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373/2017 Individui pericolosi, società a rischio 2

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(1)

373

marzo 2017

Individui pericolosi, società a rischio 2

a cura di Mario Colucci e Pier Aldo Rovatti

Premessa

3

Michel Foucault Pericolo, crimine e diritti.

Conversazione con Jonathan Simon

5

Bernard E. Harcourt Breve genealogia

della razionalità attuariale americana

30

Fabienne Brion Delinquenza, pericolosità,

etnicità. Una prospettiva marxista in

criminologia

51

Christophe Adam Le peregrinazioni della

“pericolosità” attraverso la criminologia

clinica

65

Andrea Muni L’invidia degli anormali

85

Piero Cipriano Lo specialista del pericolo

107

Edoardo Greblo Pericolo in movimento. I migranti

e la produzione legale dell’illegalità

122

Dario Melossi Marx e Foucault tra penalità

e critica dell’economia politica

143

Ilaria Papandrea La nostra incorreggibile

(a)normalità

163

Francesco Stoppa L’insostenibile libertà dell’essere. Sulle radici infantili della

violenza di genere

175

POST

Daniele Piccione Pericolosità sociale del non

imputabile e Costituzione

197

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Beatrice Bonato, Deborah Borca (editing, deborah.borca@gmail.com), Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Alessandro Di Grazia, Pierangelo Di Vittorio, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Andrea Muni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Stefano Tieri, Carla Troilo, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, S. Borutti, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, R. Prezzo, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Finito di stampare nel marzo 2017

(3)

3

Premessa

Questo fascicolo prosegue l’indagine sulla pericolosità che ab- biamo avviato nel n. 370 (giugno 2016), mantenendone il titolo e ampliando i diversi percorsi collegati o collegabili a una questione che riteniamo attuale e decisiva.

Il passaggio dall’individuo pericoloso alla società a rischio vie- ne inizialmente sviluppato attraverso alcuni materiali: un’inedi- ta conversazione che Michel Foucault tenne negli Stati Uniti nel 1983, la ricostruzione di Bernard Harcourt di come si è imposto il concetto di analisi attuariale e due interventi della scuola belga di criminologia a firma di Fabienne Brion e Christophe Adam.

Ma il fascicolo, come il lettore può subito verificare, apre an- che una serie di altri fronti che vanno dal terreno giuridico e dal problema del carcere all’emergenza sociale e politica del “pe- ricolo” immigrati, oggi molto dibattuto in Italia e in Europa, a quella della violenza sulle donne, indagata dalla prospettiva del- la psicoanalisi. Siamo una rivista che cerca di mettere alla pro- va ogni volta il pensiero critico: l’allargamento della questione a partire dal nodo storico e teorico della pratica psichiatrica si ac- compagna di conseguenza a un tentativo di approfondire ulte- riormente il tema della pericolosità.

La questione della pericolosità non va sfumando in quella del

calcolo del rischio, all’opposto sembra intensificarsi come do-

manda teorica, certo non semplice, che dobbiamo continuare

a rivolgere a noi stessi, dovunque operiamo: tale domanda do-

vrebbe mettere in gioco radicalmente le nozioni di normalità e

(4)

4

anormalità, la loro tenuta e i loro confini, dato che non possia- mo pensare di disfarci davvero delle categorie di pericolo e di pericolosità senza indagare gli effetti che esse hanno sulla nostra stessa idea di soggetto, cioè i pregiudizi e le relative forme di vio- lenza che impugniamo quotidianamente contro le persone debo- li e che tali pregiudizi continuano a innervare. Tutti quanti noi operiamo all’interno di una cultura asfittica nella quale dobbia- mo immettere ossigeno critico, cioè, in breve, interrogarla.

Questo fascicolo vorrebbe allora suggerire che il tema del pe-

ricolo, individuale e sociale, ha necessariamente un rimbalzo su

quell’idea di “soggetto normale” che molto spesso consideriamo

un’acquisizione comune e tranquillizzante. [M.C., P.A.R.]

(5)

5

aut aut, 372, 2016, 5-29

Pericolo, crimine e diritti.

Conversazione con Jonathan Simon

MICHEL FOUCAULT

Premessa

Il dialogo tra Michel Foucault e Jonathan Simon si è svolto in inglese alla fine di ottobre del 1983, nell’abitazione di Foucault a San Francisco. All’epoca Foucault ricopriva la carica di Joint Visiting Professor di francese e filosofia presso l’Università della California a Berkeley,

1

dove teneva un ciclo di lezioni sulla nozione di parresia, pubblicato inizialmente sotto forma di trascrizione fatta circolare in modo informale e successivamente in forma di libro col titolo Fearless Speech, a cura di Joseph Pearson.

2

Un’edizione critica è apparsa di recente in francese.

3

Accanto al ciclo di lezioni istituzionali, Foucault organizzò un gruppo di ricerca che si incon- trava con cadenza settimanale presso la casa di Paul Rabinow e comprendeva Arturo Escobar, Keith Gandal, Kent Gerard, David

Questo articolo è la trascrizione di una conversazione tra Michel Foucault e Jonathan Si- mon avvenuta a San Francisco nell’ottobre del 1983. È stata pubblicata per la prima volta su “Theory, Culture & Society”, 1, 2016, trascritta da Katie Dingley e curata da Stuart El- den (dell’Università di Warwick). Qui viene presentata nella traduzione di Giovanni Vez- zani, che ne ha mantenuto la struttura informale, conservandone pause e incisi.

1. Cfr. K. Gandal, S. Kotkin, Foucault in Berkeley, “History of the Present”, 1, 1985, pp. 6 e 15; J. Simon, Foucault in America, “Actes: Cahiers d’action juridique”, 54, 1986, pp. 24-29.

2. M. Foucault, Discourse and Truth: The Problematization of Parrhesia. Notes to the Seminar Given by Foucault at the University of California at Berkeley, Edited by Joseph Pearson, 1985, disponibile in <foucault.info//system/files/pdf/DiscourseAndTruth_Mi- chelFoucault_1983_0.pdf>; trad. a cura di A. Galeotti, Discorso e verità nella Grecia anti- ca, Donzelli, Roma 1996; Id., Fearless Speech, a cura di J. Pearson, Semiotext(e), Los An- geles 2001.

3. M. Foucault, Discours et vérité précédé de la parrêsia, a cura di H.-P. Fruchaud e D.

Lorenzini, Vrin, Paris 2016; trad. Discorso e verità nella Grecia antica, cit.

(6)

6

Horn, Stephen Kotkin, Cathy Kudlick e Jonathan Simon. Una foto del gruppo assieme a Foucault (con indosso il cappello da cowboy che gli donarono) compare nella biografia di Foucault di Didier Eribon.

4

Il ciclo di lezioni verteva sugli inizi del

XX

secolo e mirava a ricostruire i meccanismi della governamentalità durante la Prima guerra mondiale e il periodo tra le due guerre. Sebbene [a quel tempo] fossero state decise future collaborazioni, esse non si pote- rono realizzare a causa della morte di Foucault l’anno successivo.

5

Mentre si trovava a Berkeley, sia in quest’occasione che nell’anno precedente, Foucault prese parte a un gran numero di discussioni, alcune delle quali furono registrate e in parte pub- blicate. Tra le pubblicazioni si annoverano l’intervista Politica ed etica e la conversazione Sulla genealogia dell’etica, apparsa per la prima volta nella seconda edizione del libro su Foucault di Hu- bert Dreyfus e Paul Rabinow.

6

I nastri originali di alcune di quel- le conversazioni (insieme ad alcune trascrizioni) si trovano pres- so la Bancroft Library di Berkeley. La conversazione pubblicata qui risale alla seconda visita del 1983 (una registrazione del dia- logo è archiviata alla Bancroft Library dell’Università della Cali- fornia a Berkeley, nastro 2222 C 70 e CD 961). In essa, Jonathan Simon (all’epoca dottorando in giurisprudenza e politiche socia- li a Berkeley e oggi Adrian A. Kragen Professor di diritto presso la stessa università) ritorna su uno dei temi di interesse per Fou- cault negli anni settanta.

