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La Marina imperiale giapponese dalla seconda meta del XIX secolo alla vigilia del Secondo Conflitto Mondiale

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UNIVERSITÀ DI PISA

ACCADEMIA NAVALE

Corso di Laurea Magistrale in Scienze Marittime e Navali

TESI DI LAUREA

IN STORIA CONTEMPORANEA E NAVALE

LA MARINA IMPERIALE GIAPPONESE

DALLA SECONDA METÀ DEL XIX SECOLO

ALLA VIGILIA DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE

LAUREANDO: G.M. Attilio Pollone

RELATORE: Prof. Agg. Marco Gemignani

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INDICE

INTRODUZIONE………...p. 3

CAPITOLO I: Nascita e sviluppo della difesa nazionale giapponese…p. 14

1.1 Inizio ed evoluzione della dottrina militare nipponica………...p. 14 1.2 La dottrina navale e l’influenza di Alfred Thayer Mahan………...p. 19 1.3 I piani di difesa degli anni 1880-1890………...p. 23 1.4 Tsushima e la sua idealizzazione: la kantai kessen………...p. 27 1.5 Il primo dopoguerra e il Piano di difesa del 1923………...……...p. 33

CAPITOLO II: La Marina dalle origini a Pearl Harbor...p. 40

2.1 La costituzione della Marina imperiale e la subordinazione all’Esercito...p. 40 2.2 I successi contro la Cina e la Russia...p. 50 2.3 Da Tsushima alla Conferenza di Washington: la politica dell’“otto e otto” ...p. 61 2.4 Da Washington a Londra: sorgere e tramonto dell’era dei trattati ...p. 70 2.5 La Marina imperiale verso Pearl Harbor...p. 82

CAPITOLO III: La Marina imperiale allo scoppio della Guerra nel

Pacifico...p. 90

3.1 La flotta prende il volo: le portaerei...p. 90 3.2 La potenza di fuoco: le forze da battaglia...p. 99 3.3 La spina dorsale della flotta: gli incrociatori...p. 113 3.4 Prontezza e velocità: i cacciatorpediniere...p. 119 3.5 Le potenzialità incomprese: i sommergibili...p. 128

CONCLUSIONI...p. 138

APPENDICE...p. 156

BIBLIOGRAFIA...p. 170

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INTRODUZIONE

L’8 luglio del 1853 la storia del Giappone cambiò drasticamente. Il contrammiraglio Matthew Perry, giunto nella baia di Edo (l’odierna Tōkyō) con le sue celebri Navi Nere1, aveva ricevuto l’ordine del presidente degli Stati Uniti Millard Fillmore di portare ai rappresentanti dello shōgunato Tokugawa ben tre richieste ufficiali:

- un trattamento umano per i naufraghi;

- la disponibilità dei porti giapponesi al rifornimento; - l’apertura del Paese al commercio con l’Occidente.

La lettera che venne consegnata all’imperatore Komei altro non era se non un ultimatum: aprire il Paese o assistere al cannoneggiamento della città.

Non era di certo la prima volta che Potenze occidentali cercavano di allacciare rapporti con il Giappone: la Russia, la Gran Bretagna e gli stessi Stati Uniti avevano già cercato accordi, soprattutto per garantire alle proprie navi mercantili scali sicuri per i rifornimenti, ma nessuna di loro era riuscita ad ottenerne.

Alla partenza delle navi di Perry, nel Paese si accesero grandi discussioni tra i nazionalisti, che si riunivano sotto il motto “Sonno jōi” (riverite l’imperatore, cacciate i barbari), e i moderati, che invece si identificavano nel motto “Tōyō no dōtoku, seiyō no gakusei” (etica orientale, scienza occidentale)2. Nonostante la diatriba, lo shōgunato incontrò ben poca resistenza e al ritorno delle navi americane nel febbraio 1854, diede il consenso all’accordo, formalizzato poi con il Trattato di Kanagawa. Il Trattato accoglieva tutte le richieste americane e permetteva altresì l’insediamento di un funzionario consolare in territorio nipponico.

Terminavano in questo modo più di due secoli di isolamento forzato, in cui lo shōgunato aveva limitato i contati giapponesi con il mondo esterno imponendo un rigido controllo sugli scambi internazionali e una politica di autarchia programmata che sarebbe passata alla storia con il nome di sakoku jidai (鎖国時代, periodo del paese chiuso)3.

Tutto ebbe inizio nel 1603 quando Tokugawa Ieyasu, sconfitte le forze di Ishida Mitsunari, assunse il titolo di Shōgun (将軍, generale) e si insediò a Edo, dove accentrò nelle sue mani

1 Si tratta di quattro fregate a vapore, rispettivamente Mississippi, Plymouth, Saratoga e Susquehanna. 2 K.G.HENSHALL, Storia del Giappone, Milano, Mondadori, 2005, p. 100.

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il potere a discapito dell’imperatore, la cui sede era storicamente Kyōtō. A Edo, Ieyasu istituì il bakufu (瀑布, governo della tenda), un regime militare che permise al clan dei Tokugawa di governare per più di due secoli su un paese di stampo perfettamente feudale, in cui vigeva una rigida e netta divisione di classe. Nel 1621 venne istituito ufficialmente il sakoku, allo scopo di isolare il Giappone dalle influenze straniere, soprattutto da quelle europee.

L’avversione nei confronti del Vecchio continente fu principalmente dettata da due motivi. Il commercio con gli europei portava in Giappone ricchezza e nuove tecnologie, ma la vera paura dello shōgunato era la religione cattolica, e non tanto in termini religiosi quanto in chiave politica. Lo shōgun era ben consapevole che la Chiesa di Roma non rappresentava un’entità meramente spirituale ed allo stesso tempo non potevano passare inosservate la colonizzazione e l’evangelizzazione europee del Nuovo Mondo4. In tutti i casi la religione cattolica rappresentava un problema, ed anche se i missionari cattolici erano stati cacciati dal paese nel 1614, lo shōgunato avviò una vera e propria campagna di repressione della fede cristiana, che culminò nel 1638 con il massacro di circa trentacinquemila cattolici a Nagasaki. Dal 1640 tutti i giapponesi vennero obbligati a registrarsi presso i templi buddhisti.

Ai mercanti europei, malgrado la cacciata dei missionari del 1614, era stato comunque concesso di operare e perfino di risiedervi. Gradualmente però lo shogunato si rese conto che gli svantaggi del commercio con gli europei superavano i vantaggi. Oltre alla preoccupazione per la sicurezza nazionale, i Tokugawa si sentirono minacciati dall’arricchimento di alcuni daimyō (大名, i grandi proprietari terrieri) particolarmente attivi nei commerci con gli occidentali. Lo shōgunato era deciso ad impedire che fra i mercanti giapponesi fiorisse una competizione eccessiva, considerata pericolosa sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista politico-sociale.

Nel 1639 tutti gli occidentali erano stati espulsi o erano emigrati spontaneamente. L’unica eccezione era fatta per gli olandesi, unici europei autorizzati formalmente a commerciare in Giappone. Lo Shōgun, inoltre, impedì ai giapponesi di espatriare e di rientrare dall’estero ed impedì la costruzione di navi per le navigazioni oceaniche. Per i successivi duecento anni il Giappone rimase chiuso, fermo al XVII secolo, finché il divario (sociale ed economico) portato dalle rivoluzioni industriali non si fece incolmabile.

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Il trattato di Kanagawa del 1854 fu solo il primo di una numerosa serie di accordi, definiti dai giapponesi “trattati ineguali”, ottenuti dalla Gran Bretagna (1854), dalla Russia (1855) e poi da Francia e Olanda con la cosiddetta “diplomazia delle cannoniere”5. I trattati, stipulati in modo che ogni concessione aggiuntiva fosse estesa anche alle altre nazioni, risultarono oltremodo umilianti per il Giappone. I risultati furono l’apertura dei porti giapponesi alle navi europee e americane e la garanzia dell’extraterritorialità sul suolo giapponese. Quest’ultima concessione, che poneva il Giappone come stato “incivile”, fu particolarmente amara per l’orgoglio della nazione e motivo di grande risentimento nei confronti dei “diavoli stranieri”6.

