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L'UOVO DAL GUSCIO DI PIETRA

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Academic year: 2022

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TRADIZIONI POPOLARI

L'UOVO DAL GUSCIO DI PIETRA

ANDREI A CICERI

La leggenda popolare vuole che le mura di Ven- zone ian orte all'improvviso, per volere di una favo] a regina. Fuori dal mito, la storia è rotolata in que ti lu ghi con tutto il suo peso, lungo gli anni ed i ecoli, co truendo o rovinando più volte, ma le mura, opera qua i di magia, ancora resisto- no agli attentati degli uomini e degli elementi, sug- gerendo a volte l'idea di una compressione tomba- le, a volte di un magnifico castone per un comples- so di pietre veramente preziose. Nell'ultimo dopo- guerra rin erravano cumuli di macerie, sì da dare la suggestione che i monti incombenti avessero franato giù il loro pietrame, per un misterioso ri- chiamo dei ghiaieti del Tagliamento. Poi lentamen- te è tornata la vita, si è rifatto l'ordine, ma il volto d'un tempo non c'è piLl. La stessa compagine uma- na è molto mutata: come molti prestigiosi palazzi sono stati spazzati via dalla guerra, così molte fa- miglie e ne sono andate ed altre sono sopravve- nute; soprattutto dalle frazioni di montagna sono

ce i quasi tutti, venendo in parte a rabberciare le morte co e, altri andandosene più lontano.

Le domeniche riempiono le viuzze di folle di turisti, richiamati soprattutto dalle mummie, espo-

te all'oscena curiosità di massa, con quei «bra- ghettoni» che pretendono imporre una misura umana al solenne mistero della morte. Per reazio- ne io le ho sempre ignorate, ma dopo aver esegui- to la mia inchiesta sulle tradizioni locali, ho do- vuto ricredermi, trovandole presenti in giochi di bimbi e racconti di vecchi, dovendo così collocarle quasi a livello di simbolo per Venzone. Infatti que- sto rapporto morte-vita (e viceversa) è risultato una delle costanti più ricorrenti, nel quadro delle lo- cali credenze, comparendo ossessiva in preghiere e filastrocche, in fiabe e leggende. E' tuttavia una

morte che ha continuo commercio e quasi confi- denza con la vita. I viventi hanno frequenti « av- visi» dall'aldilà, fra cui, comune presagio di sven- ture, 1'« orologio di San Giuseppe ». I prossimi al- la morte hanno la visione di lunghe teorie di per- sone che chiamano «processione di Sant'Orsola ».

I morti, dal canto loro, sono avidi del cibo dei vi- venti, continuano spesso nel lavoro compiuto da vivi; se sono morti all'improvviso, attendono al varco il sacerdote per strappargli l'olio santo; i dannati sono confinati sui vicini monti e non tanto lontano da non riuscire a scorgere il fumo del co- mignolo della propria casa. Nella notte dei Defun- ti, la processione dei morti sfila coi suoi lumicini ed ognuno fa visita alla sua dimora di vivente, do- ve un giorno ciascuno ritornerà a riprendersi i denti che ha nascosto nei buchi dei muri. La mor- te è dunque una protagonista e non è senza signi- ficato che una delle usanze più suggestive, da poco smessa, fosse la Batinade che si faceva in Duomo, a commemorazione della morte di Cristo: allo spe- gnersi del suono delle campane e delle luci delle candele, in un buio da eclissi, tutti cominciavano a battere freneticamente sui banchi, con sassi, zoc- coli, martelli, in una specie di collettiva rappresen- tazione drammatica, di sapore quasi orgiastico. Per la Passione di Cristo sono proliferate le più belle poesie religiose, fra cui si nota un testo eccezio- nale, che inizia «V uè mll eros, doman glorios ... ».

Il Cristo è morto e l'uomo, privato della sua pro- tezione, più forte sente il terrore del negativo, del falso Dimià.

Fra gli esseri fantastici della tradizione locale la presenza più nuova, ambiguamente partecipe di fisico e di metafisica, è quella della serpe, animale fra i più carichi di suggestione ctonica. Intendo

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parlare di una serpe anfibia, che fa pensare al pro- teo, e che qui chiamano àspar o àspri, e più an- cora intendo riferirmi al rettile crestato ed alato, che chiamano basalìse e che molti sostengono di avere veduto, temendone fortemente il fiato lut- tuoso. Ricche d'interesse sono pure le pratiche di- vinatorie, le preghiere usate a mo' di scongiuro, l'uso di una terapia che rivela chiaramente le com- ponenti di un sincretismo fra i più singolari. Ri- sulta dunque particolarmente ricco l'orizzonte, di- ciamo cosl, spirituale di questa collettività, rive- lando come il popolo istintivamente senta i proble- mi escatologici, con una sua capacità di destorifi- cazione e trasposizione degli accadimenti a livello di mito. Modesto per contro è il complesso dei dati folclorici riguardanti la comunità associata. I riti dell'acqua e del fuoco, che sottolineano i mo- menti salienti del ciclo solare, gli usi carnevaleschi, non sono singolari di Venzone; si può anzi affer- mare che la particolare posizione di questo centro ne ha fatto un punto di confluenza di usi che ri- sentono dell'influsso delle tradizioni del Friuli di montagna e di quello di pianura. Venzone è dun- que, sotto il profilo folclorico, una soglia di tran- sito, proprio come è stata politicamente nei secoli.

E' da dirsi inoltre che il centro urbano aveva ca- ratteristiche prevalentemente borghesi.

Il complesso delle credenze ha indubbiamente avuto matrice più fertile nei nuclei dispersi nella campagna e sui monti, dove l'isolamento, la lotta per l'esistenza, il bassissimo livello culturale, la mortalità infantile, le malattie endemiche concorse- ro a creare le condizioni adatte per un più fervido ricorso dell'uomo a sussidi soprannaturali. Dalle testimonianze degli informatori più anziani si ri- cava netta la consapevolezza di trovarsi al limite estremo di una cultura, sull~ battigia dove, or si or no, giungono lembi di passato. Da questo la fretta di recuperare la trascurata storia del popo- lo, di tracciare un quadro dove egli si senta per la prima volta protagonista. La storia «ufficiale»

è passata come un fiume su un terreno impermea- bile: al popolo, oltre i lutti, ne giungeva solo l'eco

enfatizzata o magari la notlZla di appetibili tesori nascosti. Neppure la toponomastica ufficiale com- bacia con quella popolare che riporta le cose alla quotidianità della sua piccola esperienza: c'era chi vi riconosceva la fantomatica Noreja, chi per con- tro ribatezzava le vie con gli umili nomi di Bore dal lat, Bore dai Gjàs, Strade mufose ...

Rileggendo gli Statuti di Venzone, dove la giustizia è ispirata a regole pragmatistiche ed uti- litaristiche, troviamo l'immagine di una piccola co- munità che scandiva la sua vita sul ritmo puntuale delle quotidiane necessità: proibito lavorare nel dì festivo, punito chi gioca ad indevit, severe pene per i ladri di galline, mentre «il padrone di casa che trova uno con la moglie od altre consanguinee e lo uccide, non incorre in nessuna pena ».

Frequente trapela il ricordo di rivalità tra i cit- tadini e gli abitanti extra moenia, tra tutti questi ed altri centri, da cui nascevano detti blasonici co- me nella filas trocca:

A Resie al ejante il eue a Dogne si sint dut in Puartis ejapielars a Venzon eogozars a Ospedal i zavatins a Glemone euargnulins ad Artigne 'a batin la pigne a Buje 'e dan la polente par nuje.' Erano tempi di dura fatica ed anche di mise- ria. Le questioni si potevano risolvere con la eja- earade in osteria, ma anche con crudeli faide, co- me il taglio di un orecchio per caso di abigeato o per il sospetto di aver gettato il malocchio sul be- stiame, quasi unica ricchezza. La natura stessa mo- stra intorno un volto duro, arcigno, disseminata com'è di clapòns, ognuno dei quali ha il suo no- me suggestivo come il clapòn dal l6f. Con amara ironia i Plovergnaes dicono: Pioverno - paesi grassi - via la neve -fuori i sassi. Trodret, Strete lungje, Strade di Atile ... , lunghi cordoni di pietre nella campagna magra ed in mezzo Venzone che si stampa nella memoria come un'isola fuori dal tempo.

