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La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di Titolo V- 4° Lezione Master Sapienza 2019
La riforma del Titolo V dimostrò subito “tutti i suoi limiti” : apparve
“ vaga e teorica” soprattutto in tema di competenza legislativa.
L’elenco delle materie previsto dall’ articolo 117 della Costituzione si è dimostrato fonte di tanti conflitti istituzionali; tale “indeterminatezza” fu anche la conseguenza delle modalità di approvazione della riforma del Titolo V.
Nel 2001 il centro- sinistra, approssimandosi la fine della legislatura e non individuando una maggioranza qualificata ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione, varò la riforma con il voto favorevole soltanto dei
componenti della maggioranza ; fu necessario un successivo referendum confermativo che approvò definitivamente la riforma con il consenso maggioritario dei cittadini. Il nuovo titolo V risentì di quest’impostazione
“ affrettata e scarsamente condivisa”.
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Lo schema tripartito delle competenze in materia legislativa è
apparentemente “ lineare ”; in realtà le previsioni delle materie sono rimaste vaghe essendo il confine fra i diversi tipi di interventi legislativi
“non ben delineato” ; successivamente tale schema fu condizionato dalle contingenze politiche-istituzionali e dalla crisi economica.
In tema di articolo 117 della Costituzione, alcuni commentatori hanno parlato di “ pagine bianche in cerca di un autore capace di definirne i contenuti”.
Simile “indeterminatezza” nella fase applicativa ha generato un considerevole contenzioso costituzionale ; il giudice costituzionale ,
talvolta, ha cercato di” riempire i vuoti” lasciati dal legislatore del 2001.
Il riparto delle competenze, d’altronde , non traccia sicure linee di demarcazione tra principi generali e norme di dettaglio.
La Corte Costituzionale tuttavia ha emesso negli ultimi cinque anni ( 2010-2015) un numero inferiore di decisioni in materia di contenzioso regionale rispetto agli anni precedenti.
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La Corte costituzionale ha adottato le seguenti pronunzie su questioni di rilevanza regionale:
• 2006: 463;
• 2007: 464;
• 2008: 449;
• 2009: 342;
• 2010: 376;
• 2011: 342;
• 2012: 316;
• 2013: 326;
• 2014: 286.
• 2015 : 276
Per la prima volta nel 2014 e nel 2015 il numero delle decisioni della Corte è sceso sotto la fatidica soglia di 300 ! Conseguenzialmente non appare vera la tesi di coloro che sostengono che in questi ultimi anni vi sia stato
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un incremento del contenzioso costituzionale fra Stato e Regioni.
L’aumento si è avuto nei primi anni di entrata in vigore della riforma del 2001 mentre in quest’ultimo periodo vi è stata una certa stabilizzazione delle pronunzie ed addirittura ultimamente un decremento!
Per esemplificare il periodo di massimo contenzioso è stato il 2012 quando i giudizi in via principale erano stati 150 mentre già nel 2013 vi è stato un leggerissimo decremento con 149 giudizi in via principale.
Per quanto riguarda il 2016 le decisioni in via principale sono state : 104 di cui: 82 sentenze e 22 ordinanze. La Corte Costituzionale ha emesso altresì altre 15 decisioni in sede di giudizio per conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e Province Autonome.
Per quanto concerne il 2017 i giudizi in via principale sono stati decisi con 100 pronunce di cui 77 sentenze e 23 ordinanze mentre i conflitti di
attribuzione fra Stato, Regioni e Province autonome hanno prodotto 7 pronunzie.
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La Consulta si è espressa sulla legittimità costituzionale di leggi statali o regionali, tenendo conto del riparto di competenze previsto dal nuovo Titolo V.
E’ da rilevare comunque che i ricorsi sollevati dal Governo nazionale contro le leggi regionali hanno subito negli anni un incremento,
nonostante la produzione legislativa regionale in termini quantitativi non abbia presentato significativi aumenti.
Nel 2010 il Governo nazionale ha sollevato 180 questioni di rilevanza costituzionale mentre le Regioni ne hanno avanzato 120; nel 2011 il Governo nazionale 148 mentre le Regioni 75; nel 2012 il Governo nazionale 181 mentre le Regioni 165; nel 2013 il Governo centrale 283 mentre le Regioni 102 e nel 2014 il Governo nazionale 137 e le Regioni 140.
Nel 2014 per il primo anno le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Regioni superano quelle dello Stato. Tutto ciò deriva dal nuovo scontro Stato- Regioni in tema di coordinamento della finanza
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pubblica. Lo Stato intendeva censurare le leggi regionali che si ponevano in contrasto con la legislazione di contenimento della finanza pubblica emanata nel corso degli anni della crisi mentre le Regioni tendevano a tutelare le loro competenze rispetto agli stringenti vincoli di bilancio e ad ai notevoli tagli di spesa imposti dalle normative nazionali.
Per ridurre il ricorso al contenzioso costituzionale il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali dell’epoca il 26 Giugno 2006 emanò una Direttiva con cui si cercava di favorire la “leale collaborazione” tra le diverse componenti dello Stato. Il Governo nazionale, prima di sollevare l’impugnativa ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione, si impegnò a rinunziarvi , qualora la Regione si adeguasse alle osservazioni statali, apportando le modifiche richieste alla legislazione regionale
“ controversa”.
Lo Stato e la Regione potevano così realizzare un’intesa con cui le parti concordavano di apportare delle modifiche alla legislazione regionale, seguendo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale nelle materie oggetto del contendere.
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Recentemente le Regioni sottopongono alla Presidenza del Consiglio, preventivamente, i disegni di legge più importanti - ancora all’esame del Consiglio regionale – per ottenere un parere preventivo da parte del
Governo nazionale ; seguendo tale iter si dovrebbe “evitare” il contenzioso costituzionale.
Le Regioni, sostanzialmente hanno rinunziato all’autonomia concessa loro dal nuovo articolo 127 della Costituzione che ha previsto l’abolizione del Commissario di Governo e sono tornate “opportunamente al giudizio preventivo” dello Stato.
Qualora il Governo nazionale riscontrasse un’illegittimità costituzionale evidente, avvierebbe un contenzioso costituzionale contro la Regione ; tuttavia rimarrebbe l’impegno “ sottinteso” di rinunziare all’impugnativa nel caso in cui la Regione modificasse la normativa regionale secondo le indicazioni statali .
Basti notare che negli ultimi nove anni (esclusi il 2016 e 2017 di cui non si dispongono i dati) la media percentuale dei dispositivi di cessazione della materia del contendere e di estinzione dei ricorsi si è attestata per le
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Regioni all’8,1% mentre per lo Stato ha raggiunto il 21,5%. Ciò dimostra che il Governo nazionale nelle trattative con le Regioni ha ottenuto quanto voleva. C’è da notare che nel 2014 il numero dei dispositivi di cessazione del contendere e di estinzione ottenuti dal Governo nazionale si è
incrementato dopo essere sensibilmente diminuito nel 2013.
E’ opportuno rilevare che la giurisprudenza costituzionale in questi ultimi anni in tema di rapporti Stato-Regioni si è attestata su una linea di
sostanziale continuità.
Tale tendenza troverebbe conferma nella riduzione del grado di “novità”
delle sentenze della Corte e nella “standardizzazione” di un sistema di rapporti normativi tra livelli di governo territoriale, risultante in linea di massima stabile.
Le maggiori novità sarebbero state rappresentate dalla giurisprudenza costituzionale sulle limitazioni alla potestà legislativa regionale in conseguenza del coordinamento statale sulla finanza pubblica.