Il tema concerne la questione del diritto, della perizia psichia- trica nell’azione penale e la nozione di “pericolosità”. La conver- sazione inizia con una discussione del saggio di Foucault L’evo- luzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria le-

4. D. Eribon, Michel Foucault (1989), trad. di A. Buzzi, Leonardo, Milano 1991.

5. Cfr. K. Gandal, S. Kotkin, Governing Work and Social Life in the USA and the USSR,

“History of the Present”, 1, 1985, pp. 4-14; K. Gandal, New Arts of Government in the Great War and Post-War Period, conservato presso IMEC, Caen s.d., documento E.1.29/

FCL2.A04-06.

6. M. Foucault, “Politics and ethics: An interview”, in P. Rabinow (a cura di), The Fou- cault Reader, Penguin, London 1991; H. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 19832; trad. di D.

Benati et al., La ricerca di Michel Foucault, La Casa Usher, Firenze 2010.

(7)

7

gale del

XIX

secolo, apparso prima in inglese

7

e successivamente in una versione in francese lievemente modificata.

8

(Non esiste una versione pubblicata in francese del primo testo, né una versione inglese del secondo. Entrambi i testi sono riapparsi in raccolte successive.) Tale comunicazione venne originariamente presen- tata a Toronto, nel corso di una conferenza su diritto e psichia- tria il 24-26 ottobre 1977 (nell’intervista Foucault suggerisce er- roneamente che la lezione sia stata tenuta a Montréal). Lo studio alla base della lezione poggia sul seminario che Foucault tenne contemporaneamente al suo corso “Bisogna difendere la società”

nel 1976, insieme ad alcuni temi indagati durante il corso su Gli anormali dell’anno precedente. La descrizione del seminario del 1976 non compare nel “Riassunto del corso” delle lezioni pub- blicate, ma può essere rinvenuto in versioni precedenti:

Il seminario di quest’anno è stato dedicato allo studio della ca- tegoria di “individuo pericoloso” nella psichiatria criminale. Le nozioni collegate al tema della “difesa sociale” sono state messe in relazione alle nozioni connesse alle nuove teorie riguardanti la responsabilità civile, quali sono apparse alla fine del

XIX

secolo.

9

Vi si ritrovano anche alcune considerazioni di rilievo sul passaggio dalla società disciplinare, con la sua idea di individuo pericoloso, alla società di sicurezza, con l’analisi statistica delle popolazioni.

Queste osservazioni si riferiscono ai corsi di Foucault sulla nozio- ne di governamentalità della fine degli anni settanta. Verso la fine della conversazione Simon e Foucault rivolgono l’attenzione al problema dei diritti e Foucault fornisce alcuni importanti chiari-

7. M. Foucault, About the Concept of the “Dangerous Individual” in 19th Century Legal Psychiatry, trad. ingl. di A. Baudot e J. Couchman, “International Journal of Law and Psy- chiatry”, 1, 1978, pp. 1-18; trad. di S. Loriga, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63; ripubblicato in “aut aut”, 370, 2016, pp. 125-146.

8. Id., L’évolution de la notion d’“individu dangereux” dans la psychiatrie légale du XIXe

siécle, “Déviance et société”, 4, 1981, pp. 403-422.

9. Id., Resumé des cours 1970-1982, Juilliard, Paris 1989; trad. di A. Pandolfi e A. Serra, I corsi al Collége de France. I resumé, Feltrinelli, Milano 1998, p. 94; Id., Ethics, Subjectivi- ty and Truth: Essential Works, vol. I, a cura di P. Rabinow, Allen Lane, London 1998, p. 64.

(8)

30

aut aut, 372, 2016, 30-50

Breve genealogia della razionalità attuariale americana

BERNARD E. HARCOURT

Premessa

La genealogia della rapida ascesa – nel campo giuridico-penale statunitense – di logiche e strumenti provenienti dall’attuariato è molto più ricca e complessa di quello che potrò dirne in queste poche pagine. A questo proposito, vorrei precisare, in primo luogo, che non intendo minimamente strumentalizzare una questione così delicata, estraendone magari delle azzardate analogie con le logiche penali europee. Quel che vorrei fare in questo testo, piuttosto, è provare ad approfondire le discipline, i discorsi, le professioni, i desideri – e al contempo le frizioni e le resistenze – che hanno presieduto all’affermazione, nell’odierna penalità statunitense, di una razionalità di ispirazione esplicitamente at- tuariale. L’impiego di algoritmi per prevedere l’evasione fiscale, l’utilizzo di profili per decidere chi perquisire negli aeroporti (o per le strade), così come l’uso di strumenti di valutazione del ris- chio per determinare la custodia cautelare (o la scarcerazione), sono tutti esempi concreti di come i metodi attuariali abbiano, ormai indiscutibilmente, colonizzato il campo della penalità americana.

I primi passi della razionalità attuariale negli Stati Uniti Credo sia importante sottolineare innanzitutto che i semi di questa svolta sono stati gettati storicamente sul terreno americano da un movimento di filosofia del diritto chiamato American legal realism.

Bernard E. Harcourt insegna Legge alla Columbia University di New York. Titolo origina- le: Une généalogie de la rationalité actuarielle aux États-Unis aux XIXe e XXe siècles, “Revue de sciences criminelles et de droit pénal comparé”, 1, 2010, pp. 29-45.

(9)

31

Questo movimento “realista” – scatenando profondi dubbi in seno alla disciplina giuridico-penale e giungendo addirittura a minarne progressivamente l’autonomia – si proponeva, a cavallo tra

XIX

e

XX

secolo, di mettere radicalmente in discussione il formalismo impli- cito nella cosiddetta teoria “classica” del diritto. Il movimento si impegnava infatti a mettere in evidenza fino a che punto i concetti giuridici astratti – tra cui, per esempio, spicca la nozione giuridica di consenso (consent) – non fossero minimamente in grado di pre- siedere in maniera neutra, né vincolante, alla concreta soluzione delle dispute giudiziarie.

Il campo giuridico, infatti, secondo l’American legal realism è strutturalmente caratterizzato da un elevato grado di indetermi- nazione, che permette a fattori “esterni” – politici, sociali, eco- nomici e persino psicologici – di influenzare pesantemente le sentenze. Rigettando la concezione più “classica” del diritto (che persisteva nel miraggio di una possibile autonomia della “scien- za” giuridica) e rifiutando il formalismo della teoria classica, il movimento “realista” aveva scatenato negli Stati Uniti, all’alba del Novecento, un clima di insicurezza che a molti pensatori e a molti giuristi risultava semplicemente insopportabile. La tenden- za al realismo infatti non faceva che produrre – come proprio paradossale controeffetto – un rinnovato desiderio di certezza che con sempre maggior vigore spingeva la disciplina a conta- minarsi, incorporare e assimilare altre scienze, più “esatte” e più

“sociali”, come la criminologia e la sociologia. Questo progressi- vo avvicinamento – che non ha ancora smesso di incrementarsi – tra la giurisprudenza e le scienze cosiddette “esatte” e “sociali”, ha caratterizzato infatti tutto il

XX

secolo.

All’alba del secolo breve, il sentimento di insicurezza e di in-

feriorità che pervadeva l’ambiente giuridico-penale americano

era palpabile, talmente palpabile che non sarebbe esagerato par-

lare di un vero e proprio complesso di inferiorità (testimonia-

to nei loro stessi scritti) provato da quasi tutti i più importanti

giuristi americani dell’epoca. I giuristi americani di inizio seco-

lo ritenevano che il diritto non avesse fatto progressi all’altezza

di quelli di altre discipline più “scientifiche”, e che gli Stati Uni-

(10)

32

ti dovessero assolutamente colmare un imbarazzante ritardo ri- spetto ai progressi europei. Gli echi di questa “fretta” e di que- sto “complesso di inferiorità” si percepiscono nettamente, per esempio, nella dichiarazione di apertura dell’importante con- vegno della National Conference on Criminal Law and Crimi- nology, tenutosi a Chicago nel 1909, che segnò l’inizio ufficiale dell’integrazione delle scienze sociali nel diritto penale. Questo convegno, organizzato da importanti accademici e specialisti di diritto penale – tra cui i professori Ernst Freund e Roscoe Pound dell’Università di Chicago –, fu l’occasione per annunciare una nuova era del diritto penale americano fondata sul trattamento individuale di pena e sull’analisi scientifica delle cause della de- linquenza dei singoli soggetti.

