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La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno. - Judicium

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www.judicium.it GIULIANO SCARSELLI

La nuova mediazione e conciliazione: le cose che non vanno.

Sommario: 1. Premessa. Le cose che non vanno della nuova mediazione e conciliazione. 2.

Eccesso di delega. 3. L’obbligatorietà della mediazione. 4. L’obbligatorietà della proposta di conciliazione. 5. I limiti dell’oggetto della proposta di conciliazione. 6. Il regime delle spese. 7.

L’assenza di segretezza. 8. Gli organismi di conciliazione. 9. Conclusioni.

“Quante comparizioni personali delle parti, quanti tentativi di conciliazione……sono ordinati dal giudice istruttore unicamente come espedienti per rimandare l’istruttoria di un mese o due, eppur colla certezza che il tentativo di conciliazione non riuscirà”.

CALAMANDREI, Il processo come giuoco, Riv. dir. proc., 1950, I, 37

1. Ho preso cognizione del recente decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 sulla mediazione e conciliazione delle controversie civili e, per brevità d’esposizione, dò per scontato che la stessa cosa abbiano fatto anche i lettori di questo breve scritto1.

Evito così di dare una informazione di tipo istituzionale, e passo subito all’analisi critica delle disposizioni, poiché mi sembra che molte siano le cose da evidenziare che non vanno2.

Sia chiaro: nessuno è contrario alla mediazione e conciliazione delle controversie, ed anzi qualsiasi buon avvocato cerca, direi da sempre, di transigere le liti, e di evitare che il cliente debba ottenere soddisfazione solo attraverso gli organi di giustizia, con ciò che esso comporta in termini di costi e tempi.

Ma una cosa è la mediazione e conciliazione libera e non processualizzata come emerge (anche) dalle direttive europee 30 marzo 1998 (98/257/CE) 4 aprile 2001 (2001/310/CE) e 21 maggio 2008 (2008/52(CE), altra cosa è la mediazione che si intende introdurre in Italia, non libera e invece assai processualizzata3.

Non libera, perché in molti casi la mediazione in oggetto costituisce condizione di procedibilità dell’azione giudiziale (art. 5), e perché in molti casi la segretezza delle attività di mediazione non è affatto garantita, posto che se vi è il consenso della parte dichiarante, la dichiarazione non è riservata, e quindi è producibile in giudizio (art. 10).

1 In generale su questo tema v. PUNZI, Mediazione e conciliazione, Riv. dir. proc, 2009, 845.

2 V. già MACIOCCHI, Conciliazione: un’opportunità da sottrarre al rischio di una strumentalizzazione, Guida al dir., 2009, fasc., 46, 16.

3 V. sul punto VIGORITI, Avvocatura e mediazione, in corso di stampa su Guida al Diritto.

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Processualizzata, perché si immagina che nel corso della mediazione il mediatore possa nominare altri mediatori ausiliari, se non addirittura degli “esperti” (art. 8), con una tecnica non molto diversa a quella con la quale il giudice nomina un CTU, nonché si lascia intendere che le parti, nel corso della mediazione, possono produrre documenti e redigere atti difensivi e memorie (art. 3, 3°

comma, art. 17, 2° comma).

Si ha, così, una specie di pre-processo, fatto da una specie di pre-giudice, per evitare il processo ed evitare il giudice; ed anzi il d. lgs. inserisce dei meccanismi volti a penalizzare chi non si accontenta del pre-processo, e vuole il processo a tutela dei suoi diritti.

La mediazione (normalmente) non è questo, e, a parere di chi scrive, fatta così è destinata a non funzionare4.

Ma andiamo per ordine, e vediamo le singole questioni.

2. Una prima attiene al rapporto tra legge delega e legge delegata5.

L’abitudine a porre in essere eccessi di delega anche in questo caso è stata rispettata.

Ed infatti, l’art. 60 della l. 69/09 semplicemente disponeva di “prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione” fosse realizzata “senza precludere l’accesso alla giustizia”. Il d. lgs.