L’incapacità dello shōgunato nel gestire la minaccia occidentale gli fu fatale. L’opposizione, formata soprattutto dai signori feudali del nord del Paese, crebbe e sfociò in un vero e proprio conflitto tra le forze governative ed i ribelli, in cui i primi ebbero la meglio (anche se dovettero vincere accanite resistenze). Venne nominato un nuovo shōgun ma i ribelli della coalizione riuscirono ad ottenere un rescritto imperiale che aboliva lo shōgunato e il 3 gennaio 1868 occuparono il palazzo dichiararando la “restaurazione dell’autorità imperiale” e, il giorno successivo, lo scioglimento del bakufu.

L’imperatore che trovò il suo potere restaurato, Mutsuhito7, pose fine all’era dei Tokugawa inaugurando di fatto il cosiddetto periodo Meiji (明治, governo illuminato)8.

La prima grande sfida di Mutsuhito fu quella di consolidare il nuovo regime: dopo quasi sette secoli di potere shōgunale il popolo doveva sapere che era la stabilità, e non l’impero, ad essere stata restaurata.

Dopo appena tre mesi dall’insediamento il nuovo imperatore e i suoi consiglieri emanarono il “Giuramento dei cinque articoli”, in cui si prevedeva:

- discussione pubblica di “tutte le questioni”;

- partecipazione di tutte le classi nell’amministrazione; - libertà di svolgimento della professione preferita; - abbandono delle “cattive abitudini del passato”;

- ricerca del sapere in tutto il mondo, per rafforzare il Paese.

5 Con il termine “diplomazia delle cannoniere” si intende un’attività di politica estera che implichi

dimostrazioni di potenza militare, implicando o sottintendendo una minaccia di guerra nel caso in cui non si trovasse un accordo.

6 Ivi, p. 102.

7 Per una foto dell’imperatore Mutsuhito vedi in Appendice l’Allegato 1.

8 L.J.ZWIER,M.E.CUNNINGHAM, The end of the shoguns and the birth of modern Japan (revised Edition),

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Dal quinto articolo si nota come le intenzioni del nuovo impero non fossero quelle di affrontare la minaccia straniera, ma al contrario imparare ed assorbirne le potenzialità; ben presto il motto, xenofobo, “Sonnō jōy” venne sostituito con un più costruttivo “Wakon’yōsai” (spirito giapponese, scienza occidentale)9. Il nuovo governo decise inoltre di abbandonare il dualismo Kyōto-Edo e stabilì che il potere imperiale centralizzato risiedesse nella città di Edo, a cui venne dato il nome di Tōkyō (東京, capitale orientale). Il territorio venne nazionalizzato, anche convincendo i daimyō con vantaggiosi compensi in denaro.

Fu creata una nuova zecca ed un sistema monetario unico e rinnovato, basato su una valuta decimale standard chiamata en (円, yen) e venne introdotta una tassa fissa basata sul valore stimato di un lotto che sostituì il sistema feudale dei tributi sulla base del raccolto.

Un’altra riforma cruciale fu l’abolizione del rigido sistema di classe. I ceti furono riorganizzati e le restrizioni sulla possibilità di occupazione vennero eliminate. Nel 1872 fu dichiarata l’istruzione universale come uno dei principali obiettivi del governo.

La vera stoccata all’ordine sociale di tipo feudale avvenne con la graduale eliminazione della classe dei samurai; con la nazionalizzazione del territorio molti di essi rimasero senza occupazione e dovettero ripiegare su altri impieghi, pubblici o privati. Con l’introduzione della coscrizione obbligatoria nel 1873, che permetteva a uomini di qualsiasi estrazione sociale di diventare ufficiali, altri samurai abbandonarono le armi ed infine, nel 1876, fu fatto loro divieto di portare la spada.

Come si è visto, per il nuovo governo l’occidentalizzazione rappresentava un passaggio cruciale per la modernizzazione di un Giappone che non aveva dimenticato l’umiliazione dei “trattati ineguali” e che smaniava di rivederli. La trasformazione, pensavano, avrebbe reso il paese forte e gli avrebbe dato la possibilità di competere con le potenze occidentali, raggiungerle e persino superarle. Uno dei tanti motti coniati al tempo recitava: “Oitsuke,

oikose” (raggiungi, supera)10.

I cambiamenti investirono tutti gli aspetti della società: a partire dal 1° gennaio 1873 venne adottato il calendario gregoriano, iniziarono a funzionare i telegrafi e il servizio postale ed cominciarono a circolare i primi quotidiani di stampo occidentale. Gli abiti e i tagli di capelli di foggia occidentale si diffusero nell’ambiente progressista e divennero obbligatori per i

9 K.G.HENSHALL, Storia del Giappone, cit., p. 113. 10 Ibidem.

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funzionari governativi, anche nelle cerimonie ufficiali, a partire dal 1872. Il governo diede poi enorme importanza allo sviluppo dei trasporti, a cui riconobbe un ruolo di importanza nevralgica per l’economia e lo sviluppo del paese in generale. La ferrovia, simbolo dello sviluppo dei trasporti arrivò a contare, entro la fine del secolo, quasi 8000 chilometri di strada ferrata.

Anche il modo di pensare cambiò notevolmente, ma a ritmo più lento: il paese fu invaso da un’ondata di opere di scienziati, filosofi e romanzieri occidentali. A destare il maggiore interesse furono le idee di Herbert Spencer e la sua filosofia darwinista della “sopravvivenza del più adatto”, e di Samuel Smiles, con la filosofia del self help (o dell’“aiutati che Dio ti aiuta”).

Il governo si avvalse spesso, in questo periodo, dell’aiuto di specialisti occidentali (tra cui lo stesso Spencer) di qualsiasi campo: dalla politica, alla legge e perfino alle questioni militari.

Allo stesso modo, molti giapponesi visitarono l’Occidente e vennero inviate numerosissime missioni ufficiali e semiufficiali in America e in Europa.

Il Giappone, lanciato nella corsa per l’occidentalizzazione, rappresentò allo stesso tempo un problema per il regime. La filosofia dell’auto-aiuto, diffusasi negli anni Settanta, poneva un grosso problema di dispersione delle forze. La popolazione giapponese doveva essere incoraggiata al raggiungimento di un fine comune, e le forze sprigionate dovevano essere incanalate nella giusta direzione11.

Il nazionalismo sembrò, agli occhi del governo, una causa perfetta. Il sentimento nazionalista, infatti, faceva riferimento al tradizionale kokugaku (国学, cultura tradizionale) ed era quindi un principio di facile diffusione tra la gente comune tramite slogan come “fukoku kyōhei” (nazione ricca, esercito forte)12. I valori trasmessi, soprattutto nelle scuole, si ispiravano al confucianesimo e ritraevano l’imperatore come padre autorevole e benevolo. Tutto questo dava al popolo un obiettivo nazionalistico, in modo che anche coloro che non riuscivano ad ottenere un grande successo nel loro campo d’azione, sapessero quantomeno di aver servito l’imperatore e la sua nazione-famiglia; un privilegio non concesso agli occidentali od agli stranieri in generale.

L’influenza delle idee occidentali portò, tra le altre cose, ad un generalizzato interesse per la politica, che si tradusse in numerosi suggerimenti “dal basso” per la stesura di una

11 Ivi, p. 127. 12 Ibidem.

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Costituzione più nuova e adeguata. Agli occhi dell’imperatore la soluzione ideale fu l’instaurazione di una democrazia apparente, autoritaria, alle condizioni degli oligarchi. L’instaurazione della democrazia venne sancita con l’approvazione, l’11 febbraio 1889, di una nuova Costituzione ispirata al modello tedesco-prussiano che prevedeva, tra le altre cose, l’istituzione di una Dieta bicamerale. Al popolo vennero riconosciuti alcuni diritti, come la libertà di parola, di religione e di associazione, anche se limitate dalla clausola “nei limiti tali da non pregiudicare la pace e l’ordine” (in perfetta linea con il pensare comune giapponese)13. Nonostante gli sforzi profusi dal governo, l’arroganza degli oligarchi e le mire personali dei primi ministri misero in luce, con il passare del tempo, le difficoltà di coesistenza tra democrazia e autoritarismo, generando un clima di forte instabilità politica.

Dal punto di vista della politica estera, il Giappone era convinto, ma non certo, di aver superato il pericolo di una colonizzazione occidentale. Nel 1873 il Giappone, servendosi a sua volta della “diplomazia delle cannoniere”, stipulò con la Corea un trattato sullo stesso formato di quelli “ineguali” riuscendo ad ottenere privilegi commerciali e il diritto di extraterritorialità14. Quando, nel 1894, il re di Corea chiese l’intervento delle due potenze per sedare la rivolta di una setta religiosa, Giappone e Cina inviarono contingenti che soffocarono ben presto le tensioni. A quel punto però le due potenze rifiutarono di ritirare gli eserciti. Con l’offensiva giapponese del 1° agosto 189415, che diede inizio alle ostilità, ci si rese conto della superiorità dell’Esercito e della Marina imperiale. Nell’aprile del 1895 i giapponesi, forti della vittoria alla foce del fiume Yalu, stipularono con la Cina il trattato di Shimonoseki, con cui furono annessi all’impero molti territori tra cui Taiwan, la penisola di Liaodong e la Manciuria meridionale, oltre al pagamento di una cospicua indennità.