1

Freund e Pound ritenevano infat- ti che la nuova scienza criminologica fosse profondamente impli- cata nel diritto penale, e sulla base di questa convinzione duran- te il convegno lamentarono il grave ritardo maturato dalla giuri- sprudenza americana nell’adozione del paradigma statistico.

“Tutto ciò si è prodotto in Europa nel corso dei passati qua- rant’anni [...], tutte le branche delle scienze ausiliarie hanno fat- to progressi – l’antropologia, la medicina, la psicologia, l’econo- mia, la sociologia, la filantropia, la penologia. Soltanto il diritto – che pure sarebbe quella che dovrebbe maggiormente benefi- ciarne – è rimasto indietro.”

2

Tali erano le affermazioni d’impo- tenza e di inferiorità di uno dei più importanti giuristi america- ni dell’epoca.

Per questi grandi accademici era assolutamente necessario colmare una lacuna che pure – è fondamentale rimarcarlo – era avvertita come tale in virtù dell’instabilità prodotta proprio da quel movimento “realista” di cui loro stessi erano i corifei. Ro- scoe Pound era infatti il fondatore di un movimento chiamato

“giurisprudenza sociologica” (sociological jurisprudence) che, pur

1. J.H. Wigmore et al., General Introduction to the Modern Criminal Science Series, VII, in R. Saleilles, The Individualisation of Punishment, Little Brown, Boston 1911; cfr. anche T.A. Green, Freedom and Criminal Responsibility in the Age of Pound: An Essay on Crimi- nal Justice, “Michigan Law Review”, 93, 1915, 1949-1964 (1995).

2. Ibidem.

(11)

51

aut aut, 372, 2016, 51-64

Delinquenza, pericolosità, etnicità.

Una prospettiva marxista in criminologia

FABIENNE BRION

A lla tesi secondo cui “la prigione servireb- be a ridurre i crimini” Michel Foucault oppone, fin dal 1975, l’ipotesi che la pri- gione, piuttosto, abbia come propria funzione essenziale quella di “produrre la delinquenza”,

1

vale a dire un tipo specifico, po- liticamente ed economicamente meno pericoloso (e al limite uti- lizzabile), di illegalismo. Inoltre la prigione, secondo Foucault, ha la funzione di produrre i delinquenti: una categoria umana socialmente marginalizzata e strettamente controllata dalle forze di polizia. Infine, in terzo luogo, la prigione serve per Foucault a produrre la figura stessa del delinquente come soggetto pato- logico. Le forme più in voga di lotta contro la sovrappopolazio- ne carceraria sembrano aver paradossalmente accreditato l’idea che la prigione sia degradante e inumana soltanto per via dell’ec- cessivo numero (e delle pessime condizioni di vita) dei detenuti che vi risiedono. Sulla base di questa convinzione, infatti, l’Euro- pa è andata recentemente riformando sia il proprio sistema (e il proprio regime) penale, sia l’utilizzo della prigione, sia lo statuto giuridico dei detenuti.

In controtendenza rispetto a questa opinione dominante, al- cuni autori contemporanei – avvalendosi delle analisi dei crimi- nologi “francofortesi” Rusche e Kirchheimer, e distanziandosi

Fabienne Brion insegna diritto e criminologia all’Università di Lovanio.

1. M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1993, p. 27.

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52

dalle dominanti teorie sulla sovrappopolazione carceraria – so- stengono che, ancora ai giorni nostri, esista una stretta correla- zione tra la disoccupazione e l’inflazione carceraria. Questa cor- relazione, secondo loro, non è solo un elemento essenziale al si- stema di produzione capitalista, ma è anche la vera causa delle variazioni dei tassi di detenzione. Le prigioni (secondo Samuel Myers e William Sabol) servirebbero infatti sostanzialmente an- cora oggi a drenare la classe dei lavoratori superflui, ossia la clas- se socialmente più minacciosa (quella che Spitzer definiva la “di- namite sociale”). In questo senso la lotta alla sovrapopolazione carceraria è una scottante questione politico-economica, ben pri- ma che una questione banalmente “umanitaria”. Ma attraverso quali modalità le prigioni si farebbero carico di questa funzione drenante?

Su scala individuale: le pene e le misure penali, in periodi di bassa congiuntura economica, funzionerebbero come equivalen- ti (o supplenti) di quei meccanismi di controllo sociale che, inve- ce, in periodi di alta congiuntura economica, sarebbero incentra- ti sul lavoro.

2

Su scala sociale e collettiva: le pene e le misure penali permet- terebbero allo Stato di regolare e gestire la popolazione in sur- plus. I procedimenti penali sono infatti molto utili per tenere sotto controllo, e calcolare razionalmente, le dimensioni di quel- lo che Marx chiamava l’“esercito industriale di riserva”.

3

Sulla scala del sistema di produzione: le pene e le misure deten- tive servirebbero a una continua autolegittimazione dell’appara- to statale capitalista, il quale, attraverso il proprio sistema pena- le previene – prima ancora di abbassare alcuni uomini al rango di individui “ridondanti”

4

– ogni possibile messa in discussione

2. C. Adamson, Toward a Marxian Penology. Captive Criminal Populations as Economic Threats and Resources, “Social Problems”, 4, 1984, pp. 435-458; M.J. Lynch, The Extrac- tion of Surplus Value, Crime and Punishment. A Preliminary Examination, “Contemporary Crises”, 4, 1988, pp. 329-344.

3. I. Jankovic, Labor Market and Imprisonment, “Crime and Social Justice”, 8, 1977, pp. 17-31; R. Quinney, Class State and Crime, David McKay & Co., New York 1977.

4. T.G. Chiricos, M.A. Delone, Labor Surplus and Punishment: A Review and Assessment of Theory and Evidence, “Social Problems”, 4, 1992, pp. 421-446.

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53

della legittimità del proprio modo di produzione (che riduce gli esseri umani a pura “forza-lavoro”, e la “forza-lavoro” a sempli- ce merce). In quest’ottica, le pene e le misure penali svolgereb- bero quindi un ruolo di tutela dell’“ideologia pseudo-egualitari- sta così essenziale alla legittimazione politica di tutte le relazioni capitalistiche di produzione”.

5

Queste tre macroaree ci aiutano a contornare un fenomeno enorme, attualissimo, e dalla portata ancora imponderabile: il grand renfermement degli stranieri. Il grand renfermement (gran- de reclusione) degli stranieri in atto in Europa – non solo nel- le prigioni statali, ma anche nei cosiddetti centri di individuazio- ne ed espulsione – può essere criticamente analizzato, a sua vol- ta, su tre distinti livelli. 1) Un livello ideologico (che Marx avreb- be definito sovrastrutturale), che ci impone di analizzare, stori- camente e politicamente, la “coscienza” che abbiamo oggi della effettiva relazione che esiste tra etnicità e delinquenza. 2) Un li- vello giuridico-politico, che ci chiama invece a studiare i meccani- smi e i processi politici che inducono l’aumento del tasso di de- tenzione di individui che non sono cittadini dell’Unione euro- pea. 3) Un livello più generale, o economico, che analizzi il grand renfermement degli stranieri come un effetto del sistema econo- mico peculiare della nostra società e delle sue principali funzio- ni di controllo e produzione (il livello che Marx avrebbe chiama- to l’infrastruttura).

Per portare subito un esempio pratico a rinforzo di queste pre- messe teoriche, vorrei chiamare in causa l’esempio del paese in cui vivo e lavoro: il Belgio. Nel mio paese, infatti, il tasso di de- tenzione dei cittadini belgi è rimasto stabile (negli ultimi vent’an- ni) nonostante che il numero di cittadini belgi di origine stranie- ra non abbia mai smesso di aumentare;

6

mentre al contrario, il tas-

5. Cfr. S. Spitzer, Toward a Marxian Theory of Deviance, “Social Problems”, 5, 1975, pp. 638-651.

6. Il numero di belgi di origine marocchina è passato da 151.265 nel 1991 a 279.694 nel 2010. Mentre il numero di cittadini marocchini presenti in Belgio è passato da 142.098 nel 1991 a 81.943 nel 2010, il numero di detenuti marocchini è passato da 740 (popolazio- ne di fine anno) a 1132 (popolazione giornaliera media).