28/10, al contrario, ha reso in molti casi la mediazione una condizione di procedibilità della domanda (art. 5), cosa non prevista dalla legge delega, e forse anche in contrasto con la stessa nella parte in cui, appunto, non voleva che la mediazione precludesse l’accesso alla giustizia.

Inoltre l’art. 8, 5° comma ha disposto che “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’art. 116, 2° comma c.p.c.”. Ma anche questo non era previsto dal legislatore delegante, e non si tratta di un particolare accessorio, poiché l’art. 8, 5° comma contrasta con lo stesso tenore letterale dell’art- 116, 2° comma c.p.c., il quale espressamente prevede che l’argomento di prova può esser dedotto dal giudice solo per il comportamento che la parte tenga nel processo (“ed in generale dal contegno delle parti stesse nel processo”) e non per il comportamento che la parte tenga fuori dal processo. Ed è difficilmente accettabile che, oltre i limiti della delega, si ponga deroga ad un principio processuale fino ad oggi pacificamente accettato, e rispondente ad un preciso equilibrio tra libertà della parte e poteri del giudice.

Ed ancora, il d. lgs. 28/10, mentre da una parte non ha previsto come obbligatoria la presenza del difensore nel procedimento di mediazione (art. 8), dall’altra ha imposto agli avvocati di informare l’assistito per iscritto della possibilità di avvalersi di detto procedimento; ed infatti egli deve far sottoscrivere al cliente un documento che contiene l’informazione, e il mancato adempimento di questo incombente fa sì “che il contratto tra l’avvocato e l’iscritto è annullabile” (art. 4).

4 Riporto qui le parole di VIGORITI, op. loc. cit., poiché mi sembra delineino bene la questione.

Scrive Vigoriti: “La mediazione non è accertamento di diritti, ma contemperamento di interessi, non postula verifiche fattuali, e non deve chiudersi con proposte di carattere sostanziale decisorio. L’istituto si fonda sulla semplicità di forme e la rapidità di trattazione, con esclusione di ogni conseguenza negativa riconducibile al mancato accordo.

Questo non è un “simil processo” condotto da un “simil giudice”, magari neppure giurista, che pretenda di decidere sulla base di qualche documento e memorietta d’occasione, bensì un esperimento finalizzato ad un accordo negoziale.

E’ così ovunque, ed è questo l’orientamento europeo, ribadito in decine di documenti”.

5 Sulla legge delega v. LUISO, La delega in materia di mediazione e conciliazione, Riv. dir. proc., 2009, 1257.

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Tutto questo non era previsto nella legge delega, che semplicemente prevedeva il dovere

“dell’avvocato di informare il cliente”.

Non solo, ma una simile previsione, nella misura in cui impone al difensore di tenere una certa condotta difensiva, rischia di porsi in contrasto anche con il principio di libertà e l’indipendenza nell’esercizio della funzione forense, che oggi è consacrato, oltre che dal codice deontologico forense, fonte di diritto a tutti gli effetti per stessa statuizione delle sezioni unite6, anche dal disegno di legge di riforma della professione, che all’art. 1, sub c) espressamente sancisce che la legge:

“garantisce l'indipendenza e l'autonomia degli avvocati, indispensabili condizioni dell'effettività della difesa e della tutela dei diritti”, e all’art. 2 statuisce che: “L'avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza, svolge in via abituale e prevalente le attività di cui ai commi 5, 6 e 7”.

3. Ma veniamo al merito delle scelte operate dal d. lgs. 28/10.

Un primo aspetto critico attiene all’obbligatorietà della procedura di mediazione, che si ha dinanzi a molte controversie civili, poiché non si comprendono le ragioni per le quali la parte che ritenga di avere pienamente ragione debba per forza sottoporsi ad una procedura di mediazione, e per forza vedersi costretta ad accettare oppure a rifiutare una proposta di conciliazione, in contrasto, peraltro, con le stesse direttive europee7, e forse anche con lo stesso art. 24 Cost.