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Donna al balcone -1971.

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CICLO DELL'ANNO

GENNAIO

10 _ Capodanno non è una soglia di profondo substrato folclorico, giacchè lungo gli strati della civiltà umana l'inizio d'anno non è stato sempre l'attuale, inoltre è risaputo che i momenti fonda- mentali del folclore sono quelli connessi col ciclo solare e con i momenti più significanti della vita umana. Pertanto usi e credenze riferibili a Capo- danno appartengono ad uno strato piuttosto recen- te della nostra cultura. A Venzone, in particolare, questo non fu giorno di grande rilievo, benché si possano riscontrare, ma non con compattezza, i dati comuni a tutto il Friuli: Se si scontre prin un omp, massime go bo, furtune dut l'an.' Bisugne tign'ì bés te saehete par vé un an furtunat i

L'augurio dai frus al puartave furtune: se no vignivin, no si jessive di ejasei A' disevin: Bon prinsipi dal an, ce nus dàiso di buine man? - Bon prinsipi dal an - siops di buine mani - Pàistu i siops? - Bon prinsipi von, o ave' Bundì, bon an, vué ch'al è il prin dal an, dàimi la buine man.'

Dàimi un earantan.'

5 - 'E vìlie de Pifanìe (anche Pofanìe, Pasehe- te, Befanìe) si puarte a bened'ì sal, pan, melus, pe- rus, biseos, l'aghe (le dàn lor); si lave eu la ciàeule o ben eu la sporte di pae o di pezzot; dopo si dave un po' di robe benedide aneje ai vissìns o ai am'ìs...

La robe benedide no si bute mai vie, nie. Si man- gje un poe paromp in ehé dì; il sal si dà aes bè- stiis in ehé dì e quant ch' e si puàrtin al toro, o in malghe, o ch' e son par fa e a' stèntin: al è euintri li mali robis; s'al fos tristvoli, si dilibèrin. Colehi- dun al puartave a bened'ì aneje zugàtui, indumens...

Cu l'aghe, prime si benedive in eros il fue, po' in triàngul (tre angoli) la eusine, la stale, il gjalinar.

Li strìis no èntrin e, s'e son dentri, e' àn un ejan- ton par sejampa fur' Po' le mètin tai ejalderùs (si segnìn ogni sere, prime di la a durm'ì), po' si met un verut datlr de puarte de stale, eu l'imàgjn di Sant'Antoni veejo e eul clap forat; che atre si ten par un mal, par un muribont, par segna un muart.

I frus, ma no due', e' metevin la ejalze: 'j mete- vin un tic di uve seeje, earòbulis: ehei e' erin i gnestris 505505 ...

6 - Qui non si fanno i fuochi epifanici, che coprono quasi tutta l'area del Friuli pianeggiante;

si fanno invece a San Giovanni ed a San Pietro, risentendo, per questo uso, delle tradizioni carni- che e slave.

Con questo giorno terminano li albis: così sono chiamate le dodici albe, dal 26 dicembre al 6 gennaio, dall'andamento delle quali si traggono auspici e profezie per i relativi dodici mesi del- l'anno.

Ben noto è il proverbio: Pifanìe li fiestis puar- te-viei Meno diffuso è il detto (per i nati di questo giorno): Tu sés nassude in ehé dì che i màs e' sàltin e e' bàlin.' (Forse perchè dà inizio al Carne- vale). Dicono pure, riferendosi all'allungarsi del giorno: Pasehete mieze orete.'

Dopo funsion, il predi al taehe a benedz. Dopo benedidis li stalis, si faseve i mols: un pal predi, un pe' glesie, un par Sant'Antonio

Talvolta scendevano i Cjargnei eu la Stele, a reci tare la pastorale.

10 - Si inizia a trar pronos t1Cl: Se il primo quarto di luna si fa con pioggia, al va in ploe: fate la lune eu la ploe, 'e à di la-fur eu la ploe.'

17 - Sant'Antoni di genar: avot pes bèstiis.

Sant' Antoni dai purcis (un tempo un porco era al-

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Benedizione in frazione Costa (inizi sec. XX).

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levato dalla comunità a beneficio della chiesa).

L'immagine di Sant'Antonio « dalla barba» era in tu tte le stalle.

Sant' Antonio dalla barba bianca - se non pio- ve, la neve non manca.'

21 - Santa Agnese di Gemona, la guaritrice de crafe (lattime) dei bimbi.

S'e burle la moscje tal més di Zenar - cjape-sù la malve e mètile tal salar.' (Bisogna risparmiare sul foraggio, perché la primavera verrà tardi).

FEBBRAIO

2 - Là ch'al trai soreli a Madone des cjan- delis (o Madone Cereole), néf nuf voltisl (per ta- luni 7 volte) - Une volte nus devin la cjandele benedide. - S'al plof, dal inviér j sin lur. - Se xe bel tempo dell'inverno semo drento. - S'al è brut, al ven lur il lol (o il purcit salvadi).

3 - In duomo, a ricevere la benedizione del collo, con due candele in croce.

Si finiva di consumare il pane benedetto all'E- pifania.

In ché dì mi è gotade la cere sul capot: j ài tignut li gotis par benedission. - San Blas e San Blasiole - che mi vuardi dal cuel e de gole' - A San Blas il frh e il cjàlt fàsin la pas. - A San Blas, mieze la mede e mieze la borse de monede (sono consumate mezze riserve, perchè siamo a me- tà inverno). (28)

14 - A San Valantin al trai soreli par ogni cjamìn. - Par San Valantin si lave a Damar a com- pra li cjandelutis (erin lìnis lìnis). Si impiavin pai omps e pa li bèstiis, quant ch' e vevin il mal dal assident (mal caduto, mal di San Valantin).

24 - San Matie s'al cjate la glaze la puarte- vie, se no la fas vigni.

E' questo anche il periodo in cui culmina Car- nevale che peraltro non ha qui una forte caratte- rizzazione: la povertà generale non permetteva

grandi tripudi; termini come joibe crustulàrie non sono generali. Quello che generalmente si ricorda è l'ultimo di Carnevale con la festa popolare in piazza: I primatos a' fasevin fa la polente, in tune grande cjalderie etti cuars, di chés che si fas il for- madi in malghe. Dopo a' devin a due' ancje luànie tal vin blanc, dentri un urinal (nuovo però).

Uno dei maggiori divertimenti pubblici era il gabbione in cui si rinchiudevano o dei nanetti o altri personaggi buffi della comunità, attori e vit- time di una improvvisata e crudele pantomima.

Non è molto generale la testimonianza del

« brusa Camaval », mentre è certo che era molto diffuso l'uso di mas::herarsi: lO. di màscare, a biel o a brut, con accompagnamento di fisarmoniche, campanacci, suoni di corna di bovini.

'T levin tes cjasis e lor e' fasevin ogni miez par co,r,nossi: e' ofrivin confètis (grani di mais abbru- stoliti). Li màscaris no fevelavin, e' fasevin nome:

prrr, prrr, prrr' A mut.' Cun ché scuse e' levin a osela (curiosare). E' san ancje sucedus cas che dopo e' levin a roba il purcit, parceche si veve nome un pale t par clostri e i laris e' instupidivin il purcit, brusant tre-quatri scjàtulis di furminans, Si veve la moretine di pezzo t su la muse o ben sfrosegnas.

Si vestivano alla menopeggio (malders), mettendosi addosso protuberanze, gobbe finte, cambiando ses- so. Dalle frazioni affluivano le maschere più sfre- . nate,...·A Pioverno mi precisano che vestirsi « a brut- to» era detto la di Bèrtul: mé ave 'e ere vecje ch'e leve ancjmò di Bèrtul.' (15). Per l'informatri- ce, la in mascare significa: a blanc, ben regolas, come sposo A miezegnot 'e sunave la grande, une lungje Avemarie: alore si picjave i sardelons sul cjapiel e tal doman qualchi cjocut al lave ator cu li renghis picjadis te ombrene vierte.

