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Academic year: 2021

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LA POTATURA

La potatura, tra le tecniche di conduzione del vigneto, è tuttora la pratica più importante ed efficace in mano al viticoltore per disciplinare e guidare la produzione sia in senso quantitativo che qualitativo. Gli obiettivi principali che si prefigge la potatura sono :

¾ spingere la vite a fruttificare fin dalla sua età giovanile

¾ dare una determinata forma alla pianta e mantenerla nel tempo

¾ rendere costante la produzione evitando l’alternanza naturale della pianta e conservare quindi più a lungo il potenziale produttivo

¾ ottenere una produzione di qualità

¾ equilibrare lo sviluppo della parte aerea rispetto all’apparato radicale

¾ organizzare la vegetazione al fine di facilitare gli interventi colturali. (Fregoni )

E’ comunque indispensabile che la potatura poggi su basi fisiologiche, che in parte sono comuni a quelle che governano la potatura delle piante da frutto in genere, ma in parte sono speciali per la vite. Fin dal 1800 gli studiosi avevano cercato di fissare i principi fisiologici della potatura della vite, molti dei quali possono essere accolti ancora oggi ed in sostanza sono i seguenti:

¾ la vigoria della vite è direttamente proporzionale al numero di foglie che essa porta

¾ la produzione di fiori , entro certi limiti, è in ragione inversa dell’attività vegetativa sia della pianta, sia d’uno dei rami di questa

¾ i rami di una pianta hanno uno sviluppo inversamente proporzionale alla carica di gemme;

cioè minore è il numero di gemme lasciate sul ceppo migliore sarà lo sviluppo dei rami che ne derivano

¾ lo sviluppo dei frutti è inversamente proporzionale a quello dei rami portati sulla stessa branca o pianta

¾ la posizione verticale di un tralcio è più favorevole allo sviluppo vegetativo, quella inclinata alla fruttificazione

¾ tutte le cause naturali o artificiali che ritardano il corso della linfa nei rami o nel tronco sono favorevoli alla fruttificazione e contrarie allo sviluppo vegetativo e alla vigoria della pianta

¾ di regola la vite porta il frutto su germogli che spuntano su tralci di un anno inseriti sul legno di due anni. Vi sono però eccezioni, frequenti soprattutto su taluni vitigni molto fertili e in determinate condizioni ambientali

¾ esistono vitigni con gemme più o meno fertili

¾ la fertilità delle gemme è fluttuante lungo il tralcio

¾

Se questi principi hanno conservato nel complesso la loro validità, indagini più recenti, sia nel campo dell’arboricoltura in genere, che in quello più speciale della viticoltura, hanno meglio chiarito e approfondito alcuni punti (Eynard et al 2000).

Per comprendere i diversi modi di potare una vite bisogna tenere conto delle varie fasi del suo ciclo

vitale, ma anche delle fasi fenologiche che si ripetono ogni anno (Fregoni). La potatura di

allevamento o di formazione è quella che si adotta per le viti giovanissime e mira a dare alla pianta

un buon sviluppo vegetativo e una forma determinata affinché sia possibile anticipare la

fruttificazione (Eynard et al 2000). La potatura di produzione (secca o invernale e verde o estiva) ha

lo scopo di mantenere un determinato equilibrio fra vegetazione (vigoria, superficie fogliare) e

produzione (numero e peso dei grappoli). E’ quindi implicito che la potatura regoli le due attività,

soprattutto determinando la carica di gemme e la loro distribuzione nello spazio vitale riservato alla

vite tramite la forma di allevamento (potatura secca) e cercando di regolare lo sviluppo vegetativo

e produttivo tramite la potatura verde (Fregoni).

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GESTIONE DELLA CHIOMA

Secondo la definizione proposta da Smart, per canopy, termine assimilabile a quello italiano di chioma, si deve intendere il sistema di foglie e germogli della vite definibile per dimensioni esterne e per l’ammontare della superficie fogliare interna al volume disponibile (densità di vegetazione). In tale concetto rientrano anche gli aspetti della produzione (quantità di uva) (Smart 1985).

La gestione della chioma o potatura verde comprende tutte le operazioni capaci di modificare il numero, la massa, la superficie e la posizione degli organi erbacei della vite, ivi compresi i grappoli (Fregoni). Gli scopi generali della potatura verde sono :

¾ favorire la funzionalità dell’apparato fogliare

¾ evitare condizioni microclimatiche sfavorevoli intorno ai grappoli

¾ migliorare la produzione tanto dal punto di vista quantitativo che qualitativo

¾ correggere eventuali errori della potatura invernale o complimentarla per renderla più rispondente

¾ mettere la vegetazione in miglior rapporto con l’andamento della stagione e con le prospettive della produzione

¾ risparmiare nelle potature successive tagli più gravi e le relative ferite

¾ rendere più solleciti ed efficaci i trattamenti antiparassitari alla vite

¾ contribuire a dare e conservare alla vite una forma più razionale

¾ favorire la ripartizione degli elaborati prodotti dalla fotosintesi

¾ regolare l’equilibrio vegeto-produttivo.

Passando ad un rapido esame delle varie operazioni, possono essere classificate nel seguente modo:

a) Operazioni sul ceppo o sulle branche

• Mondatura o spollonatura

• Strozzature e incisioni b) Operazioni sul capo a frutto

• Scacchiatura

• Castrazione

• Cimatura

• Ricimatura

• Sfemminellatura

• Sfogliatura

• Legatura in verde (palizzamento)

• Pettinatura

• Incisione anulare

• Trattamenti con fitoregolatori c) Operazioni sul capo a legno

• Cimatura e castrazione

• Ricimatura e sfemminellatura

• Legatura

d) Operazioni sul grappolo

• Sviticciamento

• Diradamento dei grappoli e degli acini

• Insaccamento dei grappoli

• Impollinazione artificiale

• Irrorazione dei grappoli e) Operazioni sulle radici

• Sbarbettatura

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A seconda della forma di allevamento l’importanza relativa delle varie operazioni in verde può cambiare (Eynard et al 2000).

La gestione della chioma comprende quindi l’insieme di tecniche che permettono di modificare i rapporti tra attività vegetativa e attività produttiva, il cui equilibrio deve essere considerato in relazione agli aspetti microclimatici della chioma stessa. La cimatura e la sfogliatura sono tra le operazioni tecniche più condizionanti l’equilibrio vegeto-produttivo di un vigneto (Campostrini et al. 2003). La gestione della chioma deve favorire una superficie fogliare ampia, ben esposta e con forte sviluppo in primavera, in modo da raggiungere precocemente la superficie ottimale evitando competizioni nella fase di accrescimento e maturazione delle uve.

Figura 2. Relazione tra superficie fogliare e contenuto zuccherino dell’uva, interpretato con una funzione di potenza (Brancadoro et al 2001)

Molti contributi (Howell et al 1987,1991, Patrie et al 2000a, 2000b) hanno definito l’equilibrio vegeto-produttivo come la quantità di superficie fogliare necessaria per portare a maturazione un dato quantitativo di uva (Figura 2). Tale rapporto è normalmente espresso in cm² o m² di superficie fogliare per grammi o kilogrammi di peso fresco di uva. La letteratura riporta un range variabile da 7 a 14 cm²/g e questa ampia variazione la dice lunga sui condizionamenti che le diverse situazioni colturali esercitano sull’equilibrio vegeto-produttivo della vite. Altri autori hanno indicato altri valori; ad esempio Bertamini e Iacono indicano che la superficie fogliare deve essere di circa 1 m²/kg di uva prodotta al fine di garantire un ottimale equilibrio vegeto-produttivo.