Il rapporto 2012 sembrava denotare lo sforzo della giurisprudenza
costituzionale di “contenere la spinta centralistica” delle norme statali in materia di finanza pubblica. Nel rapporto 2013 si è rilevato che “ tale tentativo non è stato in grado di contrastare efficacemente la tendenza all’aumento del contenzioso Stato- Regioni derivante dalla pervasività
della legislazione statale in tema di misure “anticrisi” e di sostegno alla
“ crescita” “.
Nella giurisprudenza costituzionale del 2013 su un totale di 326 decisioni, ben 149 sono state rese in giudizi in via principale e 9 in seguito a conflitti di attribuzione fra enti.
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La situazione degli anni precedenti era stata la seguente:
• Nel 2012 su un totale di 316 decisioni , 150 erano state rese nel giudizio in via principale e 6 in sede di conflitto di attribuzione fra enti.
• Negli anni precedenti i giudizi in via principale- che erano
diminuiti dal 2010 al 2011 passando dal 37% al 26,6% - nel 2012 avevano subito un significativo incremento passando dal 26,6% al 47,4%!
• Nel 2013 addirittura la percentuale delle decisioni rese in via principale( 45, 7%) ha superato la percentuale delle decisioni adottate in via incidentale ( 44,4%).
• Nel corso del 2014 il dato delle pronunzie rese nei giudizi in via principale è tornato a scendere al 31,8% mentre nel 2015 la
percentuale è risalita per assestarsi sul 40,9%. Nel 2016 e nel 2017 la percentuale dei giudizi resi in via principale ha raggiunto il 35,6%.
• Tutto ciò dimostra che la diminuzione del contenzioso
costituzionale in via principale, iniziata nel biennio 2007-2008, si era arrestata. Era iniziato un “nuovo” periodo di contrasto tra Stato e Regioni collegato alle normative statali di carattere finanziario con un incremento complessivo dell’ intero contenzioso
costituzionale. Negli ultimi anni si è ridotto il contenzioso
costituzionale in via principale indicando una certa stabilizzazione nei rapporti Stato – Regioni.
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La Consulta, nell’ affrontare il notevole contenzioso sviluppatosi, ha cercato di “dedurre” dei principi di carattere costituzionale nel tentativo di definire ruoli e competenze delle diverse componenti della Repubblica, cercando di salvaguardare l’unità della Nazione.
E’ evidente che dalla giurisprudenza della Corte è “ venuto fuori” un titolo V completamente diverso dalla lettera delle norme approvate con la
riforma del 2001.
Basti notare che nel 2014, come si diceva in precedenza, le Regioni hanno impugnato normative nazionali nella stessa entità in cui il Governo
nazionale ha sollevato obiezioni su disposizioni regionali. Tuttavia ben diversa è stata l’accoglienza da parte della Corte Costituzionale!
Infatti i 4/5 delle questioni promosse dalle Regioni si sono concluse con una pronunzia di infondatezza o di inammissibilità; soltanto meno di 1/5 dei ricorsi delle Regioni hanno portato ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale della normativa statale impugnata.
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Invece il Governo nazionale nel 2014 ha visto accolto circa metà delle questioni sollevate ( il dato comunque è inferiore a quello del 2013 in cui lo Stato aveva visto accolto i 3/5 dei ricorsi avanzati!).
I dati riguardanti il 2014 per il Governo centrale sono ancora più positivi perché a quelli ricordati in precedenza bisogna aggiungere il numero delle decisioni della Corte concluse con la cessazione della materia del
contendere e di estinzione del giudizio conseguenti alle trattative con le Regioni. La Corte ha sostanzialmente accolto nel 2014 circa i 2/3 dei ricorsi sollevati dallo Stato!
Non ci rimane che esaminare alcuni dei maggiori filoni della giurisprudenza costituzionale.
Le competenze trasversali
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La rilettura della Costituzione, in materia di Titolo V, da parte della Corte Costituzionale è iniziata dall’ interpretazione “estensiva” del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione, con la ridefinizione delle materie di competenza esclusiva dello Stato.
L’elenco delle materie previsto dal secondo comma dell’articolo 117 non dà delle definizioni precise ma spesso indica degli obiettivi da perseguire o delle esigenze da soddisfare.
Tale “indeterminatezza” ha permesso alla Consulta di autorizzare la legislazione nazionale a “ travolgere” anche le competenze legislative regionali, pur di raggiungere le finalità ed i valori delle materie del secondo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
Tale tipo di competenze sono state definite “ trasversali” dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale .
Così si esprime la Corte “ Quando una materia regionale diventa il mezzo per raggiungere il fine individuato dalla materia trasversale,
automaticamente transita dalla potestà regionale a quella statale” ( esempio la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti
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civili e sociali; la concorrenza ( competenza statale) che può sconfinare nell’industria, agricoltura, artigianato ( ambiti di competenza regionale); la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, materie
teoricamente di competenza statale ( lettera s del secondo comma dell’articolo 117)!
Alcune “ipotesi” di competenze trasversali.
1) Ambiente
Tra le competenze trasversali vi è certamente quella della tutela ambientale.
E’ da ricordare che, ai sensi dell’articolo 4 del Trattato dell’Unione europea, l’ambiente rientra fra le competenze concorrenti di Unione
europea e degli Stati membri. La materia ambientale è regolata dai principi
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che a livello europeo presiedono al settore ; lo Stato può esercitare la sua competenza qualora l’UE non sia intervenuta o abbia adottato norme che richiedono atti di attuazione statali.
Nel Titolo V vigente si fa riferimento all’ambiente in tre ipotesi :
- articolo 117 comma 2 lettera s: la tutela ambientale è considerata materia esclusiva statale;
- articolo 117 comma 3:valorizzazione dei beni ambientali rientra nella competenza concorrente fra Stato e Regione;
- articolo 116 comma 3: prevede la possibilità dell’ autonomia
regionale differenziata per tutte le materie del comma 3 dell’articolo 117, compresa la tutela ambientale.
La Corte Costituzionale sull’argomento è intervenuta soprattutto con due sentenze fondamentali: numeri 407 e 536 del 2002.
Con la prima sentenza ( 407/2002) la Corte ha definito la tutela ambientale come una “ materia non materia” in quanto investe altri interessi e competenze e “conseguenzialmente” rientrerebbe nella competenza esclusiva statale. Le Regioni potrebbero intervenire in
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materia ambientale soltanto come conseguenza dell’esercizio di altre competenze regionali ( esempio governo del territorio, tutela della salute etc.).
Con la seconda sentenza ( 536/2002) la Consulta è stata ancora più severa ed ha giudicato illegittima una legge regionale in tema di caccia che, in base alla potestà residuale, estendeva i tempi del calendario venatorio.
La Corte, anche con altre pronunzie in materia ( es: sentenze n.246/2006,n.32/2006,n. 182/2006,n.183/2006,n. 378/2007,n.
104/2008, n. 61/2009) ha ribadito che le Regioni non possono “ far altro” che “ peggiorare” gli standards minimi imposti dallo Stato. In base alla potestà residuale, le Regioni possono adottare soltanto misure più rigorose di quelle fissate dal legislatore statale!
Tale impostazione giurisprudenziale ha prodotto significative limitazioni alla competenza regionale, ad esempio in materia di caccia ( es: sent n.387/2007), di parchi ed aree protette ( es: sent n.
12/2009 relativa ad una legge della Regione siciliana che intendeva
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istituire quattro nuovi parchi in Sicilia), di cave ( es: sent. n.
108/2005) e di rifiuti.
Nel 2012 la Corte è intervenuta in materia di “tutela dell’ambiente” e
“dell’ecosistema” con numerose sentenze.
La Corte Costituzionale ha ribadito che trattasi di materia trasversale e che :
a) il legislatore regionale deve rispettare una soglia uniforme di protezione individuata dallo Stato e da osservare su tutto il territorio nazionale.
b) le Regioni possono soltanto “innalzare” il livello di tutela accordato a livello statale.