(14)

65

aut aut, 372, 2016, 65-84

Le peregrinazioni della “pericolosità”

attraverso la criminologia clinica

CHRISTOPHE ADAM

Premessa

Nonostante la “pericolosità” sia divenuta ormai un concetto cele- bre e di dominio pubblico, mi piacerebbe cominciare questo saggio ricordando fino a che punto essa sia in primo luogo una parola di senso comune. Può essere interessante, e curioso, constatare infatti di sfuggita – con Alain Rey

1

– che la parola dangerosité esiste nella lingua francese soltanto a partire dal 1969, e che la sua area di rife- rimento è quella della psicologia (e del suo linguaggio didattico).

Inoltre, come quello di “pericolosità”, anche il termine “pericolo”

(danger) ha una storia del tutto particolare, che rimanda esplicita- mente agli ambiti del possesso e del potere. Il Littré

2

riporta infatti che nel diritto medievale il feudo di “pericolo” (fief de danger) era un feudo il cui erede – nell’atto di prenderne possesso – doveva rendere i propri omaggi al signore, a pegno di confisca.

Sulla falsariga di questa piccola incursione etimologica cer- cherò dunque, se mi è concesso giocare un po’ con le parole, di rendere i miei omaggi a coloro che hanno saputo trattare meglio la spigolosa nozione di “pericolosità”, cercando al contempo di non restare insolvente rispetto al debito che avverto nei confron- ti della storia della criminologia clinica.

In questo saggio cercherò di fare un po’ di chiarezza sul mo- do in cui questo significante (la “pericolosità”) si è impresso nel-

Christophe Adam insegna Diritto e Criminologia all’Università di Bruxelles.

1. A. Rey (a cura di), Dictionnaire historique de la langue française, Le Robert, Paris 2002.

2. Le Littré, Dictionnaire historique de la langue française, Hachette, Paris 2000.

(15)

66

la storia delle idee criminologica e clinica, ed è stato a sua volta marcato da essa. Ho selezionato due momenti, certamente par- ziali, e per così dire “regionali”, che trovo al contempo estrema- mente utili per approfondire la questione che sto cercando di circoscrivere. Per quanto legati all’ambiente criminologico fran- cofono, e belga in particolare, trovo infatti che essi abbiano un valore e un interesse che travalicano di molto il loro specifico contesto di provenienza. Mi riferisco in primo luogo al Deuxième cours international de criminologie

3

del 1952, curato da Jean Pi- natel e interamente consacrato al problema della pericolosità; e in secondo luogo al Colloquio di Lovanio, tenutosi nel 1979, in onore dei cinquant’anni della Scuola di criminologia.

4

Un primo passaggio all’atto terminologico: dallo

“stato” pericoloso alla pericolosità

Prima di ripercorrere alcuni tra i momenti più importanti del Deuxième cours international de criminologie, vorrei risalire bre- vemente al Premier cours (dell’anno precedente), dove era già emerso un rilevante interesse scientifico e metodologico per la

“pericolosità”. Non è raro infatti imbattersi, già nel Premier cours, in riferimenti puntuali al termine “pericolo”. Inoltre, il Premier cours era già dotato di una sezione interamente dedicata alla que- stione, presieduta da Étienne De Greeff (per la parte biologica) e da Georges Heuyer (per la parte psichiatrica). In questa cornice Olof Kinberg pronuncia il suo discorso sulla pericolosità, artico- landolo in maniera originale e trattandola come un concetto già capace di circoscrivere, di per sé, una problematica autonoma.

Kinberg infatti si confronta già, nel suo studio delle situazioni criminali del 1951, con termini del tutto specifici quali “diagnosi di pericolosità” e “situazioni specifiche di pericolo”

5

(anche se forse

3. J. Pinatel (a cura di), Deuxième cours international de criminologie. Le problème de l’état dangereux, Ministère de la Justice, Paris 1954.

4. C. Debuyst (a cura di), Dangerosité et justice pénale. Ambigüité d’une pratique, Mas- son, Genève 1980.

5. O. Kinberg, “L’étude psychiatrique des situations précriminelles”, in G. Heuyer (a cura di), Premier cours international de criminologie. L’examen médico-psychologique et so- cial des délinquants, Ministère de la Justice, Paris 1952, p. 189.

(16)

67

non è indifferente rilevare come l’autore faccia un uso metodico delle virgolette a ogni occorrenza di questi termini, e in particolare del termine “pericolosità”).

Il Premier cours sarà concluso da De Greeff, direttore della sezione sulla pericolosità, con una conferenza interamente de- dicata agli “indici dello stato pericoloso”. A un tratto, durante l’esposizione, De Greeff tira le somme del convegno e detta la propria linea: “È possibile calcolare la pericolosità teorica di un gruppo, o di un individuo facente parte di un gruppo, ma – in questi casi – si tratta soprattutto di aspetti teorici che trovo peri- colosissimo applicare acriticamente a ogni caso particolare”.

6

De Greeff dipinge esplicitamente, quindi, già durante il Pre- mier cours, la pericolosità come una nozione potenzialmente “pe- ricolosa”. A dire il vero, però, questo punto di vista riflessivo e autocritico sarà assunto unicamente da De Greeff, che lo ribadirà puntualmente nei momenti salienti della sua proposta (in partico- lare quando sosterrà che le certezze scientifiche rappresentano es- se stesse degli “stati” pericolosi). Per De Greeff, infatti, non esiste uno stato pericoloso “in sé”: lo “stato” pericoloso non può che essere un “momento” differenziale all’interno del processo in cui si iscrive. Egli riteneva anche che occuparsi di pericolosità, per un criminologo, fosse un compito assai circoscritto, pur consideran- do che la riflessione sulla pericolosità non potesse essere saturata dalla criminologia (e ammettendo quindi indirettamente la validi- tà di approcci alternativi al tema della pericolosità).

Nel suo intervento al Premier cours De Greeff approfondisce anche la questione dei cosiddetti stati indiagnosticabili, filtran- done l’analisi attraverso una griglia che ne distingue quattro dif- ferenti tipi:

1) Gli stati che si evolvono, e risolvono, con un crimine “utili- tario” (che resterà per lo più impercepito).

2) Le situazioni in cui si produrrà certamente la recidiva (per

6. E. De Greeff, “Les indices de l’état dangereux”, in G. Heuyer (a cura di), Pre- mier cours international de criminologie. L’examen médico-psychologique et social des délin- quants, cit., p. 639.

(17)

85

aut aut, 372, 2016, 85-106

L’invidia degli anormali

ANDREA MUNI

Premessa

Le riflessioni critiche sul tema della pericolosità sociale fanno parte, ormai da decenni, di una sterminata, preziosa e approfon- dita letteratura di genere. Mi permetto di esordire con questa considerazione, forse un po’ banale, perché ho intenzione di non lasciare dubbi riguardo alla dimensione discorsiva in cui desidero collocarmi. Vorrei infatti immediatamente smarcarmi rispetto alla prospettiva criminologica, psichiatrica e del diritto, cercando di assumere piuttosto la delicata (e rischiosa) posizione di chi non rinuncia a fare i conti con lo spiacevole fatto di essere – in prima persona e nella sua più immediata quotidianità – un ingranaggio ambocettore del grande dispositivo panottico (per dirla con Fou- cault), o degli apparati ideologici di Stato (per dirla con Althus- ser), che presiedono alla diffusione e riproduzione dei concetti di pericolosità sociale e di individuo (normale e non).

In una parola, vorrei provare ad affrontare la questione dal punto di vista di un cosiddetto filosofo, per non rischiare di scimmiottare maldestramente altri approcci più “scientifici”.

