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Introduzione

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Sviluppo precoce nei Vertebrati

Lo sviluppo embrionale nei Vertebrati passa attraverso una fase iniziale di segmentazione, in cui si hanno divisioni cellulari che si susseguono rapidamente, e una fase successiva di gastrulazione, in cui le cellule formatesi durante la segmentazione

vanno incontro a movimenti di vario tipo, senza tuttavia effettuare alcuna divisione.

Già a partire dallo stadio di blastula è possibile individuare quali porzioni dell’embrione contribuiranno alla formazione di strutture ectodermiche, mesodermiche ed endodermiche, delineando le cosiddette mappe del destino (Figura 1). Altre strutture, invece, sono specificate a seguito dei movimenti della gastrulazione, che determinano la giustapposizione e l’interazione di cellule con una competenza inizialmente diversa.

Gastrulazione

Studi sugli Anfibi hanno portato ad individuare un organizzatore (organizzatore di Spemann) che a partire dalle fasi iniziali della gastrulazione secerne segnali in grado di indurre la formazione di strutture dorsali nell’embrione, e che è localizzato a livello del labbro dorsale del blastoporo (Spemann, 1938). Strutture analoghe sono state trovate anche negli altri Vertebrati (ad esempio, il nodo nel topo, il nodo di Hensen nel pollo).

Con l’avanzare della gastrulazione, le cellule della zona del margine dorsale scivolano all’interno dell’embrione attraverso il labbro dorsale del blastoporo e si collocano al di sotto dell’ectoderma presuntivo al polo animale. A seguito di questo evento, una porzione di ectoderma presuntivo è specificata a diventare neurale. Esperimenti di coniugazione di cellule dell’organizzatore con tessuto dell’ectoderma presuntivo (Holtfreter, 1931) ed esperimenti di esogastrulazione degli embrioni di Anfibio (Holtfreter, 1933) hanno inizialmente fatto pensare che l’induzione di tessuto neurale fosse la conseguenza di segnali prodotti dal mesoderma presuntivo che agivano verticalmente sul neuroectoderma presuntivo soprastante. Negli anni seguenti, a questa ipotesi di induzione verticale si è aggiunta quella dell’induzione planare introdotta da Nieuwkoop, che portò alla formulazione del modello di attivazione-trasformazione (Nieuwkoop, 1952). Secondo questo modello, il tessuto neurale sarebbe inizialmente specificato come anteriore da segnali attivatori, e

Figura 1. Mappa del destino di un embrione di Xenopus laevis a stadio di gastrula precoce. La linea verde sul lato dorsale è la zona di formazione del labbro dorsale del blastoporo.

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un gradiente postero-anteriore di fattori trasformatori successivamente consentirebbe la formazione di tessuto neurale posteriore.

Per molto tempo si sono cercati fattori secreti dall’organizzatore che fossero responsabili di questa induzione neurale diretta, e solo per caso si è scoperto invece che è l’epidermide ad essere indotta, da fattori della superfamiglia TGFβ chiamati Bone Morphogenetic Proteins (BMPs). Il tessuto neurale si forma in quella porzione di ectoderma che risulta protetta dall’azione di questi ed altri fattori, e tale protezione è data da molecole secrete dall’organizzatore come Noggin, Chordin,

Follistatin (Smith e Harland, 1992; Sasai et al., 1994; Hemmati-Brivanlou et al., 1994; Hemmati- Brivanlou e Melton, 1994), (Figura 2).

Neurulazione

Laddove la via dei fattori BMP è inibita, la porzione dell’ectoderma si ispessisce e diviene piastra neurale; i processi che da qui portano alla formazione del primo rudimento del sistema nervoso centrale, il tubo neurale, rientrano collettivamente nel processo di neurulazione, e l’embrione che si trova a questo stadio dello sviluppo è pertanto indicato come neurula.

Durante la neurulazione la piastra neurale prende contatto con la notocorda sottostante e sfrutta questo punto di cardine per sollevarsi ai lati, originando le pliche neurali. Mentre l’intera struttura scivola sotto l’ectoderma, altri due punti cerniera consentono alle estremità distali delle pliche neurali di avvicinarsi e infine fondersi. La chiusura del tubo neurale comincia a livello della futura regione cervicale e si estende in senso anteriore e posteriore come una cerniera; rimangono provvisoriamente aperte le estremità (neuroporo anteriore e neuroporo posteriore).

Si forma dunque una struttura cava, che rapidamente perde i contatti con l’ectoderma circostante e viene da questo ricoperto.

Figura 2. Molecole implicate nel patterning dell’embrione. Si notino le varie proteine secrete dall’organizzatore (da Gaulden e Reiter, 2008).

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Differenziamento del tubo neurale

Ancor prima che la porzione posteriore del tubo neurale si sia formata, la porzione più anteriore è interessata da tre rigonfiamenti, in senso antero- posteriore: il prosencefalo, il mesencefalo e il romboencefalo. Successivamente, prosencefalo e romboencefalo si suddividono rispettivamente in telencefalo e diencefalo, metencefalo e mielencefalo (Figura 3).

Il telencefalo, che nasce inizialmente come struttura impari, originerà i due emisferi cerebrali; il diencefalo darà le vescicole ottiche e le strutture talamiche. Il mesencefalo ospiterà nuclei importanti per la coordinazione motoria, i collicoli superiori e i collicoli inferiori. Il metencefalo costituirà il cervelletto e il ponte; il mielencefalo, infine, ospiterà vari centri coinvolti nei riflessi involontari.

La regionalizzazione interessa il tubo neurale anche lungo l’asse dorso-ventrale. Nel midollo spinale, per esempio, la regione dorsale ospita i neuroni spinali che ricevono input dai neuroni sensoriali, mentre la regione ventrale è costituita dai neuroni motori. Tra queste due regioni si trovano numerosi interneuroni che fanno da ponte nel veicolare le informazioni.

La polarità del tubo neurale è indotta da segnali provenienti dall’ambiente immediatamente

circostante: infatti dorsalmente è l'epidermide a imporre il corretto pattern, mentre ventralmente è la notocorda a farlo (Figura 4).

La specificazione dell’asse ha inizio con l’azione di due classi di fattori paracrini: Sonic Hedgehog (SHH, secreto dalla notocorda) e fattori della superfamiglia TGFβ (secreti dall’epidermide).

Figura 3. Il tubo neurale di Mammifero, a stadio di 3 vescicole e di 5 vescicole (da Purves et al., Neuroscience).

Figura 4. Induzione dei due centri di segnalazione secondari nel tubo neurale, responsabili del patterning dorso-ventrale di quest’ultimo (da Gilbert et al.,Developmental Biology).

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Entrambi inducono la formazione nel tubo neurale di un centro di segnalazione secondario:

• floor plate (pavimento): cellule del punto di cardine ventrale del tubo neurale, che iniziano a secernere SHH;

• roof plate (tetto): cellule situate dorsalmente, nel punto in cui si saldano le pliche neurali;

iniziano a secernere BMP4.

SHH e BMP4 formano due gradienti di concentrazione che avranno il loro massimo nella regione che li produce. Tali gradienti concorrono a formare i vari tipi di neuroni che troviamo lungo l’asse dorso-ventrale del tubo neurale.

Sviluppo dell’occhio

Mentre il tubo neurale si chiude all’estremità posteriore, dal diencefalo si formano due evaginazioni laterali che prendono il nome di vescicole ottiche. Queste vanno a prendere contatto con l’ectoderma della testa, e in quella posizione determinano la formazione di un ispessimento detto placode della lente (il futuro cristallino), (Figura 5).

Invaginandosi, il placode della lente determina una pari introflessione della vescicola ottica (ora coppa ottica, o calice ottico) e causa quindi la giustapposizione di due strati: uno strato interno (retina presuntiva) dato dalla lamina interna e uno strato esterno (epitelio pigmentato

presuntivo) dato da quella esterna. Le due lamine nel corso dello sviluppo si avvicinano, determinando così l’accostamento della retina e dell’epitelio pigmentato. Questi non formeranno giunzioni particolari, ma rimarranno semplicemente giustapposti anche nell’organismo adulto.