Tal doman j levin a cjoli la cinise par scancela i pecjas.

J

picjavin la valise là de glesie (Pioverno) par- ceche Carnaval al ere lat,

Chel ch' al cjape Carnaval, 'e spele Quaresime.' A mezza Quaresima solo i borghesi facevano un festino.

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Traghetto su! Tagliamento - Foto Archivio Mistruzzi - Mus eo di Udine.

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Circola, ancora ben noto, un frammento di dia- logo tra Carnevale e Quaresima:

Corèsime: Carnaval basavual, distrugitor di ani- mis, distrugitor di bés ...

Carnaval: Corèsime lèsime (o vuèsime) lungje e stuarte

come 'ne tuarte se no tu vessis vat il gno vin che ti confuarte tu saressis benzà muarte/ (28)

MARZO

lO - S'al plof ai Corante Màrtars, cm'ante dzs di ploei

19 - Sant Usef (Sant Osef) in Puartis, cu la musiche, a mangja lidric cui poc e as dars.

E' la scampagnata che festeggia il prossimo ar- rivo della primavera.

APRILE

lO - Manda in avrU: fare scherzi.

5 - La cinquine d'avril: l'ajar ch' al cor al cinc d'avrU, al cor par cinc més.

25 - Quando Pasqua marcundabit tutto il mondo lacrimabit/ (45) Si ritiene pericoloso, secondo le profezie, il ca- dere della Pasqua nel giorno di San Marco.

Si dzs che la Irunt 'e à di séi sul troi di San Marc. (28)

Il prin arc di San Marc (arcobaleno) si cjale ben: il zal al al dz forment, il vert jerbe, il ros vino A San Marc si jas la prime Rogassion: dal Do- mo a PIan di Sante Catarine, e a San Jàcun e San- t'Ane, ch'e son cusins. Al Clapon dal Vanseli (ch'e je ancjmò la scjalinade) il predi al montave-sù e al benedive li campagnis e al lejeve il Vanzeli. Pa-

strade si cjol-sù la Irunt benedide ch' e si dà a li bèstiis, e rosutis par meti in cjase.

In chest més si sta atens ancje al prin ton: s'al tone a soreli jevat, cjape il sac e va a marcjat - s'al tone a soreli a mont, cjape il sac e va pal monti

Setemane sante: si volte, si svangje, si bute pal àjar la cjase, si semene salate e ruchete tai plès.

A Domenie Ulive e' comèncin li corant'oris:

ogni borgo, ogni via ha il suo turno per l'ora di adorazione. Alla benedizione delle palme, se non c'è sutficiente ulivo, si portano anche rametti di gine- pro o di bosso.

Da Giovedì santo non suonano le campane:

e' son leadis/ ed il campanile rimarrà chiuso a chia- ve finché verranno sciolte per il « Gloria ».

La batinade è certamente, o meglio, era la usanza più suggestiva di questi giorni di passione e morte: nella funzione serale si accendevano le candele sul piedistallo triangolare (triàngul, glocje, palme) con tredici candele perchè, dice la gente, Gesù più gli apostoli fanno tredici. Ad ogni salmo viene spenta una candela: alternativamente, una da una parte, una dall'altra. C'è nell'aria un senso di misteriosa tensione. Alle ultime parole, ... «subire tormentum », viene spenta l'ultima candela, quella al vertice del triangolo. Allora tutti diventano at- tori di questa azione drammatica: il buio dava la suggestione dell'eclissi avveratasi per la morte del Cristo e, par imita i Gjudeos ch' e batevin il Signor, la gente si toglieva dai piedi gli zoccoli, i bambini dalle tasche, sassi, chiodi, martelli ... e tutti batte- vano sui banchi o dove capitava. L'usanza in se- guito fu proibita perchè diventava sempre più or- giastica e rovinosa. Le funzioni erano annuncia te con le cràzzulis, che il muini ed il mòcul metteva- no in azione anche in chiesa, durante le funzioni, al posto di campane e campanelli.

La processione del Venerdì santo era illumina- ta da fuochi e da lumini fatti con gusci di lumache.

Preghiere specialissime si facevano in questo gior- no (vedasi tra le preghiere); in questo giorno non si doveva lavorare ed il digiuno era strettissimo.

Vinars sant, il vin al va in sane.'

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Formelle dipinte da soffitto - Sec. XVI - Palazzo Marzona.

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Al «Gloria» della resurrezione, è uso comu- ne lavarsi la faccia: par para vie i pecjas' par no vé plui mal di cjafl par para vie li lins' par scansa i pecjasl Molti dicono: lavasi cence suasi, parceche e' son come i sudors dal Signor. Ed anche: lavasi e cori, fin che si sùisi.

No

j lavavin la muse, tant quant ch' al murive che quant ch' al tornave a vivi e al «gloria », gno pari s'inzenoglave. (16).

Da un «gloria» a chel atri nissun leve a co- munion, parceche al è muart il Signor.

In glesie e' cambiavin l'aghe dal batìsim: il prin che le screave al ve ve di puartli l'agnel inflodt. E' brusavin ancje la robe vecje de glesie e chel j dise- vin il fuc san!: due' j corevin a cjoli il cjarbon santo Lu tignivin di benedission, come l'uttl. CuI cjarbon sant j benedivin il fogolar. Lu metevin sot de nape par protegi dal fuc e de saete. Là ch'al è il cjarbon sant in triàngul (tre angoli) noi trai sae- te, ne fole (ch' al bruse ancje s'al plo!).

I! ceri di Pasche al dure fin a 'e Sense,' si ri- guei tocùs par tigni la benedission cuntri li mali- robis.

A Pasche si screave il grimal e li zùculis. Si fa- seve fa un zei-di-man di fuazzis in Puartis, ch' e ve- vin il for di campagne, a lens. Dopomisdì j levin cu la ciàcule sul PIan: i siors a une cert'ore 'e bu- tavin li naransis par viodi i frus a còriur daurl

A' erin tre fiestis: Pasche, Pascute, Pasche piz- zule, come a Nadal (Nadlil, San Scjefin, i Nos- sens). (28)

MAGGIO

p - Une volte e' metevin rosis il prin di mai par domanda la morose.

E' fasevin ancje scjarnetis.

I n mai si faseve la «cuete» (del formaggio) pal monsignor.

I! predi al vignive a benedi in Majaron; nus puartave la cere triàngule, un tocut paromp: la do- pravin par benedi li vacjs quant ch'e jessivin; ur

e' fasevin gota daur i cuars, prin ch' e partissin in mont (29).

I devin al predi la spongje e al muini la scuete (26).

la Domenica: Avot di Resie, pe peste: j par- tivin a dute gnot, ben scolz,' tal doman al vignive sù il predi a

fii

la messe.

Scense: l'avo t di Sante Gnés. Si avodave i frus, se no la grafe 'e durave siet més. No sai se la fede o il gambiament dal àjar, la grafe 'e lave l Al mattino dunque le mamme portavano i bim- bi affetti da lattime e li lavavano con l'acqua san- ta; al pomeriggio la festa diventava profana, con ballo.

Nei tre giorni precedenti l'Ascensione si face- vano le rogazioni:

I - Rogassion di San t' Ane o des campagnis;

'e partìs dal domo, 'e ven jù pe strade di Àtile, si ferme pe messe a San Jàcun e Sant'Ane, 'e fàsin il gir di Roce; il predi al va a bevi il cafè lajù di Miol; e' vegnin sù pe strete-Iungje, e' tòrnin in domo. Strade fasint, si cjape-sù rosis e si fas il brascjar pe cjare.

II - Rogassion di Sante Lùssie: ancje cheste pes campagnis: dal domo. Daur-filande, Fracjaran- dis ... e vie par San Lenartl (al è un det!). I n teste un zovin vistit di mòcul, po frus, frutis, omps, predis, fantatis, feminis... Si diseve li letànis gran- dis, di due' i sans: Sante Lùssie, preàit par no' Sante Jàcume, preàit par no! Sante Tunine .. San- te Veroniche ... Sante Cecilie.. (35).