Anche la lunghezza della stagione vegetativa risulta un importante fattore che condiziona l’equilibrio vegeto-produttivo. Un periodo sufficientemente lungo di permanenza dell’apparato fogliare sulla vite in post-vendemmia consente alla pianta di accumulare e stoccare carboidrati nei tessuti di riserva, necessari per il completamento della fase di differenziazione delle gemme e delle infiorescenze e per la ripresa primaverile dell’annata successiva.

La parete fogliare non deve essere caratterizzata da un eccessivo numero di strati fogliari, in quanto le foglie eccessivamente ombreggiate non sono attive dal punto di vista fotosintetico (Smart et al.

1991). Le foglie di vite assorbono una grande quantità di luce solare (Figura 3).

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Figura 3. Percentuale di riflessione, trasmissione, assorbimento di radiazione fotosinteticamente attiva da parte di una foglia di vite (cv. Syrah) (Smart 1985)

Infatti una foglia sottoposta a una radiazione fotosinteticamente attiva (PAR) elevata (circa 2.000 μE/m²s) trasmetterà solamente l’8-10% allo strato fogliare sottostante. Se l’intensità luminosa (PAR) è attorno ai 2.000 μE/m²s, il secondo strato riceverà circa 200 μE/m²s, valore al di sopra del punto di compensazione della foglia (punto in cui l’assimilazione netta è pari a zero perché la sostanza organica formata dalla fotosintesi e quella distrutta con la respirazione si equivalgono), quindi sarà in grado di assimilare (Figura 4). Se invece tale intensità è attorno agli 800 μE/m²s, il secondo strato fogliare riceverà solamente 80 μE/m²s, valore al di sotto del punto di compensazione della foglia (Smart 1985).

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2.000 μE/m²s

120 μE/m²s

7 μE/m²s

Figura 4. Riduzione del quantitativo di luce trasmesso attraverso diversi strati fogliari (Brancadoro et al. 2001)

Uno studio condotto su viti di Sangiovese allevate in vaso (Intrieri et al 1992) e condizionate in modo tale che si formassero, su alcune di esse, foglie da “luce” (cresciute in presenza di una radiazione fotosinteticamente attiva pari a 600 μE/m²s) e, su altre, foglie da ombra (cresciute con PAR < 150 μE/m²s) ha dimostrato che il valore massimo di fotosintesi netta (Pn) raggiunto in prossimità del punto di saturazione luminoso (punto oltre il quale non si ha un incremento della fotosintesi), circa 600 μE/m²s per entrambe le tipologie di foglie, è di circa 1/3 inferiore per le foglie da ombra rispetto a quelle da luce. E’ pertanto evidente che le scelte di gestione della chioma devono essere finalizzate a rendere minima la quota di foglie che si sviluppano in condizioni di parziale o totale ombreggiamento.

Durante la stagione vegetativa l’apparato fogliare deve essere mantenuto sano ed efficiente; infatti l’attività fotosintetica è fortemente influenzata, oltre che dalle condizioni ambientali, anche dallo stato sanitario delle foglie. Alcune malattie crittogamiche, attacchi di parassiti, carenze nutritive così come danni causati da fenomeni meteorologici (grandine, vento, ecc…) possono proporzionalmente ridurre l’efficienza dell’apparato fogliare compromettendo la sintesi degli zuccheri e la loro ripartizione.

L’efficienza della parete fogliare è determinata anche da alcuni fattori endogeni, quali esempio,

l’età della foglia. Gli studi condotti sulla dinamica di invecchiamento delle foglie mostrano,

indipendentemente dalle condizioni colturali, un incremento di attività fotosintetica fino a 40-45

giorni di età e successivamente un graduale ma costante declino che porta, ad esempio, foglie di 4

mesi ad avere una Pn (fotosintesi netta) che è circa il 50-60% di quella massima, raggiunta intorno

al compimento delle sesta settimana di vita (Figura 5).

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Figura 5. Relazione tra la fotosintesi e l’ètà delle foglie

Peraltro il raggiungimento della soglia massima di efficienza intorno ai 40-45 giorni di età è stato confermato sia da studi che hanno valutato, a intervalli variabili nel corso della stagione vegetativa, la fotosintesi di foglie in posizioni prefissate, sia da indagini che hanno invece seguito la variazione di fotosintesi in funzione del gradiente naturale di età presente lungo il germoglio. Fino all’invaiatura la zona di maggiore efficienza è quella mediana-basale poiché nel tratto apicale sono ancore presenti le giovani foglie, in attiva crescita e quindi non in grado di garantire il massimo rendimento di fotosintesi; questa situazione si inverte dall’invaiatura in poi quando, nel medesimo tratto apicale, nella zona mediana e soprattutto in quella basale. La conoscenza dei rapporti tra funzionalità e vengono a localizzarsi foglie ormai adulte non ancora senescenti, a differenza di quanto avviene invecchiamento delle foglie è ovviamente alla base di una corretta applicazione di tutti quegli interventi colturali che causano un’alterazione della demografia fogliare. Il riferimento è ovviamente alla potatura verde.

Importante risulta favorire nella fascia produttiva un microclima adeguato alle condizioni

climatiche della zona (ove vi sono carenze termiche e luminose è consigliabile un’alta esposizione,

viceversa nelle zone calde) per agevolare l’espressione produttiva nella zona di rinnovo (base dei

germogli): infatti un elevato ombreggiamento in questa zona causa una riduzione della

differenziazione a fiore e della dimensione degli acini. Per quanto attiene all’optimum termico del

vitigno per l’attività di fotosintesi, i dati disponibili sono assai scarsi anche perché la sua

determinazione pone problemi di ordine metodologico: tuttavia una relazione

temperatura/fotosintesi netta estrapolata da rilievi giornalieri condotti su chiome intere di

Sangiovese allevate a cordone speronato ha evidenziato incrementi lineari di Pn fino a 28-30°C e

l’inizio di un calo consistente con temperature superiori ai 33-34°C (Figura 6).

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Figura 6. Influenza della temperatura sulla intensità della fotosintesi.

Figura 7. Effetto dell’intensità di illuminazione sulla fotosintesi di Sultanina = ○ e Syrah=●

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Figura 8. Andamento della fotosintesi a seconda dell’intensità luminosa rilevato su foglie di Erbaluce all’ 8° nodo (Eynard et al. 2000)

Uno degli aspetti di base dei rapporti tra fisiologia dei vitigni e radiazione luminosa è quello relativo agli effetti che l’intensità di illuminazione, cui la foglia è sottoposta durante il periodo di espansione della lamina fogliare, esercita sulla capacità fotosintetica delle foglia stessa da adulta (Figura. 7, Figura 8) (Campostrini et al. 2003). Alcuni dati specifici (Intrieri et al 1992) mostrano come la senescenza delle foglie sia accelerata qualora le stesse permangono in una condizione di continua ed elevata insolazione; viceversa foglie che si vengono a trovare, sia pure temporaneamente, in condizioni di ombreggiamento e che successivamente, ad esempio a seguito di un intervento di potatura verde, vengono riesposte alla luce, presentano un invecchiamento più lento. Invece foglie collocate in posizioni permanentemente ombreggiate dalla chioma sono destinate a ingiallire e abscindere precocemente in virtù di un rapporto particolarmente sfavorevole tra attività fotosintetica e traspirazione. E’ stato dimostrato, infatti, che foglie stabilmente collocate in posizioni interne della chioma presentano, rispetto a foglie ben illuminate, una fotosintesi ridotta di circa l’80-85% a fronte di una traspirazione ridotta, in media, di solo il 40-50%. In altri termini, l’efficienza di uso dell’acqua (definita tra il rapporto tra fotosintesi e traspirazione) di queste foglie ombreggiate risulta particolarmente svantaggiosa per la pianta.

