, il calcolo dell’esposizione (in questo caso attesa) a livello di controparte richiede la simulazione per un insieme predeterminato di date future 𝑡𝑘, con 𝑘 = 1, … , 𝑁. Di conseguenza, l’integrale dell’equazione può essere approssimato con una somma eseguita per tutte le date a partire da 𝑡1 fino a 𝑡𝑁 = 𝑇 (escludendo 𝑡0):

(24)

𝐶𝑉𝐴(𝑎𝑝𝑝𝑟𝑜𝑥) = (1 − 𝑅) ∑ 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐸𝐸(𝑡𝑘)

𝑁

𝑘=1

𝑃𝐷(𝑡𝑘−1, 𝑡𝑘)

dove ricordiamo che 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐸𝐸(𝑡𝑘) è la media scontata delle esposizioni relative ai vari scenari di mercato al tempo 𝑡𝑘 e 𝑃𝐷(𝑡𝑘−1, 𝑡𝑘) è la probabilità di default marginale tra il tempo 𝑡𝑘−1

ed il tempo 𝑡𝑘. In sostanza, la formula ci dice che bisogna moltiplicare per ogni intervallo di tempo (𝑡𝑘−1, 𝑡𝑘) la probabilità di default di quell’intervallo per l’esposizione attesa scontata al tempo 𝑡𝑘, poi sommare i contributi ottenuti da ogni intervallo ed, infine, moltiplicare per la loss given default, ossia il complemento ad uno del tasso di recupero.

Da puntualizzare il fatto che, dal momento che l’esposizione attesa scontata deve essere neutrale al rischio, i modelli per la generazione degli scenari di mercato devono essere privi di possibilità di arbitraggio. Questo “obiettivo” viene raggiunto solo tramite un’appropriata calibrazione dei parametri specificati nel modello di evoluzione dei fattori di rischio di mercato, come già accennato nel paragrafo 3.3.1. Nell’implementazione in MATLAB® vedremo che il modello usato sarà quello di Hull-White, opportunamente calibrato.

Un vantaggio importante dell’utilizzo di questa formula sta nel fatto che il CVA potrebbe essere semplicemente calcolato come la combinazione di componenti indipendenti tra loro, potenzialmente derivanti da fonti diverse: all’interno di una banca, l’area relativa al rischio di mercato potrebbe calcolare l’esposizione attesa e l’area del credito potrebbe fornire informazioni sulla probabilità di default e sul tasso di recupero. Si tratta di una metodologia che è risultata molto importante per le varie istituzioni per poter prezzare il rischio di controparte in modo pratico e realistico.

Ultima osservazione da fare è l’equivalenza di questa formula con quella prevista da Basilea 3 nell’approccio avanzato per il calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di CVA, cioè: 𝐶𝑉𝐴 = 𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇∑ 𝑚𝑎𝑥 {0, 𝑒𝑥𝑝 ( −𝑠𝑖−1𝑡𝑖−1 𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇 ) − 𝑒𝑥𝑝 ( −𝑠𝑖𝑡𝑖 𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇 )}𝐸𝐸𝑖−1𝐷𝑖−1+ 𝐸𝐸𝑖𝐷𝑖 2 𝑇 𝑖=1 Infatti:  𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇 è esattamente pari a 1 − 𝑅;  𝑒𝑥𝑝 (−𝑠𝑖−1𝑡𝑖−1 𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇) − 𝑒𝑥𝑝 ( −𝑠𝑖𝑡𝑖

𝐿𝐺𝐷𝑀𝐾𝑇) non è altro che la probabilità di default marginale e

(25)

quarta fase del processo di stima del CVA. Nella formula regolamentare viene semplicemente specificato il fatto che la probabilità ha zero come limite inferiore;  𝐸𝐸𝑖−1𝐷𝑖−1+𝐸𝐸𝑖𝐷𝑖

2 rappresenta l’esposizione attesa scontata, ossia 𝑑𝑖𝑠𝑐𝐸𝐸(𝑡𝑘). La

divisione per due è solamente un’integrazione più accurata, che però risulta rilevante se il numero di intervalli usati è relativamente piccolo.

La differenza fondamentale sta nel fatto che l’esposizione attesa presente nella formula regolamentare deve essere quantificata mediante un modello approvato dal regulator e non tramite una qualsiasi metodologia utilizzata nella pratica dalla banca. Sono due in particolare gli elementi che differenziano la formula regolamentare da quella usata nella prassi interna: nella maggior parte dei modelli IMM approvati vengono utilizzati parametri storici e non di mercato e, oltretutto, viene richiesto l’uso di dati in condizioni di stress. Tuttavia, abbiamo visto che il regulator sta provvedendo ad un maggior allineamento delle due formule, consentendo l’uso di modelli contabili per il calcolo dell’esposizione anche a fini regolamentari.

Da ricordare, comunque, è il fatto che il regulator concepisce la formula per il CVA come la semplice base da cui partire per poter effettuare un calcolo più ampio che ha come obiettivo la stima del capitale regolamentare da detenere a fronte di perdite inattese derivanti dal rischio di CVA. Tale calcolo e tale obiettivo sono esclusi dalla tecnica di valutazione di cui stiamo trattando.

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