Il primo passo verso la creazione dell’impero nipponico non passò inosservato. Poche settimane dopo la Russia, forte dell’appoggio di Germania e Francia, intimò al Giappone di cederle la penisola di Liaodong. Nonostante la cessione di una parte dei territori conquistati, che comunque suscitarono pesanti critiche nel paese, il Giappone era riuscito ad impressionare le potenze occidentali. Alla fine del 1897 tutti gli stati occidentali avevano rivisto i “trattati ineguali”, rinunciando persino al diritto di extraterritorialità. Per il Giappone fu motivo di enorme soddisfazione. La vittoria sulla Cina non portò gli sperati vantaggi in

13 Ivi, p. 1 35. 14 Ivi, p. 137.

15A.SANTONI,Storia e politica navale dell’età contemporanea, Roma, Ufficio Storico della Marina Militare,

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termini di stabilità interna, e si susseguirono anni di continui cambiamenti al vertice del governo del paese. Una certa stabilità si ottenne solo a partire dal 1904, quando l’Impero mosse guerra alla Russia zarista.

Gli attriti tra Russia e Giappone affondavano le radici nell’intervento del Triplice Partito al momento della vittoria giapponese contro la Cina. Negli anni successivi le forze zariste non si erano limitate alla penisola del Liaodong, ma si erano protratte ulteriormente verso est. Il simbolo dell’espansionismo russo verso l’oriente consistette nella costruzione della linea ferroviaria transiberiana, che collegava Vladivostok (l’estremo est del continente) direttamente a Mosca.

Nel 1900, dopo che un contingente armato internazionale ebbe sedato la rivolta dei Boxers16 nel nord della Cina, la Russia rifiutò di ritirare le truppe. Il governo giapponese optò allora per un accordo finalizzato al mutuo riconoscimento degli interessi in Cina e Corea, ma lo zar rifiutò. Forte dell’alleanza con la Gran Bretagna (1902), che scongiurava eventuali interventi di potenze europee, e di un apparato bellico importante, il Giappone entrò in guerra nel 1904 e la vinse l’anno dopo. La Russia, subite le prime sconfitte e ulteriormente indebolita dalla rivoluzione interna, si vide costretta a richiamare la Flotta del Mar Baltico. I britannici, negando ai russi il transito del Canale di Suez, li costrinsero ad una lunga navigazione durante la quale, all’altezza dello Stretto di Tsushima, vennero intercettati e annientati dalla Marina giapponese. Per il Giappone si trattò di una vittoria completa, a differenza di quanto accaduto contro la Cina, e al trattato di Portsmouth del 1905, riprese il controllo della Manciuria, del Liaodong e di buona parte della ferrovia russa in Cina. Il trattato però non soddisfò tutte le richieste giapponesi: il Paese non ottenne il pagamento della consistente indennità per la soluzione degli ingenti debiti di guerra nei confronti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna; in compenso ricevette l’isola di Sakhalin, a nord di Hokkaidō.

Il Giappone, gratificato dalla considerazione occidentale e fortificato dalle annessioni, consolidò in quei luoghi il potere imperiale, allarmando le basi occidentali come la Nuova Zelanda.

Nel 1912, alla morte dell’imperatore Mutsuhito (pianto come un eroe moderno e seguito da una serie di suicidi tradizionali dal gusto un po' desueto), gli successe il figlio Yoshihito. Il nuovo imperatore, benché considerato idoneo al regno dai medici, nel volgere di tre anni

16Erronea interpretazione del cinese I he t’uan (Società di giustizia e di concordia), inteso come I he ch’uan

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vide peggiorare notevolmente le sue condizioni di salute e dal 1921 l’effettivo potere passò nelle mani del figlio Hirohito17, nominato reggente. Il regno di Yoshihito fu turbolento e caratterizzato dall’instabilità politica. La democrazia e il liberalismo fecero passi avanti, anche se frenati talvolta dall’autoritarismo degli oligarchi. Negli stessi anni il paese dovette anche affrontare un tragico terremoto, che fece più di centomila morti e almeno tre milioni di sfollati.

Sul piano estero il Giappone non rinunciò mai all’idea di una politica espansionistica aggressiva18. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che spostò le attenzioni delle potenze occidentali in Europa, fu un’ottima occasione per il Giappone di sottrarre al controllo tedesco i territori nella penisola dello Shandong e molte isole del Pacifico quali Micronesia, le Marshall, le Caroline e le Marianne. Con la presentazione delle “Ventun condizioni alla Cina”, poi riviste, il Giappone non solo consolidava il potere sui territori conquistati, ma prevedeva la nomina di “consulenti” giapponesi in tutti gli ambiti strategici. La Cina sarebbe in sostanza passata sotto il controllo nipponico.

Il Giappone, partecipante solo nominale della Grande Guerra come alleato della Gran Bretagna, poté sedersi al tavolo dei vincitori alla conferenza di Versailles del 1919 e partecipò anche alla conferenza navale di Washington, in cui si risolse che il Giappone non avrebbe dovuto avere in linea più di tre corazzate, a fronte delle cinque di Stati Uniti e Gran Bretagna, e figurò tra i membri costitutivi della Lega delle Nazioni, anche se la delusione fu scottante quando fu bocciata la proposta di un emendamento per ottenere l’uguaglianza razziale.

Come si può evincere, nel periodo tra le due guerre in Giappone si diffuse un generale malcontento, non immotivato, di essere stati trattati iniquamente.

Dopo la promulgazione in America di una serie di leggi di esclusione (tra cui il divieto di immigrazione), fondate su motivazioni razziali, il Giappone ebbe la conferma che non sarebbe mai stato accettato dalle potenze europee come loro pari19.

Alla morte di Yoshihito, nel 1926, gli successe il figlio Hirohito, che diede inizio al cosiddetto periodo Shōwa (昭和, pace illuminata). La figura di Hirohito, da un lato attratto dall’idea di una monarchia costituzionale, dall’altro lato risentiva dell’influenza delle forti personalità militari con le quali era cresciuto (esempi ne sono il generale Nogi e l’ammiraglio

17 Per una foto dell’imperatore Hirohito vedi in Appendice l’Allegato 2. 18 K.G.HENSHALL, Storia del Giappone, cit., p. 160.

19 Negli anni successivi il Giappone venne considerato, parimente al Sudafrica, come nazione bianca

“onoraria”. La conquista, più che per questioni ideologiche, è da considerarsi frutto degli interessi commerciali occidentali nei confronti dei due stati.

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Tōgō). Si delinea in questo caso l’immagine di un sovrano elitista, per nulla conscio delle condizioni di vita dei suoi sudditi20; il suo regno si dimostrò turbolento fin dal principio, sia sul piano interno che su quello internazionale. La ripresa che succedette il terremoto del 1923 fu seguita da una forte crisi economica, di cui risentì soprattutto il settore agricolo. Proprio nella comunità rurale, così come nell’ambiente militare, si stava diffondendo poi un diffuso malcontento nei confronti della democrazia, dell’individualismo e dello stile di vita urbano. La nascita, nel Vecchio Continente, del fascismo e del nazismo diede l’apparenza ai giapponesi che un approccio meno democratico sarebbe stato più efficace. Mossa da questo sentimento l’élite militare spinse per una nuova campagna di espansione territoriale ai danni della Cina. Nel 1928 alcuni estremisti dell’esercito fecero esplodere un treno in Manciuria, uccidendo il comandante in capo dell’esercito cinese. Alcuni ufficiali moderati riuscirono a mettere tutto a tacere incolpando i ribelli cinesi.

Alla conferenza navale di Londra (1930), indetta per rivedere le restrizioni navali di Washington, il Giappone subì un altro pesante colpo, non ottenendo alcun miglioramento in termini di proporzione rispetto alle potenze europee. Ben presto il Giappone si sarebbe ritirato da qualsiasi accordo sulle restrizioni navali. L’incidente della Manciuria del 1931, del tutto analogo a quello del 1928 e che portò alla creazione della Repubblica del Manshūkoku, non passò inosservato e fu duramente criticato dalla Lega delle Nazioni. Il Giappone, per tutto conto, si ritirò dall’organizzazione.

