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Innovazione fa rima con tradizione. Anche a Venezia

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Academic year: 2022

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Quasi quotidianamente come professionisti siamo sollecitati ad aggiornarci sul tema della sostenibilità, inteso come modello di sviluppo che sia inclusivo e generatore di valore durevole, non soltanto e tradizionalmente per l’imprenditore e gli azionisti (cosiddetti shareholders), ma altresì per tutti i soggetti e le economie coinvolte nel processo produttivo (definiti sinteticamente stakeholders).

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Tra questi si ricomprendono in primis le risorse umane, nel senso che il modello di sviluppo sostenibile – il cui acronimo inglese si scrive SBM (Sustainable Business Model) – ambisce alla tutela della salute, alla sicurezza, allo sviluppo di competenze e performance, in generale al benessere inteso come miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore; si concentra sul coinvolgimento delle comunità locali, su iniziative di responsabilità sociale; ha come obiettivo l’integrità e la trasparenza attraverso l’adozione di idonei codici di condotta che misurino gli impatti e la catena di fornitura sostenibile (in pratica l’intera filiera produttiva); infine quella che viene definita eco-sostenibilità, tutela ambientale, riduzione delle emissioni di CO2 e tutta la cultura del riuso, del riciclo e dell’estensione del ciclo di vita del prodotto esemplificata nella definizione di “economia circolare”.

Le concrete reazioni dei miei colleghi professionisti a fronte dell’introduzione di un modello di sviluppo conforme a tali prospettazioni, si declineranno sostanzialmente nei seguenti termini. Vi sarà chi la interpreterà come un ulteriore adempimento burocratico (altre informative da

aggiungere in calce alla nota integrativa di un bilancio: le quattro righe sull’impatto che il risultato di esercizio ha avuto sul benessere sociale). Chi vi intravvede nuove prospettive di business per lo studio in termini di consulenza all’impresa nella compliance – apparente e di facciata – ai principi dell’SBM al fine di poter profittare di finanziamenti e agevolazioni. Chi infine vorrà cogliervi un’opportunità, reale, di crescita durevole del valore del capitale e cercherà di convincere il cliente imprenditore della convenienza a conformarsi a tali principi, ancorché ciò

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implichi – in primis – l’adozione di rigorose regole di trasparenza in ogni fase del ciclo aziendale.

Mi viene da osservare che già all’interno della L. 231/2001 in materia di responsabilità penale e amministrativa degli enti l’impresa era invitata ad autodotarsi di una policy aziendale volta al rispetto dell’intero corpus normativo previsto in materia di sicurezza sul lavoro, fiscalità, privacy e tutela dei dati sensibili, diritto ambientale unitamente a

meccanismi di controllo interno volti ad assicurare la liceità e la correttezza nell’esercizio d’impresa. Anche al tempo, molto francamente, la cosa è stata vissuta da noi professionisti, più che come un’opportunità di crescita, come un sistema di protocolli volto, nella sostanza, a evitare la responsabilità dei soggetti coinvolti nel processo decisionale e di controllo (governance e auditing).

Mi chiedo allora se, anche in tema di sostenibilità, prevarrà ancora una volta la forma sulla

sostanza, la compliance al mero protocollo rispetto all’opportunità di migliorare davvero la società attraverso l’economia e la finanza etica.

A Venezia il tema della sostenibilità è legato sostanzialmente alla riconversione della città dalla monocultura turistica a quella connessa alla rinascita dell’artigianato, all’insediamento di imprese ad alto contenuto tecnologico e alla green economy, alla cantieristica, allo sviluppo dell’industria culturale in tutte le sue forme. Si spera che tali economie importino il ritorno della residenzialità, allo stato fortemente compromessa dalle locazioni turistiche e

dall’attività ricettiva in genere.

“Venezia capitale della sostenibilità” ha chiosato recentemente il sindaco Luigi Brugnaro in occasione della presentazione del progetto “VeniSia”, acronimo di Venice enterpreneurial

international Sustainability Innovation Accelerator, sviluppato da Ca’ Foscari con il partenariato di Regione e Comune, secondo il quale la città dovrebbe divenire sede di un incubatore per lo

sviluppo di progetti innovativi, polo di attrazione per il resettlement di imprese virtuose con ricadute in termini di nuova residenzialità, sia temporanea che stabile. A prescindere dalle

dichiarazioni di intento, servono progetti concreti per tradurre tante parole in fatti precisi; il ruolo del professionista in questo contesto è a mio avviso determinante.

Si dirà che Venezia essendo città di commercio e di micro imprese, difficilmente potrà essere oggetto di consulenze professionali in termini di sostenibilità; invece io voglio portare un esempio pratico su un caso di studio che mi ha visto personalmente coinvolta. Mi rendo conto ora, con il senno di poi, di aver applicato taluni principi cardine in tema di sviluppo sostenibile, anche se all’epoca sono intervenuta semplicemente “all’impronta”. Devo premettere inoltre che ho trovato un “humus favorevole”, nel senso che il cliente è persona intelligente e naturalmente incline a

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comprendere che la massimizzazione del benessere anche delle altre economie coinvolte nel processo d’impresa – si tratti pure di realtà localmente circoscritte – non confligge ma anzi contribuisce proprio alla massimizzazione del profitto e alla crescita del business.