La disciplina unitaria e complessiva del “ bene ambiente” riguarda un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed
assoluto; pertanto deve disporre di un elevato livello di tutela che non può essere derogato da altre discipline di settore.
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In tal senso si configura come un limite alla discrezionalità legislativa che le Regioni e le Province autonome possono avere nelle materie di loro competenza.
Lo Stato ha utilizzato la “ non materia” della “ tutela ambientale”
come “uno scudo” per opporsi all’ “esplicarsi delle pur legittime competenze regionali” in tematiche in qualche modo connesse all’ambiente.
2) Tutela della concorrenza
“La tutela della concorrenza” rientra, unitamente alla “moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; sistema valutario; sistema tributario e
contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie” fra le materie
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della competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117 secondo comma lettera e).
E’ bene chiarire che la fissazione delle regole della concorrenza necessarie al funzionamento del mercato è di competenza esclusiva dell’Unione Europea mentre il mercato interno rientra fra le competenze concorrenti dell’UE e dello Stato.
Sul tema della concorrenza la Corte ha dato indubbiamente, in sede di attuazione del Titolo V, un’interpretazione “ particolarmente estensiva”
dei poteri dello Stato, incidendo profondamente sulle competenze regionali.
La Consulta nella nozione di concorrenza fa rientrare due profili: il primo di carattere statico, riguardante il mantenimento di mercati concorrenziali esposti a strategie distorsive delle imprese o di soggetti pubblici ed il secondo di carattere dinamico tendente a liberalizzare i mercati per favorire l’instaurazione di assetti concorrenziali.
Con la sentenza n. 14/2004 la Corte Costituzionale chiarì che proprio la previsione della lettera e) del secondo comma dell’articolo 117 della
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Costituzione pone la “ tutela della concorrenza” come una delle leve della politica economica statale ; pertanto “ non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre
squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”.
Nella competenza esclusiva statale rientrano non solo le norme anti-trust ma anche le disposizioni riguardanti la promozione del mercato e la
concorrenza. E’ proprio quest’ultimo aspetto che ha inciso profondamente sulle prerogative legislative regionali.
In tema di servizi pubblici locali, ad esempio, con la sentenza n.272 del 2004, la Corte Costituzionale respinse l’impostazione della Regione Toscana che riteneva che la fissazione delle condizioni della concorrenza fossero di competenza regionale. La Corte sostenne che gli interventi statali di tutela della concorrenza dovessero essere intesi dinamicamente anche come “… misure pubbliche volte a ridurre gli squilibri, a favorire le
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condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato od ad instaurare assetti concorrenziali”.
Tale problematica è stata riproposta con l’articolo 23- bis del decreto legge 112/2008 , convertito con la legge 133/2008, che ha aperto sempre più al mercato i servizi pubblici locali. La Corte ritenne legittima tale norma con la sentenza n. 325/2010 anche se tale normativa fu successivamente
“travolta” dal referendum dell’11-12 Giugno del 2011.
Il legislatore statale colmò il vuoto normativo, creatosi in conseguenza del referendum, con l’articolo 4 del Decreto legge 138/2011 , anche se molte Regioni contestarono tale disposizione davanti alla Corte Costituzionale; le Regioni sostennero che l’esito del referendum abrogativo faceva
“ rientrare in campo” la competenza regionale, anche se di carattere residuale, in materia di servizi pubblici locali.
La Corte con la sentenza n.199 del 2012 dichiarò l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 4 del d.l. 138/2011 per violazione della volontà popolare espressa con il referendum ai sensi dell’articolo 75 della
Costituzione ma non si occupò minimamente della potestà legislativa
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regionale residuale, indirettamente ribadendo la competenza esclusiva statale.
Lo Stato è intervenuto in materia di tutela della concorrenza con tre tipi di interventi:
- misure anti-trust per eliminare comportamenti delle imprese che limitassero la concorrenza sui mercati;
- misure per consentire la concorrenza sul mercato eliminando barriere all’entrata, riducendo od eliminando vincoli all’esplicarsi delle
capacità imprenditoriali e della competizione fra le imprese;
- procedure concorsuali di garanzia per realizzare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici.
Lo Stato , indirettamente, è stato autorizzato ad intervenire in tema di appalti pubblici, di professioni ( es: sent. n. 50/2004), di aiuti di Stato, di commercio ( es: sent. n. 430/2007).
La Corte ( sent. 80/2006, 29/2006, 222/2005) ha affermato che “… le materie di competenza esclusiva e nel contempo trasversali dello Stato ….
possono intersecare qualsivoglia titolo di competenza legislativa regionale,
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seppur nei limiti strettamente necessari per assicurare gli interessi cui esse sono preposte , fino ad incidere sulla totalità degli ambiti materiali cui si applicano, anche con riguardo alle materie legislative regionali di tipo residuale”.
3. Determinazione dei livelli essenziali di prestazioni ( art.117 2° comma lett .m)
L’articolo 117, secondo comma, della Costituzione fra le materie di
competenza esclusiva dello Stato ha fatto rientrare alla lettera m) la
“ determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
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La Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 282 del 2002, ha chiarito che “non si tratta di una materia in senso stretto, ma di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di
prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle”.
Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m, della Costituzione lo Stato fissa degli standards per i servizi sociali validi ed uniformi per tutto il Paese mentre le Regioni hanno il compito di organizzare i servizi che assicurano la tutela ai cittadini delle prestazioni essenziali nell’ambito del loro territorio.( sent. n. 284/2006) .
I LEP ( Livelli essenziali prestazioni), in qualche modo, dovrebbero rappresentare il punto di equilibrio fra il principio autonomistico e quello di eguaglianza; nell’ambito dei Lep ciascuna Regione potrà organizzare i
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servizi sanitari e sociali secondo le rispettive risorse e conformemente ai bisogni delle proprie popolazioni.
L’articolo 117, 2° comma, lettera m della Costituzione presuppone un
“ welfare state federalizzato ” con inevitabili differenze fra le diverse Regioni. E’evidente che spetta allo Stato fissare parametri validi per tutto il territorio nazionale, soddisfacendo anche le istanze ultraregionali e modellando le prestazioni erogabili in relazione alle risorse finanziarie delle diverse Regioni.
La competenza statale non si limita alla definizione delle prestazioni minime ma determina anche il quantum ed il quomodo delle stesse; le Regioni possono soltanto migliorare le previsioni statali.
La Corte ha ,tuttavia, specificato che i LEP non possono essere invocati
“ … se non in relazione a specifiche prestazioni …”( sent. 285/2005).
Tale distinzione però non è stata ribadita dalla stessa Consulta quando ha considerato legittima l’esistenza di LEP in materia di disciplina delle informazioni ambientali ( sent. n. 398-399/2006), di procedure di
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semplificazione amministrativa ( sent. n. 322/2009), di regolazione della segnalazione certificata di inizio attività ( SCIA) (sent. n. 164/2012).
La Corte Costituzionale ha rilevato altresì che certamente vi è la necessità dell’esistenza dei Lep /Lea statali in tema di diritti sociali come il diritto alla casa ( sent. n. 166/2008) oppure il diritto alla salute ( sent. n. 45/2008).
In quest’ultima ipotesi gli standards nazionali possono riguardare pure la ripartizione dei costi delle prestazioni tra il Servizio sanitario nazionale e gli assistiti ( es: sentenza sui ticket- n. 203/2008) al fine di assicurare l’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale.
Situazione ben diversa è quella di fondi statali e dei possibili vincoli di destinazione di risorse finanziarie statali per interventi di promozione dei diritti sociali.
La giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente ribadito che il
legislatore statale, ai sensi dell’articolo 119 Costituzione, ha precisi limiti nelle modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie. Ha escluso che lo Stato possa concedere finanziamenti a destinazione vincolata in materie di competenza residuale regionale o
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concorrente. Tutto ciò limiterebbe i poteri delle Regioni, rappresenterebbe un ingerenza indiretta dello Stato e provocherebbe la sovrapposizione di politiche in ambiti materiali di competenza regionale.( sent. numeri 423 del 2004, 51/2005, 77/2005, 50/2008).
Le Regioni, secondo la giurisprudenza della Corte, sono autorizzate ad erogare finanziamenti a privati nell’ambito delle funzioni di competenza regionale; in numerose materie infatti la legislazione regionale prevede incentivi economici per i cittadini, regolando altresì le modalità
dell’erogazione dei finanziamenti ( sent. n. 423 del 2004).
La Corte Costituzionale(sent.numeri248/2006;387/2007;168/2008) ha ripetutamente ribadito che “…. l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata norma costituzionale ( art. 117, secondo comma, lettera m) si riferisce soltanto alla determinazione degli standards strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il
soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di genericità, a tutti gli aventi diritto”.
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La chiamata in sussidiarietà: principi costituzionali
Il principio di sussidiarietà può essere inteso in due accezioni:
• in senso orizzontale per regolare i rapporti politici tra cittadini ed istituzioni politiche;
• in senso verticale per definire i rapporti fra i diversi livelli di governo.
In questa sede tratteremo soltanto della sussidiarietà verticale
necessaria quando esiste una multilevel governance in rapporto alla dimensione dei problemi.
Il principio di sussidiarietà è stato realizzato in primo luogo nel sistema tedesco per regolare i rapporti fra lo Stato ed i lander, come limite alle competenze legislative della federazione, ed in materia di rapporti fra lander e comuni come garanzia dell’autorità comunale.
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In Europa la sussidiarietà fece ingresso nell’ordinamento comunitario soprattutto con il Trattato di Maastricht nel 1992 mentre in Italia un primo riconoscimento si realizzò con la legge Bassanini ( l. 59/1997), anche se “ la piena consacrazione” si realizzò con la riforma
costituzionale 3/2001.
Nel nuovo Titolo V l’articolo 118 contiene due richiami al principio di sussidiarietà:
• 1° comma: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.
• 4° ed ultimo comma: “ Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
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Nella prima ipotesi si regola la distribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli di governo mentre nella seconda fattispecie si prevede un intervento pubblico
“ rispettoso e non invasivo” delle attività intraprese dalla società civile ai sensi della dottrina sociale della Chiesa.
Tutta la tematica della sussidiarietà è strettamente “legata”
all’ ”interesse nazionale”. Con il nuovo Titolo V si abolì la vecchia previsione dell’ ”interesse nazionale” con cui, per tutelare esigenze di carattere unitario, il legislatore nazionale interveniva nell’ambito di diversi ambiti.
Con le nuove disposizioni del titolo V, teoricamente, molte di quelle materie sono rientrate nella potestà concorrente;
tuttavia la dimensione sovra- regionale di molte di esse ha costretto la Corte Costituzionale ad effettuare valutazioni
“finalistiche” sugli interessi in gioco, facendo rientrare nella competenza statale molte delle materie attribuite dalla
Costituzione alla potestà concorrente.
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La Corte, soprattutto con le sentenze numeri . 274 del 2003 e 303 del 2003, ha chiarito che lo Stato ha una posizione
preminente fra gli enti costitutivi della Repubblica indicati dall’articolo 114 della Costituzione ; la “dizione” del suddetto articolo 114 sembra porre sullo stesso piano lo Stato , le
Regioni, i Comuni, le Province e le Città metropolitane
,ribaltando il criterio residuale delle competenze - a differenza del vecchio Titolo V- in favore delle Regioni ai sensi del 4°
comma dell’articolo 117 della Costituzione.
Secondo la Corte la preminenza dello Stato è conseguenza di un riferimento all’articolo 5, che privilegia l’istanza unitaria, ed al rispetto degli obblighi internazionali e comunitari che limitano tutti i tipi di potestà legislative.
La Corte Costituzionale ha sostanzialmente smentito la riforma costituzionale del 2001 che aveva ipotizzato un sistema di enti autonomi fra loro equiparabili; al contrario ritiene che “ lo Stato continui a conservare poteri originali”.
Tale situazione, in quanto esponenziale dei valori e dei
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caratteri propri dell’unità della Repubblica, colloca lo Stato medesimo in una posizione necessariamente “ peculiare”
rispetto agli altri enti.
La nozione di “ Repubblica” del nuovo articolo 114 della Costituzione, assume il valore evocativo di una realtà
complessa nella quale la differenziazione delle autonomie non può precludere la piena realizzazione dell’unità finale della Repubblica che, per realizzarsi, necessita di appropriate forme di coordinamento.
Il coordinamento deve svolgersi in modo dinamico e, tra i pertinenti principi costituzionali, quello che meglio traduce questa esigenza è il principio di sussidiarietà, declinato
congiuntamente con il principio di leale collaborazione”
( Giovannelli).
La Corte Costituzionale, in base alla sussidiarietà, ha ridisegnato il riparto di competenze redatto dal legislatore costituzionale.
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Con la famosa sentenza n. 303/2003 ( la fattispecie in esame riguardava una delega al Governo nazionale in materia di
infrastrutture e si occupava della localizzazione delle suddette;
dopo la riforma del Titolo V, tale tematica investe materie di competenza regionale concorrente o residuale) la Corte ha sancito che l’intero procedimento è di competenza del
Governo nazionale sia sul piano amministrativo che su quello legislativo.
La Corte, infatti, andando oltre il dettato costituzionale, ha stabilito che il principio di sussidiarietà delle competenze in materia amministrativa, previsto dall’articolo 118 ,1° comma, della Costituzione, incide, in virtù del principio di legalità, anche sul riparto delle competenze legislative regolato dall’articolo 117 della Costituzione.
Seguendo questa “ reinterpretazione” dell’articolo 118, la Corte Costituzionale ha riscritto il nuovo Titolo V della Costituzione!
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Lo Stato può avocare funzioni altrui in base al combinato disposto dell’articolo 118 – 1° comma e dell’articolo 5 della Costituzione; a giudizio della Corte, in base al significato pratico di sussidiarietà, quest’ultima agisce “ … quando un livello di governo sia inadeguato alle finalità che si intende raggiungere..” ed aggiunge” … l’attrazione in sussidiarietà di funzioni amministrative non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacchè il principio di legalità impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge..”.
Pertanto soltanto la legge nazionale può regolare le funzioni amministrative attratte a livello nazionale. La Corte con una sentenza “ortopedica” ( D’Atena) reintroduce il parallelismo fra funzioni amministrative e legislative eliminato con la legge 59/1997.
La Corte ha presupposto comunque che lo Stato per intervenire legislativamente su materie, che altrimenti sarebbero di competenza regionale, deve preventivamente
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procedere ad una concertazione con le Regioni interessate.
( sent. n. 303/2003).
La Corte ha chiarito in successive sentenze che qualora
l’avocazione riguardi poteri normativi:
( sentenze numeri 285/2005;214/2005;88/2007;
165/2007;76/2009 ), di indirizzo e programmazione ( sentenze numeri 216/2006; 165/2007; 166/2008; 16/2010; 121/2010) o di riparto di risorse finanziarie l’ intesa deve essere realizzata in sede di Conferenza Stato-Regioni mentre in caso di
amministrazione attiva lo Stato deve effettuare la concertazione con le Regioni interessate.
