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I N T E R V E N T I
In questo articolo la
p ro b l e m a t i c a
d e l l ’ i m p re s a
cooperativa è
inquadrata nel
contesto delle
d o m a n d e
tradizionali, ma
s e m p re rinnovate
dalla scienza
economica, circa la
natura dei vari tipi
d ’ i m p resa e i motivi
dei loro diversi
gradi di successo.
Una carrellata utile
in una fase in cui
l’ampliamento dei
m e rcati evidenzia la
necessità di risposte
n u o v e
di Daniele Porcheddu2 0
1. L’ i m p resa: una, nessuna, centomila
I
l “genere impresa” presenta una ricchezza di“spe-cie” che può essere apprezzata lungo diff e re n t i p rospettive di osserv a z i o n e1.
Indipendentemen-te dall’aspetto dimensionale, infatti, è possibile di-s t i n g u e re tra molteplici forme o modelli idi-stituzionali d ’ i m p resa. Cosa significa, innanzitutto, l’espre s s i o-ne “modelli istituzionali d’impresa”? Il riferimento è ad una sorta di fenomenologia di quella fonda-mentale i s t i t u z i o n e2economica che è l’impre s a .
Come spiegare, in secondo luogo, tale varietà di modelli? È stato evidenziato da più parti che la va-rietà/ricchezza istituzionale può essere intesa co-ma una sorta di “risposta”, dal “lato dell’off e rta”, alla d i ff e renziazione delle pre f e renze (e bisogni) degli agenti economici [Faccioli e Scarpa, 1998, p. 64]3.
Cooperative
e altre form e
d ’ i m p re s a :
un’analisi
istituzionale
i n t ro d u t t i v a
1 Si potrebbe metaforicamente parlare di una «ricca
ecologia di forme» [Harg reaves, 1999].
2 Si comincia a parlare di imprese, come istituzioni
economiche (alternative al mercato), a part i re dal pio-nieristico contributo di Coase [1937] (il quale però non usa mai direttamente il termine i s t i t u z i o n e). Questo ini-ziale spunto è ripreso, dopo quasi quaranta anni, nel-l’ambito della teoria neoistituzionalista (legata soprattutto ai contributi di Williamson [1975]), in cui l’i s t i t u z i o -ne impresa è concepita come «un meccanismo che delimita lo spazio delle azioni di un soggetto» a benficio di un altro soggetto che ha compiuto in pre c e-denza un investimento (con determinate caratteristi-che di specificità), e caratteristi-che potrebbe altrimenti esporsi a c o m p o rtamenti opportunistici da parte del primo sog-getto [Grillo, 1992, p. 101]. Più in generale, «le istitu-zioni sono quei vincoli escogitati dall’uomo che stru t-turano l’interazione politica, economica e sociale. Es-se sono composte sia da vincoli informali (sanzioni, tabù, costumi, tradizioni e codici di condotta), sia da regole formali (costituzioni, leggi, diritti di pro p r i e t à ) » [ N o rth, 1991, cit. in Zaninotto, 1992, p. 160].
3P o rter e Scully [1987, p. 511], aff e rmano per
esem-pio che: «l’esistenza delle imprese cooperative di per s é evidenzia che alcuni agenti economici perc e p i s c o-no l’esistenza di benefici che possoo-no essere ottenuti da un gruppo di produttori che organizzano la pro d u-zione secondo tale forma di b u s i n e s s».
Come mettere ordine all’interno di tale varietà istituzionale? Le forme istitu-zionali d’impresa possono distinguer-si in base alla risposta fornita alle se-guenti tre domande: 1) A chi spetta la titolarità dell’impresa (cioè, in pratica, il g o v e rno o controllo della stessa)4?, 2)
Come viene regolato il rapporto tra eventuali molteplici titolari?, 3) Come è definito il diritto del titolare rispetto al reddito residuo (ossia al profitto)? [Gril-lo e Silva, 1989, p. 361].
È possibile giungere, procedendo in tal modo, ad individuare 4 modelli istituzionali d’impresa principali: 1) l ’ i m p resa neoclassica tradizionale, 2) l ’ i m p resa capitalistica, 3) l’impresa co-operativa, 4) l’impresa non pro f i t .