Sembra quasi che il legislatore abbia inteso rendere legge il principio in medio stat virtus.

Ma chi abbia esperienza di cose giudiziarie sa bene che nelle liti, salve quelle relative al quantum, non è così, poiché invece, e tutto al contrario, o l’attore ha ragione oppure ha torto, e ciò anche perché la ragione o il torto spesso dipendono da questioni meramente processuali e non di merito.

Ed infatti i giudici, quando si discute dell’an e non del quantum, normalmente o accolgano o rigettano le domande, e assai raramente trovano una soluzione intermedia.

La mediazione obbligatoria, allora, pregiudica chi ha subito un torto e vuole dallo Stato semplicemente giustizia, poiché lo Stato, invece, imponendo la mediazione, nella sostanza chiede all’attore di rinunciare a qualcosa, oppure di presentarsi al giudice con l’handicap di cui agli art. 13 e 8, 5° comma.

E tutto questo appare in contrasto non solo con l’art. 24 cost. ma anche con l’art. 3, perché questa pretesa lo Stato la fa gravare sempre e solo sull’attore e non sul convenuto, e sempre e solo sulla domanda principale e non su quella riconvenzione, che infatti la legge non subordina mai alla previa mediazione.

4. Inoltre, ai sensi dell’art. 11, sembra che il mediatore, al termine della mediazione, debba sempre fare una proposta di conciliazione.

6 Così Cass., sez. un., 20 dicembre 2007 n. 26810. Vedila, da ultimo, in Foro it. 2009, I, 3168, con nota di SCARSELLI, La responsabilità civile del difensore per l’infrazione della norma deontologica. Precedentemente vedila in Giust. Civ., 2008, I, 2167.

7 V. anche, sul punto, MINERVINI, La direttiva europea sulla conciliazione in materia civile e commerciale, Contratto e impresa – Europa. 2009, 41.

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In verità il testo non è chiaro, poiché mentre il 1° comma statuisce che “Quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione”, il 4° comma recita che “Se la conciliazione non riesce, il mediatore forma processo verbale con l’indicazione della proposta”.

Il testo contrappone lo “accordo” alla “conciliazione”, considerando l’accordo la conciliazione fatta dalle parti senza l’aiuto del mediatore, e la conciliazione l’accordo fatto dalle parti con l’aiuto del mediatore.

Si tratta di una inutile complicazione, posta in essere solo per valorizzare l’opera del mediatore.

Ad ogni modo, se la conciliazione non riesce, ovvero se le parti non trovano l’accordo nemmeno con l’opera del mediatore, questi deve sempre (almeno così dispone il 4° comma dell’art. 11) indicare una proposta.

Ora, questa scelta è di nuovo criticabile, e sotto un duplice profilo: a) lo è perché è possibile, come detto, che una parte abbia totalmente ragione e l’altra totalmente torto, cosicché non si vede per quali ragioni il legislatore non abbia quanto meno fatto salve le ipotesi nelle quali non v’è niente da mediare ne’ conciliare (e ciò salvo ammettere che la proposta possa consistere nel solo invito al riconoscimento della domanda, ma dubito della fattibilità di una simile cosa); b) ed è egualmente criticabile perché in molti casi, ciò che è giusto o ingiusto dipende dall’accertamento dei fatti, e finché i fatti sono controversi e privi dell’accertamento giudiziale (considerato altresì che il mediatore, oltre alla possibilità di valersi di esperti in taluni casi ai sensi del 4° comma dell’art. 8, certamente non può procedere all’istruzione della controversia) non si vede come il mediatore possa in ogni caso formulare una proposta di conciliazione, che in molti casi coinciderebbe con una proposta qualunque, priva di logica e/o fondamento.