La Corte ha successivamente “ammorbidito” questa linea della preventiva concertazione con la Regione ed ha previsto un generico coinvolgimento della Regione ( sentenze numeri 14/2004; 285/2005; 378/2005; 383/2005; 214/2006).
Le recenti applicazioni del principio di sussidiarietà
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La Corte Costituzionale, dopo la sentenza n. 303/2003, è ricorsa spesso al principio di sussidiarietà( sentenze numeri 285/2005; 378/2005; 383/2005;
214/2006) per giustificare una diversa “ riallocazione” delle competenze rispetto anche alle stesse previsioni costituzionali; spesso la sussidiarietà è servita per garantire in determinate materie “esigenze unitarie” che
altrimenti sarebbero state spezzettate fra le differenti componenti dello Stato repubblicano.
Tuttavia la Corte Costituzionale con la sentenza 79/2011 ha ammesso la possibilità della “ retroversione” della sussidiarietà. La Consulta ha
ritenuta legittima la rinunzia statale unilaterale all’ esercizio di funzioni in precedenza “attratte” in base al principio di sussidiarietà; le funzioni
ritornerebbero alle Regioni, essendo venute meno le condizioni che avevano resa necessaria l’avocazione.
La Corte Costituzionale medesima con una sentenza ancora più recente ( sent. n. 232/2011) ha ulteriormente modificato l’impostazione ed ha
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sostenuto che il principio di sussidiarietà, ai sensi dell’articolo 118, 1°
comma, deve essere inteso in modo “dinamico”.
Sentenze della Corte Costituzionale in tema di coordinamento della finanza pubblica
Con la sentenza n.70/2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato, per la prima volta, l’incostituzionalità di alcune norme della legge di bilancio della Regione Campania n.5/2011, per mancato rispetto dell’obbligo di copertura di cui all’articolo 81, comma 4 e per contrasto con i principi del sistema contabile dello Stato e del coordinamento della finanza pubblica. ( la sentenza è antecedente alla riforma costituzionale che ha introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio!).
In materia di coordinamento della finanza pubblica, la Corte
Costituzionale ha chiarito che la competenza statale si estende, fra l’altro, all’ esercizio dei poteri amministrativi ed alla rilevazione dei
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dati ( es: sentenze Corte Costituzionale numeri 376/2003, 229/2011, 112/2011).
Secondo la Consulta ,con la sentenza n.229/2011, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di un articolo di una legge della Regione Sardegna ( art.6 della legge regionale 16/2010), è …” competenza statale fissare una tempistica uniforme per tutte le Regioni circa la
trasmissione dei dati attinenti alla verifica del mantenimento dei saldi di finanza pubblica, specie in un ambito, come quello del patto di stabilità interno, strettamente connesso alle esigenze di rispetto dei vincoli
comunitari ….”
La legge costituzionale 1/2012 ha “scorporato” il coordinamento della finanza pubblica dalla materia dell’armonizzazione dei bilanci pubblici;
quest’ultima è rientrata nella competenza esclusiva statale.
C’è peraltro da ribadire che, senza un coordinamento complessivo della finanza pubblica, comprendente anche il sistema tributario, coinvolgendo tutti i livelli di governo, non si potranno rispettare gli impegni presi con la Comunità economica europea.
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Tuttavia, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, il coordinamento della finanza pubblica rientrerebbe fra le ipotesi di competenza
concorrente; lo Stato si dovrebbe limitare alla definizione dei principi fondamentali anche se non è più chiaro in che cosa consistano tali
“ principi fondamentali”.
Sull’argomento sono intervenute tante novità dopo la riforma costituzionale del Titolo V rendendo difficile la definizione degli
“indirizzi fondamentali” in materia; possono essere considerati tali i vincoli assunti in sede europea ed internazionale che limitano
pesantemente le scelte dello Stato in tema di coordinamento della finanza pubblica?
Come è avvenuto per altre materie, la Corte Costituzionale ha colmato delle lacune normative anche di carattere costituzionale; la previsione del terzo comma dell’articolo 117 in tema di coordinamento della finanza pubblica è teorica e la Consulta con diverse sentenze ha riempita di contenuti tale disposizione costituzionale.
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Tuttavia ,nel ribadire il ruolo dello Stato nel coordinamento della finanza pubblica, la Corte Costituzionale ha limitato notevolmente l’autonomia delle Regioni, optando per “ una concezione statalista” di queste funzioni.
Soprattutto con le sentenze numeri 37/2004 e 241/ 2004, ha chiarito che il legislatore nazionale, mediante la funzione di coordinamento, ha il compito di fissare i principi cui il legislatore regionale dovrà
attenersi e di determinare, nell’ambito del sistema tributario, gli spazi ed i limiti entro cui si potrà esprimere la potestà dello Stato, delle Regioni e degli enti locali.
A giudizio della Consulta, il coordinamento della finanza pubblica è una materia di carattere “funzionale e trasversale” ; tale definizione, unitamente al principio della prevalenza, ha permesso allo Stato di intervenire pesantemente in ambiti “ teoricamente” di competenza regionale.
La Corte Costituzionale ha considerato norme di principio anche
disposizioni riguardanti la riduzione della spesa corrente. In tal senso è
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“ illuminante” la sentenza n.284/2009 con cui la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità sollevata dalla Regione Calabria
relativamente ad alcune norme del Decreto- legge 25 Giugno 2008, n.112, riguardante “ Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”.
Tali normative , come peraltro è avvenuto frequentemente negli anni successivi, prevedevano che, per permettere allo Stato di raggiungere alcuni obiettivi di finanza pubblica in base al patto di stabilità interno, le Regioni e gli enti locali dovessero contenere le spese per il triennio 2009- 2011. In particolare per gli anni 2009, 2010 e 2011,alle Regioni a Statuto ordinario era imposta la riduzione degli stanziamenti complessivi per 1.500, 2.300 e 4.060 milioni di Euro ed in tal senso erano indicati tetti precisi per ciascuna Regione.
La Regione Calabria “ osò” contestare quest’impostazione, sostenendo che era frutto di un coordinamento della finanza pubblica inteso come
“direzione” mentre sarebbe stato opportuno che fosse stato sviluppato come “ partecipazione” fra lo Stato e la Regione ; secondo l’impostazione
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difensiva della Regione si imponevano con la normativa nazionale vincoli rigidi ed uniformi.
La Consulta “spiazzò” tutti considerando non fondate le censure regionali che si supponeva che sarebbero state accolte. La Corte ha interpretato il
“principio del coordinamento della finanza pubblica” alla luce della
disciplina e degli obiettivi del Patto di stabilità interno. Ha sostenuto che le previsioni del suddetto Patto devono tradursi in cifre per acquistare
effettività e non ridursi ad indicazioni di massima che non permetterebbero di raggiungere gli obblighi assunti con la Comunità economica europea in termini di rispetto dei tetti del deficit pubblico. In base a queste
considerazioni, il contenimento della spesa corrente rientra tra le finalità generali del coordinamento finanziario!
Con la sentenza n.237/2009 la Consulta ha chiarito ulteriormente che la legislazione statale può legittimamente imporre alle Regioni vincoli alle politiche di bilancio, anche se quest’ultimi incidono sull’autonomia regionale di spesa.
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Con la sentenza 139/2012 la Corte ha confermato che il legislatore statale può, in base alle norme di principio in tema di coordinamento della finanza pubblica, imporre limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli enti territoriali; tuttavia tali vincoli possono considerarsi rispettosi
dell’autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un limite complessivo, che lasci agli stessi enti ampia libertà di scelta nella distribuzione delle risorse fra i diversi ambiti ed obiettivi di spesa.