Si faseve messe a Sante Lùssie, ché sante che si è gjavade i voi parceche un al ere nemorat di jé e jé no oleve:

- Di ce sestu nemorlit?

- Dai voi ...

- C;ò' Ti doi i voi' (64)

III - Rogassion tor fossai: si fase ve il gir tor li muris e si fermàvisi lajù de Madonute, te puar- te disot, a puarte Sanzenét; al sant di Nicjo, sul puarton di Zonte, a puarte gnove ...

Si inzenoglàvisi e il predi al benedive cuI sper-

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gjs, e po vie: a fulgure et tempestate, a flagello terremoti, a peste, fame, bello libera nos ...

Pente ste: Si leve a Ospedéit a prea te glesie dal pirtu ant, par ch' al spiri in ben.' Si compra- ve il cjapiel di stranc, ch' al durave dute la stagjon dai fens. i diseve par schers: Pentecostis - polen- te e crostis.' 'E ere sagre, marcjat, cavala risse cui ciavai, e' vendevin pastutis, come gjatus, gjalinu- tis, colombinis ... lo j vevi picjat 'ne rie te mé ciamare (3).

Tal doman Pentecostis, si leve a Sant Antoni.

Tal més di mai, a Rosari, j leavin li còtulis des feminis e i molavin i scussons: al vignive dut un nembo tor li cjandelis (28).

GIUGNO

l'' - E' cjàmin li mons (malghe).

2 - E' mènin in procession San Baltram, te so borgade: e' metevin ancje vistis sul barcon, par ciapa la benedission.

l'' Domenica - A Sant Antoni di mont: e àn fat la glesie i remis, e ur puartavin di mangja i remis di Sante Gnés; e' vignivin-ca sul mus e e' passavin su la Venzonàssie parsore di un tronc (36).

Avot a San Simion. San Simion al à dit al ignor: - Cimut fa une glesie tant in sù.' Nissun vignara a cjatami.' - Il Signor j à dit: - Cui che noi vignara di vif al vignara di muart.'

Corpus Domini - Tre dis e' scampanotavin:

procession cui màis, frascjs verdis che si leve a cjoli tal bosco E' infrascjavin dutis li contradis. l cjole- vin sù frascjs pes bèstiis, par binidission. Qual- chi an e' metevin li scjàibis sui confessionai e, in- tant di messe, i ucei e' cibiscavin, e' cibiscavin ...

(3).

13 - l levin a Sant Antoni di Glemone, a cjoli il pan benedii.

15 - Prea San Vit par ch' al cjati un bon ma- rito

23 - Quant ch'e al tone la vìlie di San Zuan, 'e ven la còcule cui paron.' proverbio gemello di questo: S'al tone il dì di San Zuan - li còculis 'e àn il bau, 'e van tal foran.' (vanno gettate). Il noce, come vedremo, è al centro di tutte le prati- che divinatorie che si fanno qui nella magica not- te di San Giovanni, che è una delle date più si- gnificanti dell'anno, perchè connessa con il solsti- zio d'estate. Appena suonata l'Avemaria, le ragaz- ze da marito (ché sono appunto le ragazze da ma- rito maggiormente interessate a queste pratiche di- vinatorie, perché il matrimonio è l'atto fondamen- tale della loro vita) si affrettano a cercare un bel noce, che non abbia ancora dato frutto; ne legano il tronco con un nastro. Se sono state precedute, devono cercarne un altro, perché ognuna deve avere il suo. Domattina, ai primi rintocchi del- l'Avemaria del mattino, devono trovarsi accanto al proprio noce, slegarlo ed andarsene: il primo uomo che incontreranno, darà indicazione del no- me del futuro marito e, talvolta, anche del me- stiere. Pare che anche i giovani ricorrano a volte a questo atto, legando però non un noce, ma un ceresar.

l ài scontrat por Tin Perinacjo e

i

ài cjolt un Tin (64).

A mì mi è risultat just: j ài cjatat 'ne fantate ch'e ve ve non Arduine (57).

Alcune informatrici precisano che tutta l'ope- razione dev'essere fatta in segretezza e no si à di cjacara ne lant ne tornant.

All'imbrunire si compieva un atto collettivo molto importante, relitto di antichi rituali, reso misterioso dal sincretismo di varie, succedentesi culture (antico culto solare? rito di propiziazione agreste?). Intendo parlare dei fuochi di San Gio- vanni, più diffusi in area slava, mentre nel Friuli di pianura i fuochi sono comuni nel tempo del sol- stizio d'inverno (Epifania). I giovani un tempo, poi soprattutto i ragazzi ammucchiavano legna, sterpaglie, e soprattutto li ghersis dai cavalirs e fa- cevano la mede. Quasi ogni borgata aveva la sua.

Il fuoco talvolta era accompagnato da spari, ma

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I fuochi di S. Giovanni -1971.

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non si traevano pronostici dalla direzione del fumo, come nei fuochi epifanici. Confrontandoli con i fu chi ucce ivi di an Pietro, qualcuno mi ha de- finito que ti fucs pizui o addirittura li pojatis di San Zuan (47), perché pare che dessero più fumo

eh

fiL mma. E' un particolare che potrebbe avere imp rtanza e che, per ora, mi rimane oscuro.

Le ra azze, prima di coricarsi, affidavano alla magica n tte molti altri esperimenti divinatori:

ComUni 1m quello del bianco d'uovo in un bic- chier d'acqua, e p to poi alla «rugiada di San Giovanni ». Il blanc dal af si prendeve ta l'aghe e si leve di Mie la Simone a fasi in divina (3). 'E vignive ['arcje di Noè (57). Al vignive fur o ba- stiment, o arcje, o cjscjel, o casse (61). Opur si meteve il blanc tun plèt di salate: al eresse ve, al florive (4). i met il blanc te rasade, tun plet, al ven come un schis dal pals là che si à di la (36).

Qualcuno sapeva «leggere» i fondi di caffè, op- pure le figure che si formavano sul muro, buttan- d ci dell'acqua.

Altro esperimento diffuso è quello dei tre fa- gioli: i met tre fasui sot dal cuscin: un visttt, un crot e un spelat nome miez. Si va a mètiju cja- minant devandaur; di gnot si svèisi, si met la man sot il cuscin e si 'u bute parcjere. Abinore si viot chel ch' al è plui vissin: se chel inttr, si cjol un omp sior; se chel spelat, poar; se chel a miez, un omp cussì e cussì ... (57).

Si met un spieli sot il Ct/scin, par viodi ce sum che si fas: al indivine robis de vite (57).

Si semene siale tun vas; si lu met tun cjan- tonI sot il jet, cence mai la a cjala; dopo un poc si va a viodi: se la siale 'e je drete, al è an prò- sparI se je afanade, secje, disgràciis (57).

T e gnot di San Zuan o abinore al ere custum di la cui pzs ta rasade, pas malatìis; li fantatis an- cje par che un doman no vegni la crafe ai lor frus (57). Oppure con la rugiada lavavano il volt0 per divenire più belle.

E' lavin zovins e zovinis cui Pls ta rasade; une volte e' lavin a pònisi nus ta rasade, ma no sai parcè (47).

24 - Questi riti continuavano anche il gior- no di San Giovanni: Se il piètin al cor slis, quant che si petènisi, bon; se al cjate grops, al è pericul di malatìis contagjosis (57).

Si bute une papuzze devondaur, di insomp de scjale; si conte tros scjalins che à fàs e si viot fra tros agn che si marìdisi; ma noI è ben falu, parce- che se j tàe la strade un di famèe, al mur (57).

O ben si cjol une vere di sposade; si met un po' di vueli su l'aghe, tune tazze; si lèe la vere cun tun cjaveli dal propri cjaf; si le fas baIa ator ator de tazze: s'e baIe, cence tocja la tazze, "·al è bon segno, se no, ché persone 'e à qualchi tristvoli intorsi e al sarès indicat ch' e portàs intorsi un

«curut» ch'al è trigono a sesso religioso (57). Ve- ramente è comune fare indivinàcui cu la vere, ma solitamente si limitano a dedurre: tante battute nel vetro, tanti anni prima di sposare.