Considerazioni importanti possono essere tratte per quanto attiene ai rapporti fra esposizione

luminosa e caratteristiche compositive dei grappoli. Molti contributi scientifici indicano una stretta

correlazione tra chiome fortemente caratterizzate da elevati ombreggiamenti fogliari e alti contenuti

di potassio nelle uve e nei mosti; questo è normalmente accompagnato da elevati rapporti tra acido

malico e acido tartarico. Altri autori evidenziano questo fenomeno indicando che il potassio viene

rimobilizzato attraverso il sistema floematico durante lo sviluppo e la maturazione del grappolo sia

a partire dalle foglie in ombra o soggette a stress sia dagli organi di riserva della pianta. Le foglie in

ombra o soggette a stress non sono ottimi produttori di zuccheri e veicolano invece potassio che si

accumula nei frutti. Quindi, mentre durante la maturazione l’apporto di zuccheri da parte di foglie

in ombra o stressate è insufficiente, si assiste a un accumulo elevato di potassio nelle bacche. Il

risultato è: più potassio nelle bacche e ph più elevato. Se da un lato è infatti noto che un

ombreggiamento eccessivo (PAR < 200 μE/m²s) della zona basale dei tralci, in cui sono

prevalentemente collocati i grappoli, è causa tipica di una insufficiente gradazione e colorazione

delle uve, dall’altro è stato altresì dimostrato che grappoli di Sangiovese soggetti a una esposizione

continua a elevata luminosità e temperatura non raggiungono ugualmente una sufficiente

colorazione. In alcuni ambienti con microclimi molto luminosi questo effetto è stato recentemente

avvalorato, in modo particolarmente evidente, da prove condotte in California in cui, quasi

paradossalmente, l’abbandono o un uso molto più moderato della tecnica di sfogliatura della zona

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basale dei tralci, tipicamente applicata poco dopo l’allegagione, hanno provocato un netto incremento dell’intensità di colorazione delle uve alla vendemmia (Campostrini et al. 2003). Smart e collaboratori, invece, hanno in diverse occasioni concluso che microclimi ombreggianti peggiorano la qualità dei prodotti riducendo sia l’intensità colorante dei vini che il loro contenuto in fenoli e che l’esposizione delle bacche appare più importante rispetto all’esposizione delle foglie stesse (Smart 1985). Giorgessi (1985) ha confermato che ombreggiando le bacche si ha una riduzione del loro contenuto in antociani molto più marcata rispetto al contenuto in zuccheri e acidi.

Inoltre l’analisi sensoriale dei vini ottenuti da tesi che confrontano diversi livelli di ombreggiamento delle bacche è in grado di individuare negli aromi e nei profumi dei vini delle differenze rilevanti. A conclusioni simili è giunto anche un lavoro di tesi dell’Università di Milano (Gatti 2001) che ha evidenziato che la sfogliatura potrà avere i migliori riscontri in termini di accumulo di materia colorante e di sostanze aromatiche ritrovate nei vini ottenuti se realizzata in epoca non eccessivamente precoce (poco dopo l’invaiatura e a ridosso dell’allegagione) e non eccessivamente tardiva (a invaiatura avvenuta). Carbonneau ha anche dimostrato che le bacche esposte al sole hanno un maggior contenuto di fenoli e antociani, ma qualora tale esposizione diventasse eccessiva in alcuni anni associata a carichi termici delle bacche eccessivi, gli elevati contenuti fenolici sono associati a indesiderabili aromi nel vino(Campostrini et al. 2003). La defogliazione produce anche un effettiva riduzione dell’acidità malica e dei caratteri erbacei da pirazine nel Sauvignon blanc, mentre nel Cabernet Sauvignon si assiste a un aumento di antociani e fenoli se l’intervento di defogliazione è operato in un periodo compreso tra quattro settimane successive all’allegagione e l’invaiatura; oltre tale data la rimozione fogliare sortisce un effetto più contenuto. La parziale defogliazione nel Cabernet Sauvignon aumenta la concentrazione in antociani e il suo effetto risulta più elevato quando tale intervento è effettuato all’invaiatura (Hunter et al. 1990). Questi e numerosi e altri lavori riportano che i vini prodotti con parziale defogliazione delle uve ottengono dei punteggi di qualità più elevati rispetto a quelli ottenuti su piante non defogliante.

L’equilibrio vegeto-produttivo deve esistere non solo a livello di pianta ma anche di singolo germoglio. Oltre all’effetto dovuto alla differente esposizione alla luce, la variazione del rapporto tra area fogliare e produzione dei singoli germogli può essere causa di maturazione non omogenea.

La ripartizione degli elaborati, prodotti dalla fotosintesi, tra accrescimento vegetativo e uva deve essere equilibrata evitando perciò eccessi o deficienze di area fogliare di area fogliare rispetto al peso dei frutti. La potatura invernale è un valido mezzo per definire i rapporti vegeto-produttivi;

infatti potature molto intense incrementano il vigore vegetativo fino a indurre fenomeni di colature

e filatura, mentre quelle leggere aumentano la produttività. Attività vegetativa e produttiva sono in

reciproca competizione, per cui l’equilibrio può essere facilmente alterato. Questo è particolarmente

evidente quando più fattori agiscono nello stesso senso; come nel caso di potature intense in suoli

ad alta fertilità o potature leggere in suoli poco fertili. Cimature molto drastiche, soprattutto dopo

l’invaiatura, possono ridurre notevolmente la superficie fogliare attiva compromettendo la

maturazione delle uve. Nel prossimo futuro la viticoltura potrà giovarsi su ampia scala di tecniche

di monitoraggio del vigore delle vigne attraverso il rilievo operato con tecnologie innovative quali il

ricorso all’uso di dati multispettrali. Si potranno predisporre delle mappe dettagliate dei vigneti in

cui si evidenzieranno le aree a diverso vigore correlato ai principali indici di equilibrio della

chioma. In tal modo l’intervento in campo potrà essere effettuato in modo differenziato e preciso

andando a riequilibrare le situazioni di reale disequilibrio caso per caso. A ciò si aggiunga che la

meccanica agraria ha già presentato innovazioni di rilievo predisponendo dei sensori in grado di far

operare la trattrice e gli organo lavoranti collegati in funzione della mappatura del vigneto

(utilizzando tecniche gps e non solo), ma anche montando sensori in grado di riconoscere, passando

tra i filari, il reale vigore delle viti e quindi adattando in continuo l’intensità dell’intervento. Quindi

una conoscenza dettagliata dell’equilibrio della chioma e il ricorso a macchine operatrici di

precisione garantiranno nel prossimo futuro i migliori interventi colturali secondo specifici obiettivi

di qualità delle produzioni.(Campostrini et al. 2003)

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FATTORI CHE INFLUENZANO LA CHIOMA