5. Ancora: è noto che la conciliazione che segue la mediazione ha ad oggetto qualcosa che non necessariamente coincide con l’oggetto del processo, mentre con lo schema adottato dal d. lgs. in commento il mediatore non può che proporre una conciliazione che coincida, seppur parzialmente, con l’oggetto del processo.

Mi spiego.

Un litigante, ad esempio, potrebbe rinunciare ad una parte del credito o del diritto perché in cambio gli viene offerto un nuovo contratto, o nuove opportunità di lavoro o guadagno, od un diverso bene che egualmente ha interesse a ricevere, ecc...

Tutto questo, però, il mediatore del d. lgs. 28/10 non lo può proporre, e quindi nessuna conciliazione di questo genere può essere immaginata con l’ausilio del mediatore.

E la ragione è evidente, atteso che, in base all’art. 13, la proposta del mediatore deve essere tale da poter essere poi confermata o meno dal giudice.

Nello spirito dell’art. 13, infatti, la proposta è parametro per la regolamentazione delle spese del giudizio, atteso che se “il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice”.

Va da sé, allora, che il mediatore può fare solo proposte che stiano nell’ambito dell’oggetto della disputa, e tali da potere essere poi accolte o rigettate dal giudice, poiché, se ne facesse altre, diversificando le proposte di conciliazione oltre i limiti dell’oggetto del processo, il meccanismo delle spese salterebbe, e con esso anche la struttura e le finalità del d. lgs. 28/10.

Così, il d. lgs. 28/10, invece di attribuire al mediatore ogni più ampia libertà nell’individuare l’oggetto della possibile conciliazione, gli impone di muoversi entro il tracciato delle domande delle

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parti, limitando la sua funzione e pregiudicando in molti casi l’obiettivo che il sistema invece dovrebbe avere, e che è quello di giungere alla transazione della lite.

Se si pensa, poi, che il tutto è fatto al fine di far conseguire ingiustificate sanzioni alla parte che non accetta la proposta di conciliazione, ci si convince come la cosa sia del tutto irrazionale.

6. Si vuole, inoltre, perseguire l’obiettivo della conciliazione sanzionando la mancata conciliazione.

E’ un punto di vista non solo di dubbia costituzionalità, ma proprio errato, perché conciliare è per sua natura attività spontanea, e la coercizione a conciliare è pertanto una forzatura, che non può che produrre reazioni in senso inverso.

Tale incongruenza si coglie soprattutto, e sotto più profili, nell’art. 13.

a) In primo luogo l’art. 13 appare in contrasto con l’art. 24 Cost. nella misura in cui considera la mancata accettazione della proposta fatto da punire, prevedendo che chi non accetti la proposta venga condannato a pagare all’erario “una ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato”.

b) In secondo luogo l’art. 13 appare in contrasto con l’art. 91 c.p.c. per come novellato dalla l.

69/09, nella misura in cui con l’art. 91 c.p.c. il giudice può sì escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice ma solo nelle ipotesi in cui non sussistano “giustificati motivi” alla mancata accettazione della proposta di conciliazione, mentre nell’art. 13 tale inciso non vi è, cosicché sembra che sempre, e a prescindere dalle ragioni per le quali una parte non accetti una proposta, questa sia esclusa dal recupero delle spese anticipate ancorché vittoriosa.

La scelta dell’art. 13, in contrasto con quella operata dall’art. 91 c.p.c., non appare pertanto logica, soprattutto se si considera che la proposta del mediatore prescinde dall’accertamento dei fatti, e viene posta in un momento (normalmente) anteriore all’insorgere del contenzioso giudiziario, cosicché certo vi possono essere molti casi in cui la mancata accettazione della proposta trova più che giustificati motivi (e tuttavia senza alcun risvolto in tema di recupero delle spese di lite).

c) Infine l’art. 13, in eco all’art. 91 c.p.c., fa riferimento alle spese giudiziali riferibili al periodo successivo alla formulazione della proposta, e non considera, però, di disciplinare un fenomeno diverso.