2. L’ i m p resa neoclassica
t r a d i z i o n a l e
N e l l ’i m p resa neoclassica tradizionale, la titolarità dell’impresa è attribuita alla figura dell’impre n d i t o re - c o o rd i n a t o re, il quale acquista sul mercato gli i n p u t e li o rganizza a fini produttivi. Com’è noto, il ruolo di tale impre n d i t o re consiste sostanzialmente nell’individuare (all’in-t e rno, peral(all’in-tro, di un mondo cara(all’in-t(all’in-teriz-
caratteriz-zato da perfetta informazione degli agenti economici) il m i x di fattori più a p p ropriato alla luce delle variazioni dei prezzi relativi degli i n p u t (in tal sen-so si parla appunto di un “efficiente co-o rd i n a t co-o re”, dal ruco-olco-o tuttco-o sco-ommatco-o p a s s i v o / re a t t i v o5). Nell’impostazione
di Walras, a ben vedere, «l’identità so-cio-economica dell’impre n d i t o re è del tutto irrilevante» [Zamagni, 1991, 480], potendosi trattare di un qualsiasi pro-prietario di i n p u t: un capitalista, un la-v o r a t o re, oppure un proprietario terr i e-ro ecc., e l’assunzione del ruolo di im-p re n d i t o re sarebbe del tutto acciden-t a l e6. Non esistono, inoltre, altri titolari,
per cui non si pone il problema ricor-dato al punto 2, nell’elenco di 3 do-mande ricordate nel paragrafo pre c e-dente. A tale impre n d i t o re - c o o rd i n a t o-re, ancora, spettere b b e ro eventuali p rofitti, ma di fatto, se consideriamo le condizioni di equilibrio di concorre n z a p e rfetta di lungo periodo, esso dovrà “accontentarsi”, semplicemente, di una remunerazione per l’input a p p o rt a-to (sia esso capitale, piuta-tosa-to che la-v o ro, piuttosto che terreni da coltila-vare ecc.) alla stregua di tutti gli apport a t o r i di altri fattori della pro d u z i o n e7.
4« Traduciamo con il termine titolarità l’espressione della letteratura anglosassone o w
-n e r s h i p, la cui traduzio-ne più immediata (p ro p r i e t à) potrebbe addurre alcu-ne co-nfusio-ni nel lettore italiano. La titolarità dell’impresa implica, per il titolare (o i titolari): (1) il diritto di d e c i d e re quale debba essere l’impiego delle attività che costituiscono l’impresa, in ogni c i rcostanza specifica non prevista esplicitamente nei contratti (di lavoro, di prestito ecc.) che i titolari stipulano con gli altri soggetti coinvolti nell’impresa; (2) la possibilità, legal-mente sancita, di escludere qualsiasi altro soggetto dall’uso delle attività che costitui-scono l’impresa» [Grillo, 1992, p. 100].
5L’ i m p resa neoclassica tradizionale si può definire come una sorta di “robot” o
“fantoc-cio”, programmato dagli economisti che l’hanno ideata per re a g i re meccanicamente ai cambiamenti ambientali.
6Esistono, pur nell’alveo della teoria neoclassica, altre concezioni dell’impre n d i t o re
co-me massimizzatore di un residuo che esprico-merebbe la remunerazione per l’apporto di risorse che sono specifiche dell’impresa (risorse peraltro non individuate pacificamente nell’ambito di tali teorie, definite “non walrasiane”).
7R i c o rdiamo che in equilibrio di lungo periodo di concorrenza perfetta le imprese
con-seguono extraprofitti nulli e, quindi, nulla residua una volta remunerati a prezzi di mer-cato tutti i fattori della pro d u z i o n e .
3. L’ i m p resa capitalistica
Il discorso relativo all’i m p resa capitali
-s t i c a è più articolato del pre c e d e n t e .