Portainnesto: il portinnesto è la parte della pianta a diretto contatto con il terreno, che rappresenta

per la vite la fonte di acqua ed elementi nutritivi. A parità di terreno i vari portinnesti sono in grado

di assorbire quote diverse di acqua ed elementi minerali, andando così ad influenzare la fisiologia

della pianta intera ed in particolare lo sviluppo della chioma, la produzione di uva e la sua

composizione. La differenziazione di vigore indotto alle piante non è così marcata come osserviamo

in altre specie arboree, ma comunque sufficiente a influenzare in maniera apprezzabile lo sviluppo

vegetativo della pianta. Al momento dell’impianto di un nuovo vigneto il viticoltore deve chiedere

al vivaista non solo il vitigno (e il clone), ma anche il portinnesto, sapendo che esiste una

classificazione in funzione della vigoria impressa alla pianta. A questo punto occorre considerare

quale vigoria si voglia; il viticoltore di oggi che produce uva da vino è sempre orientato alla qualità

della produzione, viste la situazione della domanda e offerta mondiali di vino. Da quanto appena

detto risulta quindi chiaro che quantità e qualità dell’uva, a livello di singola pianta, sono fattori

alternativi, nel senso che esiste un valore di produzione a ceppo (carico di rottura) oltre il quale il

livello qualitativo scade. Il carico di rottura è diverso a seconda dei tipi di vino da realizzare,

essendo molto basso (1,5 kg uva/pianta) per vini rossi da invecchiamento. Questa è una regola

molto ferrea della viticoltura, che deve essere tenuta in grande considerazione. Ma quando è che

un’uva può dirsi di qualità? Quando è prodotta da un vitigno di razza in condizioni ambientali e

colturali tali da permettere al frutto di esprimere al massimo le sue potenzialità genetiche, ossia di

avere una composizione ricca, ma allo stesso tempo equilibrata, di quelle sostanze nobili quali gli

aromi e i polifenoli e non solo di avere un’alta concentrazione zuccherina. Da quest’uva si otterrà

poi un vino dove tale complessità e finezza aromatica saranno riconosciute da chi degusterà quel

vino. Tra le condizioni che permettono di raggiungere questo obiettivo, troviamo la bassa

produzione di uva per pianta. Una vite che produce più uva può certamente, in determinati ambienti,

avere livelli zuccherini simili a piante più scariche, ma non certo la medesima ricchezza e

complessità aromatica. La bassa produzione di uva per pianta implica tra le altre cose l’impiego di

un portinnesto di vigoria scarsa o al massimo media; ecco dunque che il viticoltore al momento

dell’impianto, se vuole produrre un’uva (e poi anche un vino) di qualità, dovrà scegliere in questo

senso, così da avere una pianta con una vegetazione contenuta che arresta il suo accrescimento al

momento dell’invaiatura. Il controllo dello sviluppo della chioma, quindi, inizia già al momento

dell’impianto anche con la scelta di un portinnesto di vigoria medio-bassa, così da non avare piante

squilibrate verso l’attività vegetativa. Va ricordato però che il portinnesto è solo uno dei fattori, e

forse neanche il più importante, che concorrono a determinare il risultato finale, interagendo con le

altre componenti dell’ecosistema viticolo, quali l’ambiente pedoclimatico, le tecniche colturali e la

densità d’impianto. Da un punto di vista pratico, però, non è sempre possibile scegliere il

portinnesto che induca bassa vigoria, perché altri fattori limitanti del terreno e del clima (in pratica

il calcare e la siccità, almeno per la situazione viticola italiana) costringono a scelte obbligate,

considerando che i genotipi poco vigorosi sono sensibili al calcare e alla siccità. Il portinnesto è

solo uno dei fattori dell’ecosistema viticolo che concorrono al risultato finale, si è ricordato dei

condizionamenti imposti dal clima e dal terreno; il vitigno in genere non crea grossi problemi, nel

senso che sono noti e per fortuna rari i casi di disaffinità di innesto. Dato per scontato che

l’interazione vitigno-potinnesto e terroir contribuisce in maniera preponderante al risultato

qualitativo della produzione, bisogna ricordare che anche le tecniche colturali interagiscono col

portinnesto. Un portinnesto poco vigoroso prevederà sesti di impianto stretti (e quindi elevate

densità di piantagione) forme di allevamento contenute (guyot, cordone speronato, alberello) scarse

concimazioni azotate e irrigazioni. Alcune di queste scelte, inoltre, possono permettere differenti

livelli di meccanizzazione con conseguente riduzione dei costi di produzione; la meccanizzazione

non deve però, nell’ottica della qualità, diventare un fine, ma un mezzo da usare con discernimento

(Bavaresco et al. 2001).

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Densità d’impianto: la fittezza di piantagione, cioè il numero di viti che si pongono a dimora in un ettaro di vigneto, è sicuramente un fattore colturale importante poiché influenza l’entità della produzione, il suo livello qualitativo e i costi di produzione. La scelta della densità di impianto è un aspetto della progettazione di un nuovo vigneto che, recentemente, sembra assillare i viticoltori quanto la scelta del vitigno e del clone. In effetti la fittezza di piantagione, cioè il numero di viti che si pongono a dimora in un ettaro di vigneto, è sicuramente un fattore colturale importante poiché influenza l’entità della produzione, il suo livello qualitativo e i costi di produzione. Essa appartiene, però, a un insieme di decisioni, scelte tecniche ed economiche, che devono essere effettuate in modo coordinato in un unico progetto di impianto. Non si può optare per una daterminata densità d’impianto (bassa, media, alta) senza prima aver scelto varietà, portinnesto e forma di allevamento, fattori colturali che, per di più, interagiscono significativamente con l’ambiente pedoclimatico nel quale si deve calare il nuovo progetto. E’ risaputo come differenti combinazioni di innesto possono manifestare vigorie molto variabili e che le numerose forme di allevamento utilizzate nel nostro Paese presentano sviluppo e portamento della chioma molto diversificati. Difficile pensare un impianto fitto utilizzando, ad esempio, chardonnay innestato su kober 5bb oppure optando per forme di allevamento come il sylvoz o il doppio capovolto (Bavaresco et al. 2001). Il numero di viti per ettaro è, comunque, la risultante della scelta dei sesti d’impianto; la stessa fittezza di piantagione, ad esempio 3.300 viti/ha, si può ottenere con un sesto di 2,5*1,2 m oppure di 3*1 m.

La differenza di 0,5 m tra lo spazio interfilare, alla latitudine dell’Italia settentrionale e per orientamenti dei filari nord-sud, può causare problemi di reciproco ombreggiamento delle pareti fogliari se non si rispettase la regola che vuole il rapporto tra altezza della parete fogliare e distanza interfilare non superiore a 1 (Baldini et al. 1986). La distanza tra i filari è, quindi, vincolata alla latitudine, alla vigoria delle viti e anche alla necessità di meccanizzazione. Numerose ricerche hanno indicato che l’incremento della densità d’impianto porta, in genere, a una riduzione della vigoria e della produzione di ogni ceppo, con conseguente aumento, però, della produzione unitaria e del quantativo totale di sostanza secca prodotta dal vigneto. Le conseguenza qualitative sono:

maturazione più completa delle uve, grado zuccherino e antociani delle bucce più elevati, vini

sempre riconoscibili, più complessi e equilibrati rispetto a quelli ottenuti con basse fittezze di

piantagione (Poni 2000). Per raggiungere un elevato livello qualitativo del prodotto (obiettivi

enologici che privilegino gradazione alcolica, struttura, colore) è opportuno optare, quindi, per