In Giappone il potere militare era ormai fuori controllo: nei primi anni Trenta furono molte le insurrezioni e i tentativi di colpo di stato per l’instaurazione di un governo militare ultranazionalistico che si sbarazzasse della classe politica, instaurando un legame diretto tra imperatore e sudditi. Il più importante, ricordato come “l’incidente del 26 febbraio” (1936), venne risolto con l’inaspettato intervento dello stesso Hirohito, che fece arrestare e condannare gli agitatori, negando loro persino il suicidio rituale. Il sentimento nazionalista, che vedeva il nuovo Giappone alla guida di un impero panasiatico unito e libero dalle influenze occidentali, trovò la sua concretizzazione nel Kokutai no Hongi (国体の本義, principi fondamentali della nazione). Il documento, pubblicato nel 1937 e reso volume di testo nelle scuole di ogni grado, costituisce il fondamento ideologico del nazionalismo giapponese.

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Secondo il documento il legame che intercorre tra il sovrano e suddito è naturale, familiare e caratterizzato dall’armonia, e raggiunge il suo apice con il sacrificio della vita per la causa dell’imperatore.

Alla fine degli anni Trenta l’economia giapponese, che aveva coraggiosamente adottato la dottrina keynesiana, registrò una solida ripresa e la prospettiva dell’accesso alle risorse del continente si fece irresistibile. Se da un lato il governo esercitava maggiore controllo sull’industria, razionalizzando la produzione a favore degli zaibatsu ( 財閥 , i grandi trust industriali) come Mitsubishi, Nissan e Toyota, dall’altro il potere militare esercitava sempre maggior controllo sul governo stesso, facendo aumentare il budget per le spese militari e reinsediando generali e ammiragli come ministri dell’Esercito e della Marina21. Nel 1936 il Giappone firmò il patto Anticomintern insieme a Germania e Italia e l’anno successivo, con lo scontro nei pressi del ponte Marco Polo, entrò in guerra contro la Cina. I giapponesi conquistarono molto terreno ma i cinesi non si arresero nemmeno dopo la capitolazione di Nanchino in cui, dopo un lunghissimo assedio, si consumò un vero e proprio massacro. I giapponesi iniziarono a temere che uno sforzo prolungato contro la Cina, aiutata conclamatamente dalla Russia, li rendesse vulnerabili ad un attacco delle forze sovietiche. La preoccupazione crebbe al momento della firma, nel 1939, del patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, che di fatto tradiva il patto Anticomintern.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale i primi successi della Germania nazista convinsero il Giappone a ritenere valida l’adesione all’asse Roma-Berlino, e lo spinsero alla firma del Patto Tripartito nel settembre 1940. Nello stesso anno, le truppe giapponesi occuparono il nord dell’Indocina francese e per tutta risposta gli Stati Uniti limitarono l’esportazione di materiali vitali come carburante per gli aerei, acciaio e ferro. Quando la Germania violò il patto di non aggressione con la Russia (giugno 1941), un rincuorato Giappone spostò le sue mire verso sud, mirando alle Indie Orientali olandesi e alla Malesia, terre ricche di risorse. La risposta di Washington fu dura: gli Stati Uniti imposero sull’Impero un embargo totale, includendo anche il petrolio di cui il Giappone aveva disperato bisogno. L’embargo si dimostrò ancora più gravoso di quanto ci si aspettasse e i leader nipponici decisero che se la situazione non si fosse risolta entro ottobre il Giappone sarebbe entrato in guerra22. Il generale Tōjō Hideki assunse la carica di capo del governo, e fece l’ultima

21 N.CHOUCHRI,R.C.NORTH,S.YAMAKAGE, Challenge of Japan before WWII and after, Oxford, Routledge,

1992.

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concessione agli Stati Uniti con scadenza alla fine di novembre; nel frattempo la flotta, al comando dell’ammiraglio Nagumo Chūichi era già in rotta per le Hawaii.

La storia del Giappone ci insegna che lo scontro con un nemico più forte, rischiando sconfitte umilianti, non è nel loro stile. L’intenzione generale consisteva nel combattere contro il gigante fino a stancarlo, per fare in modo da invogliarlo a discutere le condizioni di pace23. È con questo background che, nella Conferenza Imperiale del 1° dicembre, il governo del generale Tōjō decise di entrare in guerra contro Stati Uniti, Gran Bretagna ed Paesi Bassi il giorno 8 dicembre, che per i fusi orari occidentali coincise con la domenica 7 dicembre 194124.

23 K.G.HENSHALL, Storia del Giappone, Milano, Mondadori, 2005, p.181. 24A.SANTONI, Storia e politica navale dell’età contemporanea, cit., p. 251.

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CAPITOLO I

Nascita e sviluppo della difesa nazionale giapponese

1.1 Inizio ed evoluzione della dottrina militare nipponica

Alla firma dei “trattati ineguali” il Giappone si dovette confrontare non solo con l’economia occidentale, ma anche con la sua potenza militare. Divenne quindi di cruciale importanza il tema della difesa del territorio nazionale.

Quasi duecentocinquanta anni di isolamento impedirono al paese di restare al passo con le innovazioni tattiche e tecnologiche che stavano interessando quel periodo l’Europa, e l’avvento della Prima rivoluzione industriale, nel 1740, il divario tecnologico tra l’Europa e il Giappone si fece incolmabile25. La causa dell’arretratezza della forza militare giapponese non risiedeva soltanto nell’arretratezza dei mezzi e delle tattiche, ma in larga misura degli effetti della divisione territoriale, che rendevano le diverse forze militari disomogenee e poco disposte alla collaborazione. Il maggiore dei problemi, quindi, risiedeva nel fatto che il Giappone non disponeva di un esercito regolare unitario, addestrato secondo tattiche comuni. Stando a quanto riportano le sorelle Merion e Susie Harries “il Giappone non ha un’organizzazione militare, ma semplicemente un’inefficiente rete di accordi feudali che, alla richiesta di Edo, vincolano ogni daimyō a fornire un certo numero di samurai”26. Questa situazione, tuttavia, rischiava di rendere un’eventuale difesa del territorio nazionale

Le forze armate di una nazione nascono con la nazione stessa.

In Giappone la “nazione” nacque il 4 gennaio 1868, quando l’imperatore Meiji Mutsuhito sciolse definitivamente il bakufu del clan Tokugawa e restaurò il potere imperiale insediandolo a Edo, poi rinominata Tōkyō.

Alla restaurazione del potere imperiale seguì la guerra civile, detta Boshin Sensō (戊辰戦争 , “guerra dell’anno del drago”) tra le forze fedeli allo shōgun Tokugawa Yoshinobu e i lealisti filoimperiali. Le forze lealiste, capitanate da Saigō Takamori, e cui si unirono poco dopo i clan degli Shimazu e dei Tosa, costituirono il primo nucleo delle forze armate nipponiche27. Le vittorie, nonostante l’inferiorità numerica, dei lealisti nelle città di Toba e Fushimi, permisero difatti l’unificazione del paese e con essa la possibilità di fondare le nuove forze armate imperiali composte da cittadini di qualsiasi estrazione sociale.

25 M.HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, New York,

Random House, 1991, p. 7.

26 Ibidem. 27 Ivi, p. 8.

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La vittoria delle forze lealiste fu di cruciale importanza. Se le forze shōgunali non fossero state sconfitte l’unificazione del paese avrebbe richiesto sicuramente molto più tempo, rendendo il Giappone facile preda delle mire coloniali di potenze quali Russia, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti28. Le cause della vittoria delle forze fedeli all’imperatore sono da individuare nella buona capacità di adattamento ed alla grande differenza di addestramento. Sin dal 1856 infatti le forze filoimperiali erano state dotate di armi moderne ed avevano potuto fruire di una formazione militare di stampo occidentale.

La Gran Bretagna si era occupata della formazione degli ufficiali delle forze navali. Alla Francia, d’altro canto, venne chiesto di formare le truppe di fanteria di entrambi gli schieramenti, ed è proprio sulla terraferma che le forze filo-shōgunali dimostrarono una minor propensione all’adattamento. I samurai fedeli al clan Tokugawa fecero molta fatica ad adattarsi al cambiamento: molto spesso si rifiutavano ostinatamente di combattere fianco a fianco con i semplici contadini, e ancora di più di sostituire la loro spada con un fucile29. Le forze lealiste, in particolare i domini settentrionali di Chōshū e Satsuma, avevano poi maturato esperienza diretta delle tattiche occidentali. Nel 1863, a seguito dell’uccisione di un diplomatico britannico, il dominio di Satsuma fu coinvolto in una disputa con le forze inglesi che si concluse con il bombardamento della città di Kagoshima.