Mé cugnade 'e fase ve disfa il plomp tal palèt e po 'e butave ta l'aghe e dopo 'e lave a fasi indi- vina di mé agne (31).

Si met un blanc d'uf in mieze tazze di aghe, parsore une cjartine di spagnolet; abinore si bute parsore une gote di vini al ven un disen e si sa se la fantate 'e je vergjne o (57).

Si brusave zanèur, si faseve un cerdi ator: ché che j lave il fum tor di jé, 'e restave gruesse prin di sposasi, o ché che

i

leve il luc, il prin frut

i

murive (parceche il fuc al rapresente come la muart, il gjaul (57).

Se queste testimonianze sono un po' eccezio- nali, molto generale è invece il ritenere che la ru- giada di San Giovanni abbia poteri taumaturgico- profilattici, per cui tutti raccolgono erbe medici- nali, per conservarle, doppiamente preziose, all'oc- correnza. Si riguei la fIor di tei, camumile, mente, gjeraniolimon, malvis, lidrts di savors, pomule di savut, savugar ...

Comunque San Giovanni non chiude, anzi apre un momento dell'anno che ha una sua sacralità e che dura fino ai Santi Pietro e Paolo.

Pal event di cin dis noI è di taja ni pomars ni vts, si-di-no si dìsfin i matrimonis (57).

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26 - Sant'Ane 'e ere cussì brave che il Signor j à domandat ce che voleve di ricompense. Alore je j à dit che quant ch' e je Sant' An e, ch' e j deti ch' e vegni la ploe, che in chel periodo al è cetant sec. Il Signor j à dit:

- Ane, o pocje o tante, 'e ven!

Alore je à dade, no; 'e ven o une setemane prin o une dopo e no j disìn: la dote di Sant'Ane!

(31 ).

27 - San Pantaleon: a meti i ras al ven un codonI

29 - l'albe di San Pauli 'e romp dutis li albis.

Di dutis li albis no mi curi - baste che San Pauli no si oscuri! Se l'albe di San Pauli 'e je scure - ai marinars j fas paure.'

Questa è la sera dei fuochi grandi, anzi una vera gara di fuochi e, come in molti paesi della Carnia, in questa notte, talvolta si gettavano an- che le rotelle infuocate: fògulis, dopo averle fatte scorrere, per meglio dare la rincorsa, su delle assi.

La va, la va la fògule! (Staz. Carnia - 63). Lancia- vano pure dei bastoni di mezzo metro, con un lac- cio di ferro, con cui farlo prima vorticare, sia per accrescerne l'incandescenza, sia per la riuscita del lancio: pirletis o piruletis (S. Giacomo - 47), oggi sostituite dai ràzzos di fabbricazione industriale.

Ho detto che i fuochi di San Pietro inducevano alla gara, a chi lo facesse più grande, ben visibile da lontano: si ammuèchiavano tutte le ghersis usate pei bachi dalle famiglie del borgo; la mede veniva ben alta intorno al medZli, in cima al quale si legava un pup vestito da donna, per cui l'azione veniva detta: brusa la strie, o brusa i malauguris, brusa la mari di San Pieri, che ere bausàrie, e per- sino brusa San Pieri. A San Giacomo lo innalza- vano sul clapon di Sant'Ane e un po' più a valle o per gelosia, o per scherzo, si accendeva la fente, un piccolo fuoco che doveva trarre in inganno gli altri. Mentre il fuoco ardeva, magari alimentato da polvere da sparo o da gomma, via via l'euforia cre- sceva e si gridava: Viva San Pieri, plui biel il gne- stri che no il vuestri' Viva San Pieri!

Quando il fuoco era spento e non restavano che braci, i giovani si cimentavano in una gara di abilità e di coraggio, saltando sopra. Del granotur- co si diceva: A San Zuan a panse di cjan - a San Pieri a panse di pujeri (28).

lUGLIO

1" Domenica - Processione del Beato Bertran- do: te so borgade; e' metevin ancje vistts sul bar- con, par ch' e cjapassin la benedission.

12 - A Sant Ermàcule il sorc al penàcule (28).

Sant Ermàcule periculose: une setemane prin, une dopo; se si va tes mons, si va d'itori!

Sante Ramàrcure benedete - vuardàinus di fuc e di saete! (61).

(Notiamo le varie deformazioni del nome, che, del resto, a Buia dove è particolarmente festeggia- to, suona: Santramàcul).

25 - A San Jàcun il sorc al va in penàcul.

AGOSTO

lO - A San Lorinz la blave sot i dinc'.

San Lorinz de gran cjaldure, San Vissens de gran fredure, l'une e l'altre poc 'e dure (28).

A San Lorinz il lat al va cul buinz. Significan- do che il la tte oramai è in calo: al va inviat, al va a selis ... (28).

15 - Si lave abinore a T arnep, a Madone As- sunte, Madone de Cintùrie; si cjoleve la cintùrie cuintri li strìis, cuintri il vèncul (gno pari al ber- lave di gnot .. .); colchidune 'e fasevin l'avot di ca- stitat, come 'Sete la Tonone o Nene, agne di Ur- sule la Manàrie (4).

A' vignivin a cjase i stagjonai, chei ch' e fase- vin mieze stagjon.

24 - A San Bortolomio il lat al va cun Dio (come la sisile) (28).

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SETIEMBRE

1 a D menica - Si lave-sù cui c7ars, in San imionÌl1, ch'al è a mieze strade dal San Simion:

bist/gnave Iii almanco une volte e puarta su une crosl/te, di len, magati di stecs. fo l'ài puartade di flors (53).

3 - Li Vìrgjnis (Eufemie, Dorotèe, Erasme, Tegle): 'sornade periculose come ché di Sant Er- màcl/re.

ra giorno di accadimenti trani e di «visioni». - A Madone di Setembar e' scjamàvin: do- po, qualchidutl al res/ave in gjermarie.

29 - an Michél al pese il vér! (28).

Al pese i pecjas, ma ancie il lat, par dividi il formadi fat in gjermarie, tai stalis.

OTIOBRE

l" Domenica - Pardon dal Rosari: tal Rosari si diseve la preiere « A voi Beato Gjuseppe ... » (3).

2" Domenica - Procession de Madone.

28 - San Simon al iude - la robe 'e ven ma- dure - madure o no madure, la metìn sot seradurel ( i ripongono i prodotti della terra e si mettono in conserva la brovade e la brente) (28).

San Simon e Sant Antoni si butavin il stran- gulin di une mont a ché atre (28).

NOVEMBRE

1 - 'E ie la gnot dai muars: bisugne lumina la sepolture, ma ancje lassa un lumìn sul balcon o devant li fotografìis dai muars.

Si lasse di mangiii su la taule pai muars di ciase.

Si lasse i cialdirs plens, si-di-nò e' vègnin a sdrondena: une no veve aghe tai seglos, e 'e à ·sin-- tul a bali ...

Si lasse

fZl,

un rochel, gusele e vigneruli: e' cùsin i muars, parceche e' vègnin cà ros, slambras, che lavìe e' lavòrin come ca e' puàrtin fassinis (!).

Une li à vidudis incodadis (cuI còlul tirat-sù) e cu li fassinis sul ciaf (12).

Si dis il Rosari in ciase.

Prin 'a ie la prisission dai vis e po' ché dai muars: no bisugne la ator in ché gnot!

2 - Si dis il Rosari dai quindis misteris, tal miez dal Simiteri.

Nus ciolevin i zùcui e a Sant Osef i erin ben scalzi (32).

I l - A San Martin al à finI! di boli il vino San Martin mi lente - ch'i fasi la polente -ch'i fasi la fritàe - eviva la canae.

A San Martin il prin vino A San Martin al è bon il vino

T re dis d'istat par fa il fen al ciaval di San Martin.

San Martin dai fis l (Erano quasi tutti dipen- denti, affittuari delle grosse famiglie, quindi era una scadenza dura).

30 - Sant Andrèe il frh si scrèe

A Sant Andrèe il purcit su la brèe: duc' i ' sans lu comèncin e Sant Andrèe lu finìs (28).