L’allergia “teorica” che spesso e volentieri si ascrive a Foucault

– e dietro alla quale in molti si nascondono per timore di mette-

re mano a concetti totalmente fuori critica, quali sono oggi quel-

lo di soggetto, di individuo e di Io – rischia a volte di essere una

scusa troppo comoda per non affrontare molte scottanti questio-

ni politiche e sociali alla loro vera radice. Le riflessioni sull’in-

dividuo pericoloso e anormale, in questo senso, si arrestano in-

fatti – a mio avviso – troppo spesso nel momento in cui dovreb-

(18)

86

bero realmente cominciare, vale a dire di fronte alla necessità di una critica radicale della nozione stessa di individuo. Vorrei ap- profondire, almeno parzialmente, questa critica riprendendo il

“Post” con cui si conclude il precedente fascicolo di “aut aut”

sul tema della pericolosità sociale, in cui Rovatti scrive:

La nozione di individuo è diventata di per sé una nozione peri- colosa: o meglio, è diventata un’idea cui affidiamo la possibilità di esportare la pericolosità fuori di noi. Il “mostro”, come con- tinuiamo a chiamarlo, è un individuo: mentre lo esorcizziamo, tentando con ogni espediente conoscitivo di capirlo e di ogget- tivarlo come non-normale, cercando dunque disperatamente di allontanarlo da noi, in realtà lo avviciniamo proprio attraverso la categoria di individuo […], nella quale non possiamo fare a meno di collocare in qualche modo anche noi stessi. […]

Invece, forse, dovremmo smontare quest’idea di individuo e metterne allo scoperto il fondo astratto e naturalistico che la governa. Dovremmo forse, lentamente, dal basso, distruggerla, il che significa riuscire a farne a meno.

1

Due serie

La critica alla nozione di individuo pericoloso – iniziata con i corsi di Foucault sul potere psichiatrico e sugli anormali, e proseguita fin dagli anni ottanta in particolare nelle opere di Robert Castel – è oggi molto diffusa negli ambienti più illuminati della psichiatria, del diritto e della criminologia. I quasi quattro decenni di critica e autocritica illuminate hanno permesso ai migliori esponenti di queste discipline di collocare la nozione di pericolosità sociale (e quella di soggetto anormale) in quella che a mio parere è la sua reale cornice politica: il controllo, la repressione e la selezione sociali.

Credo però al contempo che, per affrontare la questione del- la pericolosità sociale nel suo versante più intimamente “soggetti- vo”, sia necessario sforzarsi di costruire una serie “micro” da af- fiancare alla ben più percorsa serie “macro”. Soltanto nel micro

1. P.A. Rovatti, Una società terribile, “aut aut”, 370, 2016, pp. 193-195.

(19)

87

infatti possiamo indagare le reali ricadute soggettive (e gli effetti di controinvestimento sulla serie macro), prodotte nei (e dai) sog- getti per mezzo della socializzazione dei discorsi istituzionali sulla pericolosità. In una parola: è solo nel micro che possiamo indaga- re le ragioni per cui la nozione di individuo pericoloso (o anorma- le) “fa politicamente presa” tra gli individui della nostra società.

Se la serie macro è dunque quella in cui ricostruiamo la forma- zione storico-politico-discorsiva dell’oggetto “individuo pericolo- so” o “anormale” – oltre che quella in cui possiamo, grazie agli strumenti foucaultiani, continuare ad aggiornarne la storia –, la serie micro – che mi pare lasciata molto più in disparte, per non dire totalmente in ombra – dovrebbe interessarsi piuttosto del- le ricadute soggettive, e in certo senso imponderabili, che questo discorso dominante produce incessantemente a livello dei singo- li. Se infatti le nozioni di pericolosità e di anormale hanno una col- locazione storica precisa nell’economia dei discorsi giuridico, po- litico e pseudo-scientifico, quella di “pericolo” ha invece una ge- nealogia molto diversa e molto più complessa, che si potrebbe far risalire senza difficoltà fino agli albori dell’umanità (vedi i tabù dei cosiddetti primitivi). Inoltre, la serie micro ci permette di os- servare fino a che punto gli stessi individui “anormali” (o che si riveleranno tali a causa dei propri atti) il più delle volte svolgano in prima persona ruoli di normalizzazione per qualcun altro. Per esempio, un padre che stermina la propria famiglia, o che è un pervertito, può contemporaneamente svolgere in maniera impec- cabile le proprie microattività di normalizzazione in seno al mi- lieu familiare, al lavoro o chiacchierando con gli amici al bar.

Trovo che concentrarsi sulla serie micro ci permetta di appro-

fondire alcune questioni che considero di importanza capitale,

prima tra tutte: per quale ragione una persona che ha compor-

tamenti anormali viene percepita immediatamente e logicamente

come un pericolo? Per cominciare a rispondere, in maniera ine-

vitabilmente parziale, a questa domanda mi è parso necessario

individuare uno strumento teorico capace di collegare le due se-

rie (macro e micro) che ho brevemente tratteggiato. Mi sembra

infatti che a mancare, nella contemporanea riflessione sulla peri-

(20)

107

aut aut, 372, 2016, 107-121

Lo specialista del pericolo

PIERO CIPRIANO

L a domanda più frequente che si rivolge a uno psichiatra è perché ha fatto lo psi- chiatra. E lo psichiatra quasi sempre ri- sponde che l’ha fatto perché voleva semplificare la complessità.

Perché pensava di poter diventare, finanche, lo specialista della complessità. Spiegare, o almeno comprendere, se non altro intui- re, il mistero della vita, della morte, della salute, della malattia, della ragione, della sragione, della normalità, della follia. Lo psi- chiatra, però, quasi sempre, omette di aggiungere che tutto ciò non l’ha trovato. E non è riuscito a diventare l’esperto della com- plessità. Ma è diventato, più banalmente, suo malgrado, lo spe- cialista del pericolo.

Così lo definisce Michel Foucault, a commento del libro di Ro- bert Castel, L’ordine psichiatrico. Gli alienisti del

XIX

secolo, scri- ve, si sono preoccupati innanzitutto di farsi riconoscere come sen- tinelle, esperti, specialisti di un pericolo generale che incombeva sul corpo sociale. L’alienista subito ha voluto assimilarsi all’igieni- sta, il cui mandato non è tanto la cura delle malattie ma una sor- ta di moralizzazione (igiene, appunto) della società. Per cui que- sto ruolo normalizzatore dello psichiatra non si è esaurito soltan- to nella possente ambiguità (carcere dalle sembianze d’ospedale) del manicomio, le cui mura si ergono ai margini della città, ma ha continuato nei succedanei del manicomio, in quelli che oggi si

Piero Cipriano, psichiatra, lavora in un SPDC di Roma.

(21)

108

chiamano ottimisticamente (e ciò è giusto, perché lo psichiatra ha il dovere di essere ottimista, mi piacerebbe poterlo definire lo spe- cialista dell’ottimismo, ma purtroppo la grande maggioranza di essi è pessimista e nichilista) i Centri della salute mentale, ma non per caso moltissimi operatori, psichiatri, psicologi, infermieri, an- cora oggi, in modo apparentemente anacronistico o forse ignoran- te, continuano a chiamarli

CIM

, perché per tutti gli anni settanta essi sono stati i Centri dell’igiene mentale (appunto), e ancora og- gi, pur con diverso acronimo, moltissimi

CSM

sul territorio italia- no continuano, nei fatti, a essere

CIM

, il

CIM

che sottende un altro modo, diverso ma contiguo al manicomio (infatti i

CIM

della leg- ge Mariotti dovevano convivere col manicomio), di interpretare la salute psichica delle persone come igiene mentale, cioè come nor- malizzazione, cioè come moralizzazione, cioè come adeguamen- to a una norma che è sempre più utopistico definire e conseguire.

D’altra parte, se è vero che gli ultimi manuali diagnostici

(

DSM

-5) redatti dagli specialisti mentali spartiscono la follia in ol-

tre trecento forme, vedi bene che nessuno più è folle, e però tut-

ti sono anormali, tutti sono devianti, tutti sono potenzialmente

candidati a finire nella rete dei nuovi servizi dove impera la cul-

tura dell’igiene mentale, del pericolo, del rischio, servizi la cui ri-

sposta prevalente è il farmaco (e sì, sono ormai dei supermarket

dello psicofarmaco, certi luoghi della cura mentale, inutile girar-

ci intorno) e l’invio in luoghi a parte che non si chiamano mani-

comio eppure lo sono, case di cura, cliniche,

SPDC

, comunità (co-

siddette) terapeutiche, centri diurni,

REMS

ecc. Manicomio dif-

fuso, lo si è definito, o anche circolare, oppure illimitato, come

meglio preferite. Una specie di assurdo gioco dell’oca in cui l’o-

ca è il povero paziente, reso cronicamente anormale e pericolo-

so. Paziente oca che, per la tranquillità dello specialista del peri-

colo che l’ha in carico, è bene che stia non a casa sua ma in luo-

ghi idonei a ospitare i devianti, e a custodire il pericolo che lo-

ro portano con sé. Luoghi che non sono più manicomi, ma sigle

diverse. Ecco che l’aforisma basagliano che tutto ciò riassume, e

spiega il dilemma dello specialista del pericolo (“quando il mala-

to è internato il medico mentale si sente libero, quando il malato

(22)

109

mentale è libero è il medico mentale a sentirsi internato”), è vali- do ancora, oggi più che mai.