Nel dominio di Chōshū venne anche fondata la kiheitai (奇兵隊, reggimento irregolare), una milizia popolare istituita come forza di artiglieria costiera per impedire alle navi straniere di attraversare lo Stretto di Shimonoseki, dovette molto agli studi del suo fondatore, il samurai Takasugi Shinsaku. Studioso delle tecniche militari occidentali, Takasugi, dimostrò come cittadini di qualsiasi estrazione sociale potevano diventare soldati capaci. Per molti secoli in Giappone, la guerra era stata prerogativa della sola classe dei samurai; l’uso congiunto di samurai e comuni cittadini, dotati di armi occidentali e addestrati secondo tattiche moderne, si rivelò per i lealisti un enorme vantaggio contro le forze filo-shōgunali. Gli uomini della

kiheitai, così armati ed addestrati, costituirono il primo nucleo delle moderne forze armate

giapponesi.

All’unificazione del territorio ed alla restaurazione del potere imperiale coincidono anche le nascite ufficiali dell’Esercito (大日本帝国陸, Dai-Nippon teikoku rikugun) e della Marina imperiale giapponese (大日本帝国海軍, Dai-Nippon teikoku kaigun), rispettivamente nel 1869 e nel 1871.

28 E. J. DREA, Japan’s Imperial Army: its rise and fall, 1853-1945, Lawrence, University Press of Kansas,

2009, p. 362.

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In un primo momento, segnato dai forti cambiamenti della modernizzazione e da tensioni sociali, l’Esercito ebbe come primo ruolo la protezione dell’autorità imperiale, la sorveglianza territoriale e la repressione dei focolai di ribellione, soprattutto nelle zone rurali; alla Marina, invece, spettava la sorveglianza e la difesa delle coste da possibili intrusioni estere.

Nonostante gli sforzi del governo per rendere la difesa nazionale efficace, la guerra Boshin aveva messo in luce molte lacune, soprattutto a livello logistico ed organizzativo30.

L’assenza di una dottrina unica ed i regionalismi favorivano nella maggioranza dei casi divisioni ideologiche tra le fila dell’Esercito, che spesso portavano gli ufficiali di grado superiore ad ignorare gli ordini del governo, ad improvvisare e ad optare per le strategie tradizionali con le quali si era combattuto per centinaia di anni31. Per mettere un punto fermo a tali episodi, i vertici militari giapponesi Aritomo Yamagata, Saigō Takamori e Okubo Toshimichi iniziarono un lungo processo di riorganizzazione delle forze armate nipponiche, prendendo come spunto i modelli prussiano e francese per l’Esercito e quello britannico per la Marina32.

La filosofia militare prussiana portò Aritomo Yamagata alla proposta di istituire la coscrizione obbligatoria. Nelle caserme i comuni cittadini erano addestrati, nel nome dell’imperatore, alla fedeltà, al sacrificio ed alla protezione della nazione; l’obiettivo, oltre al superamento dei regionalismi in favore dell’unità ideologica, era quello di sostituire la casta dei samurai con un esercito composto dal popolo33. Questo aspetto fu una delle cause che accesero le ostilità della casta dei samurai nei confronti del governo centrale.

Nel 1876 Saigō Takamori, tra i maggiori sostenitori del processo di occidentalizzazione del governo Meiji, decise di dimettersi dalle cariche pubbliche, sdegnato dalla corruzione e dalla presunta perdita dei valori tradizionali, e si ritirò nella città di Kagoshima portando attorno a sé un nutrito esercito di samurai. Alla promulgazione della legge che vietava a tutti i samurai di portare con loro la spada, il malcontento avvampò e da un’iniziale rivolta ben presto si arrivò ad un vero e proprio scontro armato tra gli ultimi samurai e le forze imperiali, che si risolse nella battaglia di Shiroyama con la sconfitta di Takamori e la definitiva dissoluzione della classe dei samurai.

30 Ivi, p. 26.

31 E.J.DREA, In the service of the Emperor: essays on Imperial Japanese Army, Lincoln, University of

Nebraska Press, 1998, p. 597.

32 E.J.DREA, Japan’s Imperial Army: its rise and fall, 1853-1945, cit., p. 1547.

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Il 5 dicembre 1878 venne istituito il Sanbō Honbu (参謀本部, Stato Maggiore dell’Esercito imperiale), perché fungesse da organo centrale organizzativo sia delle forze terrestri che delle forze navali, e che si occupasse anche della distribuzione degli armamenti e dell’addestramento delle forze. Il primo capo di Stato Maggiore fu proprio Aritomo Yamagata che, per ottenere piena autonomia al comando delle forze armate, decise di staccarsi dal modello francese (in cui le questioni militari dovevano passare al vaglio dell’esecutivo civile) e di plasmare lo Stato Maggiore sul modello prussiano, in cui i militari avevano totale indipendenza dall’apparato civile e potevano beneficiare di un accesso diretto ed indipendente all’imperatore stesso34.

In questo modo Yamagata, facendo a meno del controllo del Rikugunshō (陸軍省, Ministero della Guerra) e con l’istituzione di un Quartier Generale separato che fungeva da ponte tra lo Stato Maggiore ed il palazzo imperiale, avrebbe snellito i tempi di reazione delle forze armate in caso di minaccia interna ed esterna.

Yamagata mise poi in pratica la nozione prussiana della “nazione in guerra” e istituì un sistema di coscrizione obbligatoria basato sul principio per cui ogni cittadino, attraverso il servizio nelle forze armate, avrebbe adempiuto al suo fine ultimo nel servizio dell’imperatore stesso35. Ogni uomo di età compresa tra i quattordici e i cinquanta anni, ad esclusione degli uomini considerati unico sostentamento per la famiglia, erano obbligati a svolgere sei mesi di servizio attivo e sette anni di riservista. Revisioni posteriori portarono il servizio attivo ad un anno e poi all’eliminazione delle esenzioni di leva.

Il maggior contributo occidentale alla formazione dell’esercito imperiale giapponese provenne sicuramente dal maggiore prussiano Jacob Meckel, che riuscì ad uniformare i piani strategici e tattici giapponesi, riuscendo allo stesso tempo ad imprimere un segno indelebile nell’educazione militare ed in generale nell’ideologia delle forze armate.

Meckel, arrivato in Giappone nel 1885, si impegnò fin dall’inizio nella riorganizzazione delle forze armate partendo proprio dalla formazione dei singoli militari. I soldati vennero addestrati alla scienza tecnica, allo studio del terreno, alle arti equestri ma soprattutto all’uso dell’artiglieria36. La dottrina militare francese, caratterizzata dalle strategie di statica accumulazione delle truppe e di difesa-attesa, che le alte cariche dell’esercito giapponese avevano preso a modello da prima della guerra Boshin, venne invece sostituita dalla dottrina

34 E.J.DREA, Japan’s Imperial Army: its rise and fall, 1853-1945, cit., p. 1335.

35 M.HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, cit., p. 39. 36 E.J.DREA, In the service of the Emperor: essays on Imperial Japanese Army, cit., p. 1556.

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prussiana, imperniata sulla mobilità delle truppe, in aggiunta all’uso combinato della cavalleria, dell’artiglieria, dell’ingegneria e dei rifornimenti37.

Gli istituti di formazione militare adottarono il modello educativo prussiano, che poneva come fulcro il valore dell’obbedienza nei confronti della figura dell’imperatore.

Meckel rivoluzionò anche l’addestramento introducendo il cosiddetto “kriegspiel” (il “gioco della guerra”), un sistema di simulazione di strategie e tattiche da impiegare in caso di conflitto armato.

Il maggiore prussiano si occupò anche della stesura di un primo piano di difesa del suolo giapponese: promosse lo sviluppo di un sistema di mobilitazione generale efficace, costituito da una piccola forza costituita da sole sette divisioni facilmente assemblabile e trasportabile velocemente in ogni zona del paese servendosi dell’efficiente rete di comunicazione nazionale. Il piano venne subito approvato, sia come possibile piano di difesa contro le mire russe, che di offesa per un eventuale attacco alla Cina.