densità d’impianto medio-alte. Il limite superiore di tale fittezza dovrà evitare la rottura

dell’equilibrio vegeto-produttivo che si instaura in un vigneto impostato correttamente in funzione

della fertilità dell’ambiente. In un simile vigneto gli interventi colturali necessari per gestire lo

sviluppo vegetativo e riproduttivo della pianta ( potatura secca e verde, diradamento dei grappoli,

concimazione azotata) sono ridotti al minimo (Intrieri 1996). Il miglioramento qualitativo dell’uva

si ottiene soprattutto con il rinfittimento delle viti lungo il filare (Brancadoro 2001 a); ciò porta a

una riduzione della vigoria dei ceppi ma solo se si giunge a una soglia di fittezza tale da innescare i

fenomeni di competizione radicale (Kliewer et al.1997). In un suolo fertile e profondo ciò potrebbe

instaurarsi con valori di distanza sulla fila molto bassi (50-60 cm); qualora non fossero raggiunti,

porterebbero a uno scoppio di vigoria delle viti che, seppur abbastanza ravvicinate, sono ancora in

grado di esplorare consistenti volumi di suolo. Le modificazioni dell’equilibrio vegeto-produttivo

indotte dall’aumento di fittezza di piantagione possono essere efficacemente valutate

dall’andamento del rapporto superficie fogliare totale di una vite (in m2 o in cm2) e la relativa

produzione di uva (in kg o g). Questo rapporto è molto variabile in funzione dei vitigni. In

un’esperienza effettuata sul Collio friulano si sono ottenuti valori di 1,6-1,8 m2/kg a carico del

Pinot grigio, vitigno vigoroso e poco produttivo (ha grappoli molto piccoli) e valori di 1-1,2 m2/kg

a carico del Pinot nero, più produttivo e meno vigoroso. Indipendentemente dal vitigno,però,

quando questo indice è basso (meno di 1) siamo di fronte ad un vigneto disequilibrato verso

l’eccesso di produzione; quando è alto (superiore a 1,5) il vigneto si presenta rigoglioso, con

vegetazione fitta, grappoli molto ombreggiati. Si può concludere quindi ribadendo che molte sono

le variabili in gioco: la stessa tipologia di qualità desiderata, la fertilità dell’ambiente che ospiterà il

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vigneto, la varietà e il portinnesto scelti, la forma di allevamento, il parco macchine disponibile e che, pur legando la ricerca del miglioramento qualitativo delle uve a incrementi della densità di piantagione, risulta necessario verificare la validità delle risposte nelle differenti realtà viticole (Bavaresco et al. 2001).

Forma di allevamento: possiamo definire la forma di allevamento della vite come la struttura architettonica che viene imposta alla pianta per ottimizzare i rapporti esistenti tra la fase vegetativa e quella produttiva. Tra i parametri strutturali dell’impianto che possono essere assoggettati alla scelta della forma di allevamento possiamo distinguere quelli generali e altri specifici. Tra i primi, che una volta determinati non potranno più essere modificati, si annoverano i sesti d’impianto, intesi sia come distanza tra le file che sulla fila, e l’orientamento dei filari. Per quanto riguarda i secondi, i più specifici della forma prescelta, questi sono: disposizione della vegetazione (ascendente o a ricadere, in una o due pareti); presenza o meno di un cordone permanente; tipo di potatura (lunga o corta, ricca o povera); altezza da terra. Questi ultimi, seppur con difficoltà e al contrario dei precedenti, possono essere mutati durante la vita del vigneto e per questo vengono definiti anche come parametri modificabili e sono quelli che, caratterizzando le diverse forme di allevamento, maggiormente incidono sul raggiungimento dell’equilibrio vegeto-produttivo attraverso la struttura della pianta. La qualità e la composizione dell’uva sono il risultato dell’accumulo nei grappoli di sostanze elaborate dalle foglie. Da qunto detto emerge il concetto base di equilibrio vegeto-produttivo ossia l’individuazione del giusto rapporto tra il quantitativo di foglie (source) e il quantitativo di uva prodotta (sink), fra cui verranno ripartiti gli elaborati. Da alcuni anni in Francia è stato proposto un semplice calcolo per individuare la superficie fogliare esterna illuminata (SFeI) (Figura 9).

Figura 9. Rappresentazione schematica della superficie fogliare esterna illuminata, dove : H¹ altezza della parete illuminata direttamente; H² parete illuminata indirettamente; e larghezza della vegetazione; L lunghezza della parete lungo il filare; 0,6 fattore di correzione per la riduzione di energia intercettata dalla parete in ombra (Brancadoro et al 2001).

.Questo indice, se messo in correlazione con la produzione, trova il suo optimum di equilibrio con

1 kg di uva prodotta per metro quadrato di SFeI (Figura 10). Verifiche condotte dal Dipartimento di

produzione vegetali dell’Università di Milano su questo indice hanno confermato la validità di

questo rapporto .

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Figura 10. Correlazione tra il rapporto produzione /SfeI (superficie fogliare esterna illuminata) e il contenuto zuccherino delle uve. Dai risultati di questa prova, condotta presso il C.V.V ( Centro Vitivinicolo) di Brescia sulla varietà Merlot, emerge come esista una correlazione significativa, espressa da una funzione quadratica, tra il contenuto zuccherino e il rapporto produzione/SFeI.

Inoltre i dati raccolti confermano come il rapporto 1 Kg di uva / 1m² di foglie esterne rappresenti il punto di flesso della funzione al di sopra del quale si assiste ad una riduzione del contenuto zuccherino dei mosti (Brancadoro 2001).

Le diverse forme di allevamento naturalmente hanno un effetto diretto nel determinare la SFeI e questo emerge chiaramente dalla figura dove sono state schematizzate le dimensioni di tre forme di allevamenti tra le più diffuse. D’altro canto emerge anche come le diverse forme di allevamento, in base alla loro struttura, siano caratterizzate da chiome più o meno espanse (Figura 11).

Figura 11. Rappresentazione schematica delle dimensioni di 3 diversi sistemi di allevamento.

A tal riguardo Smart propone, attraverso il metodo di misura del point quadrat, un sistema di

valutazione delle chiome. Utilizzando questo metodo di valutazione, nell’ambito di ricerche svolte

sui sistemi di potatura effettuati su una spalliera alta, si è cercato di caratterizzare le chiome ottenute

con le due diverse potature. I valori rilevati mostrano un maggior numero di strati fogliari con

l’adozione di potature corte, e in modo particolare questo si rileva nelle zone dove la presenza di

grappoli è risultata più elevata, rispetto alle potature miste che presentano mediamente in numero di

strati fogliari inferiore, e in particolare nella zone dove è maggiormente concentrata la produzione. I

risultati riportati mostrano come le due diverse potature non abbaino fornito differenze