Il peduncolo ottico che connette la coppa ottica al diencefalo permane, e a fine sviluppo darà il nervo ottico.

A internalizzazione completata la lente viene rivestita dall’ectoderma circostante, che costituirà la cornea.

Figura 5. Schema della formazione delle vescicole ottiche, che vanno a prendere contatto con l’ectoderma della testa (da Lamb et al., 2007).

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Retina adulta

La retina neurale è deputata alla ricezione e alla prima elaborazione degli stimoli visivi provenienti dal mondo esterno. Nell’organismo adulto presenta una struttura trilaminare, in cui si possono individuare tre strati nucleari (esterno, interno e delle cellule gangliari) e due strati interplessiformi (esterno ed interno):

• strato nucleare esterno: fotorecettori (coni e bastoncelli);

• strato interplessiforme esterno: fibre e connessioni sinaptiche delle cellule fotorecettoriali, bipolari ed orizzontali;

• strato nucleare interno: cellule orizzontali, bipolari ed amacrine;

• strato interplessiforme interno: fibre e connessioni sinaptiche delle cellule bipolari, amacrine e gangliari;

• strato delle cellule gangliari: cellule gangliari ed amacrine “displaced”.

Questi sei tipi cellulari consentono un flusso di informazioni verticale e uno laterale.

Il primo coinvolge fotorecettori, cellule bipolari e cellule gangliari. I fotorecettori codificano il segnale visivo in base alla luminosità, al colore e ad altre caratteristiche, e tramite le cellule bipolari passano le informazioni alle cellule gangliari, che con le loro fibre le inviano verso la corteccia visiva primaria e altre stazioni intermedie.

Il secondo, invece, coinvolge cellule orizzontali ed amacrine. Ha lo scopo di integrare flussi di informazione verticali che interessano diverse aree della retina in uno stesso momento, così da far pervenire alle aree centrali del sistema nervoso delle segnalazioni già in parte elaborate.

Emerge dunque un’architettura ben correlata con la funzione dei sei tipi cellulari che costituiscono la retina; inoltre appare evidente come questa abbia una struttura invertita rispetto alla fonte luminosa.

Esiste poi un settimo tipo di cellule non neurale, la glia di Müller, che estende i suoi prolungamenti

Figura 6. Dettaglio delle varie fasi dello sviluppo dell’occhio dei Vertebrati (da Gilbert et al., Developmental biology).

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dalla lamina limitante esterna (situata a metà corpo dei fotorecettori) alla lamina limitante interna (a ridosso delle fibre delle cellule gangliari). La sua funzione è correlata al supporto e al trofismo delle altre cellule retiniche, ma sembra che, a seguito di lievi danni alla retina o di somministrazione di fattori trofici, la glia di Müller possa entrare nel ciclo cellulare e agire da progenitore retinico (Ooto et al., 2004; Fischer, 2005).

Generazione dei vari tipi cellulari retinici

Durante lo sviluppo le cellule indirizzano il loro differenziamento sulla base delle segnalazioni ricevute dall’ambiente esterno e dell’espressione differenziale dei loro geni. Si pensa che la competenza dei progenitori a generare un tipo cellulare o un altro cambi durante l’avanzamento dello sviluppo. Tale variazione di competenza sarebbe dovuta al cambiamento delle condizioni esterne ed interne che condizionano i progenitori stessi nel corso dello sviluppo.

Analogamente a qualsiasi altro progenitore del sistema nervoso centrale, i progenitori retinici (RPCs) si trovano allineati in prossimità del lume del precedente tubo neurale, nella cosiddetta zona ventricolare retinica. Le cellule post-mitotiche prodotte lasciano man mano tale zona e

Figura 7. Schema raffigurante la retina neurale in sezione, coi singoli tipi cellulari disposti nei rispettivi strati (da Purves et al., Neuroscience).

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migrano in uno dei tre strati nucleari, dove si specializzeranno e formeranno le connessioni sinaptiche adeguate. Tramite esperimenti di incorporazione della timidina triziata (e di trasformazione con costrutti contenenti il gene della β-galattosidasi o della fosfatasi alcalina umana) si è dimostrato nei roditori che i progenitori retinici sono multipotenti, e originano tutti i sei tipi cellulari della retina secondo sequenze temporali precise e in parte sovrapposte (Cepko et al., 1996):

prima cellule gangliari, cellule orizzontali, coni e cellule amacrine, poi bastoncelli, e infine cellule bipolari e glia di Müller.

In questo quadro è stato dimostrato che i fattori estrinseci modulano il rapporto delle cellule retiniche prodotte, mentre l’espressione differenziale di geni homeobox e geni codificanti per fattori bHLH (Helix Loop Helix) è importante per indirizzare il progenitore verso la generazione di un particolare tipo cellulare piuttosto che un altro (Cepko 1999; Marquardt e Gruss, 2002; Hatakeyama e Kageyama, 2004), (Figura 8). Relativamente ai fotorecettori, per esempio, è importante il fattore di trascrizione Crx (cone rod homeobox), ovvero il primo gene specifico ad essere espresso in questo tipo cellulare (Chen et al., 1997; Furukawa et al., 1997): è coinvolto nella maturazione e nel mantenimento di un fenotipo fotorecettoriale funzionale in vivo, e controlla l'espressione di geni fotorecettore – specifici (Livesey et al., 2000).

Fattori della superfamiglia TGFβ come GDF11, inoltre, influenzerebbero la durata dell’espressione dei vari geni homeobox e bHLH, e di conseguenza il numero di cellule retiniche prodotte per ogni

Figura 8. Schematizzazione dell’ordine di generazione dei vari tipi cellulari che costituiscono la retina e dei fattori homeobox e bHLH alla loro base (da Harada et al., 2007).

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categoria cellulare (Harada et al., 2007).

In Xenopus, infine, è stato dimostrato che gli mRNA di geni homeobox tipici dei fotorecettori e delle cellule bipolari sono prodotti già nei precursori retinici precoci, ma la loro traduzione richiede la progressione nel ciclo cellulare da parte dei precursori stessi. E’ stato inoltre dimostrato che il blocco del ciclo cellulare in progenitori precoci impedisce la generazione di fotorecettori e cellule bipolari, ma la lipofezione della regione codificante degli homeobox relativi a queste cellule è in grado di sopperire al blocco (Decembrini et al., 2006).

Fotorecettori e fototrasduzione

I fotorecettori rappresentano la parte della retina deputata alla ricezione dello stimolo visivo.

Una breve e stretta connessione citoplasmatica (collo), contenente un ciglio vibratile, collega i due segmenti di cui sia coni che bastoncelli sono composti:

• segmento esterno: inserito nell’epitelio pigmentato e caratterizzato da cisterne di membrana plasmatica (dischi membranali), contenenti l’apparato deputato all’elaborazione degli stimoli luminosi;

• segmento interno: contenente il nucleo e tutti gli organelli cellulari.

I meccanismi che consentono ai fotorecettori di decodificare gli input visivi vanno complessivamente sotto il termine fototrasduzione. L’apparato che

consente la fototrasduzione si trova a livello dei dischi membranali, e consta di vari elementi.

Il fotopigmento è composto da una parte proteica genericamente indicata con Opsina, ma che assume diversi nomi a seconda del tipo di fotorecettore (ad esempio, Rodopsina nei bastoncelli), e da un cromoforo derivante dalla vitamina A, il retinale, che in stato di riposo delle cellule si trova nella forma di 11-cis-retinale. L’opsina è un recettore metabotropico a sette domini transmembrana, collegato a una proteina G detta transducina. Di questa esistono vari sottotipi, di cui alcuni specifici per i bastoncelli e altri specifici per i vari tipi di coni (Lerea et al., 1986).