Ciò che voglio dire è che, grazie agli specialisti del pericolo, non c’è neppure bisogno di delinquere, per essere reclusi in luoghi a parte. Certo, se una persona commette un reato, la cosa si com- plica. Soprattutto se si tratta di reati incomprensibili, inspiegabili, quelli alla Pierre Rivière raccontati da Foucault, per dire, i crimini senza ragione né finalità. Rispetto a questi la psichiatria, sin dalle sue origini, si propose come stampella della giustizia, le mise a disposizione la sua complessa nosografia, di cui il reato era mera conseguenza. La nosografia psichiatrica non ha nulla di scientifico, eppure la psichiatria lo dà a credere, e la giustizia le crede, perché le conviene. È l’unico modo, credere nella scienza psichiatrica, per uscire dall’aporia di giudicare un reato assurdo.

Ecco, allora, il più paradossale dei dialoghi tra due poteri, tra due onnipoteri, il giudice che dice allo psichiatra: non so cosa far- ne di quest’uomo il cui reato mi è incomprensibile, è pericoloso?

Lo capite anche voi che questa è una domanda da non fare agli uomini, fossero anche psichiatri, perché è la richiesta di una pro- fezia, è domanda da fare a un mago, a un indovino, o meglio a un profeta, anzi a un dio. Lo psichiatra, però, cade nel tranello, e non dice: signor giudice, mi scusi, e io che ne so?, mica sono dio?

Dice, invece, purtroppo: sì, signor giudice, io sono dio, io sono in grado di prevedere il destino di quest’uomo, e so che se non verrà custodito, delinquerà ancora, e ciò me lo dice la sua malattia, che io ho visto, e che si chiama, mettiamo… schizofrenia.

Ecco. Così possiamo riassumere quest’assurdo scambio tra il giudice e lo psichiatra: lei è dio?, sì, io sono dio.

Da qui deriva l’orrore dei manicomi del crimine, e degli erga- stoli bianchi per i reati detti bagatellari, e delle morti sociali dei devianti. Ma due anni fa è stata approvata una buona legge (81 del 2014), che trentasei anni dopo la 180 che aboliva i manico- mi civili, abolisce anche i manicomi criminali. Ma mettiamo pu- re che questa buona legge che abolisce gli

OPG

e istituisce le

REMS

porti all’estinzione perfino delle

REMS

, e porti a riscrivere perfino

(23)

122

aut aut, 372, 2016, 122-142

Pericolo in movimento. I migranti e la produzione legale dell’illegalità

EDOARDO GREBLO

L a storia europea è costellata di persecu- zioni e violenze nei confronti degli stra- nieri, sia degli stranieri “interni”, come gli eretici o le streghe, sia di quelli “esterni”, come gli ebrei o gli zingari. Da quando però vi sono passaporti e controllo dei confi- ni è una nuova figura, quella del migrante “illegale”, che attira su di sé l’attenzione e le paure dei governi, dei media e dell’opinio- ne pubblica.

1

Siccome, per gli schemi cognitivi di senso comu- ne, i soggetti in transito sulle rotte migratorie di tutto il mondo e che violano i confini di Stato evocano un mondo minaccioso e incontrollabile, cresce la tendenza a equiparare i migranti “ille- gali” a nemici e ad alimentare il panico sulla “invasione” dei pae- si ricchi da parte di immigrati poveri provenienti dal Terzo mon- do. Sale così dagli umori più profondi della società una richiesta di ordine e sicurezza che trova la sua controparte in una forma di governo che opera attraverso le politiche della paura e le risorse

1. S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mon- do globale (2013), trad. di G. Roggero, il Mulino, Bologna 2014, p. 183. Sui diversi signi- ficati di “illegale”, C. Dauvergne, Making People Illegal. What Globalization Means for Migration and Law, Cambridge University Press, Cambridge 2008, p. 15 sgg.; cfr. anche E. Guild, “Who is an irregular migrant?”, in B. Bogusz et al. (a cura di), Irregular Migra- tion and Human Rights: Theoretical, European and International Perspectives, Martinus Nijhoff, Leiden 2004, pp. 3-28; J. Handmaker, C. Mora, “‘Experts’: the mantra of irregular migration and the reproduction of hierarchies”, in M. Ambrus et. al. (a cura di), The Role of “Experts” in International and European Decision-Making Processes: Advisors, Decision Makers or Irrelevant Actors?, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 263-287.

(24)

123

della demagogia.

2

Il diffondersi di categorie che governano i di- scorsi sullo straniero migrante attraverso rappresentazioni socia- li basate su schemi interpretativi prefabbricati non è casuale. Nel momento in cui, con la rivoluzione neoliberale, il sistema econo- mico non ha più la necessità di favorire l’inserimento stabile dei migranti ma ha, al contrario, tutto l’interesse a favorirne l’impie- go in condizioni di flessibilità e subordinazione, l’immigrazione diviene un “problema” e richiede una gestione che ne garantisca il controllo.

3

E chi meglio del migrante irregolare/illegale/crimi- nale si presta a cadere vittima del nuovo populismo penale che serve a restituire coesione sociale a comunità politiche attraver- sate da insicurezze profonde?

La figura del migrante “illegale” attira l’attenzione e le paure a seguito delle trasformazioni del capitalismo che hanno comin- ciato a prendere piede negli anni settanta.

4

È all’incirca dalla fi- ne dei “trenta gloriosi” (gli anni dello sviluppo economico che ha caratterizzato il secondo dopoguerra) che una serie di svilup- pi apparentemente disparati, come il costante rafforzamento dei controlli di confine, l’inasprimento delle condizioni di ingresso, l’espansione della capacità di detenzione e di deportazione e la proliferazione di sanzioni penali per individui ritenuti responsa-

2. D. Bigo, “Sicurezza e immigrazione. Il governo della paura” (1998), in S. Mezza- dra, A. Petrillo (a cura di), I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, ma- nifestolibri, Roma 2000, pp. 213-231; A. Balch, Immigration and the State. Fear, Greed and Hospitality, Palgrave Macmillan, London 2016, in particolare il cap. 8.

3. A. De Giorgi, Immigration Control, Post-fordism, and Less Eligibility. A Material- ist Critique of the Criminalization of Immigration across Europe, “Punishment & Society”, 2, 2010, pp. 147-167; S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo so- ciale, Feltrinelli, Milano 2000, p. 219 sgg.; S. Karakayali, “Illegal migration in post-ford- ism”, in Y. Jansen, R. Celikates, J. de Bloois (a cura di), The Irregularization of Migration in Contemporary Europe. Detention, Deportation, Drowning, Rowman & Littlefield, London- New York 2015, pp. 31-52.

4. C. Withol de Wenden, Citoyenneté, nationalité, et immigration, Arcantére, Paris 1988; D. Massey et al., World in Motion: Understanding International Migration at the End of Millennium, Clarendon, Oxford 1998; C. Dauvergne, Making People Illegal. What Glo- balization Means for Migration and Law, cit., p. 65 sgg.; D. Bacon, Illegal People. How Glo- balization Creates Migration and Criminalizes Immigrants, Beacon, Boston 2008; B. Ander- son, M. Ruhs (a cura di), Researching Illegality and Labour Migration, “Population, Space and Place”, 3, 2010, pp. 175-179; V. Squire (a cura di), The Contested Politics of Mobility.

Borderzones and Irregularity, Routledge, London 2011.

(25)

124

bili dei crimini più disparati accompagna come un’ombra la dif- fusione di una retorica imperniata sulla pericolosità sociale del migrante. Le restrizioni introdotte nel campo delle politiche mi- gratorie allo scopo di promuovere la riorganizzazione dei merca- ti del lavoro hanno costruito le varie categorie di stranieri e le di- verse forme di migrazione, per esempio distinguendo tra migra- zione forzata e migrazione economica, e hanno dato vita a “un processo attivo di inclusione attraverso l’illegalizzazione”.