In generale, tuttavia, si può dire che la titolarità dell’impresa spetta agli ap-p o rtatori di quel ap-part i c o l a re i n ap-p u t c h e è il capitale (da cui il nome che tale modello di impresa assume). Pur va-lendo quanto appena aff e rmato, l’im-p resa cal’im-pitalistica l’im-può assumere due f o rme diff e renti. È possibile, innanzitutto, riconoscere una i m p resa capita
-listica classica8, in cui il pro p r i e t a r i o
d e l l ’i n p u t capitale esercita anche il c o n t ro l l o / g o v e rno dell’impresa (con f o rme di delega, al più, di talune fun-zioni manageriali di natura più opera-tiva, soprattutto nelle imprese di una c e rta dimensione)9. Per il vero, la
tito-larità dell’impresa capitalistica classi-ca, oltre che essere accentrata in ca-po ad una sola persona (si parla spes-so, in tal caspes-so, di impresa capitalistica
p a d ro n a l e), può anche essere
frazio-nata all’interno di un gruppo familiare
(si parlerà allora di impresa capitalisti-ca f a m i l i a re)1 0, che ne controlla la
maggioranza del capitale (e che può r i c o rre re ad un sistema di deleghe ad altri soggetti per lo svolgimento di funzioni manageriali, spesso anche non strettamente esecutive)1 1. Nel
ca-so di impresa capitalistica padro n a l e o controllata da un gruppo familiare , i n o l t re, com’è facile intuire, non risulta p a rt i c o l a rmente problematico l’aspet-to della regolamentazione dei rappor-ti tra molteplici rappor-titolari (addirittura, co-me già ricordato, nell’impresa padro-nale la titolarità risulta in capo ad una sola persona1 2). I proprietari-titolari di
tali tipologie di impresa capitalistica, infine, avranno diritto a disporre degli eventuali profitti derivanti dall’attività d ’ i m p re s a .
S e m p re nell’alveo dell’impresa capita-listica, comunque, è possibile far ri-e n t r a rri-e una sri-econda forma: quri-ella d e l l ’i m p resa manageriale1 3. In questo
tipo di impresa, nessun apport a t o re d e l l ’i n p u t potenzialmente in grado di
8Naturalmente, l’aggettivo “classico” deve intendersi come sinonimo di “tradizionale” e
non come un riferimento alle teorie degli economisti classici.
9Rullani [1999, p. 1], assai efficacemente, parla di: «imprese con nome e cognome (…)
nel senso del nome e cognome dell’impre n d i t o re-persona che è, sotto ogni punto di vi-sta, l’impre s a » .
1 0In tali forme istituzionali di impresa «la funzione imprenditoriale non è gestita da una
persona in nome proprio, ma da una o più persone a nome della famiglia» [Rullani, 1999, p. 1 ] .
1 1Si può dire che il modello proprietario italiano si caratterizzi, tra gli altri aspetti, per
l’im-p o rtanza di grul’im-pl’im-pi familiari (in cal’im-po ai quali sl’im-pesso si concentrano veri e l’im-prol’im-pri gru l’im-p l’im-p i industriali) e che questo aspetto, congiuntamente ad altri, valga a caratterizzare il mo-dello italiano come un capitalismo “bloccato” e non esposto significativamente ad una disciplina del ricambio proprietario (quindi poco contendibile).
1 2In non pochi casi ciò può accadere, formalmente, anche per imprese capitalistiche
fa-miliari in cui la famiglia si fa “rappre s e n t a re sul campo” da una sola persona [Rullani, 1 9 9 9 ] .
1 3Secondo Grillo e Silva [1989, p. 384-385] sarebbe possibile, in realtà, individuare 3
sub-specie di impresa manageriale: a) l’impresa manageriale stricto sensu, b) l’impresa mana-geriale c o r p o r a t i v a, c) l’impresa manamana-geriale p a rt e c i p a t a. Le prime due forme, in re a l t à , non si discostano formalmente per assetto istituzionale, anche se gli atteggiamenti dei manager possono essere molto diff e renti (di massimizzazione dei propri obiettivi nel pri-mo caso, di mediazione tra interessi di coalizioni di s t a k e h o l d e r diversi, nel secondo
a t t r i b u i re la titolarità dispone, singo-l a rmente (o attraverso coasingo-lizioni con altri apportatori di capitale1 4), di una
quota di maggioranza del capitale p roprio dell’impresa stessa1 5. A part
i-re dall’originario contributo di Berle e Means [1932], diverse ricerche empi-riche hanno posto in evidenza, so-prattutto nei Paesi anglossassoni, for-me accentuate di dispersione della p roprietà azionaria, da cui può di-s c e n d e re la reale podi-sdi-sibilità, da part e dei manager, di eserc i t a re il contro l l o e ffettivo della società e di perseguire , almeno entro certi limiti, i propri obiet-t i v i1 6. Nel contesto appena descritto
si consuma una vera e propria sepa-razione (scissione) tra proprietà (in ca-po all’apca-port a t o re dell’i n p u t s p e c i f i c o capitale), da una parte, e titolarità del c o n t rollo/gestione (in capo ai mana-ger), dall’altra1 7. L’ e s p ressione
con-c reta più tipicon-ca di tale modello istitu-zionale d’impresa è rappre s e n t a t o
dalla cosiddetta public company d e i Paesi anglosassoni.