Meckel, che dava enorme importanza alle teorie dell’“attacco ad ogni costo” di von-Clausewitz, promosse un nuovo atteggiamento nei confronti della battaglia. Anziché favorire “l’uso di colonne che si aprivano a ventaglio non appena raggiungevano le linee di fuoco”, il maggiore preferiva “l’avanzata a ranghi serrati sotto il fuoco nemico”, senza curarsi delle inevitabili perdite umane, in modo da beneficiare al massimo dell’effetto sorpresa38. Questo approccio, se dalla parte dell’esercito nemico avrebbe dovuto contribuire a creare confusione e sconcerto, avrebbe di certo provocato tra le fila giapponesi ingenti perdite umane, facendo correre il rischio (nel lungo periodo) di trovarsi senza rimpiazzi. Le idee del maggiore prussiano, a lungo andare, si sarebbero a tal punto radicate che nel corso delle guerre future divennero le fondamenta della dottrina militare giapponese.

Le offensive condotte a Mukden e a Port Arthur nel 1905, durante la guerra contro la Russia, e la difesa aggressiva delle isole del Pacifico durante il Secondo Conflitto Mondiale contro gli Stati Uniti, possono essere viste come diretta conseguenza dell’indottrinamento e dell’influenza del maggiore Meckel, che fino alla dissoluzione delle forze armate imperiali venne riconosciuto come un vero e proprio mentore39.

37 M.HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, cit., p. 49. 38 Ivi, p. 51.

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1.2 La dottrina navale e l’influenza di Alfred Thayer Mahan

All’inizio dell’epoca Meiji la Marina giapponese era una piccola forza navale, costituita da pochissimi vascelli dei domini meridionali di Chōshū, Satsuma, Saga e Hiroshima. Questi vascelli, costruiti sotto il dominio Tokugawa, erano state concepite principalmente come unità di supporto alle forze di terra40.

Anche in questo caso quasi, due secoli e mezzo di isolamento non avevano certo giovato allo sviluppo della cantieristica; lo shōgunato Tokugawa si aprì allo studio dell’ingegneria navale solo nel 1840 e quando le “Navi nere” del commodoro Perry arrivarono a Edo solo il dominio di Satsuma aveva acquisito le moderne conoscenze per la costruzione di navi moderne41. Con il termine della guerra Boshin (1869) le marine dei singoli domini vennero unificate nella Dai-Nippon teikoku kaigun ( 大 日 本 帝 国 海 軍 , marina da guerra dell’Impero giapponese).

Anche dopo l’unificazione, il ruolo della marina imperiale rimase comunque secondario. La dottrina militare del tempo imponeva la subordinazione delle forze marittime a quelle terrestri, limitandone le funzioni ai soli appoggio e trasporto. La filosofia giapponese del tempo circa il rapporto tra Esercito e Marina trova una chiara formulazione nelle parole di Katsura Tarō, generale e figura di spicco delle Forze Armate insieme a Aritomo Yamagata, secondo cui “l’Esercito decide il destino della nazione mentre la Marina funge da supporto ad esso”.

La subordinazione della Marina venne superata solo nel 1893 con l’istituzione del

Kaigunreibu (海軍令部, Stato Maggiore della Marina) con funzioni analoghe a quelle dello

Stato Maggiore dell’Esercito: era indipendente dal Ministero della Marina, aveva capacità decisionale ed organizzativa sulle forze in caso di conflitto e godeva di un contatto diretto con l’imperatore.

L’istituzione dello Stato Maggiore consentì alla Marina di gestire autonomamente il proprio

budget, facoltà che permise la costruzione di naviglio moderno e tecnologico, portando la

consistenza della flotta a superare le 260.000 tonnellate di dislocamento.

Il principale promotore dell’ampliamento della flotta giapponese, Yamamoto Gonbei, giustificava il ruolo centrale della marina imperiale facendo riferimento alle teorie di

40 N. SAJIMA,K.TACHIKAWA, Japanese sea power: a maritime nation’s struggle for identity, Canberra,

Department of Defense- Defense Publishing Service, 2009, p. 31.

41 D.C.EVANS,M.R.PEATTIE, Kaigun: strategy, tactics and technology in the Imperial Japanese Navy,

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“maritime power”, formulate dall’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan nel suo The

influence of sea power upon History, libro che sarebbe presto diventato un testo di

fondamentale importanza tra i vertici della Marina imperiale giapponese e che avrebbe influenzato notevolmente la dottrina navale nipponica.

Mahan affermava che nell’era moderna, nella lotta tra gli Stati verso l’imperialismo, il potere non derivava dal controllo del territorio continentale ma dal controllo dei mari. Seguendo questa logica un Paese che intendeva rendere sicuro il proprio territorio ed ottenere al contempo il controllo di territori oltreoceano, doveva poter garantire la sicurezza dei collegamenti marittimi tra il territorio nazionale, le colonie e gli Stati con cui intratteneva rapporti commerciali42. Gli elementi che, secondo Mahan, consentivano il predominio navale erano:

- posizione geografica, e questo valeva particolarmente per uno Stato insulare come il Giappone, che avrebbe permesso maggiori possibilità di affermarsi sul mare rispetto ad una nazione prevalentemente continentale;

- conformazione territoriale, ovvero la presenza di molta linea di costa e di porti naturali;

- estensione del territorio, per garantirsi un continuo approvvigionamento di risorse; - popolazione nazionale abituata alla navigazione e con un rapporto secolare con il

mare, ovvero una popolazione di abili marinai e di commercianti disposti a prendere il mare;

- un carattere nazionale con l’attitudine di inseguire obiettivi marittimi e commerciali; - una politica governativa che riconosca la centralità del mare e che indirizzi le energie

della nazione nello sviluppo navale.

Il “navalismo” sostenuto da Mahan quale base su cui fondare il dominio sui mari, diede l’impulso notevole al settore della cantieristica navale, allo sviluppo delle tecnologie ed all’espansionismo coloniale, e fece presa soprattutto in Giappone, Paese con grandi margini e volontà di sviluppo43.

Nel mondo moderno, quindi, una nazione industriale non poteva mantenere la sua importanza a livello internazionale se non era in grado di assicurarsi un impero coloniale per l’approvvigionamento delle risorse, e naturalmente la creazione di un impero sarebbe stata

42 A.FLAMIGNI, Evoluzione del potere marittimo nella storia, Roma, Ufficio Storico Della Marina Militare,

2011, p. 31.

43 S.ASADA, From Mahan to Pearl Harbor: The Imperial Japanese Navy and the United States Navy,

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impossibile senza la creazione di una marina sufficientemente potente per proteggerlo. Per Mahan “in una guerra navale, la difesa costiera è un fattore difensivo, la Marina da guerra è invece il fattore offensivo”44.

In altre parole l’ammiraglio americano sosteneva l’inutilità della Marina da guerra per scopi difensivi, affermando che al concetto di “brown water navy”, ovvero al concetto tradizionale di difesa delle coste e dei fiumi, dovesse essere aggiunto il concetto di “blue water navy”, ovvero la creazione di una flotta transoceanica capace di operare a grandi distanze, e che avrebbe potuto permettere la vittoria contro una nazione prevalentemente terrestre attraverso l’esercizio del “potere marittimo”. In uno scontro tra Potenze, la nazione con la forza navale superiore avrebbe potuto sfruttare questo vantaggio per interrompere le linee commerciali della nazione avversaria affamando la popolazione e costringendola alla resa.

Sempre sulla scorta del concetto di “navalismo”, una Marina da guerra di grandi dimensioni non poteva limitarsi alla produzione ed al mantenimento di naviglio medio-pesante, ovvero di incrociatori, ma doveva necessariamente dotarsi di una linea di corazzate, in grado di operare a grandi distanze e che permettesse di esercitare il potere marittimo tagliando le arterie marittime dei rifornimenti di uomini e mezzi dell’Esercito nemico. Con la sua teoria del sea power, Mahan diede risalto a due principi che avrebbero poi influenzato la dottrina navale giapponese fino alla guerra nel Pacifico:

- la “battaglia decisiva”, per cui ogni guerra navale doveva concludersi con uno scontro decisivo tra le flotte avversarie, e che avrebbe sancito la vittoria finale di uno Stato sull’altro;

- la costruzione di una nutrita linea di navi corazzate, non di esagerato tonnellaggio ma veloci e manovriere, ma soprattutto in quantità tale da ottenere una netta superiorità numerica sull’avversario.

In Giappone Yamamoto Gonbei e l’ammiraglio Sato Testutarō, convinti della validità delle teorie mahaninane, svilupparono un primo piano di difesa per le isole giapponesi.

