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Gli stessi giorni, le stesse notti, gli stessi volti: basta poco, a volte, per voler fuggire.

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Academic year: 2022

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Gli stessi giorni, le stesse notti, gli stessi volti: basta poco, a volte, per voler fuggire.

Non saprei come cominciare se non con Freud. Il suo pensiero, i suoi studi hanno dato un nuovo approccio di comunicazione con noi stessi, trovando tracce dell’inconscio nella parte cosciente. Ha osservato i sintomi di mali invisibili, troppo spesso confusi con i mali stessi.

L’inconscio non è un cassetto chiuso, non ingloba in silenzio ogni cosa trattenendola come una cassaforte. L’Es vuole, esige, non sopporta il carattere imperativo dell’Io, né accetta le pretese del Super-Io. La repressione genera sofferenza, costringe gli impulsi che abitano l’Es a

manifestarsi nascondendosi dietro maschere, a camuffarsi. Così, le pulsioni fuggono da quella prigione. Cercano la certezza dell’incertezza.

La costruzione di una società, infatti, prevede una sorta di patto sociale secondo il quale i cittadini accettano di cedere un qualcosa in cambio di sicurezza.

Secondo Freud l’uomo cede la propria felicità per un atto di omologazione e di adesione alla massa: ogni componente della società costituita deve seguire un codice di comportamento e una moralità condivisi da tutti. Ciò permette la gestione dell’insieme, ma richiede anche il sacrificio di quei comportamenti che il codice stabilito vieta. Nasce perciò un Super-io collettivo che comprende tutti i cittadini, e che funge da modello per l’Io di ogni individuo. È un passaggio necessario per la vita in comune.

Senza gestione o intermediazione da parte dell’Io con il mondo esterno, saremmo prigionieri dei nostri istinti. Può capitare però che alcune regole siano così contrastanti con le ragioni dell’Es da non poter essere accettate.

Ipotizziamo. Abbiamo detto che nel costituire la società si è deciso di rinunciare alla nostra felicità. Ora, immaginiamo che il sacrificio non sia minimo, ma totale, cioè che per una vita sicura ci si condanni all’infelicità. È ciò di cui parla Joyce in Gente Di Dublino. Descrive una società che non si ribella, persone volutamente intrappolate in una città che diventa quasi metafora per un cimitero: Dublino, per Joyce è la città dei morti. È il luogo dove la gente non si muove ma rimane ferma nel tempo, paralizzata, con il senso di colpa che reprime il desiderio di fuga.

Quello della paralisi, è un meccanismo affascinante osservato da un punto di vista psicoanalitico. Si tratta infatti della proiezione a livello fisico di un sentimento di angoscia interiore, che in genere serve a prevenire il pericolo. Ha la stessa funzione della fuga, ma si manifesta in maniera opposta ad essa. Si prenda, ad esempio, uno stralcio dell’opera joyciana:

Eveline ha 19 anni e vive a Dublino con suo padre, i suoi fratelli e le sue sorelle. Sua madre e un fratello sono morti. Lei bada alla sua famiglia nonché a suo padre: severo, bevitore, e spesso violento.

Ha un lavoro faticoso e che non le piace. Quel poco che guadagna finisce nelle tasche del padre e non le è permesso un minimo di libertà, neppure nelle spese. Vive nella paura,

sottomessa, e sente che la sua vita finirà come quella della madre: nella malattia e nella pazzia.

Sa che restando lì vivrà infelice. E poi ha conosciuto Frank.

Frank è un marinaio, innamorato; lei capisce che potrebbe imparare ad amarlo e per questo accetta l’offerta di matrimonio, e di partire con lui, verso una nuova vita a Buenos Aires. Pensa a tutto ciò, al suo passato, al suo futuro, nella casa piena di polvere e ricordi. Non si muove.

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Continua a sedere davanti alla finestra e non sa decidersi. È un momento epifanico quello che la fa alzare dalla sedia – ma Joyce non descrive alcun movimento, l’alzarsi è omesso attraverso una spaziatura che divide la prima parte dalla fine del racconto.

Al porto però Eveline è paralizzata, stringe le dita attorno alla ringhiera come se potesse cadere in mare da un momento all’altro, sta male. Non può fuggire. Ha promesso alla madre di tenere unita la famiglia. Dopotutto suo padre non è così cattivo, e lei ha dei doveri. Con che criterio potrebbe gettarsi in quel viaggio verso un futuro incerto?

Non può partire, è il suo corpo che rifiuta di muoversi. L’angoscia si manifesta paralizzandola, e mentre Frank la chiama lei lo guarda indifesa, fragile, pallida, immobilizzata.

In Joyce troviamo le teorie di Freud, James e Bergson.

Descrive il flusso di pensieri che scorrono in Eveline nell’arco di poche ore, e attraverso di esso intuiamo il suo passato, le sue incertezze, le sue paure: vediamo il personaggio dall’interno e non dall’esterno. Possiamo provare a comprendere, guardando da dentro, quello che Frank vede da fuori senza capire. Il marinaio vede la paralisi nel pallore, noi intuiamo il suo travaglio.

Il subentrare dell’angoscia è un meccanismo di difesa, un sentimento che permette di fuggire da una situazione pericolosa, perché fuggire, mettersi in gioco, per Eveline, sarebbe un rischio, mentre la vita fatta di abitudini è in fondo più semplice. Forse imperfetta, forse infelice, ma sicura, perché prevedibile: è qualcosa che si può controllare. E poi davanti a lei c’è il mare che non conosce quiete, e può accogliere in un attimo la tempesta, un sinonimo della morte.