Come vengono regolati i rapporti tra i vari titolari in imprese di questo tipo?1 8
In effetti, il m a n a g e m e n t di un’impre s a è solo astrattamente qualcosa di uni-tario, piuttosto è possibile riconosce-re la priconosce-resenza di una pluralità di ma-n a g e r, magari disposti su uma-na pluralità di livelli (superiori e intermedi), non estranei alla categoria del conflitto re-c i p rore-co. Un suffire-ciente grado di re- co-esione interno al gruppo dirigenziale può essere generalmente raggiunto attraverso “meccanismi” di composi-zione dei conflitti dei quali si è occu-pata principalmente (non senza criti-che teoricriti-che, empiricriti-che e metodologi-che) la teoria comportamentistica del-l ’ i m p resa [Cyert e March, 1963]. A chi spetta il reddito residuo in tale modello istituzionale d’impresa? Pur essendo di fatto titolari in queste im-p rese, i manager non hanno diritto
caso). L’ i m p resa partecipata evidenzia, invece, diff e renze istituzionali anche dal punto di vista formale rispetto ai casi precedenti, per via della partecipazione dei lavoratori (ap-p o rtatori di un i n (ap-p u t d i ff e rente ris(ap-petto al ca(ap-pitale: il lavoro, a(ap-p(ap-punto) alla gestione del-l ’ i m p re s a .
1 4Se vi fosse una coalizione tra proprietari (apportatori dell’i n p u t specifico capitale) ci
tro-v e remmo sostanzialmente di fronte ad un modello istituzionale d’impresa molto tro-vicino a quello dell’impresa familiare .
1 5In realtà, come ben argomentato in Hay e Morris [1984] la percentuale di capitale
so-ciale necessaria per eserc i t a re un controllo effettivo dell’impresa può essere sensibil-mente inferiore alla maggioranza delle quote.
1 6In questo tipo di imprese: «(…) gli azionisti non hanno l’influenza, le conoscenze,
l’e-sperienza o la disponibilità di tempo per part e c i p a re alla direzione generale e sono per-ciò i dirigenti stipendiati che ne stabiliscono la politica a lungo termine, oltre ad occu-parsi degli affari correnti. Essi dominano pertanto sia l’alta direzione, sia quella interm e-dia e inferiore» [Chandler, 1977, p. 54, trad.it.].
1 7I contributi che costituiscono quello che si definisce l’approccio manageriale alla
teo-ria dell’impresa [Marris, 1963 e 1966; Baumol, 1967; Willamson, 1964], oltre ad assu-m e re tale separazione tra proprietà e controllo, considerano, coassu-munque, i condiziona-menti cui è sottoposta la condotta dei manager derivanti, per esempio, dalla pre s e n z a del mercato borsistico.
1 8P e r a l t ro, assume rilevanza, anche se non appro f o n d i remo il tema in questo
paragra-fo, un altro quesito: come saranno regolati i conflitti (di interesse) tra i proprietari dell’im-p resa e i manager? Il dell’im-problema è aff rontato dalla teoria dell’im-princidell’im-pale-agente riflettendo su possibili schemi di incentivo [per una recente esposizione cfr. Hart e Holmström, 1987].
agli eventuali profitti, i quale spettano ai proprietari dell’impresa, cioè agli a p p o rtatori a titolo di rischio dell’i n p u t capitale (azionisti)1 9.
4. L’ i m p resa cooperativa
U n ’ u l t e r i o re forma istituzionale d’im-p resa è quella c o o d’im-p e r a t i v a. Data l’e-s t rema varietà e variabilità di tale tipo di impresa nei diff e renti paesi2 0ci si
riferirà ad una sorta di ideal tipo di co-operativa. Semplificando, quindi, si può dire che la titolarità di queste im-p rese non sim-petta mai agli aim-pim-port a t o r i d e l l ’i n p u t c a p i t a l e2 1. Al di là di tale
de-finizione di tipo n e g a t i v o, si può dire che, generalmente, la titolarità è attri-buita a possessori di i n p u t diversi dal capitale (come per esempio il l a v o ro, piuttosto che qualche m a t e r i a p r i m a da “trasform a re”: latte, uva, olive, car-ne ecc.), che conferendoli car-nella co-operativa ne diventano soci. Non di rado, tuttavia, soprattutto quando le dimensioni d’impresa sono significa-tive, la titolarità può spettare di fatto a manager (che al limite possono n o n e s s e re proprietari di alcun i n p u t) , configurandosi in tal caso, quindi, una sorta di impresa manageriale
( s e p p u re di tipo cooperativo).