Con l’arrivo di un fotone, il retinale subisce un cambio conformazionale e diviene “tutto trans”; in questo modo perde di affinità per l’opsina, che a sua volta subisce modificazioni in grado di attivare la transducina. Quest’ultima, essendo una proteina G, in stato inattivo lega GDP ma quando attivata

Figura 9. Rappresentazione della struttura dei fotorecettori (da Purves et al., Neuroscience).

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lega il GTP: la subunità catalitica α dunque si separa dalle altre e diffonde nella membrana, fino a raggiungere ed attivare varie fosfodiesterasi (Pde6). Il suo effetto termina una volta idrolizzato il GTP a GDP.

In stato di riposo (al buio) vari canali di membrana al sodio sono mantenuti aperti dal legame col cGMP, e per questo il potenziale si aggira attorno ai -30 mV. Le fosfodiesterasi, anch’esse presenti in vari sottotipi specifici dei coni e dei bastoncelli, idrolizzano gran parte del cGMP di tali canali a GMP; ciò determina la loro chiusura, e induce nel fotorecettore un’iperpolarizzazione tipica dello stato attivato, che corrisponde circa a -70 mV (Figura 10).

Retinopatie e terapia cellulare

La retina è interessata da molte patologie di origine non infiammatoria, che vanno sotto il nome di retinopatie. Le cause alla base di queste patologie possono essere le più diverse, da quella genetica a quella metabolica, ma ad accomunarle sono più che altro le conseguenze: infatti la maggior parte di esse è invalidante e comporta una graduale perdita della vista, che da ultimo sfocia spesso nella cecità totale.

Tra le retinopatie più studiate compare la retinite pigmentosa, una retinopatia degenerativa periferica così definita perché comporta un accumulo di pigmento in vari punti della retina periferica (Figura 11). Molti loci genetici mutati sono stati associati alla patologia, e sono soprattutto interessati i geni fotorecettoriali: non a caso la conseguenza ultima è una degenerazione

Figura 10. Riepilogo del processo di fototrasduzione. A) Struttura del fotopigmento dei fotorecettori, con una parte proteica definita Opsina e un cromoforo che in stato di riposo è detto 11-cis-retinale; B) Meccanismi innescati dall’arrivo di un fotone, nel segmento esterno di un bastoncello. PDE = fosfodiesterasi (da Purves et al., Neuroscience).

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delle cellule epiteliali pigmentate e dei fotorecettori, quest’ultima probabilmente dovuta a un riciclo inefficiente dei dischi membranali contenuti nei segmenti esterni.

In casi come questi ancora non esistono cure efficaci, ma una speranza sembra provenire dalla terapia cellulare sostitutiva. Si tratta di prelevare cellule staminali adulte o cellule staminali embrionali e di farle differenziare in coltura nei tipi cellulari richiesti, in questo caso quelli coinvolti nella malattia; prima del differenziamento le cellule possono essere eventualmente modificate per esprimere geni correttivi, e in questo caso si parla di terapia genica.

Le cellule differenziate sono infine trapiantate laddove si è avuto il danno; se si integrano nel modo corretto e stabiliscono le giuste connessioni nel tessuto ospite allora si dovrebbe assistere a un recupero anatomico e funzionale.

Allo stato attuale, non vi è un uso clinicamente convalidato di cellule staminali umane per applicazioni terapeutiche nel sistema nervoso. Tuttavia, un lavoro promettente nei topi e altri animali da esperimento indica che cellule somatiche e staminali embrionali possono acquisire identità specifiche, se vengono date loro opportune istruzioni in vitro (prima dell'introduzione nel paziente), e se poste in un ambiente ospite favorevole (Figura 12).

Figura 11. Immagine che mostra il deposito di pigmento in un occhio affetto da Retinite Pigmentosa.

Figura 12. Terapie disponibili o in sperimentazione. La terapia cellulare consente di coltivare staminali embrionali o staminali prelevate dal paziente, se necessario trasfettarle con geni correttivi, farle differenziare e infine trapiantarle nel tessuto danneggiato. In caso di terapia genica si può intervenire anche trasfettando il gene correttivo direttamente nei tessuti del paziente.

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Questo è stato già provato nell’uomo per patologie come Parkinson, Hungtinton e Sclerosi Laterale Amiotrofica, ma nelle malattie retiniche siamo ancora al livello della sperimentazione animale (Yu e Silva, 2008). Dei numerosi studi condotti, due sono stati gli approcci di trapianto di cellule staminali, o cellule derivate dalle staminali, per recuperare la retina degenerata:

1) promuovere la sopravvivenza dei fotorecettori tramite ripristino delle funzioni di supporto dell’epitelio pigmentato retinico (RPE), attraverso innesti subretinici di cellule RPE-simili derivate dalle staminali (Lund et al., 2006);

2) direttamente sostituendo i fotorecettori persi con cellule staminali trapiantate o precursori retinici fatti differenziare e integrare nello strato nucleare esterno (MacLaren et al., 2006).

Per questo motivo c’è un interesse crescente nella comprensione dei meccanismi molecolari che sottostanno al differenziamento in tipi cellulari come quelli retinici.

Xenopus laevis come sistema modello

Xenopus laevis è un anfibio anuro che offre diversi vantaggi come sistema modello.

Anzitutto è un animale di dimensioni relativamente piccole, e ciò consente di tenere un buon numero di esemplari anche in stabulari di modeste dimensioni.

Le femmine possono essere indotte a deporre un gran quantitativo di uova mediante stimolazione ormonale; poiché la fecondazione è esterna, le uova possono essere raccolte e fecondate artificialmente coi testicoli dei maschi (prelevati con una piccola operazione chirugica).

Gli embrioni delle prime fasi dello sviluppo si prestano bene alle manipolazioni sperimentali, in quanto hanno cospicue dimensioni (circa 1-2 mm di diametro); successivamente i vari cambiamenti morfologici sono seguiti con facilità, grazie al fatto che i girini hanno gran parte dei tessuti trasparenti.

Uno degli svantaggi di questo sistema modello è la lontananza filogenetica dall’uomo e l’impossibilità di effettuarvi dei knock-out genici classici e condizionali. Al più si riescono a praticare knock-down funzionali con una buona percentuale di silenziamento genico, tramite la tecnica del morfolino.

Saggio degli animal cap

Xenopus si presta però molto bene a saggi induttivi di vario tipo, tra cui l’“animal cap assay”.

Il saggio degli animal cap (Yamada and Takata, 1961) consiste nell’espianto della calotta animale

che costituisce il tetto del blastocele nell’embrione a stadio di blastula tardiva/gastrula precoce. Tale

espianto è composto da pochi strati di cellule ectodermiche destinate a svilupparsi in epidermide e

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tessuto nervoso durante lo sviluppo.

Un piccolo numero di animal cap viene posto uno sopra l’altro con le cellule interne a contatto e l’epitelio pigmentato all’esterno, a formare degli agglomerati. Questi nel giro di pochi minuti tendono a formare una struttura compatta, in cui le cellule ectodermiche più superficiali assumono caratteristiche epiteliali, sviluppando giunzioni strette.

Per testare un eventuale effetto di induzione sugli animal cap è possibile aggiungere le proteine ricombinanti in studio alla soluzione isotonica, o in alternativa microiniettare un mRNA di sintesi (codificante per la stessa proteina) nell’embrione a stadio di due o quattro cellule. Nel secondo caso non è chiaro quale sia il

pattern temporale di traduzione del trascritto, ovvero la finestra temporale in cui viene effettivamente prodotta la proteina, ma è un espediente che si rivela necessario qualora non esista in commercio la proteina ricombinante che si vuole testare (Figura 13).

Da questi studi è stato possibile ottenere in vitro tipi cellulari di origine ectodermica, mesodermica ed endodermica, a seconda del tipo di induttore usato di volta in volta: ciò ha fatto sì che le cellule dell’animal cap fossero considerate staminali embrionali pluripotenti (Animal Cap Embryonic Stem cells, o ACES) (Lan et al., 2009).