5

La spettacolare moltiplicazione dei confini che caratterizza le tra- sformazioni in corso nello spazio globale corrisponde precisa- mente all’esigenza di controllare, gestire e filtrare la mobilità mi- grante in funzione dei bisogni dell’economia. E a questa funzio- ne fanno da controcanto i processi di illegalizzazione che di fatto modellano le condizioni in cui è possibile l’attraversamento del confine – attraversamento che può essere, a seconda delle neces- sità e in risposta al dinamismo dei sistemi economici rispetto allo spazio, impedito, rallentato oppure facilitato. La produzione le- gale dell’illegalità si sviluppa nella scia dei processi di disaggre- gazione e riconfigurazione della sovranità che lo Stato mette in gioco nella formazione, nel rafforzamento e nell’attraversamen- to selettivo dei confini.

Se il migrante “clandestino” rappresenta attualmente l’arche- tipo del soggetto pericoloso è perché la sua figura investe una prestazione cruciale della sovranità statuale, ossia la decisio- ne su chi ammettere nel territorio nazionale. Il migrante “ille- gale” è infatti un individuo che sembra rimettere in discussio- ne i presupposti territoriali della politica moderna, ossia la ca- pacità dello Stato di proteggere le coordinate spaziali che han- no lo scopo di definire l’esistenza giuridica e politica dei citta- dini e difendere un immaginario nazionale delimitato, sovrano e omogeneo. Non a caso, “quanto più gli Stati investono capita- le politico nella effettività dei controlli sui movimenti delle per-

5. N. De Genova, Working the Boundaries. Race, Space, and “Illegality” in Mexican Chi- cago, Duke University Press, Durham (N.C.) 2005, p. 234. Cfr. anche M. Samers, Emerging Geopolitics of Illegal Immigration in the European Union, “European Journal of Migration and Law”, 1, 2004, pp. 27-45.

(26)

143

aut aut, 372, 2016, 143-162

Marx e Foucault tra penalità e critica dell’economia politica

DARIO MELOSSI

P ubblicammo, insieme a Massimo Pavari- ni, Carcere e fabbrica: alle origini del siste- ma penitenziario esattamente quarant’anni fa.

1

Essenzialmente il libro si basava su una ricostruzione di ma- teriale storico sulle origini del carcere (diviso in due parti, l’Euro- pa e l’Italia da un lato, gli Stati Uniti dall’altro), ordinato intorno a una visione di matrice marxista. Questa era anche la sua ambi- zione all’originalità nel senso che, attraverso una lettura marxista di tale materiale storico, emergeva chiaramente come la stessa ori- gine, la vera e propria “invenzione” del carcere, fosse strettamen- te connessa al processo storico-economico che Marx, nel primo volume del Capitale, chiama accumulazione “originaria” o “pri- mitiva”. Inoltre, nei secoli che seguirono, la logica stessa di que- sta accumulazione primitiva si sarebbe riprodotta ed espansa at- traverso la conquista incessante e la colonizzazione di aree pre-ca- pitaliste della società, non solo, naturalmente, per quanto riguar- dava l’economia capitalista di per sé, ma sinanco nei sistemi pena-

Dario Melossi insegna Criminologia presso la Scuola di giurisprudenza dell’Università di Bologna.

1. Si riproduce qui ampia parte della mia introduzione a una nuova edizione inglese, di Macmillan Palgrave, di The Prison and the Factory, un libro che, con il titolo Carcere e fab- brica, avevamo pubblicato per i tipi del Mulino nel 1977 (D. Melossi, M. Pavarini, Carce- re e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, il Mulino, Bologna 1977) e che era stato poi tradotto in inglese nel 1981 (The Prison and the Factory, Macmillan, London 1981). La versione italiana integrale di tale introduzione apparirà in un fascicolo speciale dedicato al- la memoria di Massimo Pavarini della rivista “Studi sulla questione criminale” (1, 2017).

(27)

144

li, a causa della caratteristica essenziale della “disciplina” (come si cercherà di mostrare più in dettaglio nelle pagine che seguono).

Economia politica della pena

Affrontando la questione delle origini dell’incarcerazione, due strade sembravano schiudersi davanti a noi. Una l’avevamo trovata menzionata in un famoso lavoro di Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo

2

e si intitolava Punishment and Social Structure di Georg Rusche e Otto Kirchheimer.

3

Tuttavia, l’enfasi di Rusche sull’importanza del mercato del lavoro – che gli veniva da maestri di impostazione sostanzialmente liberale classica – mi sembrava un buon esempio di “economicismo”, più che di “marxismo”.

4

L’altro percorso fu quello che noi seguimmo (e che a mio av- viso anche Foucault seguì, in Sorvegliare e punire) e cioè la cen- tralità del concetto di disciplina. Come veniva naturale a chi vi- vesse nell’atmosfera italiana degli anni settanta, vedevamo le ra- dici della lotta di classe nella fabbrica, intorno all’estrazione del

“plusvalore”. Secondo tale punto di vista, presentato da Marx nel primo volume del Capitale, alla fine di ciascuna giornata di lavoro, il valore della produzione deve essere più grande della somma dei costi dei vari fattori della produzione. Questo concet- to assai semplice, quasi banale, è tuttavia il nocciolo della lotta di classe. Il governo della produzione è infatti nelle mani del capita- le da un lato e della resistenza dei lavoratori dall’altro.

Quando si ricostruisce la storia del carcere, quindi, non si può assolutamente trascurare l’importanza cruciale di un’istituzione

2. M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo (1946), Editori Riuniti, Roma 1972, pp.

55-56, 273, 277.

3. In seguito, nel mio lavoro di ricostruzione della biografia di Georg Rusche, il ve- ro ideatore delle tesi di Pena e struttura sociale (come l’avremmo chiamato nella traduzio- ne che di lì a poco ne facemmo io e Massimo Pavarini: G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, il Mulino, Bologna 1978) scoprii che Maurice Dobb aveva anche aiuta- to Rusche, di origini ebree, a rifugiarsi e cercare lavoro nella Londra degli anni trenta, scri- vendo lettere di presentazione per lui (D. Melossi, Georg Rusche: A Biographical Essay,

“Crime and Social Justice”, 14, 1980, p. 57).

4. D. Melossi, “The Simple ‘Heuristic Maxim’ of an ‘Unusual Human Being’”, intro- duzione a G. Rusche, O. Kirchheimer, Punishment and Social Structure (1939), Transaction Publishers, New Brunswick (N.J.) 2003, pp. 9-46.

(28)

145

come la “workhouse” o la casa di lavoro.

5

La casa di lavoro, nel- la sua versione più famosa, la Rasphuis, fu inventata all’inizio del

XVII

secolo nelle province olandesi, da poco indipendenti e libere di professare la loro religione protestante. Tale istituzione avreb- be costituito il nesso cruciale con la futura istituzione “peniten- ziaria”, soprattutto attraverso l’opera di William Penn e dei suoi quaccheri.

6

Centrale quindi nel prefigurare la forma moderna del carcere, a causa della fama e della notorietà della Rasphuis. Ma centrale, specialmente, nel costituire il nesso tra penalità e capi- talismo. Quale altra istituzione infatti poteva meglio rappresen- tare l’“affinità elettiva” weberiana

7

tra il capitalismo e la penali- tà moderna? Una nuova forma di penalità che era in grado essa stessa di rappresentare lo “spirito del capitalismo”, una configu- razione materiale della stessa “etica protestante”.

