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I principi generali della nuova politica comunitaria sulla sicurezza alimentare sono:

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1. INTRODUZIONE

Fino alla metà degli anni ’80, il controllo igienico- sanitario degli alimenti si è concentrato sul prodotto finito. Con l’introduzione dei sistemi di Qualità, HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) e Lisa (Assicurazione di Sicurezza Integrata e Longitudinale), i controlli sono stati distribuiti lungo tutto il processo di produzione e le garanzie date dai produttori sono parte non esclusiva, ma certamente determinante, del sistema sicurezza.

Tali sistemi di prevenzione consentono di evitare danni dovuti a carenze igieniche, ma prevedono anche sistemi di allerta che permettono di evitare l’uscita dall’azienda di prodotti non conformi nonostante la programmazione (per questo è importante verificare ed intervenire), sistemi di apprendimento che permettono di evitare che i danni verificatisi una prima volta continuino a prodursi grazie alla possibilità di imparare dagli errori, sistemi flessibili applicabili a qualsiasi tipo di industria indipendentemente dalla dimensione e dalla complessità della struttura controllata.

I principi generali della nuova politica comunitaria sulla sicurezza alimentare sono:

• controlli integrati su tutta la catena alimentare, dalla fattoria alla tavola;

• interventi basati sull’analisi del rischio;

• responsabilità di ogni operatore del settore per i prodotti che importa, trasforma, elabora, commercializza o somministra;

• tracciabilità dei prodotti in tutte le tappe della catena alimentare;

• cittadini come parte attiva della sicurezza alimentare: essi hanno diritto ad un’informazione chiara e precisa da parte dei poteri pubblici (Assessorato della Sanità, Regione Marche).

Grazie alle normative e alle leggi europee ed italiane (come il Dlgs 155/1997,

le norme ISO 9000 del 1987 ed aggiornate nel 1992 e 1994, fino al Reg. 178/

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2002 sul “Pacchetto di Igiene” che prevede un approccio non più soltanto sanitario, ma anche culturale e sociale che coinvolge il consumatore attraverso il dialogo e la fiducia) volte a garantire la sicurezza degli alimenti prodotti da industrie, ristoranti e mense, la situazione epidemica degli ultimissimi decenni è molto migliorata in Italia.

La maggioranza dei casi di infezione alimentare è invece tuttora dovuta a preparazioni casalinghe, familiari, poiché esse sfuggono da ogni controllo sanitario e perché i rischi, in ambito domestico, vengono spesso sottovalutati.

Al fine di una capillare penetrazione delle norme igienico- sanitarie in ambiente domestico, è di fondamentale importanza una corretta e chiara informazione.

La comunicazione per la salute rappresenta ormai una componente integrata degli interventi di prevenzione, per creare le condizioni più favorevoli a portare le persone a scelte più salutari (Turco L., 2007).

1.1 ALIMENTAZIONE E MALATTIE TRASMESSE CON GLI ALIMENTI

La globalizzazione dei mercati e l’introduzione di tecnologie innovative

hanno determinato un profondo cambiamento di tutta la filosofia che sta alla

base della sicurezza alimentare. Nel nostro Paese, come in tutti i paesi

industrializzati, l’obesità e le patologie dismetaboliche e cronico degenerative

che trovano nell’alimentazione uno dei principali fattori di rischio, sono in

costante aumento. In modo analogo il problema delle malattie infettive

trasmesse con gli alimenti è ben lontano dall’essere risolto e continua ad

essere fonte costante di preoccupazione per le ricadute negative sullo stato di

salute e sulla produttività, anche se oggi ci troviamo di fronte a consumatori

più consapevoli dell’importanza di una sana alimentazione e più attenti alla

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L’OMS stima che nelle aree a più alto tenore economico almeno il 10% della popolazione sia annualmente interessata da patologie connesse al consumo di alimenti. Le patologie di tipo gastroenterico sono determinate nell’uomo principalmente dal consumo di alimenti o acqua contaminati da microrganismi o loro tossine, ingestione di alghe patogene, parassiti e/o loro tossine, presenza di tossine naturali, presenza di residui chimici e allergizzanti.

Le malattie infettive di origine microbiologica trasmesse con gli alimenti sono solitamente classificate come infezioni ed intossicazioni. Le prime sono determinate da agenti eziologici con spesso bassi valori di dose infettante, periodi di incubazione relativamente lunghi ed attiva proliferazione del patogeno nell’organismo ospite, con liberazione o meno di tossine (tossinfezione) (Roggi et al., 2003). Nelle tossinfezioni alimentari in senso stretto, determinate dal consumo di alimenti contenenti sia tossine che batteri, la tossicità è data infatti sia dalle tossine preformate sia da quelle prodotte da cellule vive ingerite con l’alimento all’interno dell’ospite. Le intossicazioni alimentari sono manifestazioni patologiche che si determinano in seguito al consumo di alimenti contenenti tossine prodotte da microrganismi che si sono moltiplicati sull’alimento precedentemente al suo consumo. Perché si manifesti l’intossicazione pertanto non obbligatoriamente ci deve essere il microrganismo, bensì è indispensabile la presenza della sua tossina (Franzetti et al., 1998).