Secondo loro la prima linea di difesa della nazione era proprio la Marina, che aveva come compito attaccare il nemico direttamente in alto mare, senza aspettare che si predisponesse per uno sbarco, quando ormai sarebbe stato troppo tardi. La difesa giapponese avrebbe dovuto abbandonare la sua primordiale staticità ed evolversi nel senso di una difesa aggressivo-offensiva di alto mare a livello regionale, ovvero nel bacino costituito da Mar del Giappone, Corea, Cina e Russia.

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Questo avrebbe significato usare la Marina come deterrente e prevenire la minaccia già in alto mare; in altre parole, sferrare il primo attacco sarebbe stato il miglior modi per assicurarsi la difesa45.

Per rendere la Marina la prima linea di difesa significava rendere le forze navali mobili, allungabili e tracciabili in base alla necessità, e la concezione di difesa offensiva presupponeva che la flotta operasse al di fuori dei confini nazionali: ovunque fosse stato rilevato un pericolo imminente per il paese, allora la Marina sarebbe dovuta intervenire con aggressività.

Questa dottrina, di chiara impostazione mahaniana, venne inserita da Sato nel suo “Teikoku

kokubō ron” (帝国国防論, “Sulla difesa dell’impero”), in cui affermava che l’unica difesa

veramente efficace per un paese insulare come il Giappone era una difesa oceanica46. La teoria di Sato venne considerata valida fino a dopo la vittoria contro la Russia, quando gli interessi giapponesi si spostarono sul continente, per cui la difesa sarebbe stata prerogativa unica dell’Esercito.

1.3 Il piano di difesa degli anni 1880-1890

Nell’ultimo ventennio del XIX secolo la situazione politica nell’estremo Oriente era precaria.

La Cina, sotto l’impero Qing, era stata sconfitta nelle “guerre dell’oppio” del 1856-1860 ed era stata costretta ad importanti cessioni territoriali a beneficio di Gran Bretagna e Russia, oltre che all’apertura ai commerci occidentali.

Alla Corea non andò certo meglio: nel 1876 il Giappone impose al governo Joseon la firma del trattato di Ganghwa, che concedeva ai giapponesi, sul modello dei “trattati ineguali”, il diritto di extraterritorialità e costringeva anche la Corea a rompere l’isolazionismo.

Più in generale la Corea del clan Joseon, che da secoli rientrava nelle mire giapponesi, iniziava ora ad allettare anche la Russia, che in quel momento continuava ad esercitare una forte pressione sia sulla Cina che sulla penisola stessa. I giapponesi, preoccupati dalle annessioni dello zar, non potevano ignorare quale minaccia si sarebbe loro presentata se la Corea fosse caduta nelle mani russe. La penisola, per conformazione geografica, avrebbe

45 D.C.EVANS,M.R.PEATTIE, Kaigun: strategy, tactics and technology in the Imperial Japanese Navy,

1887-1941, Annapolis, US Naval Institute Press, 2012, p. 138.

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costituito in caso di conflitto con la Cina o con la Russia il perfetto trampolino di lancio per un attacco diretto al territorio nipponico.

I vertici militari e governativi, quindi, reputarono di fondamentale importanza la stesura di un piano di difesa nazionale organizzata, in modo che in caso di conflitto fossero previsti anche piani di battaglia precisi.

Il primo passo fu l’analisi delle forze disponibili: l’Esercito imperiale annoverava, al 1873, quasi 46.600 uomini47; la Marina, sebbene in fase di ampliamento, arrivava a malapena ai 13.000 effettivi ed era dotata di pochissime navi adatte al combattimento: un conflitto su larga scala con una Potenza sarebbe stato quindi impossibile48.

L’unica soluzione per i giapponesi rimaneva la difesa statica, per cui Marina, Esercito e batterie costiere avrebbero dovuto lavorare di concerto per impedire gli sbarchi nemici. In questa prospettiva, all’ufficializzazione del piano di difesa nel 1875, venne prevista la costruzione di fortezze marittime e la costituzione di batterie costiere nelle zone di maggiore sensibilità.

Nella baia di Tōkyō e nelle prefetture di Chiba e Kanagawa, zone di fondamentale importanza per la difesa sul fronte oceanico, vennero avviati i lavori per la costruzione di fortezze; particolare attenzione venne posta nella fortificazione dello Stretto di Tsugaru, punto obbligato per l’accesso alla baia di Tōkyō.

Sulle coste delle prefetture di Nagasaki, Ishinomaki e Kagoshima, identificate come di interesse per la difesa dal Mar Cinese orientale. Il progetto giapponese di ampliamento delle batterie costiere del 1875 partiva dall’analisi delle minacce al suolo nipponico49.

Per invadere il territorio nazionale, Russia e Cina sarebbero dovute passare necessariamente attraverso lo Stretto di Shimonoseki, le Gole di Kannon oppure per il Canale di Bungo, tra le isole di Shikoku e Kyūshū.

Il consiglio nazionale della difesa istituì nel 1884 tre linee guida per la protezione del territorio dell’impero: una in alto mare, di competenza della Marina, una sulle coste e la terza sul territorio nazionale, ambedue di competenza dell’Esercito. Dal 1890, poi, le difese vennero riorganizzate in tre kaigunfu (海軍府, distretti navali), ognuna centrata su di un

chinjufu (鎮守府, base navale), con funzione strategico-ammnistrative.

47 E.J.DREA, In the service of the Emperor: essays on Imperial Japanese Army, cit., p. 1460.

48 T.MURANAKA, The background of the national-defence strategy conversion in Japan of the Meiji Era, in

“Nihon University Graduate School of Social and Cultural Studies Bullettin”, (2004), 5, p. 101.

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I progetti risalenti agli ultimi anni del diciannovesimo secolo si imperniano sulla stessa convinzione di base: la sola difesa statica della nazione non poteva garantire al Giappone una sicurezza duratura contro nemici forti come Cina e Russia.

Nell’ultimo ventennio dell’800, infatti, il concetto di difesa statica iniziò ad evolversi nel concetto di offensive defense50; d’altronde un paese povero di materie prime come il Giappone non avrebbe potuto fare a meno dell’ingente flusso di rifornimenti proveniente dall’estero almeno fino a quando non si fosse reso industrialmente autonomo: il concetto di “sicurezza nazionale” iniziò ad includere quello di “espansione territoriale” 51.

Definendo la posizione del Giappone nello scacchiere orientale, Yamagata affermò in un memorandum del 1890 che “il Paese si sarebbe dovuto trasformare in una fortezza galleggiante e prepararsi ad esercitare la propria influenza in tutte le direzioni”, e poi “se si intende mantenere l’indipendenza nazionale tra le potenze mondiali, non è sufficiente interessarsi solo alle linee di sovranità; si devono anche difendere le linee di interesse e, nei limiti delle risorse, incanalare gli sforzi in tale direzione”52.

Con i termini “linee di sovranità” e “linee di interesse” Yamagata si riferiva ad un concetto da lui stesso espresso nel 1885, in cui divideva le zone d’interesse giapponesi in:

- shukensen (主権線, linea di sovranità), che comprendeva le isole di Hokkaidō, Honshū, Shikoku, Ryūkyū e le Curili, e che rappresentavano i territori su cui l’impero esercitava il suo potere sovrano;

- riekisen (利益線, linea degli interessi), che comprendeva i territori circostanti su cui il Giappone riconosceva di avere interessi sia sul fronte economico che sul fronte della sicurezza territoriale.

Sulla linea degli interessi giaceva, prima tra tutti, la Corea. Secondo Yamagata se la Corea, il “pugnale puntato contro il cuore del Giappone”, fosse stata lasciata in mano ai cinesi o peggio ancora ai russi, sarebbe stata usata come base per l’imposizione di un blocco navale che avrebbe tagliato il flusso degli approvvigionamenti dal continente, strangolando l’economia nipponica53.

La necessità prima di Tōkyō doveva essere quindi il controllo esclusivo della penisola coreana, in modo da garantire la sicurezza della propria linea di sovranità.

50 M. HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, cit., p. 43. 51T.MURANAKA, The background of the national-defence strategy conversion in Japan of the Meiji Era, cit.,

p. 100.

52 M.HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, cit., p. 44. 53 E.J.DREA, In the service of the Emperor: essays on Imperial Japanese Army, cit., p. 1426

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Secondo questi ragionamenti nei decenni successivi il Giappone avrebbe inserito nella linea degli interessi anche Cina, Russia e Mongolia, fondando sulla logica dell’espansione imperialistica la difesa della propria sovranità nazionale54.