8

Invero, si po- trebbe sostenere che la stessa “invenzione” del capitalismo prese forma nell’invenzione della casa di lavoro. “La questione pena- le” è infatti sempre stata vicina al cuore degli innovatori sociali, e sia i riformatori sia i rivoluzionari sono stati spesso presi in un

5. T. Sellin, Pioneering in Penology, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1944.

6. Nemmeno nelle lezioni raccolte in La società punitiva (Feltrinelli, Milano 2016), ove, contrariamente a Sorvegliare e punire, Foucault nota l’importanza del ruolo giocato dai quaccheri nella penalità moderna, egli coglie l’importanza della casa di lavoro e del fat- to che questa costituì un passo assai importante verso la creazione del penitenziario, spe- cialmente per l’iniziativa di William Penn e dei quaccheri. Penn era probabilmente venuto a conoscenza della nuova istituzione della casa di lavoro – della quale la Rasphuis di Am- sterdam era l’esempio più famoso – durante i suoi viaggi del 1677 nei Paesi Bassi e nel- la Germania settentrionale (dove pure si era visto un fiorire di “case di lavoro” e di “ca- se di correzione”; cfr. O.F. Lewis The Development of American Prisons and Prisons Cus- toms 1776 to 1845 [1922], Kessinger, Whitefish 2005, p. 10 e O. Seidensticker, William Penn’s Travels in Holland and Germany in 1677, “The Pennsylvania Magazine of Histo- ry and Biography”, 2, 3, 1878, pp. 237-282). Nella sua riforma penale di alcuni anni dopo (1681), che anticipò di un secolo alcune delle future riforme leopoldine e illuministe, e che era parte del più ampio “sacro esperimento” quacchero della Pennsylvania, Penn pose il più chiaro ed esplicito nesso tra le case di lavoro e quelli che saranno i moderni penitenzia- ri quando decretò che, “tutte le Prigioni saranno case di lavoro per felloni, ladri, vagabon- di, e persone licenziose, aggressive e pigre, e una [casa di lavoro] dovrà essere costruita in ogni contea” (T.L. Dumm, Democracy and Punishment: Disciplinary Origins of the United States, University of Wisconsin Press, Madison 1987, p. 79).

7. R.H. Howe, Max Weber’s Elective Affinities: Sociology within the Bounds of Pure Reason, “American Journal of Sociology”, 84, 1978, pp. 366-385.

8. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), Sansoni, Firen- ze 1965.

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aut aut, 372, 2016, 163-174

La nostra incorreggibile (a)normalità

1

ILARIA PAPANDREA

L’istituzione manicomiale [...] spesso paragonata a una nave che affonda nel mare in tempesta [è] oggi definitivamente affondata. Ciò che resta è il mare tumultuoso in cui dobbiamo affrontare la vita, non la malattia o la salute.1

S alute, malattia, individui sani, individui ma- lati, soggetti innocui, soggetti pericolosi:

una serie di coppie di contrari con cui vor- remmo acquietarci, piccole zattere su cui salire, per metterci al ri- paro da quella vita, troppo vaga, troppo poco definibile come il dritto di qualcosa, il cui rovescio sarebbe la malattia/la morte.

“Da giovane sono stato ricoverato in

SPDC

(reparto di diagno- si e cura). Mi hanno diagnostico un disturbo mentale. Di tutte le malattie che mi potevano capitare, perché a me, proprio que- sta?” Lorenzo ha una misura di sicurezza, è stato giudicato peri- coloso socialmente, e ha l’obbligo di risiedere in una comunità.

Anche Giacomo è in comunità. Stessa misura di sicurezza, pe- ricolosità sociale, interdizione. In più di un’occasione ci tiene a spiegarmi che è entrato in comunità “volontariamente, per cu- rarsi”. Non vuole vivere da solo, perché è “claustrofobico”. Se sta da solo di notte, delle voci potrebbero parlargli e a lui verreb- be voglia di scappare per la città.

Per Fausto il mondo si divide in competenti e incompetenti.

Se qualcuno, chiamato a svolgere una funzione, commette un er- rore, afferma di non sapere qualcosa o semplicemente non è co- sì efficiente come lui vorrebbe, Fausto è certo che lo stia facendo apposta per farlo saltare.

1. F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, A. Pirella, S. Taverna, La nave che affonda, Raffael- lo Cortina, Milano 20082, p. 24.

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A Lorenzo, a Giacomo, a Fausto, così come a molti altri sog- getti che la salute mentale o i servizi per le tossicodipendenze hanno in carico, la psichiatria può attribuire e ha attribuito del- le diagnosi. È intervenuta spesso anche la legge, per stabilire mi- sure di sicurezza a “tutela” del paziente e del corpo sociale. Ma con Lorenzo, Giacomo e Fausto si produce, ciascuna volta, un incontro singolare. È l’incontro di Fausto con quello psichiatra o con quell’operatore. È l’incontro di Giacomo con un infermie- re o con uno psicoterapeuta, o ancora l’incontro di Lorenzo con qualcuno a cui può decidere di raccontare qualcosa solo se è pre- sente un altro, di sua fiducia, perché non parliamo con tutti del- le cose strane che ci possono capitare, cose che hanno dell’incre- dibile se si discostano da quanto la maggior parte delle persone presume normale.

Quel “mare tumultuoso in cui dobbiamo affrontare la vita” è costellato di un’infinità di questi incontri, sarebbe forse meglio di- re, di situazioni in cui si sarà potuto produrre un incontro se lo psichiatra, l’operatore, l’infermiere, lo psicoterapeuta avranno sa- puto abbassare, depotenziare, indebolire la maestosità dell’artico- lo determinativo. Il luogo in cui questi incontri possono realizzar- si ha un peso enorme, perché il dispositivo in cui siamo presi ci padroneggia e i significanti che lo governano, quelli scelti (più o meno consapevolmente) come ideali che lo fondano, ci determi- nano, che lo si voglia o no. Ma quale che sia l’istituzione in cui ci è dato di incontrare Lorenzo, Giacomo o Fausto, ciò che più con- ta è il modo in cui siamo disposti ad accogliere lo scuotimento che le loro parole possono apportare al nostro sapere/potere istituito.

Constatiamo allora che, innanzitutto e per lo più, quel che

facciamo è difenderci dalla minaccia di questo scuotimento. Lo

facciamo nei modi e nelle forme più diverse. Mentre ascoltiamo

Lorenzo potrà attraversarci la mente il pensiero che la sua sven-

tura non è la nostra, e poi, subito dopo, che dalla malattia men-

tale si può guarire e noi siamo nella condizione di poterlo ac-

compagnare in questo cammino di guarigione. Con Giacomo ci

troveremo a pensare che la “claustrofobia” è tutt’altro da quel-

lo che lui intende, e che si tratterà proprio di insegnargli a esse-

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re autonomo, zittendo le voci che lo incalzano di notte. E infine con Fausto, in cui ci è forse più facile riconoscerci, non potremo trattenerci dal pensare che ce la mettiamo tutta per fare al me- glio il nostro lavoro e che sarebbe il caso di farla finita con la sua insistenza disturbante.

In ognuna di queste situazioni, quello che fatichiamo a dismet- tere è l’abito ben tagliato con il quale ci presentiamo loro. Lo psi- chiatra, l’operatore, lo psicoterapeuta, l’infermiere ci stanno cuci- ti addosso come una seconda pelle, acquisita in anni di lunga for- mazione. Sappiamo qual è la salute e quale la malattia, quale il male e quale il rimedio, occorre solo che ci si lasci fare indistur- bati, meglio se complianti – orribile storpiatura dalla lingua ingle- se – con la terapia che vorremo somministrare. Ci saranno allo- ra pratiche di cura più o meno buone, perché più o meno accor- te a prendere in carico la persona nella complessità dei suoi bi- sogni. Se solo si pensa ai modi in cui ogni regione d’Italia ha af- frontato l’affondamento della nave manicomiale – per accogliere le parole e i corpi di tanti soggetti che ci ostiniamo a considerare radicalmente diversi da noi –, ci si accorgerà che la differenza fra le “buone” e le “cattive” pratiche è notevole, addirittura abissa- le. È opportuno, però, non accomodarci troppo su questa dicoto- mia. Per quanto essenziale sul piano dei diritti, essa rischia infat- ti di farci credere che esistano modi sicuri per metterci al riparo dal mare tumultuoso, vale a dire modi capaci di placare il tumul- to che toccherebbe alcuni più di altri. Forse occorre piuttosto es- sere disposti a scavare, dentro ognuna di quelle pratiche che pre- sumiamo “buone”, il posto per degli incontri sempre contingenti e, nella loro contingenza, perturbatori della nostra pratica stessa.

La vita, non la malattia o la salute

In una delle sue Conferenze brasiliane, Franco Basaglia ricorda che la legge 180 non ha solo chiuso i manicomi, essa ha anche “inserito la psichiatria all’interno dell’assistenza sanitaria”.

2

Lo dice, e subito si affretta a precisare che ci troviamo di fronte a un “nuovo ma-

2. F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina, Milano 20002, p. 181.

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