Noggin

Noggin è stato identificato per la prima volta nei laboratori di Richard Harland mediante esperimenti di recupero funzionale in embrioni ventralizzati di Xenopus. Ha una singola cornice di lettura che codifica per una proteina secreta di circa 26 kDa, che si trova attiva in forma di omodimero. La sua espressione è rilevata in forma consistente a stadio di gastrula precoce nel territorio dell’organizzatore (zona del margine dorsale), mentre a stadi più tardivi la si ritrova a livello del mesoderma precordale e poi della notocorda (Smith e Harland, 1992), (Figura 14). La sua espressione in posizioni ectopiche è sufficiente a indurre la formazione di un secondo organizzatore, e in ultima analisi di un secondo asse corporeo privo di testa. Analogamente all’organizzatore, infatti, è capace di indurre la formazione delle strutture nervose anteriori in modo diretto, sia in vivo

Figura 13. Saggio degli animal cap, schema che riassume le potenziali capacità differenziative delle cellule dell’espianto (da Ariizumi et al., 2009).

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che in vitro su espianti embrionali, ed è altresì in grado di dorsalizzare il mesoderma (Lamb e Harland, 1993; Knecht e Harland, 1995; Smith e Harland, 1993).

La funzione di Noggin, similmente a proteine come Chordin e Follistatin, si attua mediante inibizione della via di BMP (in particolare BMP2, BMP4 e BMP7), che di per sé ha

azione ventralizzante e induce un destino epidermico nelle cellule dell’ectoderma presuntivo in cui si attiva. Le cellule che risultano “protette” da tale via, quindi, daranno strutture dorsali. E’ stato dimostrato che Noggin agisce mediante legame specifico dei fattori BMP, e in questo modo previene il loro legame sui recettori di membrana dedicati (Zimmerman e Harland, 1996).

Il campo morfogenetico dell’occhio

Studi condotti su vari Vertebrati hanno dimostrato che in realtà il territorio presuntivo da cui trae origine l’occhio è specificato già nelle fasi iniziali della neurulazione, ancora prima della comparsa delle vere e proprie vescicole ottiche. Tale territorio è definito campo morfogenetico dell’occhio, o

“eye field”.

Nel pollo e in Xenopus si è dimostrato che la regione in questione si colloca nella porzione più anteriore della piastra neurale, e inizialmente appare come un dominio unico; in seguito a segnalazioni provenienti dal mesoderma precordale sottostante si ottengono poi due eye field bilaterali e simmetrici (Li et al., 1997), (Figura 15).

In Xenopus già a stadio di mid-gastrula

l’ectoderma dorsale ha ricevuto i segnali che lo inducono alla specificazione dell’eye field (Saha et al., 1992).

L’eye field si specificherebbe all’interno del territorio di espressione del marker prosencefalico/mesencefalico otx2, che sembra avere un ruolo permissivo per la sua formazione. In corrispondenza del territorio dell’eye field l’espressione di otx2 è inibita presumibilmente da fattori Rx, e rimane quindi periferica. Questo sembra essere correlato col fatto che al centro dell’eye field

Figura 14. Ibridazione in situ “whole mount” per Noggin, nell’embrione a stadio di gastrula precoce (a sinistra) e di neurula (a destra), (da Smith e Harland, 1992).

Figura 15. Territorio corrispondente al campo morfogenetico dell’occhio: a stadio di neurula precoce appare come un dominio continuo, ma già a stadio di neurula inoltrata appare diviso in due domini distinti.

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si indurrà la formazione della retina neurale, mentre nel circostante territorio di espressione di otx2 si specificherà la formazione dell’epitelio pigmentato (Martìnez-Morales et al., 2003).

Fattori coinvolti nella specificazione dell’eye field (EFTFs)

Evidenze molecolari dimostrano che la specificazione è data da una serie di fattori di trascrizione che nella porzione anteriore della piastra neurale hanno domini di espressione continui, e per lo più sovrapposti: tra questi, ET, Rx1, Pax6, Six3, Lhx2, tll, Optx2 (Chow e Lang., 2001; Zuber et al., 2003). In molti casi questi fattori di trascrizione dell’eye field (EFTFs) sono stati individuati per omologia con geni di Drosophila.

ET è un gene contenente T-box appartenente alla subfamiglia tbx2. Si esprime molto precocemente

nell’eye field, e sembra interagire con otx2 (Li et al., 1997, Zuber et al., 2003); al momento non si sono trovati omologhi tra i Vertebrati superiori.

Pax6 è un gene appartenente ai fattori di trascrizione paired-like descritti per la prima volta in

Drosophila (Hill et al., 1991). Si esprime nella piastra neurale anteriore e ha un ruolo cruciale nella formazione dell’occhio nei Vertebrati: nell’uomo, mutazioni a carico di pax6 comportano malformazioni come cataratta, aniridia, anomalia di Peter (Glaser et al., 1992; Hanson et al., 1994;

Jordan et al., 1992; Ton et al., 1991). Nel topo e nel ratto determinate mutazioni causano la sindrome Small eye (Sey), che comporta la mancanza di occhi e dei primordi nasali (Hill et al., 1991; Fujiwara et al., 1994). La sovraespressione di pax6 in altri tessuti causa invece la formazione di occhi ectopici, aventi un’organizzazione cellulare molto simile a quella mostrata dalla retina wild type (Chow et al., 1999).

Six3 è omologo al gene optix di Drosophila (Seimiya et al., 2000). E’ espresso nella piastra neurale

anteriore, e in seguito nello sviluppo la sua espressione rimane a livello dei primordi dell’occhio, nell’ipotalamo e nella ghiandola pituitaria (Oliver et al., 1995). Mutazioni a suo carico nell’uomo sono state correlate a un difetto nello sviluppo del prosencefalo, noto come oloprosencefalia (Wallis et al., 1999; Pasquier et al., 2000). Nel topo la sovraespressione di six3 in altri tessuti è responsabile della formazione di strutture ectopiche simili a vescicole ottiche (Lagutin et al., 2001).

Rx (o rax nel topo) è un gene omeobox molto importante per lo sviluppo dell’occhio. Sia in

Xenopus che nel topo è espresso inizialmente nella piastra neurale anteriore, e successivamente nel

prosencefalo ventrale e nella retina in sviluppo. A stadi embrionali tardivi, rx è espresso solo a

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livello di cellule in attiva proliferazione in prossimità della zona ventricolare retinica, e la sua espressione decresce man mano che si formano tipi cellulari differenziati che si allontanano da essa (Casarosa et al., 1997; Mathers et al., 1997;

Furukawa et al., 1997). I mutanti rx

-/-

mostrano fenotipi più o meno gravi che interessano la sola formazione delle vescicole ottiche (Zhang et al., 2000), (Figura 16) o l’intero prosencefalo e mesencefalo (Furukawa et al., 1997; Mathers et al., 1997). Analogamente al topo, anche nell’uomo mutazioni nel gene RAX sono correlate a microftalmia e anoftalmia (Voronina et al., 2004; London et al., 2009).

Optx2 (detto anche six6 o six9) è un altro membro della famiglia Six, e così come six3 è omologo al

gene optix di Drosophila (Seo et al., 1998; López-Ríos et al, 1999; Jean et al., 1999). I pattern di espressione di optx2 e six3 sono molto simili, così come simili sono gli effetti sull’uomo di mutazioni a loro carico (Wawersik e Maas, 2000).

Tailless (tll) è un gene di Drosophila responsabile del patterning delle estremità dell’embrione. Nel

topo si esprime nel prosencefalo e in due strutture che richiedono segnali induttivi da questo: occhi e naso (Monaghan et al., 1995).

Lhx2 è omologo ad apterous di Drosophila e contiene sia un omeodominio che un dominio LIM

(Xu et al., 1993; Rincón-Limas et al., 1999). Il knockout omozigote di lhx2 riesce a formare le vescicole ottiche, ma lo sviluppo dell’occhio si ferma prima della formazione delle coppe ottiche, e risulta in un’anoftalmia dell’animale (Porter et al., 1997).