Com’è regolato il rapporto tra i molte-plici titolari di un’impresa cooperati-va? Tralasciando il caso dell’impre s a cooperativa che assume connotazio-ni manageriali (per la quale valgono molte delle considerazioni fatte, in merito alla scissione tra proprietà e c o n t rollo, con riferimento all’impre s a capitalistica manageriale), l’eserc i z i o della titolarità nella cooperativa è sog-getta, tra l’altro, a due noti principi, pe-r a l t pe-ro codificati dall’Ica (I n t e pe-rn a t i o n a l
Cooperative Alliance)2 2: 1) il principio
cosiddetto “una testa, un voto” (in ba-se al quale, indipendentemente dal n u m e ro di quote sociali detenute, cia-scun socio può esprimere un solo vo-to); 2) il principio della maggioranza decisionale (secondo il quale le deci-sioni si assumono con il sostegno della maggioranza dei soci).
Com’è definito il diritto al reddito re s i-duo nelle cooperative? Astraendo per semplicità dalla considerazione di (pe-r a l t (pe-ro diff i c o l t o s e2 3) pratiche di
autofi-nanziamento, coloro che apport a n o l ’i n p u t specifico che attribuisce la tito-larità di una cooperativa (il lavoro, una p a rt i c o l a re materia prima da trasfor-m a re ecc.) si approprieranno
dell’e-1 9Resta pur vera una tendenza alla diffusione di meccanismi di coinvolgimento dei
ma-nager alla partecipazione ai risultati delle società che dirigono, anche attraverso accord i di stock option.
2 0È possibile per esempio distinguere tra: cooperative oggi esistenti nel mondo
occi-dentale, cooperative jugoslave e cooperative sovietiche. L’esperienza dei settori dell’a-g ro a l i m e n t a re nedell’a-gli Stati Uniti, inoltre, evidenzia il sordell’a-g e re di cooperative cosiddette “di nuova generazione” (new generation coops) con connotazioni istituzionali tali da supe-r a supe-re una sesupe-rie di psupe-roblemi connessi ad una vaga (impesupe-rfetta) definizione dei disupe-ritti di psupe-ro- pro-prietà sulla cooperativa da parte dei soci [Cook e Iliopoulos, 1999].
2 1Nella visione di molti economisti la cooperativa pone in effetti come impresa a n t i c a
-p i t a l i s t i c a, -pro-prio -perché “ca-povolge” il ra-p-porto tra l’in-put ca-pitale e qualche altro in-put (per esempio il lavoro) [Jossa, 1988; 2004].
2 2Si tratta di una federazione tra le federazioni nazionali cooperative, con sede a
Gine-vra, nata nel 1895 con compiti di salvaguardia dei valori e principi cooperativi.
ventuale re s i d u o2 4. Molto spesso, tale
a p p ropriazione avviene secondo una logica detta appunto “residuale”, in al-t re parole, si procederà dapprima alla remunerazione delle altre tipologie di
i n p u t e ciò che residua (cosiddetto
“ v a l o re aggiunto della pro d u z i o n e ” ) v e rrà utilizzato per re m u n e r a re l’i n p u t che attribuisce la titolarità. In questo modo, la remunerazione dei soci è ta-le, spesso, da incorporare (in tutto o in p a rte) anche gli eventuali utili pro d o t t i dalla cooperativa.