Sagre de glesie (patrono del duomo). Marciat di sèmplis, manàriis ...

DICEMBRE

6 - San Nicolò, fieste a Glemone.

8 - T al dì de I macolade bisugne vé rispiet:

un cul màuser al à tirat ta l'aghe (un di chei di frodo) e i è rivat tal stomil (57).

13 - Sante Lùssie il frh al gùssie. - Sante Lùssie 'e ie so re de viste.

Era una bella festa popolare e gran mercato.

Anticamente persino quelli che erano stati banditi avevano permesso di ritorno per quel giorno. La

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sera prima i bambini mettevano la scarpe sul bar- con ed al mattino la trovavano piena di fics di baril, barbag;g;, caròbulis... Taluno ripeteva anche a Natale, ma era meno generale.

24 - Si steve-sù; si fase ve fuc par sc;alda il

«bambin »; si meteve a Cttei une cite di ras (ufiei);

dopo matutins e messe, si leve a mangia li tripis ta l'ostarie (28).

T e gnot di Nadal un frét mortalI

I n ché gnot si pie une c;andele e si cjale la flame: daur l'à;ar ch' al tire, al gire cussì dut 'l an (28).

Siamo ad un'altra soglia fondamentale dell'an-

[nfarmatrici a Sattamante.

no: il solstizio d'inverno, con conseguenti tenta- tivi di pronosticare l'annata a venire.

25 - T e gnot di Nadal ; c;alavin ce mosfere ch'e coreve (28).

A Nadal un frét mortai! Ma ai bimbi si dice- va, per consolarli di dover andare in giro mezzi scalzi e malcoperti: Fin a Nadal il frét noi fas mal e di Nadal in là il frét al val (28, 32).

26 - Oltre all'attenzione prestata a li albis, si faceva questa pratica:

J

metevin dodis cigòlis tal sal e ; segnavin: chest al è zenar, eh est al è fevrar ... Ché ch'e deventave morbide, ploe in chd més; s'a resta ve sute, més sec (28).

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CICLO DELL

J

UOMO

FIDANZAMENTO E MATRIMONIO

Il matrimonio, specialmente per la donna, era l'atto più importante della vita, era il gambia stat, era il distin; perciò si comprendono le pratiche a scopo divinatorio, gli atti magici o pseudomagici, per cono cere lo poso che deve venire, per pro- curarsi l'amore, per difenderlo dal malocchio e da altre minacce. Nella compagine sociale di Venzone, questi due momenti della vita non hanno tuttavia particolare coloritura sotto il profilo folclorico, an- che per l'estrema modestia economica che si aveva, a livello medio, nel popolo.

Si conosce il fidanzato per motivi del tutto ca- suali e specialmente nelle occasioni offerte dalla vita associata: lavoro, cerimonie religiose. Una in- formatrice testimonia che si incontravano al pa- scolo, essendo in prevalenza i ragazzi adibiti al pascolo delle capre. Ho rilevato anche (ma è ec- cezionale) la testimonianza relativa all'uso del cep- po: E' poavin il zoc cuI non parsore: se si tira ve dentri, si aceta ve, se no al restave in blanc. E' me- tevin rosis il prin di mai, par domanda.

Un fantat ch'j ul ben a une fantate, s'al rive a di un'Avemarie c.falanle, cence bati i voi, si fas ama e cussì une fantate, s'e dis un Patamostri (57). Il moros in file al judave a CUS1 suelis di stafès, parceche si puartave tane' stafès di coredo. Al mo- ros si regala ve il fassolet di sachetin.

No bimgne la in cjase dal moros prime.

I giorni canonici di visita erano quelli comuni a tutto il Friuli. La pubblica censura era attentis- sima: Par vecjo, se une 'e restave gravide cence sposasi, la leavin te colone dal Munissipi e due' chei ch' e passavin, j spudavin parmìs' (57).

Se doi si lassavin, j fasevin la strissinete cu li

jerbis. E' fasevin la purcite cu la cinise, cu la sè- mule, cu la cjalzine, de puarte di un a che di che atre. La purcite cu la cjarbonine, fin là de fonta- ne: la menavin «a bevi ».

L'abbandonato (lui o lei) perdeva di quotazio- ne sociale: Achei ch'j à dat la farine, ch'j deti ancje la sèmule. Chel ch' al à mangjat l'argjel, ch' al caghi li frizzis. Ciò non mancava di creare baruffe tra le famiglie: Pense a marida to fie che à il cjaj come un zei-di-man. E' fasevin la sciernete par minciona.

Se tutto procedeva bene, giunti in prossimità del matrimonio, si lave a cognossi' Questa presen- tazione ufficiale, della sposa in casa dello sposo, era di prammatica, anche se la ragazza era già ben conosciuta. E di prammatica erano anche le frasi di accettazione, da parte dei futuri suoceri: Si ses contens vuatris' Si ves ben, s'al gjoldis, si ves mal, s'al gemis. Alla futura suocera di solito si portava in dono un grembiule ed alle cognate fazzoletti da testa. Poi bisognava andare dal prete, che separa- tamente interrogava i fidanzati su la dutrine, quin- di dava pubblico annuncio in chiesa, concludendo con la formula di rito: S'al fos qualchidun, ch'al cognos qualchi impidiment, che si fasi indevant.

Questo era detto fasi di in glesie.

Il corredo era modesto, spesso guadagnato dal- la sposa con il lavoro in filanda, con la raccolta di flambo (frambua) sulle montagne. Te robe si me- te ve la cetràngule (cere triàngule), uZif, garòfui dal han, li fueutis, tun sacut.

L'amie 'e va a cjoli la cere triàngule, par meti intarsi in chel dì che si marìdisi, ma no à di cja- cara, se no al puarte sfurtune. Come che no je fur- tune

fa

il jet bessole: e' àn di vigni li surs o li amts (53).

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La dote si puartave di gnot par che no strìin;

la puartavin li surs, li amìis, tal bajul, tal zei; cu la barele e' puartavin armar, casso n, gorlete (36).

I matrimoni avvenivano quasi sempre a Car- nevale, comunque non in maggio, quant che j ven la sfrèe ai mus (28).

Al mattino delle nozze, colazione in casa della sposa, poi, d'obbligo, il viaz che evitava la spesa di un pasto in più agli invitati. Meta di questo

« viaggio» erano o Gemona o Udine. Lo sposo doveva portare tutto il giorno in tasca li fuarfis per «tagliare» il malocchio: gliele mettevano in tasca paren ti od amici (28).

Spesso gli sposi facevano in quel giorno la fo- tografia: la sposa si metteva una rosa nei capelli.

A sera la cena in casa dello sposo: gli amici leg- gevano «li lètaris» in friulano, augurali e scher- zose insieme, come una che inizia così: «Sior Pie- ri vistit di vieri, al à cjolete la Merlane, cun tant di brame ».

Se una ragazza sposava uno « di fuori» (fatto segno a dispies prima), anche qui era comunissi- mo l'uso della cuarde, furnide di ìrule, tesa all'u- scita della chiesa o sul ponte. La preparavano i giovani locali che porgevano le forbici allo sposo, offrivano da bere ad entrambi, ma lo sposo dove- va porgere la bustarella... Era una consuetudine accettata. Spesso si facevano scherzose pantomime:

Toni Nicjo al ere famos; si mete ve cuI frac e la bombute (21).

Se si sposava un vedovo (o un anziano) la cen- sura colpiva il binube sbeffeggiandolo per tre sere con la batinade o martinade, o matinade, fatta con campanacci, bandoni, o qualunque oggetto che permettesse di rumoreggiare. Sappiamo che molte ordinanze la proibivano, ma erano meno efficaci delle famose «gride».

Iniziava così un nuovo nucleo famigliare, che solitamente non si staccava dal vecchio ceppo pa- terno. Le cose poi procedevano come potevano:

Ogni maridàz il so lengaz' (28).

L'eventuale vedovo passa la fede nella mano destra.