Interazioni tra gli EFTFs

Un lavoro descritto da Zuber (Zuber et al., 2003) ha chiarito per la prima volta come interagirebbero inibitori della via di BMP, otx2 e i vari EFTFs per specificare l’eye field in Xenopus.

Analisi di RT-PCR condotte per i vari EFTFs a stadi successivi dello sviluppo, partendo dalla cellula uovo e finendo a stadio 18, mostrano che il gene ET si esprime più precocemente degli altri.

Seguono pax6, six3 e rx1, che mostrano una forte espressione tra lo stadio 12 e 12.5, poi tll e lhx2, e infine optx2 (Figura 17).

Figura 16. Fenotipo dei topi knockout omozigoti per rx (da Mathers et al., 1997).

(17)

La microiniezione dell’mRNA sintetico di inibitori della via di BMP (come noggin) nell’embrione a stadio di una o due cellule, in un saggio di animal cap, porta alla sovraespressione di tutti gli EFTFs eccetto ET.

La microiniezione degli mRNA di noggin e otx2 insieme porta all’espressione di tutti gli EFTFs, ET compreso. Era già stato osservato che la microiniezione di mRNA sintetico di

noggin e chordin induce l’espressione di marker retinici negli animal cap (Andreazzoli et al., 1999;

Lupo et al., 2002)

Saggi di animal cap in cui gli embrioni di partenza sono stati microiniettati con l’mRNA di un EFTFs alla volta hanno infine portato a disegnare un possibile quadro di interazioni (Figura 18).

Esperimenti precedenti hanno dimostrato che la sovraespressione di six3, pax6, optx2 o rx nell’embrione è sufficiente a indurre la formazione di un occhio ectopico, che tuttavia si forma sempre entro il territorio di espressione di otx2 (Chuang e Raymond, 2002). Invece, la sovraespressione di tutti gli EFTFs induce la formazione di occhi ectopici anche al di fuori

Figura 17. Territorio di espressione degli EFTFs a stadio 12.5 (U) e 15 (V) dello sviluppo di Xenopus (da Zuber et al., 2003).

Figura 18. Sequenza temporale di espressione degli EFTFs, e possibile schema di interazioni (da Zuber et al., 2003).

Figura 19. Occhio formatosi in posizione ectopica a seguito della sovraespressione degli EFTFs. La testa delle frecce indica l’epitelio pigmentato e le lenti (da Zuber et al., 2003).

(18)

del sistema nervoso, sebbene non sia ancora chiaro se questo effetto sia dovuto all’aggiunta di otx2 al cocktail di fattori (Zuber et al., 2003). Tali occhi sono provvisti di lente, e in sezione esprimono i marker dei principali tipi cellulari retinici (Figura 19).

In questo contesto, la funzione di inibitori della via di BMP come noggin sembra essere solamente quella di neuralizzare l’ectoderma e di preparare il terreno alla successiva azione di otx2 e degli EFTFs.

Una nuova visione di Noggin

Recentemente un articolo ha gettato nuova luce sulle potenziali capacità induttive di Noggin (Lan et al., 2009).

Il saggio degli animal cap su embrioni microiniettati con mRNA sintetico di noggin, ha dimostrato una relazione tra quantità iniettata ed espressione di marker retinici. La somministrazione di alte dosi di Noggin (20 pg) è in grado di accendere l’espressione di geni come Xbh1, brn3d (cellule gangliari), opsina, NRL (fotorecettori), prox1 (cellule orizzontali), hermes (cellule gangliari), vsx1 (cellule bipolari); l’espressione è specifica, in quanto non si accendono altri marker telencefalici.

A basse dosi (5 pg) l’espressione di geni retinici non si registra; la dose minima richiesta per ottenere questo effetto è stata individuata attorno ai 15 pg. Non è chiaro, quindi, se si tratti di una relazione dose-

dipendente oppure di una soglia di concentrazione che deve essere superata per osservare questo fenotipo. In tutti i casi si ha l’espressione di marcatori neurali generici (sox2) e di precursori retinici indifferenziati in attiva proliferazione (ciclina D1, Xotch, Xash1, neuroD), (Figura 20).

Reazioni di immunoistochimica e ibridazione in situ su sezione, effettuate su animal cap trattati con basse e alte dosi di Noggin, mostrano che i principali tipi cellulari retinici si dispongono su strati in

Figura 20. RT-PCR condotta su animal cap portati fino a stadio 39. A) Marker retinici e del differenziamento neurale generico; B) Marker dei progenitori retinici; Pax2, Vax2 e Zic2: geni chiave del patterning dorso-ventrale della retina;

HisH4: housekeeping. Abbreviazioni: we = whole embryo, uninj. = non iniettato, GFP = animal cap di embrioni trattati con GFP (da Lan et al., 2009).

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modo del tutto simile alla posizione che occupano nelle retine wild type. Cellule positive all’Opsina sono disposte sulla superficie degli animal cap, cellule positive per Vsx1 si collocano in uno strato subito sottostante e cellule che esprimono Hermes si trovano ancora più all’interno degli animal cap.

Inoltre molte cellule risultano ancora proliferanti, come dimostrato dall’incorporazione di etinil- deossiuridina (EdU), (Figura 21).

Un’ulteriore osservazione sperimentale ha infine permesso di rivedere l’effettiva potenzialità di noggin. Embrioni a stadio 15 a cui viene rimosso un eye field non formano un occhio nel lato operato. Se al posto dell’eye field rimosso si effettua un trapianto isocronico di animal cap provenienti da embrioni trattati con alte dosi di Noggin si assiste alla formazione di un occhio completo. La stessa cosa si ottiene trapiantando

tali animal cap in zone più posteriori dell’embrione, per esempio al posto del quarto posteriore della piastra neurale, anche se in questo caso non si ha la formazione della lente.

Invece non si assiste alla formazione di un occhio qualora gli animal cap provengano da embrioni microiniettati con basse dosi di Noggin o con la sola GFP, usata in tutti i casi per riconoscere le cellule trapiantate (Figura 22).

Figura 21. Sezioni di animal cap con basse e alte dosi di Noggin: immunoistochimica per EdU, Opsin e Hermes, ibridazione in situ per Vsx1; p = pigmento (da Lan et al., 2009).

Figura 22. Risultato del trapianto di ACES con: A, D) GFP; C, F) alte dosi di Noggin; B, E) basse dosi di Noggin. Il trapianto è stato effettuato al posto di un eye field (A, B, C) o del quarto posteriore della piastra neurale (D, E, F); (da Lan et al., 2009).

(20)

In sezione, e a seguito di immunoistochimica e ibridazione in situ, si osserva un’espressione stratificata dei principali marker retinici solo nel caso di occhi con alte dosi di Noggin. In pochi casi i trapianti anteriori di animal cap con basse dosi di Noggin esprimono alcuni dei marcatori retinici.

Infine, procedure di elettrofisiologia hanno dimostrato che i fotorecettori degli occhi trapiantati rispondono alla luce in modo del tutto paragonabile ai fotorecettori di un occhio wild type, osservazione che indica che questi occhi non solo hanno una corretta istologia, ma potenzialmente sono in grado di elaborare le informazioni visive nel modo corretto.

Tutto questo contribuisce ad ampliare la visione riduttiva secondo cui noggin avrebbe solo un ruolo permissivo nella formazione degli occhi, e soprattutto evidenzia come sia sufficiente a indurre la formazione di strutture anteriori.

Sviluppo precoce nei Mammiferi

Per quanto le conoscenze acquisite in Xenopus laevis siano importanti, la distanza filogenetica tra questo sistema modello e l’uomo non consente di passare direttamente all’applicazione terapeutica;

per questo motivo è importante iniziare a vedere cosa si sa a riguardo nei Mammiferi.

Nei Mammiferi la fecondazione è interna, e questo in parte costituisce un ostacolo per seguire nel dettaglio lo sviluppo embrionale.