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statisticamente significative, per i parametri produttivi e vegetativi diversamente da quanto rilevato per il contenuto in zucchero dei mosti. Questi risultati, alla luce anche di quanto sopra esposto, portano a ipotizzare come un eccessivo affastellamento della vegetazione possa causare negative ripercussioni sulla maturazione delle uve. Oltre al tipo di potatura esistono altri parametri strutturali che hanno influenza diretta sull’espressione vegeto-produttiva della vite; questi sono l’altezza da terra del sistema di allevamento e la disposizione nello spazio dei germogli. Questi due parametri sono tra loro spesso correlati: di norma le forme basse prevedono uno sviluppo dei germogli assurgente (fa eccezione l’alberello che ha germogli ricadenti), mentre nelle forme impalcate alte lo sviluppo dei germogli è a ricadere (in questo caso fanno eccezione le pergole, il tendone e le altre forme con uno sviluppo dei germogli parallelo al suolo). Per quanto riguarda gli effetti diretti che questi parametri sull’espressione vegetoproduttiva e sul vigore della pianta è stato rilevato che le viti allevate con orientamento verticale dei germogli presentavano maggior vigore e un maggior numero di primordi fiorali, rispetto alle viti i cui germogli erano allevati orizzontalmente. Questo è confermato dalle ricerche condotte da Shubert che hanno rilevato una maggiore nutrizione xilematica dei germogli cresciuti verticalmente rispetto a quelli che si sviluppano in modo decombente. In altre ricerche condotte con Cabernet Sauvignon l’orientamento verso il basso dei germogli riduceva il vigore della pianta, le dimensioni della foglia, la lunghezza dell’internodo, lo sviluppo delle femminelle e la produzione di legno di potatura, rispetto a piante con un orientamento dei germogli orizzontale o verticale. In definitiva le forme di allevamento, sulla base delle loro caratteristiche strutturali e in modo particolare altezza, disposizione nello spazio dei germogli e densità della chioma, influenzano in modo decisivo gli equilibri tra la fase vegetativa e quella produttiva della vite determinando in questo modo anche i parametri qualitativi. Da quanto esposto emerge chiaramente l’importanza della scelta della forma di allevamento e del suo sistema di gestione mediante le operazioni in verde (Brancadoro et al. 2001).

Gestione della chioma: le operazioni colturali in verde rappresentano il principale strumento di riequilibrio del rapporto tra la fase vegetativa e quella riproduttiva della pianta durante il corso della stagione. Queste operazioni sono rivolte normalmente alla riduzione dell’eccesso di vegetazione (sfogliature, cimature, sfemminellature), alla riduzione dell’eccesso di produzione (diradamento) o alla riduzione di entrambi (ad esempio l’eliminazione dei germogli in soprannumero). Il sistema di gestione della chioma mediante le operazioni in verde risulta essere di primaria importanza nel ristabilire un giusto rapporto tra sink e source che sovente non è possibile determinare con la sola pratica della potatura invernale. L’operazione più comunemente condotta, nella gestione in verde della vite, è sicuramente la cimatura. Al crescere del numero di interventi di taglio in verde corrisponde un crescente numero di femminelle emesse. Il numero di queste è stato messo in correlazione con il contenuto zuccherino dei mosti, e i risultati evidenziano come esiste un correlazione positiva tra questi due parametri. Tale risultato potrebbe essere spiegato dall’aumento di superficie fogliare legato alle giovani foglie, dovuto all’emissione di femminelle, che forniscono al momento della maturazione dell’uva un apporto di fotosintesi netta maggiore rispetto alle foglie più vecchie.

Altra pratica diffusa, soprattutto nelle produzioni di elevato pregio, è il diradamento dei grappoli,

che, in conseguenza alla riduzione di produzione per germoglio, aumenta sia il contenuto

zuccherino, che il peso medio del germoglio. La riduzione dei punti di vegetazione aumenta in

modo consistente sia lo sviluppo del germoglio che la sua produzione e al contempo determini

incrementi zuccherini significativamente diversi rispetto al testimone. Questo dimostra ancora una

volta come il concetto di equilibrio vegeto-produttivo sia fondamentale per l’interpretazione delle

diverse risposte qualitative della vite. Inoltre emerge l’importanza del germoglio come singola unità

produttiva (Brancadoro et al. 2001).

(15)

EFFICIENZA DI CHIOMA DI VITE

L’efficienza di una chioma di vite dipende dalla capacità di intercettazione luminosa ma anche dalle modalità con cui la luce catturata è convertita in sostanza secca e, come ultimo passaggio, dalla quantità di sostanza secca che la chioma è in grado di convogliare verso i grappoli. Le chiome di vite presentano una spiccata variabilità in termini di dimensioni, forma, orientamento e distribuzione della vegetazione che è legata sia all’eterogeneità dei sistemi di allevamento utilizzati per questa specie arborea (la classificazione delle forme annovera più di 40 tipologie diverse) sia alla plasticità del genere Vitis (Fregoni). E’ noto, infatti, che la vite presenta una struttura lianosa, con rami (tralci) lunghi e flessibili e organi specifici di presa (viticci) che la rendono particolarmente idonea a essere modellata secondo profili geometrici anche molto diversi tra loro.

Indipendentemente dalla tipologia della chioma, l’efficienza della parte epigea si caratterizza, essenzialmente, per la capacità di soddisfare tre requisiti imprescindibili e comunque strettamente interdipendenti tra loro:

9 elevata capacità di intercettazione della radiazione incidente

9 elevata capacità di conversione della radiazione intercettata in sostanza secca 9 elevata capacità di traslocazione e accumulo della sostanza secca verso i grappoli.

(Poni 2001).

Radiazione disponobile.

La quantità totale di radiazione disponibile per un vigneto nell’arco del ciclo annuale è una variabile dipendente dalla località e dall’annata e non può essere ovviamente influenzata dalle scelte colturali. Tuttavia, l’efficienza della chioma può essere pesantemente condizionata, ad esempo dall’andamento climatico ( in particolare dal montante termico e radiativo) e, in annate sfavorevoli, la capacità fotosintetica e, di riflesso, la probabilità di portare a maturazione le uve fatalmente diminuiscono (Poni 2001). A parità di resa per unità di superficie, il grado zuccherino raggiunto nella stagione favorevole (calda e soleggiata) risulta superiore a quelle fatto registrare nel corso di una stagione sfavorevole (prevalentemente fredda e nuvolosa) (Lasko 1993). Questo indica con chiarezza l’importanza di operare scelte oculate di site selection ovvero vocazionalità del territorio in rapporto alle esigenze di maturazione del vitigno prescelto (Fregoni ). Una scelta felice di vocazionalità, oltre che auspicabile in tutti i casi, può rivelarsi utile anche per compensare o mitigare eventuali effetti negativi che possono derivare da un’errata gestione della chioma.

La percentuale di luce effettivamente intercettata dalla chioma rispetto a quella massima disponibile è il parametro più direttamente correlato alla quantità di sostanza secca prodotta nell’arco della stagione (Smart 1985). In linea generale, quindi, una chioma è efficiente quando riesce a garantire, nel corso del ciclo annuale, un’elevata capacità di intercettazione della luce incidente che può variare in funzione dei seguenti fattori:

o altezza, spessore e densità fogliare della parete vegetativa

o distanza tra le file, orientamento e/o esposizione dei filari a seconda ci trovi i9n pianura o collina

o presenza di chiome a parete singola o sdoppiata

o dinamica di formazione della superficie fogliare sulla chioma e durata della sua permanenza sulla parte epigea

In generale, le forme di allevamento che si avvantaggiano, rispetto ad altre, per capacità di

intercettazione luminosa sono quelle che distribuiscono la vegetazione lungo un piano inclinato

(vari tipi di pergole) oppure orizzontale (il tendone). In realtà quest’ultima forma è l’unica a

presentare una chioma di tipo continuo e per tale caratteristica è quindi in grado di raggiungere, già

a partire dalla fioritura, livelli di intercettazione luminosa pari al 100% della quota di radiazione

incidente. Questa elevata capacità di utilizzo dell’energia radiante è uno dei fattori alla base delle