Non accetta il rischio, lo fugge e si blocca. Come un animale impaurito, guarda immobile Frank e rinuncia alla gioia.

Rimbaud non provava sicuramente gli stessi sentimenti, o se li provava li sovrastava con forza, con la sua incontenibile voglia di fuga.

Davanti al mare lui vede anche la vita, la possibilità di nuove conoscenze, spettacoli inusuali, spesso non concessi o comprensibili a tutti. Diventa un “Battello Ebbro” ubriacato dal mare, dal desiderio di viaggiare sciolto, da tutto quello a cui va incontro. Molla gli ormeggi e va.

“Io corsi! E le Penisole strappate dagli ormeggi non subirono mai sconquasso più trionfante.”

(Arthur Rimbaud, Il Battello Ebbro, 1871)

Si libera dei carichi e dei legami e parte in mezzo alle tempeste, irridendo “l’occhio insulso dei fari”, vivendo verità bellissime e terribili:

“Da allora mi sono immerso nel Poema del Mare Che, lattescente e invaso dalla luce degli astri, Morde l’acqua Turchese, dentro cui, fluttuando,

Scende estatico un morto pensoso e illividito”

Ha sete di quegli spettacoli di cui gli altri si privano. I suoi occhi raccolgono ogni immagine del viaggio e ne rimangono colmi, quasi bruciati, e piange, rimpiange la partenza.

“Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.

Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro:

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l’acre amore mi gonfia di stordenti torpori.

Che la mia chiglia scoppi! Che vada in fondo al mare!”

Vorrebbe fuggire persino dalla fuga, ritornare. Nessun luogo lo soddisfa. La sua esistenza si gioca tra desiderio e nostalgia.

“Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera Nera e gelida, quando, nell’ora del crepuscolo, Un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio, un battello leggero come farfalla a maggio.”

Ma ormai è costretto alla sua condizione di battello sbattuto dai marosi, e forse è anche questo che Eveline fugge: il sentore che non farà più ritorno, che le cose non torneranno mai come prima.

Rimbaud ha visto, e scrive:

“Non posso più, bagnato da quei languori, onde, Filare nella scia di chi porta cotone,

Né fendere l’orgoglio dei pavesi e dei labari, Né vogar sotto gli occhi orrendi dei pontoni”

Una volta conosciuta la stupenda e terribile Libertà, come si può far ritorno e vivere la cattività in cui si è già vissuto il passato?

Mallarmé invece non fugge realmente, come fece Rimbaud a 16 anni, ma anche in lui vive una forza che spinge verso l’esterno, come un richiamo che gli sussurra dentro mondi lontani e in Brezza Marina scrive:

“La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri.

Fuggire! Laggiù fuggire! Sento gli uccelli ebbri Di essere, tra la schiuma ignota e i cieli!

Niente, né gli antichi giardini riflessi dagli occhi Terrà questo cuore che nel mare si immerge O notti! Né il chiarore deserto della mia lampada sul foglio vuoto, che il candore difende,

e né la giovane donna che allatta il suo bambino.

Partirò! Vascello che dondoli l’alberatura, leva l’ancora per un esotico paese!

Una noia, dolente da speranze crudeli,

crede ancora all’addio supremo dei fazzoletti!

E, può darsi, gli alberi che attirano i temporali Sono quelli che un vento inclina sui naufragi

Sperduti, senza alberi, senza alberi, né verdi isolotti...

Ma ascolta, cuore mio, il canto dei marinai!"

Il poeta è tormentato dalla noia, ha soddisfatto ogni piacere materiale e intellettuale e ora

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vorrebbe solo fuggire, e non c’è niente che possa trattenerlo, neppure la moglie e il figlio nato da poco. Lui vuole la partenza, ci crede. Neanche il piacere del foglio vuoto, pronto per essere scritto, spegne il suo desiderio.

Sente ogni evento passargli addosso senza lasciare il segno: la mente è distante, la vita non lo soddisfa.

Dopotutto, se si intende fuggire da un luogo o da una persona, il problema è serio ma

comunque risolvibile. Più complesso è scappare da se stessi. Qual è la strada da imboccare?

Come fuggire se è l’esistenza che risulta insopportabile?

Forse è questo che si chiedeva Moammed Sceab, togliendosi la vita. Fuggire da un’esistenza che non ci appartiene, che non può più contenerci dal momento in cui siamo altro, e la nostra forma non entra nel posto che ci è stato assegnato. Ne scrive Ungaretti:

Fu Marcel/Ma non era Francese/E non sapeva più/Vivere

(…) E non sapeva/Sciogliere/Il canto/Del suo abbandono./L’ho accompagnato/Insieme alla padrona dell’albergo/

Dove abitavamo/

A Parigi/

Dal numero 5 della rue des Carmes/

Appassito vicolo in discesa

(…)E forse io solo/So ancora/Che visse (da L’Allegria, In Vita D’Un Uomo)

Il Suicidio è forse è una delle fughe più drammatiche che si possano attuare. Significa non vedere altra soluzione, non avere un luogo, non avere un chi, non sapere dove andare per poter stare meglio. È percepire di non appartenere più a questo mondo.

Credo pensasse lo stesso anche Catone.

[Fine Prima Parte]

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