La cellula uovo è fecondata a livello dell’ampulla dell’ovidotto, e lo zigote va incontro alle prime divisioni mediante un processo di segmentazione rotazionale. A inizio stadio di 8 cellule, le singole cellule sono ancora distinguibili, ma a seguito della terza divisione si assiste a un fenomeno di compattazione: i blastomeri esterni sviluppano giunzioni strette, mentre quelli più interni formano giunzioni gap.

A stadio di 16 cellule si ha la morula, che è costituita da un piccolo gruppo di cellule interne e un gruppo più numeroso di cellule esterne. Inizialmente la morula è

una struttura compatta, ma rapidamente va incontro a un processo di cavitazione: le cellule esterne rilasciano ioni Na

+

all’interno dell’embrione, e questo determina un richiamo osmotico di acqua che porta alla formazione di un blastocele.

Col susseguirsi delle divisioni e l’espansione del blastocele si ha la formazione di una blastocisti (Figura 23), in cui un primo importante evento di separazione di lineage distingue definitivamente:

• cellule del trofoblasto: in parte derivate dalle cellule esterne

Figura 23. Blastocisti di topo.

Le cellule in rosso sono quelle della massa interna (da Boiani et al., 2002).

(21)

della morula, costituiscono un guscio di cellule che permette l’impianto della blastocisti nell’utero e partecipano alla formazione del chorion;

• cellule della massa interna (ICM): cellule che origineranno l’embrione e gli annessi embrionali.

Dopo la schiusa, la blastocisti ormai libera dalla membrana pellucida può impiantarsi nell’utero. La blastocisti post-impianto precoce è infine interessata da un secondo evento di separazione di lineage, che porta alla distinzione di un:

• epiblasto: responsabile della formazione dell’embrione, ma anche dell’ectoderma amniotico;

• ipoblasto: alla base della formazione dell’endoderma extraembrionale e del sacco vitellino.

Le cellule dell’ipoblasto da una parte rivestiranno l’epiblasto divenendo endoderma viscerale, mentre dall’altra delaminano dalle cellule della massa interna per rivestire la cavità interna del blastocele e divenire endoderma parietale. Parallelamente, le cellule dell’epiblasto non embrionale si separano dalle altre per consentire la formazione dell’amnion.

Gastrulazione nei Mammiferi

L’epiblasto dei Mammiferi può avere forma diversa a seconda delle specie: nell’uomo assume la

Figura 24. Riassunto delle varie fasi che portano lo zigote a divenire una blastocisti matura, pronta per l’impianto nella parete uterina.

(22)

forma di disco, mentre nel topo ha una forma a coppa.

La gastrulazione inizia all’estremità posteriore dell’embrione, laddove si forma il nodo di Hensen (o semplicemente “nodo”, nei Mammiferi), che rappresenta l’organizzatore delle strutture del tronco. Attraverso il nodo si ha un’ingressione di cellule mesodermiche che formeranno la notocorda, che vanno a localizzarsi tra epiblasto ed endoderma viscerale. Altre cellule endodermiche e mesodermiche provenienti dall’epiblasto entrano attraverso il nodo e la stria primitiva, e migrano via via anteriormente (Figura 25).

In questo modo si forma il secondo centro organizzatore a

livello dell’endoderma viscerale anteriore (AVE), che è responsabile della formazione delle strutture più anteriori dell’embrione ed è inizialmente distante dall’organizzatore del nodo, contrariamente a quanto avviene negli Anfibi (dove i centri responsabili dell’induzione delle strutture anteriori e del tronco sono posti in continuità spaziale). Nel corso della gastrulazione i due organizzatori tendono ad avvicinarsi anche nei Mammiferi.

Durante la neurulazione, il cordomesoderma assiale fornisce le molecole responsabili dell’induzione del sistema nervoso posteriore, a livello dell’epiblasto soprastante: tra i fattori secreti troviamo Noggin e Chordin, esattamente come nei tessuti che derivano dall’organizzatore di Spemann negli Anfibi.

L’endoderma viscerale anteriore, invece, induce la formazione del sistema nervoso anteriore

Figura 25. Gastrulazione e neurulazione nel topo. Le cellule che per prime compiono un’ingressione attraverso il nodo vanno a costituire l’organizzatore dell’endoderma viscerale anteriore (AVE) e il cordomesoderma assiale. Dalla loro attività di induzione si ha la formazione del sistema nervoso.

(23)

mediante rilascio di fattori come Dickkopf (Dkk), Cerberus e LeftyA, anche in questo caso analogamente a quanto avviene negli Anfibi.

Le cellule staminali di Mammifero: un altro sistema modello

Le cellule staminali si distinguono da tutti gli altri tipi di cellule nel corpo. Tutte le cellule staminali, a prescindere dalla loro origine, hanno tre caratteristiche generali:

• sono in grado di dividersi e di rinnovarsi per lunghi periodi: questo si ottiene per divisione simmetrica, ed è un processo che va sotto il nome di “self-renewal”;

• non sono specializzate;

• possono dar luogo a tipi cellulari specializzati: una cellula staminale può dare origine a un’altra staminale e ad una cellula in parte committed. Quest’ultima è definita cellula precursore, o cellula proliferatrice in transito (Figura 26).

Le cellule staminali vere e proprie normalmente tendono a non compiere divisioni, se non quando il compartimento staminale va incontro a una parziale deplezione a causa di danni e lesioni tissutali; in questo caso le cellule staminali si attivano e promuovono il

ripopolamento del

compartimento danneggiato.

La generazione di tipi cellulari specializzati è invece compito dei precursori, originati dalle staminali tramite:

• asimmetria della

divisione: alcuni determinanti citoplasmatici saranno segregati solo in una delle due cellule figlie, e ne stabiliranno il commitment o il mantenimento della staminalità;

• asimmetria nel microambiente: la nicchia in cui una delle due cellule figlie viene a trovarsi può avere caratteristiche diverse da quella della staminale di origine.

Diverse tipologie di staminali possono contribuire in ultima analisi alla formazione di un numero

Figura 26. Divisione asimmetrica. Una cellula staminale può originare una cellula figlia ancora staminale e un’altra che è invece committed: la cellula proliferatrice in transito. Quest’ultima si dividerà per dare cellule sempre più specializzate, e infine differenziate (da Alberts et al., Molecular Biology of the Cell).

(24)

variabile di tipi cellulari, in base alla loro potenzialità. Pertanto si distinguono staminali:

• totipotenti: i blastomeri nelle prime divisioni di segmentazione sono in grado di dare qualsiasi tipo di cellula dell’organismo adulto, anche se in coltura è difficile provare questa capacità;

• pluripotenti: le cellule della massa interna della blastocisti pre-impianto possono dare tutti i tipi cellulari dei tre foglietti embrionali, ma non le cellule del trofoblasto (che si sono già specificate durante il primo evento di separazione di lineage);

• multipotenti: cellule staminali che possono originare solo un certo numero di cellule, correlate tra loro (ad esempio, le staminali ematopoietiche);

• oligopotenti: cellule staminali che possono originare un ristretto numero di tipi cellulari (esempio, le staminali della linea linfoide e mieloide);

• unipotenti: staminali in grado di dare un solo tipo cellulare, come quelle epiteliali (danno solo cheratinociti).

Le cellule staminali in coltura hanno un’elevata frequenza di divisioni, che le porta a occupare tutta la superficie disponibile nel giro di breve tempo: questa condizione va sotto il nome di confluenza, e deve essere evitata se si vogliono garantire la vitalità e le caratteristiche proprie delle cellule staminali.

Cellule staminali embrionali (ES)

In generale, si può parlare di staminali embrionali o di staminali del tessuto adulto; mi soffermerò sul primo tipo di cellule.