5. L’ i m p resa non pro f i t
Resta da analizzare un quarto tipo di modello istituzionale d’impresa, ricor-dato nel primo paragrafo di questo contributo: quello dell’i m p resa non
p ro f i t. Quali ne sono i principali
con-notati istituzionali? Innanzitutto, la tito-larità nell’ambito di queste impre s e può spettare a dei soggetti chiamati
p a t ro n s (che coincidono con coloro
che, attraverso donazioni o pagando per il servizio ricevuto, finanziano l’im-p resa stessa) [Grillo e Silva, 1989]. Anche nel caso delle non pro f i t, tutta-via, il controllo dell’impresa potrà
es-s e re affidato a “dirigenti pro f e es-s es-s i o n i-sti” (un po’ come accade nell’impre s a capitalistica e cooperativa di tipo ma-n a g e r i a l e )2 5. I meccanismi di eserc
i-zio del controllo in presenza di molte-plici titolari, non rappresentano un connotato part i c o l a re delle non pro f i t, m e n t re è assai peculiare la definizio-ne del diritto al reddito residuo. Le im-p rese non im-pro f i t, diversamente da quanto in genere si pensa, infatti, possono anche pro d u rre profitti, ma la loro «specificità istituzionale prima-ria consiste nel non poter distribuire p rofitti ai soggetti che esercitano su di essa il controllo (membri, soci fonda-tori, amministratori ecc.)» [Grillo e Sil-va, 1989, p. 397]2 6. Tali eventuali
pro-fitti, piuttosto, devono essere istitu-zionalmente indirizzati a migliorare il s e rvizio prodotto (si pensi alle fonda-zioni, alle associazioni di vario gene-re, ai comitati ecc.)2 7. Altri autori,
indi-viduano come ulteriore peculiare ca-ratteristica delle imprese non pro f i t l a non coincidenza tra b e n e f i c i a r i dei be-ni e servizi off e rti e coloro che assu-mono le decisioni ultime all’intern o d e l l ’ i m p resa stessa [Gui, 1991].
2 4P e r a l t ro, in vari ordinamenti esistono dei limiti alla remunerazione “diretta” del
capita-le sociacapita-le che se, da un lato, hanno favorito l’adozione di una logica residuacapita-le di re m u-nerazione dell’i n p u t specifico conferito (come più avanti descritto nel testo), dall’altra, hanno rappresentato un ulteriore ostacolo alla capitalizzazione con fondi propri.
2 5In questo caso, si parlerà di imprese n o n - p rofit entre p re n e u r i a l, mentre il caso pre c
e-dente va a definire le cosiddette imprese n o n - p rofit mutual [Grillo e Silva, 1989, p. 398].
2 6Tale distribuzione di utili non dovrebbe avvenire neanche in modo implicito o indire
t-to, attraverso “manipolazioni” del prezzo degli i n p u t o degli o u t p u t [Angeloni, 1996], co-me invece può avvenire nell’ambito della forma istituzionale cooperativa, pre c e d e n t e-mente descritta.
2 7Diversi autori, dopo aver sottolineato le difficoltà di delimitazione dell’universo delle
i m p rese non profit, propongono di includere in tale aggregato solamente quelle impre-se che, oltre alla previsione di non distribuzione degli utili, forniscono anche impre-servizi al-l ’ e s t e rno (si paral-la in questo caso di organizzazioni pubal-lic benefits) e non escal-lusivamente ai soci (organizzazioni mutual benefits) [Angeloni, 1996; Gui, 1991].
6. P e rché le varie forme
d ’ i m p resa non sono
egualmente diff u s e ?
Le statistiche mostrano nei diff e re n t i paesi ad economia di mercato una scarsa diffusione di imprese diff e re n t i da quelle di tipo capitalistico. In un Paese come l’Italia, che rappre s e n t a p e r a l t ro una considerevole eccezio-ne eccezio-nel novero dei paesi occidentali, nei Censimenti del 1991, 1996 e 2001 il “peso” delle cooperative (escludendo le cooperative cosiddet-te sociali, perché rientranti nell’univer-so delle istituzioni non pro f i t), per esempio, sul totale delle imprese atti-ve, si aggirava intorno all’1%2 8( c o n t ro
un valore in media pari a circa il 67,5% del totale, per quanto riguarda le im-p rese caim-pitalistiche di tiim-po im-padro n a-le). Questi dati spingono ad una rifles-sione circa eventuali vantaggi econo-mici comparati dell’impresa capitali-stica rispetto alle forme istituzionali al-t e rnaal-tive, che non al-trova al-tual-tal-tavia rispo-ste univoche sul piano teorico ed em-pirico [Jossa, 2004; Fiorentini e Scar-pa, 1998].