Un’altra caratteristica delle disposizioni statali deve essere quella della temporaneità collegata al raggiungimento degli obiettivi nazionali delle politiche di bilancio discendenti dagli obblighi comunitari.
Qualora la norma statale non rispettasse le due caratteristiche indicate non potrebbe considerarsi di principio anche se il legislatore nazionale l’avesse definita tale.
I principi di coordinamento della finanza pubblica si impongono anche alle Regioni speciali come è stato confermato recentemente dalle sentenze della Corte Costituzionale numeri 229 del 2011 e n.30 del 2012.
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Questo del “ coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” è un esempio “ abbastanza clamoroso” di come la
giurisprudenza costituzionale abbia sopperito all’ ” indeterminatezza” del legislatore costituzionale del nuovo Titolo V.
La Corte Costituzionale ha tenuto conto dei vari interessi in gioco a livello europeo, nazionale e regionale nel raggiungimento degli obiettivi di
finanza pubblica!
E’ lo Stato, unico responsabile in sede di Unione europea, a definire gli obiettivi programmatici e strategici, i tetti di spesa, le norme di
armonizzazione contabile; tuttavia, data la grave crisi economica e la conseguente impellente necessità di mettere ordine nei conti pubblici, la Corte Costituzionale sembrava avere individuato come unico strumento idoneo: la “centralizzazione delle decisioni di finanza pubblica” anche a scapito del “riparto di competenze disegnato dal legislatore costituzionale”
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La giurisprudenza della Corte Costituzionale in materia di Titolo V degli ultimi anni
La giurisprudenza della Corte Costituzionale soprattutto negli anni 2016-2017 in materia di Titolo V presenta interessanti novità.
Nel 2016 la Corte ha adottato 104 decisioni in via principale di cui 82 sentenze e 22 ordinanze e 15 decisioni in sede di conflitto di attribuzioni tra Stato, Regioni e Province Autonome.
Nel 2017, invece, la Corte ha emesso 100 decisioni in via principale, di cui 77 sentenze e 23 ordinanze, mentre i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni sono stati risolti con 7 pronunzie.
I livelli quantitativi del conflitto costituzionale, seppur ridotti rispetto agli anni precedenti, dimostrano non si è stabilizzato il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, non riuscendosi ad individuare confini netti. Conseguenzialmente la giustizia costituzionale in materia regionale si presenta sempre più come una specie di “alta amministrazione” dei conflitti normativi, non essendo sottoposte al giudizio della Corte questioni significative dotate di rilievo “materialmente” costituzionale.
Per quanto concerne il 2016 ed il 2017 si cercherà di far emergere i più recenti indirizzi della giurisprudenza costituzionale che
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presentano certamente degli elementi di novità. A differenza degli anni trascorsi, la Corte nel 2016 e nel 2017 ha spesso evidenziato nelle sue decisioni il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni. Tutto ciò può offrire spunti adeguati al legislatore per correggere i profili di illegittimità con cui attualmente si esprime la leale collaborazione.
La Corte, preliminarmente nei giudizi in via principale, determina se la normativa impugnata è ascrivibile ad una sola materia poiché spesso sono diverse materie ad essere interessate. Successivamente la Corte deve decidere se in un determinato ambito materiale
“prevalga” la potestà legislativa dello Stato o delle Regioni, oppure vi sia un intreccio di materie tale da rendere indispensabile il concorso di Stato e Regioni nell’ambito di una leale collaborazione.
In questi due anni vi sono stati ipotesi in cui la Corte, in base al criterio della prevalenza, ha attribuito allo Stato la materia ed altri casi in cui ha riscontrato un “intreccio” di competenze in cui ha richiesto l’applicazione del principio della leale collaborazione.
Appare opportuno prospettare qualche esempio in tal senso
• Prevalenza della normativa statale: sentenza numero 114 del 2017 con cui la Corte ha respinto i ricorsi delle Regioni Veneto e Puglia contro la normativa nazionale in materia di ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa ( articolo 1, comma 239,
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della legge n.208 del 2015). La Corte ha stabilito che la disposizione oggetto di contestazione doveva essere ricondotta, secondo un criterio di prevalenza, alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera s.
• Intreccio di competenze: sentenza n.1 del 2016. La Corte ha esaminato i ricorsi delle Province Autonome di Trento e Bolzano contro una normativa statale in materia turistica (articolo 31 Decreto Legislativo n.133 del 2014, convertito con modificazioni nella legge n. 164 del 2014). La Corte in questa ipotesi non soltanto ha riconosciuto la competenza residuale delle Regioni in materia di turismo e di industria alberghiera ma anche “ un intreccio” di competenze con la potestà concorrente dello Stato in tema di
“governo del territorio” ed esclusiva dello Stato in tema di “ ordinamento civile”. Pertanto la Corte non ha ravvisato la prevalenza di una delle suddette materie ed ha ritenuto legittimo l’intervento statale a condizione che si esplichi previo raggiungimento di un’intesa con la Regione o con la Provincia Autonoma. Analogo principio della leale collaborazione è stato invocato dalla Corte con la sentenza n.21 del 2016 in materia di Iva agevolata per le strutture alberghiere: la Corte ha stabilito che la normativa statale è legittima se prevede la previa intesa con la Regione interessata
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• Il principio collaborativo vale anche per le Regioni Speciali, nonostante le particolari condizioni di autonomia di cui godono. In tal senso è opportuno ricordare la sentenza n. 103 del 2017 con cui è stato risolto il conflitto di attribuzione fra Presidenza del Consiglio e Regione Sardegna per presunta violazione da parte di quest’ultima del principio di leale collaborazione in materia di “ sclassificazione”
di beni di uso civico. Anche una Regione Speciale come la Sardegna non può assumere unilateralmente decisioni che liberano dal vincolo ambientale porzioni del territorio senza una previa concertazione con lo Stato.
• Se il principio di leale collaborazione salvaguarda l’autonomia differenziata delle Regioni Speciali, ha comunque una portata limitata come è avvenuto in tema di raggiungimento degli obiettivi della finanza pubblica nazionale.
In tal senso la sentenza n.154 del 2017 in cui la Corte ha ritenuto infondate alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcune Regioni Speciali contro un comma di un articolo della legge di stabilità 2016 (articolo 1 comma 680 della legge 28 Dicembre 2015 n. 208). La disposizione impugnata determina il concorso delle Regioni e delle Province Autonome agli obiettivi di finanza pubblica, fissandone la misura per ciascuno degli anni dal 2017 al 2019. La norma medesima demanda alle Regioni di raggiungere un accordo sulla definizione degli ambiti di riduzione della spesa e dei relativi importi e stabilisce che tale accordo sia da recepire sotto forma di
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intesa in sede di Conferenza Stato – Regioni entro il 31 Gennaio di ciascun anno. Le Regioni speciali lamentavano che non era stato previsto alcun accordo preventivo con lo Stato per incidere sull’entità del contributo ed era stato determinato unilateralmente da parte dello Stato anche per le Regioni Speciali. Con queste modalità le Regioni Speciali risulterebbero equiparate alle Regioni ordinarie e tutte le Regioni, sia Speciali che ordinarie, sarebbero a pari titolo coinvolte nell’accordo da raggiungere in sede di Conferenza Stato-Regioni per coordinarsi sul riparto del contributo. La Corte ha chiarito, con assoluta fermezza, che autonomia speciale non significa “ potestà di deviare rispetto al comune percorso definito dalla Costituzione, sulla base della condivisione di valori e principi insensibili alla dimensione territoriale, tra i quali spicca l’adempimento da parte di tutti dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. D’altronde la Corte già con la sentenza n.82 del 2015 aveva chiarito che il principio di leale collaborazione invocato dalle autonomie speciali” richiede un confronto autentico, orientato al superiore interesse pubblico di conciliare l’autonomia finanziaria delle Regioni con l’indefettibile vincolo di concorso di ciascun soggetto ad autonomia speciale alla manovra di stabilità….”.