Cellule staminali embrionali con caratteristiche pluripotenti sono state isolate per la prima volta nel topo a seguito dell’espianto delle cellule della massa interna della blastocisti pre-impianto (Evans e Kaufman, 1981; Martin, 1981). Essendo pluripotenti, queste cellule possono differenziare in un qualsiasi tipo cellulare derivante dai tre foglietti embrionali. Tuttavia questa loro caratteristica non si accompagna a una pari plasticità: se trapiantate in un qualsivoglia tessuto di un organismo adulto non sono in grado di adattarsi al nuovo microambiente. Al contrario, le molteplici segnalazioni che ricevono hanno effetti contrastanti, e da ultimo portano alla formazione di un teratoma o teratocarcinoma (tumori che non a caso sono costituiti da un po’ tutti i tipi cellulari dell’organismo).

L’uso in terapia, quindi, può avvalersi solo di staminali correttamente differenziate in vitro prima

del loro possibile impianto. Per ottenere questo, si cerca di utilizzare fattori e molecole induttive

normalmente presenti nel microambiente in cui le cellule differenziate si formano durante

l’embriogenesi. In altre parole, si cerca di riprodurre il contesto molecolare e fisiologico in cui le

cellule dell’embrione sono man mano indirizzate verso fenotipi specifici.

(25)

Le ES si formano durante il primo evento di separazione di lineage, in cui si ha la distinzione tra cellule del trofoectoderma e cellule della massa interna (ICM), ma a livello molecolare tale evento è già determinato a stadio di morula compattata grazie all’espressione del gene oct4.

Oct4 è un fattore di trascrizione della classe POU5 (nome che sta per Pit, Oct e Unc). E’

riconosciuto come marker di cellule indifferenziate e in attiva proliferazione, in quanto è necessario per il mantenimento dello stato indifferenziato e della proliferazione delle cellule della massa interna e dell’epiblasto (Nichols et al., 1998).

Oct4 è inizialmente espresso nell’oocita del topo, ma la sua espressione scompare durante i primi eventi di segmentazione, per poi ricomparire a stadio di 4 cellule, quando il genoma dello zigote comincia a controllare lo sviluppo embrionale. La sua espressione permane poi nelle cellule della massa interna della blastocisti, ma non in cellule differenziate del trofoectoderma (che invece mostrano l’espressione di geni come cdx2 ed eomesodermin) o in altri tipi cellulari differenziati che emergono dopo la gastrulazione; la si ritrova, invece, nei primordi della linea germinale (Palmieri et al., 1994; Pesce et al., 1998).

I livelli di Oct4 nelle cellule della massa interna sono regolati molto finemente.

Un’espressione nulla determina il differenziamento in cellule del trofoblasto, mentre una lieve sovraespressione comporta la specificazione di cellule endodermiche e mesodermiche (Niwa et al., 2000).

Nel secondo evento di selezione di lineage l’ipoblasto inattiva l’espressione di oct4 ed esprime geni come GATA6 e sox7; l’epiblasto invece continua ad esprimere oct4 e mostra

anche l’espressione di nanog, altro gene chiave nel mantenimento della pluripotenza (Koutsourakis et al., 1999; Fujikura et al., 2002; Chazaud et al., 2006; Chambers et al., 2003; Mitsui et al., 2003), (Figura 27).

A seconda del promotore a cui si lega, Oct4 può richiedere la presenza di un co-attivatore: è il caso per esempio di Sox2, fattore appartenente alla famiglia HMG (High Mobility Group) che si esprime nelle cellule della massa interna e successivamente nelle staminali neurali (Reményi et al., 2003).

Oct4 e Sox2 esercitano un reciproco controllo trascrizionale (Avilion et al., 2003; Catena et al., 2004; Chew et al., 2005).

Figura 27. Riepilogo delle interazioni tra i fattori coinvolti nelle decisioni di lineage della blastocisti (da Gilbert et al., Developmental Biology).

(26)

Mantenimento della staminalità e differenziamento

La coltura di ES che rimangano in uno stato indifferenziato e di attiva proliferazione richiede particolari mezzi. Le piastre di plastica utilizzate per la coltura delle cellule sono definite “tissue culture”, e a differenza delle comuni piastre batteriche hanno subito un trattamento chimico particolare.

Per favorire il mantenimento delle caratteristiche delle ES si può ricorrere a due metodi. Da una parte si possono rivestire le piastre con un “feeder layer" di cellule mitoticamente inattive; le cellule “feeder” sono spesso fibroblasti embrionali di topo (MEF) chimicamente inattivati, e quindi incapaci di compiere divisioni.

In alternativa alla coltura sui MEF si può utilizzare un fattore solubile con “attività di inibizione del differenziamento” (DIA), più recentemente conosciuto come Leukaemia Inhibitory Factor (LIF), e in questo caso le piastre sono normalmente rivestite con un rivestimento di gelatina, contenente varie molecole che promuovono l’adesione e l’espansione delle ES.

Il LIF è una fattore che era già noto in passato per i suoi effetti di induzione del differenziamento in una linea mieloide di leucemia, ma solo nel 1988 si è compreso che corrisponde allo stesso fattore noto come DIA (Smith et al, 1988; Williams et al., 1988). E’ prodotto anche dal “feeder layer” e in questo caso non è diffusibile, ma si presenta piuttosto associato alla matrice extracellulare (Rathjen et al., 1990). Inoltre ha un ruolo fisiologico: le topoline possono essere fecondate anche se non hanno ancora terminato lo svezzamento dei piccoli nati, e questo si rende possibile impedendo alle blastocisti di impiantarsi nella parete uterina. In questa fase, detta diapausa, le cellule della massa interna mantengono la loro staminalità e rallentano le loro divisioni, e questo è consentito proprio dalla presenza di LIF (Nichols et al., 2001). Il suo mRNA infatti è stato trovato a livello delle cellule trofoectodermiche, mentre l’mRNA del suo recettore si trova solo a livello delle cellule della massa interna (Conquet e Brûlet, 1990; Nichols et al., 1996). Questo sembra in parte spiegare il motivo per cui LIF non sembra avere effetto sulle ES umane (hES) in vitro, sebbene il suo trascritto sia stato trovato nella blastocisti pre-impianto (Thomson et al., 1998).

Nel topo l’azione di LIF è sostenuta anche dalla via di segnalazione di BMP4, molecola contenuta

anche nel siero fetale di vitello (FCS) utilizzato come terreno di coltura delle ES. Infatti

l’interazione coi recettori specifici delle molecole BMP (BMP RI e BMP RII) porta all’attivazione

del fattore Smad, che insieme alla via di LIF attiva l’espressione di geni inibitori del

differenziamento (Id), come per esempio nanog. Senza LIF, invece, BMP4 porta le cellule verso un

differenziamento mesodermico o ectodermico non – neurale (Ying et al., 2003).

(27)

In ultima analisi appare dunque evidente che il differenziamento delle ES di topo è ottenuto tramite sottrazione di LIF dal terreno di coltura, ma per ottenere un fenotipo neurale è necessario usare terreni senza siero, o fattori che antagonizzino l’attività anti-neurale delle proteine BMP.

Noggin nei Mammiferi Nel topo, noggin è espresso nel nodo e nel mesoendoderma anteriore (AME) a partire da E7.5; a E8.5 la sua espressione si ritrova in tutta la notocorda e nella parte dorsale del tubo neurale, che va dal romboencefalo alle strutture più posteriori. A E9.5, quando pressoché tutto il tubo neurale si è chiuso, noggin è espresso a livello del tetto per quasi tutta la lunghezza del tubo stesso, fino alla sua estremità anteriore in

concomitanza con l’inizio del prosencefalo (McMahon et al., 1998), (Figura 28).

Nonostante non sia espresso nell’endoderma viscerale anteriore (AVE), che nel topo rappresenta l’organizzatore delle strutture più anteriori ed è anatomicamente distinto dal nodo, noggin ha un ruolo importante nella formazione delle strutture anteriori. Infatti il doppio knock-out di noggin e chordin ha conseguenze gravi sullo

sviluppo del prosencefalo, e risulta in una progenie non vitale (Bachiller e De Robertis, 2000), (Figura 29).