NASCITA

Dopo il matrimonio importantissima è la nasci- ta dei figli: in media non se ne avevano meno di cinque. Talvolta la sposa era già in attesa. In questi casi si racconta ridendo il conto così fatto da una sposa ... furba: Mai, codai, dut il més di mai, jugn, cudugn, dut il més di jugn, lui, cudùi, dut il més di luil Il conto, così fatto, torna.

A chi stentava a rimanere incinta, si racco- mandava di meti un cuscin sot la schene: chè 'e veve di sta cui c;af in jù.

Chi invece, avendo troppi figli, voleva evitare nuove gravidanze (benchè li baronadis fossero se- veramente giudicate dalla Chiesa) prendeva une semenzute, come semenze di lin, risibisi (57). Per ridere si racconta che una andò dal prete per non avere figli e questi così disse: «Cinc francs mi vés dat, cinc francs mi darés, stàit pur certe, che frus no varés' »

Comune vigeva il detto: « Un come nissun - doi come un -tre si comence a impara -quatri si scuen scombati ».

La donna incinta entrava in un periodo in cui molte cose doveva fare (soprattutto pregare San- t'Anna), ma ancor più cose doveva evitare, duran- te le nove lune (non nove mesi): Non doveva ac- cavallare le gambe, nè fare salti; no meti fil ator dal cuel, se no il frut si scjafòe; no lO. a buta l'aghe ai muars; no salta murs ne cisis; no cjala brutis robis: e' son stas ct1S che i frus son vignus defor- mas, par vé vedut li mùmiis; no lO. ator dopo l'Ave- marie; no tocja nue di cheatris, se no il frut al devente lari; no salta ch' e vègnin cordons; no sen- tasi su la piere se no al crès masse il cjdf dal frut;

no denea; no jasi di marivèe; no zura se no al de- vente bausar; tibia la robe par no salta; non por- tare catenine al collo; non sentire discorsi tristi;

no sossola une bestie; no tira la gole; no lassasi tocja; no fevela di strìis, ma piuttosto guardare belle immagini, nutrirsi di latte, lavorare per non nutrire troppo la creatura. Per la buona concezio- ne erano utili anche altri riguardi: Quant ch'j vevi

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Ane Fanfule con i figli.

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il més, no mi tocjave l'omp, se no i frus e' vègnin cu la crafe. Pore mé mari nus insegnave ches ro- bis alì (67).

E' evidente che la gestante era considerata par- ticolarmente indifesa contro le forze del negativo, provenisse da fuori o da dentro la cerchia fami- gliare (particolarmente pericoloso l'odio della suo- cera). La difesa migliore era la segretezza, per cui non bisognava mai confidarsi sulla effettiva epoca della nascita nè sul nome che si voleva imporre al nascituro: era come consegnarlo nella potestà del negativo. A chi insiste per sapere « quando nasce- rà », si risponde: Quant che Dio ul, come il pi- rùc' quant ch' al è madurl

La madre era ansiosa di conoscere il sesso del nascituro; si riteneva che per il maschio valessero questi segni: muse cence pane, panse rotonde sui òmbui, biele sere. Invece per la femmina: pane su le muse, brusor te nature, e panse a ponte. Si poteva inoltre tentare l'esperimento con una for- cella di pollo: e' tiravin fur chel vuessùt fat come un forcjàs, lu butavin paràjar: se si presente cul becùt, mascjo' (36).

Su questi pronostici c'è una certa discordanza, ma dove non c'è contraddizione è sul toc;a, dal momento che è generale il terrore di magla il neo- nato. E' perciò moralmente molto riprovevole ne- gare, non offrire alla gravida quello che vede, sa- pendo che va soggetta a voglie più acute del nor- male. Oltre a riportarne una «macchia », il neo- nato non mangerà più quel cibo finchè non glielo offra quella stessa che l'ha negato alla madre, op- pure finchè la colpevole non muoia. C'è tuttavia chi ha avuto il coraggio di dire: No ti doi nue: tò- cjlu là dal cuf.! Infatti le gravide stanno attente eventualmente a posare le mani in parti non de- turpabili.

Tenendo per fermo che il primarul al pò nassi quant ch' al ul, quando è giunto il gran momento (al spire il tim p) la puerpera si prepara: accende una candela a Sant'Anna, prende l'olio di ricino per stimolare il movimento viscerale e, al momen- to delle doglie, il caffè; altre hanno usato: chinìn,

purghe, un' aspirine e un uf te marsale par scjalda.

Le condizioni locali hanno fatto sì che avvenis- sero parti persino sui monti, sui luoghi di lavoro: e' àn parturit te mont, te strade,- dapit Agar, don- gje il clapon, 'e je nassude une ... Nelle frazioni di montagna, partorivano addirittura in piedi, puntel- landosi sulla lettiera, quasi a farne una leva che aiutasse nello sforzo: e' parturivin dapit la cocjete, partiere, su un cuscin; e' metevin 'ne cuvierte.

Spesso non era presente neppure la comari; c'era di prammatica la madre e qualche praticona del vicinato. La puerpera pregava: ch'al nassi cun duc' i membros de vite (36). Infa tti nascere malformati è doppia disgrazia, perchè oltre la menomazione c'è la prevenzione popolare: I segnati da Dio, cen- to passi indrio'

Brutto segno è nascere il 7 del mese; di luna vecchia nascono maschi, di luna nuova donne (ma nascevano sempre più donne, per cui si diceva per scherzo: Lune lune, fàj vigni i c ... a colchidune!) (28); ambigue profezie per i nati con la « camicia »;

sfortunati sono i parti dell'anno bisestile (An bi- sestìn, o la mame o il fantulìn (28)); il prin e il tierz e il sètim fi e' àn une donassiòn fur dal normal:

nissun rive a ;aur mal e a svindicasi (57). Ovvia- mente la mortalità infantile era altissima, per cui, quasi a conforto della madre, specie se primipara, si diceva che chei ch' e àn il prin frut in Paradis, ju vuàrdin! (28). E si racconta che addirittura una volta non partiva una nave se a bordo non c'era chi aveva questa protezione dal Cielo, che così as- sicurava felice viaggio a tutta la nave. (28)

La placenta doveva venire sepolta nell'orto o, comunque, nei pressi di casa, ma molte donne di- cono addirittura sotto le fondamenta di casa: 'E je c;ar benedide la gnestrel Se la placente 'e ven bu- tade fur di cjase, o ch' e mur la mari o il frut. Bi- sugne ch'e séi interade sot i cops di cjase. (57)

Dopo il parto, la puerpera era per la Chiesa considerata impura, oggetto facile al malocchio, al- le visioni, a tutte le forze del negativo, perciò do- veva stare ritirata in casa fino alla purificazione:

nel frattempo però 'e ere sot il manto de Madone.

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n he il marit naturalmente era ... in quarantena (di Iripis.' p r gli amici). Anche il bimbo fino al b d veva tare sot de aie dai cops. Se fos-

m rt nza batte imo, sarebbe andato nel Lim- b e al devenlave un gjaulin. Ai bimbi di casa si mc nrava h il ne nat al ere stat cjatat sot di 1/l1e verge o SOl di un sterp, o di un biel àrbul.

L'alim nrazi n d Ila puerpera era a base di 'suf, pal1ade ( i c mpr va il pane qua i 010 in occasio- ne di p rei), pan e lat, brut di polente. Così non

, da m ravigliar i c talvolta il frut noi cjape il pel la madr 'e viot, omenàs, musatis ... Pare mé mari 'e veve parlurtt e so madone j faseve la pa- nade slll logolar. 'E picjave il feral sul cjadenaz par- sore la panade e lì al gotave jù il vueli rangi te pal1ade. (3)

Il bimb era fa ciato trettamente così da as- mi liare a un bisàt; gli i puntava sulle fasce un

ClIrtii di t Ha con dentro tutte le benedizioni. S'al ere malpasient oben ch'al salùpe i voi, poteva si- gnificar che era caduto sotto l'azione di malocchio

di tr he. In tal caso bi ognava portare a be- n dire le ve tine dal prete o dai frati di Gemona.

el ca peggiore poteva capitare di trovare il bim- b p tat dalla sua tessa culla. Non bisognava p r ooni bu n conto lasciare i pangèi fur, dopo l'Avemarie, nè la ciare avvicinare il bimbo da per-

ne o pette nè permettere che lo toccassero o gli fa ce r troppi complimenti, nè tagliargli le un- ghie, prima dell'anno. S'j cjatavin i frutins cu la bave, bisugnave faj i « segnos ». Prime dal scongiu- rament di T rent no puartavin fur i frus prime dal batìsim.