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nota produttività del tendone che, concettualmente, può essere estesa anche ad alcune tipologie di pergole o raggi-pergole in cui la distribuzione della vegetazione su diversi piani esalta la capacità di sfruttamento delle disponibilità radiative. Le forme di allevamento della vite a controspalliera, contraddistinte dalla formazione di una parete vegetativa verticale alta e stretta, danno origine a una copertura vegetale del suolo di tipo dicontinuo e quindi, anche a chioma completa, sono sempre e comunque caratterizzate da una quota di radiazione incidente che viene perduta direttamente a terra senza intercettare la chioma nel suo percorso. Per tale ragione, la percentuale massima di luce captata da una controspalliera non potrà mai raggiungere il 100% attestandosi, a seconda di come i fattori spessore, altezza e densità della chioma giocano il proprio ruolo, intorno al 50-70% della radiazione disponibile. In generale, percentuali di luce intercettata particolarmente bassi (<50%) si possono raggiungere nei casi di impianti che presentano un rapporto squilibrato (ovvero < 1) fra altezza della parete e distanza tra le file oppure anche in tipologie di vigneto ad alberello in cui la densità di impianto appare troppo ridotta rispetto alle esigenze di garantire una sufficiente copertura vegetativa sull’unità di superficie. L’orientamento dei filari è uno dei fattori da cui dipende la quota di luce effettivamente intercettata dalla chioma ma occorre subito precisare che esso interagisce in maniera talvolta assai complessa con la latitudine, il periodo della stagione, l’altezza e lo spessore delle chiome. E’ comunque certo che l’orientamento dei filari ha maggiore importanza a basse latitudini (meno di 30° dall’equatore) quando il percorso del sole sulla volta celeste tende ad essere sempre più parallelo a una chioma orientata est-ovest che, in tali condizioni, si trova penalizzata poiché una quota rilevante di radiazioni sfiora la chioma stessa senza colpirla direttamente. Per quanto riguarda la fascia di latitudine in cui si sviluppa la viticoltura del centro-nord Italia (42-46°

nord), le differenze di radiazione totale intercettata, in pianura, da viti allevate a controspalliera e

orientate, ad esempio, nord-sud e est-ovest, non sono particolarmente rilevanti. Per tale motivo, la

scelta dell’uno o dell’altro orientamento dovrebbe dipendere soprattutto da esigenze di distribuzione

della luce (la disposizione nord-sud garantisce notoriamente una simmetria di illuminazione di

ambedue del filare che non si registra in est-ovest, in cui il lato sud della parete è sempre esposto

alla luce e quello nord sempre in ombra), oppure pratiche (preferenza per orientamenti che facilitino

il transito e l’operatività delle macchine o che controllano meglio fattori erosivi). E’ infine evidente

che la scelta di forme di allevamento che tendono a distribuire la vegetazione lungo piani

orizzontali o inclinati rende meno importante l’influenza legata all’orientamento dei filari (Poni

2001). Tra i fattori colturali che possono modificare in modo sostanziale l’entità e la dinamica della

quota di luce catturata da chiome di vite vi sono la tipologia di allevamento e la potatura. La

quantità e la dinamica di intercettazione luminosa dipendono anche dalla precocità di formazione

dell’apparato fogliare che, oltre a essere una variabile direttamente correlata alla disponibilità di

sommatorie termiche nel periodo compreso tra germogliamento e allegagione, è anche funzione

della tecnica di potatura. Qualora si adotti infatti una potature particolarmente ricca (mantenimento

sulla vite di un carico di gemme elevato o molto elevato), per effetto dell’alto numero di germogli

che si sviluppano fin dalle prime fasi di crescita, la chioma presenta una notevole velocità di

formazione e, di riflesso, una maggiore percentuale di luce intercettata rispetto a quanto avviene, ad

esempio, in viti potate secondo metodi convenzionali (Poni 2001).

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Conversione della radiazione in sostanza secca.

L’efficienza di una forma di allevamento non si esprima solo in termini di frazione di luce intercettata su quella disponibile ma anche, e soprattutto, in funzione della capacità della chioma di trasformare, con la fotosintesi, l’energia luminosa in elaborati poi utilizzati nei processi di crescita, maturazione e ripristino delle riserve. Come è noto, la luce è il più importante fattore ambientale di regolazione della fotosintesi netta (Pn) e la variazione di Pn al crescere della densità di flusso fotonico (PFD), denominata curva di saturazione luminosa, segue un andamento di tipo asintotico con incrementi molto rapidi nella fascia di PFD compresa tra 0 e 400 μmol/m²s (Figura 13) e guadagni sempre minori per aumenti ulteriori di della disponibilità energetica. Questo tipo di andamento presenta due punti caratteristici:

o punto di compensazione luminosa, definito dal valore di PFD in corrispondenza del quale la fotosintesi netta è uguale a zero. Per la vite il punto di compensazione si colloca fra 10 e 20 μmol/m²s

o punto di saturazione luminosa (Figura 13), definito dal valore di PFD oltre il quale non si registrano ulteriori incrementi di fotosintesi netta. Per la vite, il punto di saturazione luminosa varia in genere da 600 a 1.200 μmol/m²s e individua, ovviamente, anche il valore di massima Pn che, per vitigni appartenenti a Vitis vinifera oscilla, di norma, fra 15 e 20 μmol/m²s.

Figura 13. Fotosintesi netta (Pn) e aumento di densità di flusso fotonico (PFD) in foglie mature di Sangiovese. Il tipico andamento individua i punti di saturazione e compensazione luminosa in corrispondenza di valori di PFD pari, nell’ordine circa a 1250 e 20 μmol /m²s (Poni 2001)

La curva riportata nella figura 13assume un particolare valore fisiologico e applicativo poiché l’andamento di tipo asintotico è praticamente immutabile al variare delle condizioni ambientali e colturali. Indubbiamente, queste ultime possono influenzare il valore assoluto dei due parametri caratteristici, ma il modello di variazione della fotosintesi in rapporto all’intensità luminosa presenta sempre e comunque una fascia iniziale in corrispondenza della quale incrementi ance moderati di PFD causano un innalzamento costante di Pn e una zona prossima alla saturazione luminosa per la quale un aumento anche consistente di PFD produrrà effetti minimi o nulli su Pn. Il valore applicativo della relazione luce-fotosintesi è esemplificato nel grafico.

Se immaginiamo una chioma di vite costituita da una serie sovrapposta di strati fogliari e teniamo

presente che ognuno di questi assorbe mediamente l’80-85% della quantità di PFD che lo investe, è

intuitivo che lo strato vegetazione immediatamente al di sotto di quello esterno, ricevendo una

quantità di PFD equivalente, nello specifico, al 10% di quella incidente (1.600 μmol/m²s), potrà

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assicurare una fotosintesi non superiore al 20-25% di quella massima. Il terzo strato di foglie, potendo contare su una PFD a sua volta pari al 10% di quello di cui può beneficiare lo strato sovrastante (16 μmol/m²s per l’esempi riportato) si collocherà vicino o addirittura al di sotto del livello di compensazione luminosa (Figura 14).

Figura 14. Modello ipotetico di attenuazione della densità di flusso fotonico (PFD) in rapporto alla posizione degli strati fogliari in una chioma di vite. Il modello assume che ogni strato assorbe il 90% della radiazione incidente e che le foglie siano orientate perpendicolarmente alla direzione dei raggi solari (Poni 2001).