Nell’adulto Noggin è secreto dalle cellule ependimali della zona subventricolare (SVZ), dove crea un microambiente favorevole alla neurogenesi inibendo l’azione di BMP (Lim et al., 2000).

Nelle colture in vitro, Noggin è stato spesso

utilizzato per favorire la neuralizzazione delle cellule, o per aumentare la percentuale di cellule con

Figura 28. Espressione di noggin rilevata per ibridazione in situ whole mount (A, C, D) e mediante attività della β-galattosidasi, in embrioni aventi il gene LacZ in eterozigosi al posto di un allele noggin (B, E).

Analisi a vari stadi dello sviluppo: A) E7.75; B) E7.5; C) E8.5, nella notocorda (freccia grande) e nel tubo neurale (frecce piccole); (D, E) E9.5 (Modificato da McMahon et al., 1998).

Figura 29. Effetti del doppio knockout per noggin e chordin;

e) wild type, f) KO per chordin, g) doppio KO per noggin e chordin. La freccia indica il confine anteriore del romboencefalo (da Bachiller e De Robertis, 2000).

(28)

fenotipo neurale nei vari protocolli di neuralizzazione descritti.

Noggin è in grado di antagonizzare l’azione anti-neurale di BMP4: in protocolli di neurogenesi in cui BMP4 viene aggiunto a un terreno di coltura senza siero la resa di cellule neurali diminuisce di 5-10 volte, ma l’aggiunta di Noggin insieme a BMP4 è in grado di ripristinare la resa osservata nei controlli (Finley et al., 1999).

In un protocollo che prevede la coltura di ES a bassa densità senza feeder layer, e in un terreno di coltura privo di siero contenente LIF e FGF-2, l’aggiunta di Noggin 10 µg/ml comporta un incremento nel numero di colonie neurali che si formano. L’effetto di Noggin è già massimo:

portando la concentrazione a 100 µg/ml non si osservano altri incrementi significativi (Tropepe et al., 2001). Tuttavia con questo metodo solo una minima frazione di cellule mostra un fenotipo neurale.

In un altro lavoro è stato dimostrato che l’uso di un terreno di coltura condizionato con Noggin non ha particolare effetto sul differenziamento in senso neurale delle ES, così come non ne ha la co- coltura di ES con ES trasfettate con Noggin. Invece la trasfezione con plasmidi contenenti la sequenza di Noggin ha un effetto significativo sulla percentuale di cellule neurali che si originano (Gratsch e O’Shea, 2002).

Ben più incerta la situazione nelle ES umane. Queste ultime, se lasciate differenziare senza particolari stimoli induttivi, danno tipi cellulari diversi ma con una prevalenza del fenotipo endodermico extraembrionale; questo tipo di differenziamento è indotto dalla presenza di BMP2. Se al terreno di coltura è aggiunto Noggin allora il fenotipo cellulare si sposta in favore di quello neurale (Pera et al., 2002).

Tuttavia Noggin ha anche un ruolo importante nel self-renewal delle hES: se aggiunto insieme a FGF-2, infatti, contrasta la via di segnalazione di BMP (che nelle ES umane non ha un’azione sinergica con LIF) e promuove il mantenimento dello stato indifferenziato e della pluripotenza (Wang et al., 2005; Xu et al., 2005). In presenza di un terreno di coltura senza siero e Noggin 100 ng/ml, senza però l’aggiunta di FGF-2, le hES ancora una volta vanno incontro a un fenotipo neurale (Yao et al., 2006).

Infine negli ultimi anni sono stati pubblicati molti protocolli che descrivono come ottenere staminali neurali a partire da hES, tramite l’uso di Noggin (Cohen et al., 2007; Zhou et al., 2008; Dottori e Pera, 2008; Chambers et al., 2009).

Recentemente sono stati utilizzati fattori come Noggin, Dickkopf-1 e IGF-1 per ottenere

fotorecettori funzionali da ES umane (Lamba et al., 2009).

(29)

Sonic Hedgehog (SHH)

Sonic hedgehog è una proteina secreta che durante lo sviluppo è inizialmente prodotta dalla notocorda, e successivamente dalle cellule del pavimento del tubo neurale. E’ molto importante nel patterning dorso-ventrale del sistema nervoso, ma ha anche funzioni di rilievo nella morfogenesi dell’occhio. Già a stadio di neurula SHH ha un ruolo nell’inibizione dell’espressione di pax6 sulla linea mediana anteriore della piastra neurale, effetto che porta alla formazione di due eye field simmetrici e bilaterali.

Durante la retinogenesi, invece, SHH avrebbe altre funzioni, alcune delle quali correlate alla sua concentrazione. E’ anzitutto responsabile della corretta organizzazione laminare della retina, come dimostrato in espianti retinici di topi a stadio perinatale (Jensen e Wallace, 1997; Wang et al., 2002). E’ prodotto dalle cellule gangliari, e si ritiene che agisca come mitogeno per i progenitori cellulari retinici (RPGs) (Jensen e Wallace, 1997; Levine et al., 1997).

A stadio embrionale E12 ed E13 l’espressione di SHH è rilevabile a livello dello strato delle cellule gangliari (Figura 30). La sua perdita di funzione in questo caso comporta che il ciclo cellulare delle RPGs non sia più sostenuto, e che quindi si abbia un arricchimento della popolazione di cellule gangliari, a scapito dei tipi cellulari retinici che durante la retinogenesi compaiono più tardivamente (Wang et al., 2005).

L’espressione di SHH nella retina di topo è presente anche a stadio E14.5 e E17, ma

anche 7 giorni dopo la nascita (P7), P14 e negli adulti. A E14.5 l’espressione di SHH si limita alla metà interna della retina centrale, una regione che contiene i primi neuroni postmitotici. A E17 il segnale di SHH è localizzato nelle cellule nello strato delle cellule gangliari in sviluppo, che contiene sia cellule gangliari sia cellule amacrine (Jensen e Wallace, 1997).

In retine di topo coltivate in vitro la somministrazione di SHH è in grado di aumentare il numero di cellule retiniche senza distinzione, probabilmente proprio agendo sulla proliferazione delle RPGs (Jensen e Wallace, 1997). In retine di ratto coltivate in vitro, invece, la somministrazione di SHH sembra promuovere preferenzialmente il differenziamento di bastoncelli (Levine et al., 1997). La

Figura 30. Immunoistochimica per un marker delle cellule gangliari (Brn3b) e ibridazione in situ per SHH, nella retina di topo a E12 ed E13 (da Wang et al., 2005).

(30)

differenza nei due risultati risiede probabilmente nelle concentrazioni di SHH utilizzate e nel diverso metodo di coltura sfruttati nei due lavori.

Per questi motivi verosimilmente SHH è stato utilizzato anche in protocolli di differenziamento di fotorecettori in vitro (Osakada et al., 2008).

Protocolli di neuralizzazione

In letteratura sono descritti molti protocolli che sfruttano ES in coltura con o senza feeder layer per ottenere cellule staminali neurali (NS), da far differenziare nei sottotipi neuronali richiesti (riesaminati dai Cai e Grabel, 2007).

In generale esistono tre tipologie di coltura delle ES indirizzate verso la neurogenesi (Figura 31):

• in sospensione, con formazione di corpi embrioidi (EBs);

• in adesione su monostrato;

• in co-coltura con cellule stromali.

I corpi embrioidi (Doetschman et al., 2005) sono strutture tridimensionali costituite generalmente da un minimo di 300 cellule, che si formano in 2 - 4 giorni quando le ES sono messe in coltura in sospensione in assenza del fattore di crescita LIF (Figura 32). Sono paragonabili a quelli derivati da cellule staminali di teratocarcinoma, in primo luogo descritti da Stevens e Pierce (Pierce e Dixon, 1959; Stevens, 1959).

Figura 31. I tre principali metodi di differenziamento utilizzati in laboratorio (da Keller, 2005).

Figura 32. Immagine al microscopio, che mostra corpi embrioidi in sospensione.

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