Il batèzo era un atto molto importante: guai non pronunciare bene il «credo » da parte degli astanti: il bambino poteva diventare sonnambulo, balbuzien te, soggetto a «visioni». Si diceva: al è sbagliat sul batisim; j àn sbagliat il credo; mi àn saltat un «abronunsio» (41). Non si poteva bat- tezzare in ore notturne, se non alla mezzanotte del Natale. Cui ch'al scrèe il batisim, al à di paa l'agnel.

Secondo un informatore (61) a Pasqua si fa l'offerta del capretto ed alle Pentecoste quella del-

l'agnello, che veniva realmente recato in chiesa dut inflocat da chi avrebbe usato per primo l'acqua san- ta rinnovata nel battistero (poteva però anche so- stituire il dono con un'offerta in denaro). Quanto prima e solitamente ad otto giorni dal parto la puerpera andava a purificasi, accompagnata dalla comari o da altra donna, che le porgeva l'acqua benedetta perchè lei non era «degna» di toccare con la sua mano impura l'acquasantiera. Le pone- vano in mano una candela, il sacerdote veniva a ri- ceverla in fondo alla chiesa ed ella, tenendo una punta della sua stola con una mano, lo seguiva fino all' altare della Madonna dove il sacerdote diceva le formule purificanti. Allora soltanto la donna rientrava nella comunità e nella vita normale.

Via via il bimbo veniva svezzato, ponendogli in bocca il supignot, succhietto fatto con un faz- zoletto o un pezzetto di tela, con dentro pan smue- lat tal lal e sùcar; per lo svezzamento completo si ricorreva spesso al pepe sul capezzolo.

L'infanzia trascorreva un po' come ovunque:

giochi, favole, libertà, ma all' Avemarie a cjase la baronie. Quando cadevano i dentini, si nasconde- vano nei buchi dei muri, perchè dopo muars, a 'e fin dal montI si torne a cjòliju, ognidun i siei.

GIOVENTU'

I figli trattavano i genitori con il « voi », co- me del resto faceva la moglie con il marito; cre- scevano in assoluta ... sudditanza e avevano diritto di entrare in osteria quant ch' e comenzavin a vua- dagna.

Nell'età della coscrizione cominciavano a farla da protagonisti nelle feste e da sconcrìs avevano il loro anno di regno e la bandiera della « classe ».

Anche se non coloriti ed adorni di nastri e fiori come i coetanei di Bordano e degli altri paesi at- torno al lago di Alesso, facevano la loro mateade ed il ballo con le coetanee un po' mascherati, dan- zando con li dàlminis cui glacins, mangiando in agape fraterna polente, frico, salamp.

(22)

Cucina nell'ex Palazzo Orgnani.

Cucina in Palazzo Zinutti.

(23)
(24)

Ferro battuto da secchiaio e secchi in rame - Sec. XVIII-XIX -Palazzo Radiussi.

(25)

E noi che siamo gli abili noi siamo i prepotenti vogliamo le ragazze

dai quindici anni ai venti.'

GIOCHI - .. CONTE» - INDOVINELLI

VVlam nt i gi hetti p r i più plCC1ll1 non hann una m canica, ma no ba ati su formulet-

t rilmat. n un inc n apevole intendimento di- ali ba ate ul naturale incanto della paro- la: il bimb è appunto alla scoperta delle «paro- I », prim anc ra che delle « cose ».

ui palm della mano (Plazzute di San Martin) pie ina i gira in t ndo l'indice, recitando:

Plazzute an Martin ve'lu ve'iu che! pitinin.' Chei dongje al va a cjazze, chel atri lu mazze,

chei atri lu cope,

chest lu met tal pagje!in e chest al jas un biel pastin.' AnÌn anìn a nolis

ppure:

cumò ch' al duar il lo

I,

lu cjaparìn pe code lu menarìn tal cjot.

Ator ator il poz cun quatri ciandeloz cun quatri cjandeltrs

e la mùmie (o la muinie) in Paradis-'

E Catine sot li viso Ator ator il pradessut al coreve il jeurut:

un lu cjapà, un lu mazzà, e un tininin doman di matin.

Ancora solleticando il palmo, quindi prenden- do come una preda un dito alla volta, si conclude al mignolo: sono giochi ed anche piccole favole per i più piccini, che si divertono molto:

Ator ator il pradessìt eh) al coreve il jeuresìt:

chest lu cjapa, chest lu mangja) chest lu metè te cite, chest lu metè te pagjele) e eh est più più

e la gjate tal riù-'

Ancora giocando con le dita del bimbo:

Pìzzul pìzzul manovel chel culì puarte l) anel) chel culì puarte la man, chel culì al puarte il pan,

chel Cttlì al cape puls e pedoi.' (39) Dedon dedon lasìn di cene

noI è cun ce anìn a roba si las pecjat

anìn anìn a durmi cence cene.' (26) Pico pichelo

ancora più belo più grando de tuti sfregòla i ocj

e questo la: cric cric) massapedocj.' (32) Picinin picinelo

del anelo dela man rufian.' (65) Oppure:

Busi busi bae il 101 su la pae pàe paùte tec une pacute.

Cjale ce biel boton pare jù chel macaron.

Facendo saltare il bimbo sulle ginocchia, come se cavalcasse:

515

(26)

Clò-clò ciò-ciò cavalo la mama vie n dal baio con tanti confettini per darli ai suoi bambini.

I bimbi no li vuole papà li mette via:

eviva l'alegria! (48) Variante:

l'alegria l'è capucina:

bona notte ala pipina!

T otò totò cavalo la mama vien dal baio co le teline piene per darle alla sua deda.

La sua deda no le vale, el papà le tale,

el papà le dà la pappa, e la mamma la sculassa, il papà le dà il papin

a quel bricon di Gjovanin. (32)

Prendendo il bimbo sotto le ascelle e facendo- lo dondolare:

Din don campanon tre pulzetis sul balcon:

une 'a file une 'a daspe une 'a fas

pupùs di Pasche. (68)

Tirando con dolcezza, alternativamente le orec- chiette:

Orete mugine sclope farine:

se no tu dis bèe

no ti moli in vite mé' (3)

Mettendo i pugni chiusi uno sopra l'altro, al- ternando i nostri a quelli del bimbo e via via to- gliendo quello sotto e mettendolo sopra, a gara, in modo da rendere il gioco ridicolo e rabbioso insieme, con la sfida di non parlare nè ridere:

Pugnùt pugnùt sele cui che prin rit cui che prin fevele une tirade di orete!

Via via, in età crescente, questi giochetti: due bimbe procedono affiancate, saltando e tenendo le braccia incrociate (la destra dell'una con la sinistra dell' altra):

Otto otto cavalotto tire di ca, volte di làl (53)

A questo punto, sempre tenendosi per mano, con un saltino fanno dietrofront e riprendono il verso dall'altra parte.

Nei giochi mimati:

Ce ore ése?

'E je une' 'E je ore di pia il fuc!

(ges to di accendere il fuoco) Ce ore ése?

E' san dosl Ore di meti-sù un len! (c.s.) Ce ore ése?

E' san tre' Ore di meti-sù la cjaldèrie! (c.s.) Ce ore ése?

E' san quatri! Ore di meti un pizzut di sal!

(c.s. ) Ce ore ése?

E' san cinc! Ore di messeda la polente!

(c.s. ) Ce ore ése?

E' san sis' Ore di buta-jù la polente!

A questo punto il gioco si conclude, perchè tut- te si lasciano cadere giù con una risata.

Ancora un gioco mimato: bambini e bambine a cerchio. la sorteggiata, in mezzo, deve eseguire i gesti comandati:

Baia baia Rosa, pia un salto, pia un altro, fai la riverensa, fai la penitensa, sera i ochi

e busce cui che tochi! (53)

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