Infatti, mentre ha un senso (seppur discutibile) che l’art. 91 c.p.c. preveda l’esclusione della ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta successive alla formulazione della stessa8, poiché la proposta di cui all’art. 91 c.p.c. avviene in corso di causa, cosicché in quei casi è possibile separare, ai fini delle spese, le attività giudiziali anteriori e posteriori alla proposta di conciliazione, la stessa disposizione non ha senso nell’art. 13, poiché la proposta del mediatore, ove si escludano i casi residuali di cui all’art. 5, 4° comma, avviene sempre prima del giudizio, cosicché in caso di mancata accettazione della proposta è impossibile separare le spese in anteriori e successive, e tutte le spese finiscono inevitabilmente per venire addossate alla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta.

Ora, se questo è vero, è parimenti vero che l’art. 13 pone allora completa deroga al principio di soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., perché di fatto addossa a chi vince, puramente e semplicemente, le spese del giudizio.

E poiché il principio di soccombenza è stato ritenuto a protezione costituzionale9, il rischio è che lo stesso art. 13 sia proprio incostituzionale.

8 Per una critica al nuovo art. 91 c.p.c. v. infatti SCARSELLI, Le modifiche in tema di spese, Foro it., 2009, V, 258.

9 v. infatti Corte Cost. 31 dicembre 1986 n. 303, Foro it., 1987, I, 671, con nota adesiva di PROTO PISANI.

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7. Ancora: nonostante le rubriche degli artt. 9 e 10 facciano riferimento al dovere di riservatezza e all’inutilizzabilità e segreto professionale, v’è da registrare che la segretezza delle operazioni della mediazione non è affatto garantita.

Ed infatti, l’art. 10, 1° comma, consente la diffusione in giudizio delle dichiarazioni del dichiarante, cosicché se da una parte è vero che ogni litigante non può produrre le dichiarazioni dell’avversario, dall’altra è parimenti vero che può produrre le proprie dichiarazioni.

Ciò comporta, allora, che una parte possa, in modo (perché no?) deviato e/o strumentale, rendere certe dichiarazioni al mediatore al solo fine di produrle poi in giudizio.

E se la parte A produce le proprie dichiarazioni, va da sé che la parte B, anche solo per replicare, produce la sua risposta, e ciò creerà una concatenazione di produzioni di dichiarazioni, che di fatto tenderà a render manifesto dinanzi al giudice tutta (o gran parte) dell’attività di mediazione.

E poiché non da ieri la giurisprudenza tende a far uso di ogni dichiarazione delle parti ex art. 116, 2°

comma c.p.c. , va da sé che la mediazione in oggetto non è affatto separata dalla successiva attività giurisdizionale, poiché il d. lgs. 28/10 non ha accolto l’elementare principio secondo il quale le attività poste in essere dinanzi al mediatore non possono essere rappresentate al giudice (o possono esserlo solo con il consenso di tutte le parti).

8. Un ultimo aspetto critico riguarda gli organismi di mediazione.

Mentre la disciplina di questi è al momento incerta, poiché scaturirà da un decreto del Ministro della Giustizia (art. 16), fin d’ora è previsto che “I consigli degli ordini degli avvocati possono istituire organismi presso ciascun tribunale, avvalendosi di proprio personale e utilizzando i locali messi loro a disposizione dal Presidente del Tribunale” (art. 18).

Si tratta di scelta che deve destare forti perplessità in ogni avvocato.

L’avvocatura si è sempre battuta per la separazione dei ruoli, poiché uno è il compito dell’avvocato, altro quello del giudice e/o di chi in vario modo svolge funzioni conferenti con la giurisdizione; e non v’è bisogno di richiamare, ad esempio, perché note, le posizioni dell’avvocatura in tema di avvocati che svolgono la funzione di giudici onorari di tribunale o di giudici di pace.