Il principio di collaborazione: garanzia reciproca per lo Stato e le Regioni
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Il principio di leale collaborazione, secondo un’ interpretazione letterale della Costituzione ( articolo 120) è richiamato soltanto per l’esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali. Nell’ultimo decennio, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che tale principio ha una portata più vasta e permea tutte le regole relative ai rapporti fra Stato e Regioni soprattutto per quanto concerne il riparto della potestà legislativa
Il principio di leale collaborazione, quando l’intreccio delle competenze legislative fra Stato e Regione risulta inestricabile, garantisce sia la competenza dello Stato che quella delle Regioni.
Infatti permette la garanzia degli interessi unitari che si intestano allo Stato, garantendo il coinvolgimento delle autonomie regionali, ma limita anche la legislazione statale, qualora pretenda di incidere unilateralmente su ambiti in cui le Regioni esercitano una potestà legislativa che non può essere soppressa o qualora non garantisca adeguatamente la partecipazione degli enti regionali rispetto a decisioni che la Costituzione riconduce, almeno in parte, alla loro competenza.
• Esempio di sentenza a tutela dello Stato: sentenza n.105 del 2017 in cui la Corte ha dichiarato illegittima una normativa della Regione Puglia ( art.1, comma 3, della l.r. 41/2014) in materia di
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destinazione urbanistica di aree interessate all’espianto di alberi di ulivo infestati dalla Xylella; la legislazione regionale includeva nel divieto di variazione la realizzazione di opere sicuramente rientranti nella competenza statale come quelle energetiche di interesse strategico nazionale. La Corte ha precisato che per quanto riguarda il settore energetico la legge statale ha definito i principi fondamentali in materia di localizzazione e realizzazione delle infrastrutture energetiche e pertanto deve essere riconosciuto un ruolo fondamentale agli organi statali nell’esercizio delle funzioni amministrative, anche ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione.
Gli interessi della Regione possono essere garantiti mediante una previa intesa con lo Stato secondo i principi della leale collaborazione
• Esempio di sentenza a tutela della Regione. Sentenza n.261 del 2017 La Corte ha ritenuto fondati i rilevi delle Regioni nei confronti della normativa statale ( art.3, comma 4, del Decreto Legislativo n.219 del 2016) che prevede il Decreto Ministeriale per il riordino delle Camere di Commercio, sentita la Conferenza Stato- Regioni. La Corte ritiene legittimo che il legislatore nazionale proceda al riordino della dimensione territoriale delle Camere di Commercio al fine di perseguire una maggiore efficienza di questi organismi ma tale riordino deve procedere, secondo il principio della leale collaborazione, previo accordo con le Regioni, incidendo l’attività delle Camere di Commercio su molteplici competenze
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anche regionali. La Corte tuttavia ha ribadito nella sentenza n.261 che la leale collaborazione non si può limitare ad un parere della Conferenza Stato-Regioni ma richiede una preventiva intesa all’interno della medesima Conferenza.
Procedimenti normativi in cui si esprime il principio di collaborazione
Il principio di collaborazione permea tutto il Titolo V della Costituzione. Tuttavia tale principio regola soprattutto i rapporti Stato – Regioni in materia di procedimenti normativi che coinvolgono diversi livelli di governo.
La novità del biennio 2016-2017 è data dall’attenuazione nella giurisprudenza della Corte del precedente orientamento secondo cui il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo.
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Con le sentenze n.65 del 2016 e n.43 del 2016 la Corte aveva ribadito il suo precedente indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’esercizio della funzione legislativa ed il suo procedimento non sono soggetti alle procedure della leale collaborazione.
La vera novità è costituita dalla sentenza n.251 del 2016. La Corte ha precisato “…Là dove il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa”.
In caso di delega legislativa “ di riforma organica” il principio di leale collaborazione richiede pertanto, ai fini dell’esercizio della delega, la previa intesa in sede di Conferenza Unificata, quando sia ravvisabile un intreccio di materie che incidono su competenze regionali.
Per quanto riguarda il principio di leale collaborazione si estende anche al procedimento legislativo riguardante le Regioni Speciali.
In tal senso è opportuno ricordare la sentenza n.155 del 2016 sempre in tema di raggiungimento di obiettivi di finanza pubblica.
La Corte, in presenza di ricorsi delle Regioni Speciali nei confronti di diverse norme della legge nazionale di stabilità del 2015 ha ribadito che sebbene la procedura pattizia di cui alla legge 5 Maggio 2009, n.42, “ è ormai diventata parte integrante della dimensione costituzionale dello Stato riguardo ai rapporti finanziari con le autonomie speciali….” tuttavia “ il principio pattizio, proprio in
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quanto non rispondente ad una finalità costituzionalmente vincolata, può essere derogato in casi particolari dal legislatore statale”.
E’ opportuno tuttavia ricordare che il principio di leale collaborazione può essere invocato anche per atti normativi di natura secondaria.
Un esempio in tal senso è dato dalla sentenza n.211 del 2016. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma della legge di stabilità del 2015 ( articolo 1, comma 224) che prevedeva finanziamenti aggiuntivi per il trasporto pubblico locale da ripartirsi in base ad un decreto ministeriale da adottare sentita la Conferenza Unificata. La Corte ha ritenuta illegittima la normativa nazionale nella parte in cui non prevedeva l’intesa, data la competenza regionale residuale in materia di trasporto pubblico locale.
In tema di potestà regolamentare la Corte è intervenuta con la sentenza n.284 del 2016. La questione in tema di competenza concorrente riguardava la materia dell’istruzione( articolo 1, comma 47, lettera f, della legge 13 Luglio 2015, n.107 – cd. Buona scuola).
La Corte, pur ritenendo che in caso di potestà legislativa concorrente la potestà regolamentare spetti in linea di principio alle Regioni perché regolamenta delle” linee guida” “ per conseguire obiettivi indicati a sostegno delle politiche di istruzione e formazione sul territorio…”. La Corte ha ritenuto che le “linee guida” possono considerarsi degli atti esecutivi strettamente
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integrativi della normativa primaria cui essi rinviano, a garanzia di applicazione uniforme dei principi in essa . Pertanto la Corte ha considerato necessario che le “linee guida” vengano emanate con Decreto ministeriale “ previa intesa” in sede di Conferenza Unificata.
La Corte con la sentenza n.83 del 2016 ha fornito dei criteri per comprendere se la leale collaborazione sia stata violata o meno. Si Trattava di un Decreto Ministeriale in materia di dissesto idrogeologico, dove si intersecavano la materia della “ tutela dell’ambiente”, di potestà esclusiva statale, e la materia del
“governo del territorio” rientrante nella potestà concorrente. La Corte ha evidenziato che il rispetto del principio della leale collaborazione nell’elaborazione di atti normativi deve essere vagliato alla luce di un’interpretazione sistematica delle disposizioni vigenti, e non esclusivamente sulla base della singola disposizione impugnata.
La Corte ha ricordato che il principio collaborativo non deve esplicarsi soltanto nei procedimenti normativi ma deve riguardare tutti i profili di autonomia di cui godono gli enti territoriali.