Un altro aspetto che impensieriva Yamagata, ed in generale i vertici militari giapponesi, era lo sviluppo delle vie di comunicazione tra Asia, Europa ed America. Linee ferroviarie come la Pacifico-Canadese e soprattutto la Transiberiana (i cui lavori iniziarono nel 1891) permettevano lo spostamento veloce ed efficace di uomini, mezzi e rifornimenti.

A preoccupare il Giappone era naturalmente la Russia, la cui forza militare in Asia ammontava all’epoca a circa 180.000 soldati, ma anche la Cina, che aveva appena acquistato due corazzate di fattura tedesca e mirava alla creazione di un’ingente forza navale55. Yamagata, insieme al generale Kawakami Soroku e al ministro della Marina Kabayama Sukenori, si prodigarono per la creazione di una forza militare consistente che permettesse ai giapponesi di rifornire le truppe (arrivate ad un totale di 69.000 effettivi e 200.000 riservisti) che sarebbero sbarcate in Corea, di resistere ad un ipotetico attacco russo ed allo stesso tempo sostenere azioni militari oltremare contro i cinesi.

Oltre al piano di ampliamento della forza militare, già approvato nel 1882 con lo stanziamento di circa 20 milioni di yen, la Marina vide aumentare il proprio budget, il che le consentì di arrivare, nel 1892, ad annoverare 24 navi da guerra (ma nessuna corazzata)56. Nel 1888 i generali Katsura Tarō e Kawakami Soroku, nell’ottica di una guerra contro l’impero Qing per il controllo della Corea (previsto nei piani di difesa del 1880), riorganizzarono l’Esercito per renderlo capace di operare oltremare, aumentando il numero di effettivi e ampliando il numero dei reggimenti e delle divisioni.

I due generali, convinti dell’efficacia dell’espansione come metodo per garantire la sicurezza del Paese, dovettero subire l’opposizione della getsuyokai ( 月 余 会 , opposizione conservatrice), un gruppo di militari ritiratisi dal servizio, alla cui testa c’erano i generali Soga Sukenori e Miura Gorō.

La getsuyokai proponeva una visione mistica della nazione in cui l’imperatore era direttamente collegato al popolo, sostenendo di fatto che l’oligarchia e i partiti politici fossero del tutto superflui o addirittura dannosi. La posizione di tale gruppo nei confronti la politica estera era di matrice antimperialista. La filosofia di Sukenori, e in generale del

54 N.CHOUCRI,R.C.NORTH,S.YAMAKAGE, Challenge of Japan before WWII and after, Oxford, Routledge,

1992.

55 T.MURANAKA, The background of the national-defence strategy conversion in Japan of the Meiji Era, cit.,

p. 107.

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movimento, era che l’Esercito non dovesse superare i 90.000 regolari, di 15.000 militari popolari che gli potessero essere affiancati in caso di necessità e di una Marina che si limitasse a fare da supporto57.

Nel suo “Kokumin no tomo” (国民のとも, “l’amico della nazione”), Soga sosteneva che le Forze Armate non avessero bisogno di sottomettere e soggiogare, ma che avrebbero potuto soltanto respingere gli attacchi e rendere vani eventuali tentativi di invasione. Nella sua previsione, sicuramente troppo rosea, la Russia non avrebbe potuto trasportare più di 30.000 uomini e quindi non rappresentare un pericolo tale da motivare la somma di denaro che il governo aveva stanziato per l’ampliamento dello strumento militare58. Katsura, Kawakami e Yamagata, nonostante tutto, continuavano a credere che l’ampliamento delle fila dell’Esercito dovesse avere priorità anche sull’economia del paese, in modo da garantirne la sicurezza. Per impedire che il pensiero della fazione ampliasse la base dei consensi, creando dissenso, nel 1890 Katsura Tarō convinse il ministro della Guerra Iwao Ōyama ad accorpare la getsuyokai alla kaikosha ( 偕 行 社 , “combatteremo questa guerra fianco a fianco”), un’organizzazione di militari in congedo vicina alle posizioni dei tre ufficiali generali e di cui era a capo. Così facendo la getsuyokai venne smembrata e resa inoffensiva, soffocando la principale voce contraria alla dottrina della difesa imperialista che si andava affermando alla fine del secolo.

1.4 Tsushima e la sua idealizzazione: il Piano di difesa del 1907 e la “kantai kessen”

L’anno 1894 fu caratterizzato dal montare delle ostilità tra il Giappone e l’impero zarista, tensione che, nel volgere di pochi anni, sarebbe culminata con lo scoppio del conflitto tra le due Potenze.

L’Impero, con l’intento di estendere la propria linea di sovranità, stabilì che un intervento in Corea fosse necessario per difendere i propri interessi dal nemico russo59. Alla fine del 1894, dopo che un contingente militare sino-giapponese ebbe sedato alcuni focolai di protesta sul suolo coreano, entrambe le nazioni rifiutarono di ritirare le truppe e si dichiararono guerra. L’Esercito giapponese, ben organizzato, ottenne una facile vittoria nel Liaodong, mentre il 17 settembre 1895 la Marina ottenne la vittoria decisiva alla foce del fiume Yalu60. La Cina

57Ivi, p. 1835. 58Ivi, p. 1844.

59 M.HARRIES,S.HARRIES, Soldiers of the sun: the rise and the fall of the Imperial Japanese Army, cit., p. 60. 60 A.SANTONI, Storia e politica navale dell’era contemporanea, cit., p. 34.

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si vide costretta a firmare la pace con il Trattato di Shimonoseki, con il quale cedeva ai giapponesi l’agognata Corea, Taiwan e il Liaodong.

La preoccupazione nei confronti dell’espansionismo nipponico motivò il “Triplice intervento” di Germania, Francia e Russia, aumentando ulteriormente gli attriti.

L’atto decisivo per l’inizio delle ostilità russo-giapponesi si ebbe quando la Russia, dopo aver contribuito a sedare la “Rivolta dei Boxers”, ne approfittò per occupare la Manciuria. In un primo momento il Giappone cercò di fronteggiare la minaccia russa per via diplomatica. Nel 1902, con la firma del trattato di Londra, vennero riconosciuti i diritti giapponesi in Corea e la Russia sembrò onorare il contratto ritirando parte delle truppe dalla Manciuria. L’anno successivo, però, lo zar Nicola II assunse una posizione del tutto diversa e diede il suo consenso ad una nuova avanzata. Alla fine di ottobre Tōkyō si vide costretta a lanciare l’ultimatum: rispettare l’integrità territoriale di Cina e Corea.

I giapponesi iniziarono a studiare poi i piani per il conflitto, che scoppiò l’anno successivo. Il piano generale prevedeva l’esatta messa in pratica del concetto mahaniano di “difesa offensiva”, ed è riassumibile seguendo due linee guida: innanzitutto le navi della Marina, agli ordini dell’ammiraglio Heihachirō Tōgō, avrebbero dovuto portare a segno un attacco preventivo alla flotta asiatica dello zar, bloccando le navi russe a Port Arthur. La seconda linea sarebbe dovuta necessariamente passare dallo Stretto di Shimonoseki (e quindi per la Corea), in modo da assicurare il continuo rifornimento di uomini, mezzi, munizioni e viveri al contingente schierato sul continente.

Il ruolo della Marina sarebbe stato quindi di fondamentale importanza: attaccando i russi e costringendoli a Port Arthur avrebbe conseguito la superiorità numerica e, la minaccia della flotta asiatica, avrebbe permesso l’agevole spostamento delle truppe dal Giappone alla Corea.

L’attacco della flotta russa a Port Arthur, il 9 febbraio 1904, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il conflitto, della durata di circa un anno, avrebbe visto i giapponesi vittoriosi, ma ad un costo davvero elevato sia in termini di denaro che di vite umane. Il generale Maresuke Nogi, comandante in capo del contingente militare in Corea, mise in opera le dottrine belliche del maggiore Meckel sin dall’inizio del conflitto. Nogi puntava a prendere per primo l’iniziativa e ad ottenere la vittoria in tempi straordinariamente brevi, anche se incurante dei costi. Gli attacchi del generale, con tattiche che possono essere considerate preludio dei massacri delle trincee della Grande Guerra, costarono la morte di quasi 200.000 uomini giapponesi. Nel solo assedio di Port Arthur, gli attacchi frontali alla base russa fecero contare

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