Il rischio è, comunque, quello di con-s i d e r a re la pretecon-sa con-superiorità dell’im-p resa cadell’im-pitalistica come una sorta di “attributo primitivo”. Come reazione a tale tipo di convinzione, in letteratura, per esempio, si registrano, anche di recente, diff e renti tentativi di legitti-m a re l’esistenza di forlegitti-me istituzionali d ’ i m p resa alternative e, in part i c o l a re ,
delle cooperative: «come istituzioni competitive che costituiscono part e integrante di una sana economia di m e rcato» [Holmström, 1999, p. 404], negando che si tratti di una “anoma-lia” economica o di: «una periferica o accidentale o anacronistica o cultural-mente limitata forma di org a n i z z a z i o-ne» [Hansmann, 1999, p. 387]. Le statistiche hanno senz’altro impor-tanza, tuttavia, è bene sottolineare che molteplici fattori extra-economici possono “distorc e re” le pro p o rz i o n i della presenza delle diff e renti form e istituzionali d’impresa all’interno di un dato sistema economico: 1) in primo
l u o g o, per capire il p re s e n t e di un
si-stema economico e dei settori che lo compongono (in termini, per esem-pio, di presenza relativa di diff e re n t i modelli istituzionali d’impresa) non si può pre s c i n d e re dal p a s s a t o di quel sistema (e quindi di quei settori) e, più ampiamente, della società in cui quel sistema economico si incardina; la Storia, infatti, si è dimostrata in grado di “filtrare” i possibili vantaggi compa-rati delle diff e renti forme istituzionali d ’ i m p resa, condizionandone ampia-mente le probabilità di manifestazio-ne [per un’analisi settoriale re c e n t e c f r. Porcheddu, 2004]; 2) in secondo
l u o g o, fattori istituzionali (espre s s i
o-ne dell’intervento dello Stato in eco-nomia), possono alterare l’equilibrio tra forme istituzionali d’impresa all’in-t e rno di un deall’in-terminaall’in-to sisall’in-tema eco-nomico o, più limitatamente, all’inter-no di un certo contesto settoriale.
2 8Anche se, in effetti, una certa cautela deve adottarsi nel considerare tali dati, vista la
p resenza di “cooperative di fatto”, in quanto assegnano la proprietà dell’impresa ai lavo-ratori o ad apportatori di i n p u t diverso dal capitale, ma che assumono una veste giuridi-ca diversa da quella cooperativa (per esempio si trovano sotto forma di associazione o i m p resa di capitali). Per questa ragione molte cooperative sono “nascoste tra le pieghe” delle statistiche ufficiali [Borzaga, 2002].
Può, quindi, rivelarsi assai pericolo-so, sotto il profilo dell’analisi positiva e normativa, trascurare le part i c o l a r i caratteristiche e la storia dei vari con-testi settoriali (in cui avviene eff e t t i v a-mente il confronto tra le varie form e d ’ i m p resa) e form u l a re giudizi sui prin-cipali temi del dibattito sui modelli isti-tuzionali d’impresa a part i re, mera-mente, da statistiche sulla diff u s i o n e relativa dei vari tipi d’impre s a2 9.
Il rischio è quello di “ipotizzare”, in un c e rto contesto settoriale, vantaggi comparati a favore di un modello isti-tuzionale d’impresa in assenza di evi-denze empiriche3 0.
7. Bibliografia
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-2 9Come dire che potrebbe rivelarsi assai fuorviante il ricorso a test di sopravvivenza
del-le imprese à la Stigdel-ler, senza conoscere, di volta in volta, il settore di cui si sta trattando. Un esempio di tale modo di pro c e d e re è stato quello di Corn f o rth [1983 cit. in Chillemi, 1989], autore che ha condotto una rassegna di studi empirici sulle cooperative di pro-duzione e lavoro condotti nel Regno unito, il quale: «in mancanza di informazioni detta-gliate, adotta come indicatore di successo [dell’impresa] autogestita la semplice soprav-vivenza» [Chillemi, 1989, p. 24]. Per le stesse ragioni sare b b e ro contestabili quelle ri-c e rri-che per le quali una delle “dimostrazioni” dell’ineffiri-cienza delle ri-cooperative risiede-rebbe nell’esiguità del loro numero nell’ambito delle economie di mercato o, viceversa, quelle che sottolineano che «se le cooperative fossero davvero inefficienti, sare b b e ro e s t romesse dai mercati» [Nilsson, 2001, p. 330].
3 0Come spiega Chillemi [1989, p. 24], quando si parla di vantaggi comparati di una
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