Attualmente nessun avvocato può svolgere funzioni di giudice onorario o giudice di pace nella circoscrizione in cui opera come avvocato, ed il limite mi sembra sacrosanto.

Oggi, al contrario, si immagina un tribunale della mediazione dentro il tribunale della giurisdizione, uno fatto di avvocati, l’altro fatto di giudici.

Si dirà che una cosa è fare il mediatore, altra cosa è fare il GOT.

La ragione della condanna alla spese del soccombente è strettamente connessa al principio chiovendiano secondo il quale il processo deve dare a chi ha un diritto “praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1932, I, 41), poiché, appunto, “tutto ciò che fu necessario al riconoscimento del diritto è concorso a diminuirlo e deve essere reintegrato al subbietto del diritto stesso, in modo che questo non soffra detrimento dal giudizio” (CHIOVENDA, La condanna nelle spese giudiziali, Roma, 1935, 157); e tutta la dottrina processualcivilistica riconosce a tali principi protezione costituzionale, v.

ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 430; SCARSELLI, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, 428;

CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Padova, 2008, 310; LUISO, Diritto processuale civile, Milano, 2009, I, 423.

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Certamente è così, e tuttavia nella misura in cui il mediatore svolge una funzione di ausilio a quella giurisdizionale, collabora alla formazione di titoli esecutivi, ed è tenuto ad esprimere un giudizio, attraverso la formulazione di proposte di conciliazione, circa controversie affidate a colleghi, eguale regime di incompatibilità a me parrebbe necessario.

L’art. 14 prevede l’imparzialità del mediatore rispetto alla singola controversia, ma a me sembra che l’imparzialità sia da collegare alla funzione più che al singolo caso, e mi sembrerebbe conseguentemente da evitare che avvocati di un certo foro siano mediatori in quel medesimo foro, operino in tal senso dentro il medesimo tribunale, e stiano sotto l’organizzazione del medesimo consiglio dell’ordine.

Andrebbe da sé che detti avvocati assumerebbero, rispetto agli altri, e soprattutto rispetto ai giudici del tribunale, un ruolo di particolare autorevolezza, e si finirebbe per creare avvocati di serie A (i mediatori del tribunale) e avvocati di serie B (tutti gli altri), con ripercussioni non secondarie sotto il profilo del mercato, oltreché della trasparenza e indipendenza della professione.

Se proprio si dovrà dar vita a questa discutibile mediazione, si vorrà almeno prevedere che non possono far parte degli organismi di cui all’art. 18 avvocati che esercitano la professione in quella medesima circoscrizione, e si vorrà prevedere che la nomina degli avvocati-mediatori avvenga a domanda, con criteri oggettivi prestabiliti, e con selezione pubblica.

9. Si dice che a pensar male si fa peccato ma si azzecca.

Consentitemi allora di far peccato: questa normativa sembra pensata apposta per accontentare due categorie di soggetti, i magistrati e gli apparati degli ordini professionali.

I magistrati, poiché questi sperano, se non proprio in una riduzione delle sentenze da pronunciare, quanto meno, contro il monito di Calamandrei, in una più ampia possibilità di differire e rinviare le cause, e quindi di allontanare nel tempo la pronuncia delle sentenze.

Gli apparati degli ordini professionali, poiché essi vedono in questa novità, e non possono non vederlo, una opportunità di lavoro per gli iscritti.

Al di là di questo, il resto è incerto.

Per venire veramente incontro ai cittadini, e per favorire veramente la conciliazione delle liti attraverso la mediazione, è necessario invece riportarla ai normali criteri già indicati nelle direttive europee, quale fenomeno semplicemente rimesso alla discrezionalità della parte, e senza condizionamento sul diritto costituzionale all’azione, e senza aspetti punitivi appartenenti ad una logica che non può essere approvata.

Poiché solo se la mediazione ha queste caratteristiche essa ha concreta possibilità di dare un contributo alla situazione generale del nostro contenzioso civile.

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