E’ pertanto evidente che la gestione della chioma di un qualsiasi sistema di allevamento dovrebbe tendere, secondo i principi fisiologici descritti nel grafico, alla formazione di un numero medio di strato fogliari non superiore a due. Tuttavia, questa casistica assume che le foglie siano essenzialmente ortogonali alla direzione dei raggi solari e appare troppo semplificativa in rapporto alle possibili combinazioni di inclinazione e orientamento fogliare che caratterizzano il sistema chioma. In una comunità di foglie, infatti, è certamente possibile che alcune di esse siano ortogonali alla direzione dei raggi solari ma è altrettanto probabile che le foglie possono assumere una angolo acuto rispetto alla posizione del sole (fino al limite estremo di risultare parallele ai raggi solari) lasciando quindi filtrare una quota maggiore di luce che può essere sfruttata da quelle sottostanti. E’

pertanto probabile che il numero medio di strati fogliari che, in una chioma di vite, può rendere

ottimale la distribuzione e quindi l’utilizzazione della quota di luce intercettata si collochi intorno a

tre (Poni 2001). Di certo, un numero superiore di strati non solo non produrrebbe un apprezzabile

guadagno fotosintetico, ma aumenterebbe anche la densità del fogliame fino a livelli tali da creare

condizioni particolarmente favorevoli allo sviluppo di malattie fungine. Inoltre, è stato dimostrato

che chiome particolarmente dense di vegetazione creano un ombreggiamento troppo accentuato

della fascia produttiva che frequentemente si traduce in scarsa colorazione (per le uve rosse), ph e

acidità totale troppo elevati e prevalenza di sostanze aromatiche che esaltano, spesso in modo

squilibrato, il gusto erbaceo dei vini (Kliewer et al. 1989) .

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Traslocazione e accumulo della sostanza secca versi i grappoli

Il terzo requisito che una chioma di vite dovrebbe soddisfare per potersi fregiare dell’aggettivo

efficiente è quello relativo alla capacità di convogliare ai grappoli una quantità di sostanza secca

sufficiente per portare a maturazione il prodotto. In altri termini, è indispensabile che si instauri un

equilibrio ottimale fra quella che è la disponibilità e la richiesta dei carboidrati. Questo equilibrio

nella vite è convenzionalmente espresso dal rapporto tra la superficie fogliare attiva (ovvero ben

esposta alla luce, sana, né troppo vecchia né troppo giovane) e la carica di uva. Diversi contributi

sperimentali (Lasko 1993, Smart 1985) hanno avvalorato l’ipotesi secondo la quale oltra la soglia

degli 8-12 cm² di superficie fogliare attiva (SFA) per grammo di uva (corrispondenti a 0,8-1,2

m²/kg) non si registrano ulteriori apprezzabili incrementi di crescita dell’acino, gradazione

zuccherina, intensità del colore e altri parametri di maturazione. E’ pertanto evidente che, in

qualsiasi tipo di chioma, il raggiungimento della piena maturazione dipende dal raggiungimento di

questa soglia minima. L’entità della SFA diminuisce per l’azione di molteplici fattori

(ombreggiamento sulla e tra le file, stress idrici e nutrizionali, incidenza di malattie, decorsi

climatici con prevalenza di basse temperature e giornate nuvolose, ecc…) che, anche in presenza di

una carica di uva non particolarmente elevata, possono riprodurre la situazione tipica dei casi di

sovrapproduzione (ovvero carenza di superficie fogliare per unità di massa fresca di uva) con ovvie

ripercussioni negative sulla regolarità e il completamento della maturazione. In generale, per evitare

che si verifichino situazioni di questo tipo, il viticoltore agisce, in sede preventiva sull’entità della

produzione regolandola, a monte attraverso la potatura invernale e, se necessario, a valle tramite la

pratica del diradamento dei grappoli. Un’efficiente traslocazione degli assimilati verso i grappoli

presuppone anche che, specialmente nella fase di post-invaiatura, vi sia una scarsa competizione da

parte di sink alternativi che possono essere costituiti da germogli principali che non hanno ancora

esaurito il proprio allungamento ma , più spesso, da femminelle che, stimolate troppo tardivamente,

si trovano in fase di piena attività vegetativa contemporaneamente al processo di rapido accumulo

dei soluti all’interno dell’acino. Anche in questo caso è auspicabile un’azione oculata sui fattori che

regolano l’entità e la dinamica della crescita vegetativa (potatura invernale ed estiva, gestione della

concimazione e dell’irrigazione, gestione del suolo), per potersi avvicinare a quelle condizioni

ideali di sviluppo che ipotizza una formazione rapida di superficie fogliare fino alla fioritura e

successivamente, dall’allegagione in poi, un progressivo rallentamento dell’attività vegetativa che

dovrebbe augurabilmente arrestarsi in prossimità dell’invaiatura (Poni 2001).

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Criteri di valutazione dell’efficienza di chioma di vite Calcolo di parametri e indici semplici

L’intensa attività di ricerca che, specialmente nell’ultimo trentennio, è stata condotta sull’ecofisiologia della vite ha portato all’individuazione di numerosi indici o parametri che sono oggi considerati come indicatori accettabili (ma tuttavia indiretti) del grado di densità fogliare della chioma e/o dell’equilibrio vegeto-produttivo. Fra quelli di maggiore interesse applicativo, poiché più semplici di altri termini di calcolo o di stima, ricordiamo:

ƒ il rapporto tra la superficie fogliare totale e la superficie esterna della chioma. Si ritiene che valori di questo indice prossimi a 1,5 sia indicativi di un’elevata capacità di intercettazione luminosa associata anche a una buona distribuzione della luce nelle parti interne della chioma. Secondo Smart, il raddoppiamento dell’indice corrisponde anche, con sufficiente approssimazione, al numero medio di strati fogliari

ƒ la densità dei germogli per unità di lunghezza di parete. Si ritiene che oltre la soglia di 15-20 germogli/m comincino a farsi sentire gli effetti di un eccessivo addensamento della vegetazione

ƒ il rapporto tra il peso della produzione e quello del legno di potatura di un anno, noto come indice di Ravaz. Questo indice, pur grossolano, può dare un’indicazione dell’effettivo livello di equilibrio vegeto-produttivo raggiunto dalla vite e, soprattutto, può fungere da segnale di situazioni di squilibrio per eccesso o difetto di vigoria. Dovrebbe variare da 6 a 10 per vitigni a grappolo grosso, o comunque molto produttivi, e da 3 a per vitigni a grappolo più piccolo o dotati di minore fertilità gemmaria

ƒ il peso del legno di potatura di un anno. In genere, si ritiene debba variare da 300 a 600 g/m di parete. Qualora lo stesso superi 1 kg/m si entra in una fascia di capacità vegetativa talmente elevata da consigliare l’adozione di forme di allevamento che prevedono lo sdoppiamento della chioma e, quindi, la ripartizione del carico di gemme su due pereti vegetative distinte che possono essere parallele o sovrapposte

ƒ il peso del singolo tralcio. Può essere considerato un buon indice diretto di vigoria. In

situazioni di equilibrio dovrebbe variare, includendo il contributo di eventuali femminelle,

fra i 20 e i 40 g. L’utilità di questo parametro è in oarte vanificata dal frequente ricorso alla

cimatura dei germogli che, evidentemente, ne inficia il valore comparativo (Poni 2001).

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