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In tal senso con la sentenza n.129 del 2016 la Corte ha utilizzato l’articolo 119 in tema di autonomia finanziaria come parametro costituzionale idoneo ad imporre forme di leale collaborazione. In questa ipotesi è emerso il ruolo della Conferenza Stato – Città in relazione alla normativa statale che operava tagli alle dotazioni degli enti territoriali (riduzione del fondo sperimentale di riequilibrio, del fondo perequativo e dei trasferimenti erariali dovuti ai Comuni). La Corte ha dichiarata illegittima la normativa statale (art.16, comma 6, del Decreto Legislativo 6 Luglio 2012, n.95) poiché non prevedeva il coinvolgimento della Conferenza Stato- Città nella fase di determinazione delle riduzioni addossate ad ogni Comune. La Corte ha precisato che il coordinamento della finanza pubblica può incidere sull’autonomia finanziaria degli enti locali, ma deve comunque garantire il loro coinvolgimento” nella fase di distribuzione del sacrificio”.
La “ flessibilizzazione” del riparto delle competenze: rapporti fra principio di collaborazione e chiamata in sussidiarietà
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Il principio di collaborazione costituisce il presupposto per quei meccanismi che contribuiscono a rendere più flessibile il riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni previsto dalla Costituzione. In primo luogo ci si riferisce alla chiamata in sussidiarietà, introdotta in via giurisprudenziale e strettamente legata al principio collaborativo, al rispetto del quale deve essere condizionata per risultare costituzionalmente ammissibile.
La chiamata in sussidiarietà, introdotta dalla celebre sentenza n.303 del 2003, è stata ripresa dalla giurisprudenza costituzionale del biennio 2016-2017 ed anzi ha presentato nuove sfumature.
La chiamata in sussidiarietà provoca un ampliamento della potestà legislativa dello Stato “in ragione della garanzia delle esigenze di unitarietà nell’esercizio delle funzioni amministrative in materie che ricadrebbero nella potestà legislativa regionale”. La chiamata in sussidiarietà non comporta che le Regioni si “spoglino”
completamente delle loro competenze ma in un certo senso “funge da garanzia in favore delle stesse. Lo Stato, infatti, per avocare a sé l’esercizio unitario di determinate funzioni, deve coinvolgere “ a monte” le Regioni e non può escluderle completamente dal circuito decisionale”.
La Corte ha chiarito tutto ciò con la sentenza n.7 del 2016. La Corte ha ribadito ancora una volta che : “… perché nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, una legge
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statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nell’allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni. E’ necessario inoltre che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine. Da ultimo, essa deve essere adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione, o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali”. La Corte ha aggiunto che “con riferimento a quest’ultimo profilo, nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi, la legislazione statale di questo tipo “ può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverossia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà ( sentenza n.303 del 2003)”.
In base a tali ragioni la Corte ha talvolta censurato la normativa statale adottata in base alla chiamata in sussidiarietà.
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Un esempio in tal senso è dato dalla sentenza n.170 del 2017 in materia di titolo concessorio nel settore della ricerca degli idrocarburi sulla terraferma. La Corte ha ritenuto che la norma impugnata ( articolo 38, comma 7, del Decreto Legislativo n.133 del 2014) è costituzionalmente illegittima “ nella parte in cui non prevede un adeguato coinvolgimento delle Regioni nel procedimento finalizzato all’adozione del Decreto del Ministro dello sviluppo economico con cui sono stabilite le modalità di conferimento del titolo concessorio unico, nonché le modalità di esercizio delle relative attività” ( la materia rientrerebbe nella potestà concorrente).
Un esempio opposto in cui la Corte ha ritenuto che le normative statali impugnate fossero rispettose dei canoni di leale collaborazione è dato dalla sentenza n.142 del 2016. (articolo 1, comma 552, lettere a) e b) della legge di stabilità del 2015. ). La disposizione impugnata riguarda un ampliamento dei casi in cui compete allo Stato, d’intesa con la Regione interessata, rilasciare le autorizzazioni per talune opere strumentali ed accessorie, a quelle già qualificate come strategiche, in tema di ricerca di idrocarburi.
In quest’ipotesi la Corte ha ritenuto la disposizione normativa ragionevole e proporzionata, perché se la priorità dell’interesse statale all’accentramento della funzione amministrativa” si giustifica per determinate attività che costituiscono il fulcro
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dell’indirizzo politico in tema di energia, non può considerarsi irragionevole o sproporzionata la decisione di adottare un analogo accentramento per quanto rispetto a tali attività costituisce un indispensabile presupposto”.
Le varie forme di espressione del principio di collaborazione
Appare opportuno soffermarsi sulle modalità con cui lo Stato e le Regioni debbono essere coinvolti nei diversi procedimenti normativi.
In tal senso appare interessante la sentenza n.182 del 2017 in cui è stata respinta l’impugnativa della Regione Puglia contro la norma che disciplina la procedura per la modifica o l’integrazione del Piano delle misure delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria dell’Ilva di Taranto. La Regione lamentava che la disposizione impugnata (articolo 1, comma1, lettera b, del Decreto legge,n.98, del 9 Giugno 2016) non prevedesse il parere preventivo della Regione per le modifiche al Piano mentre per la redazione del Piano era stato previsto il parere della Regione,.. seppur non di carattere vincolante. La Corte ha ritenuto che il legislatore nazionale avesse predisposto diversi strumenti di coinvolgimento
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della Regione che non necessariamente si dovessero concretizzare nel parere e pertanto era stato rispettato il principio di leale collaborazione.
La forma in cui , ai sensi del nostro ordinamento, si raggiungono più frequentemente momenti di concertazione tra Stato e Regioni è rappresentata dall’intervento del “ sistema delle Conferenze”, cioè dalla Conferenza permanente Stato-Regioni, dalla Conferenza Stato- Autonomie locali e dalla Conferenza Unificata.
Frequentemente la Corte invoca il sistema delle Conferenze come organismo di garanzia della leale collaborazione.
Nel biennio 2016- 2017 la Corte si è trovata costretta ad imporre modalità più incisive per la realizzazione della leale collaborazione.
In tal senso va, ancora una volta, ricordata la sentenza n. 251 del 2016 in cui la Corte individua nelle intese in sede di Conferenza Unificata lo strumento idoneo a giustificare l’intervento statale in ambiti di materie in cui concorrono competenze statali e regionali.
Sistema delle Conferenze: istituzione e principali attività
Il cosiddetto “Sistema delle Conferenze” rappresenta, da un trentennio, la sede istituzionale privilegiata di raccordo tra lo Stato, le Regioni e gli Enti locali ed è costituito dalla Conferenza Stato-
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Regioni e Province autonome (D.P.C.M. 12 ottobre 1983), dalla Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali (D.P.C.M 2 luglio 1996) e dalla Conferenza Unificata (d.lgs. 28 agosto 1997, n.281), che si configura ed opera come una sintesi delle altre due per materie e compiti di interesse comune.
Istituite in via amministrativa come sedi di incontro tra gli esecutivi e di concertazione tecnica delle politiche nazionali inerenti tematiche di interesse locale, le Conferenze hanno trovato una prima disciplina legislativa con la legge 23 agosto 1988, n. 400 e si sono dotate di una propria organizzazione stabile nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, collocandosi al vertice dell’amministrazione dello Stato e nella più importante sede di determinazione dell’indirizzo politico.
Le Conferenze sono dunque soggetti istituzionali previsti dalla legge, ma privi di una caratterizzazione determinata delle funzioni e delle modalità di esercizio delle stesse e dotate di ampi spazi di definizione del proprio funzionamento in via di prassi.
Per ciò che concerne la tipologia degli atti adottati dalle Conferenze, esse esercitano una frequente funzione di tipo consultivo in riferimento all’attività legislativa e regolamentare, ai sensi del d.lgs.
n. 281/1997 e dei provvedimenti legislativi che prevedono il coinvolgimento tramite pareri o intese.
Il parere, che deve essere reso entro venti giorni, è ritenuto uno
“strumento debole” per la possibilità del Governo di procedere ad