Allora il primo compito di noi professionisti sarà proprio rivolto a far comprendere al cliente la convenienza di uno sviluppo dell’attività imprenditoriale secondo principi di sostenibilità. Per contro, la mera intermediazione, il puro trading difficilmente potrà prestarsi a progetti

“sostenibili” a meno di non voler ricomprendere l’ingegneria finanziaria volta al crowdfunding o al finanziamento di ventures sostenibili. Nel caso specifico si è trattato di una microimpresa

operante nel commercio di pizzi e merletti, biancheria per la casa e abbigliamento.

(Foto di Brandon Style su Unsplash)

Il mio imprenditore inizia l’attività esattamente come i suoi omologhi competitors, ricercando prodotti seriali, decettivi, che rivende agli ignari turisti convinti di comprare genuine Venetian Laces. I fornitori sono per lo più manifatture del sud est asiatico; periodicamente si reca nel sud Italia dove sono attivi ingrossi di abbigliamento dalle origini opache. Quanto meno ignota è la filiera di produzione. Per anni la clientela è esclusivamente composta da turisti di giornata che transitano in città e nelle isole, un target medio-basso per un margine sulle vendite comunque

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buono. Soltanto parzialmente è eroso da commissioni di intermediazione, segnatamente agenzie e portieri d’albergo per la veicolazione dei flussi nello showroom.

Ma un giorno il cliente mi dice che osservando il pavimento della basilica di San Marco gli è venuta l’idea di disegnare lui stesso i motivi di una parure da letto che riproduca quelle losanghe che tanto l’hanno affascinato. Mi dice anche che sua madre e sua nonna hanno una collezione di merletti antichi che si sono tramandate da generazioni. Allora mi viene l’idea di chieder la collaborazione di un’autorità nel campo della storia del tessuto, la compianta Prof.ssa Doretta Davanzo Poli che accetta di stimare la collezione. Si crea un catalogo, la merce viene esposta in una sezione dedicata del negozio. Ai manufatti di famiglia, si aggiungono altri pezzi acquistati direttamente da collezionisti. Sorprendentemente, ma forse neanche tanto, i manufatti più preziosi sono detenuti per lo più da americani ebrei, sfuggiti all’Olocausto ed emigrati oltreoceano insieme ai loro piccoli tesori.

La creazione di un ridotto spazio museale stimola le visite di una clientela decisamente più colta e consapevole. Inoltre, con una capacità di spesa ben più consistente rispetto al target precedente.

Cambiano, di conseguenza, anche qualità e natura degli articoli compravenduti, ora disegnati direttamente in loco. Mutano i materiali, la filiera di produzione diventa tracciabile e quasi interamente italiana. Difficile concentrarsi sulla produzione del merletto autentico per mancanza di manodopera. Meglio dunque innovare, pur rimanendo fedeli alla tradizione e ispirati

dall’ambiente circostante. Si cerca comunque il legame con le origini: vengono organizzati corsi di ricamo direttamente presso lo showroom e con il rigoroso impiego di manodopera strettamente locale. Ci si promuove anche attraverso la partecipazione a fiere dedicate all’artigianato e al fai da te.

La collaborazione con l’università importa l’arrivo dei primi stagisti. L’impresa diventa una realtà conosciuta e riceve l’attenzione dei media che, nel cogliere l’eccezionalità degli articoli

compravenduti, la citano come esempio di eccellenza del territorio. Viene creato un marchio figurativo e denominativo.

Prima dell’arresto a causa della pandemia, si avviano forme di collaborazione con realtà locali analogamente sinonimo di eccellenza, segnatamente contratti di rete in vista della partecipazione a manifestazioni di rilievo internazionale. L’obiettivo di queste forme di aggregazione è quella di sfruttare effetti sinergici tra business, anche diversi, che diversamente non emergerebbero a causa delle ridotte dimensioni del singolo.

La crisi pandemica accelera il progetto di digitalizzazione già da tempo in previsione: la creazione di un sito per le vendite on line svincolato dai marketplaces; svincolato anche dai turisti. A parlare

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sono le collezioni, al contempo innovative e legate al territorio e che dalla tradizione prendono spunto. Il resto lo costruiremo vivendo.

L’esempio che ho portato è sostenibile sotto il profilo della tracciabilità della filiera di produzione, dell’utilizzo di materiali naturali (per lo più lino, ma anche cachemire, cotone egiziano, mentre sono stati eliminate in toto le fibre sintetiche). È sostenibile sotto il profilo del recupero e dello sviluppo delle tecniche e delle arti legate strettamente al territorio. In ragione dell’artigianalità, quasi ogni pezzo viene confezionato su misura, personalizzato secondo le singole esigenze. Viene utilizzata manodopera locale che acquista e accresce le proprie competenze diventando

specializzata. Per talune lavorazioni ci si affida a terzisti, anche in questo caso, si creano opportunità di lavoro per l’intera comunità.

Questo modello di business può essere trasposto in molte realtà veneziane, proprio partendo dalle eccellenze della tradizione ma non limitandosi pedissequamente a riproporre patterns esausti, ma da questi ispirandosi e innovando. Il supporto di noi professionisti sarà essenziale nella misura in cui riusciremo a dar intravvedere al cliente opportunità di guadagno ben maggiori di quelle ritraibili dalla vendita della gondoletta di plastica o della maschera made in China, sul presupposto che l’eccellenza paga e che questa è sostenibile per definizione.

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(Foto di Claudio Schwarz su Unsplash)

La foto di copertina è di Massimo Adami (Unsplash)

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