La sorveglianza dei focolai epidemici di malattie trasmesse da alimenti,

permette di fornire una buona stima di distribuzione temporale e di valutare il

ruolo sostenuto da diverse tipologie di alimenti nel veicolare gli agenti

responsabili di malattia, nonché di stimare, anche tramite l’analisi della

distribuzione per comunità di origine dell’epidemia, quanto lo stile di vita

giochi nella genesi delle malattie trasmesse da alimenti.

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Fig.1.1: casi sporadici di malattie trasmesse con gli alimenti

L’incidenza di malattie a trasmissione alimentare registra negli ultimi anni cambiamenti notevoli. Si possono evidenziare, infatti, notevoli decrementi nella frequenza di alcune malattie “storiche” come la febbre tifoide e la brucellosi, legate ad inadeguate condizioni igieniche e/o ambientali ed a stili di vita rurali.

La frequenza della febbre tifoide, una delle salmonellosi maggiori più conosciute, è diminuita progressivamente fino ai nostri giorni, attestandosi su valori inferiori ad 1 caso per 100.000 abitanti. Tuttavia, in controtendenza con quelle tifoidee sono tutte le altre salmonellosi, che hanno fatto registrare, a partire dalla fine degli anni 80, un notevole incremento della loro frequenza, con picchi negli anni 1992-94 e, quindi, un successivo, graduale decremento.

Gran parte di questo andamento è dovuto alla diffusione internazionale del sierotipo Salmonella enteritidis (Roggi et al., 2003).

D’altro canto si registra l’aumento di malattie infettive dovute anche a patogeni emergenti, nonché a variazioni genetiche e ad antibiotico-resistenze.

L’incremento delle malattie trasmesse con gli alimenti è altresì dovuto alla

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(anziani sopra i 65 anni, soggetti immunocompromessi, minore immunizzazione naturale), all’aumentata mobilità di cibi e persone, alla minore concorrenza vitale dei microrganismi per eccessiva sanificazione, ai cambiamenti nelle abitudini alimentari, ma anche a metodiche analitiche più affidabili e ad una migliore individuazione degli episodi epidemici.

1.1.1 SALMONELLOSI

La salmonella è l’agente batterico più comunemente isolato in caso di infezioni trasmesse da alimenti, sia sporadiche che epidemiche..

Fig.1.1.1.A: Salmonella: famiglia enterobacteriacee, genere Salmonella; Gram negativi;

mobili con flagelli peritrichi; aerobi o anaerobi facoltativi; non produce spore.

La salmonella è presente in natura con più di 2000 varianti (i cosiddetti sierotipi), ma i ceppi più frequentemente diffusi nell’uomo e nelle specie animali, in particolare in quelle allevate per la catena alimentare, sono S.

enteritidis e S. typhimurium

Le infezioni provocate da salmonella si distinguono in forme tifoidee (S. typhi e S. paratyphi, responsabili della febbre tifoide e delle febbri enteriche in genere), in cui l’uomo rappresenta l’unico serbatoio del microrganismo, e forme non tifoidee, causate dalle cosiddette salmonelle minori (come S.

typhimurium e la S. enteritidis), responsabili di forme cliniche a prevalente

manifestazione gastroenterica. Le salmonelle non tifoidee, responsabili di

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oltre il 50% del totale delle infezioni gastrointestinali, sono una delle cause più frequenti di tossinfezioni alimentari nel mondo industrializzato.

Fig.1.1.1B: Numero di casi di Salmonella notificati dalla CDC negli Stati Uniti dal 1920 al 2003.

Le infezioni da Salmonella spp. possono verificarsi nell’uomo e negli animali domestici (polli, maiali, bovini, roditori, cani, gatti, pulcini) e selvatici, compresi i rettili domestici (iguane, tartarughe d’acqua e uccellini). I principali serbatoi dell’infezione sono rappresentati dagli animali e i loro derivati (come carne, uova e latte consumati crudi o non pastorizzati) e l’ambiente (acque non potabili) rappresentano i veicoli di infezione.

La gravità dei sintomi varia dai semplici disturbi del tratto gastrointestinale

(febbre, dolore addominale, nausea, vomito e diarrea) fino a forme cliniche

più gravi (batteriemie o infezioni focali a carico per esempio di ossa e

meningi) che si verificano soprattutto in soggetti fragili (anziani, bambini e

soggetti con deficit a carico del sistema immunitario). I sintomi della malattia

possono comparire tra le 6 e le 72 ore dall’ingestione di alimenti contaminati

(ma più comunemente si manifestano dopo 12-36 ore) e si protraggono per 4-

7 giorni. Nella maggior parte dei casi la malattia ha un decorso benigno e non

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richiede l’ospedalizzazione, ma talvolta l’infezione può aggravarsi al punto tale da rendere necessario il ricovero. Le salmonellosi nell’uomo possono anche causare lo stato di portatore asintomatico.

L’infezione si trasmette per via oro-fecale, attraverso l’ingestione di cibi o bevande contaminate o per contatto, attraverso la manipolazione di oggetti o piccoli animali in cui siano presenti le salmonelle.

Gli alimenti contaminati rappresentano uno dei veicoli più importanti di diffusione dell’infezione nell’uomo. Tuttavia, per poter causare la malattia è necessaria la colonizzazione massiva dell’agente patogeno nell’alimento prima dell’ingestione. Solitamente all’apparenza il cibo contaminato non presenta alcuna alterazione delle caratteristiche organolettiche (colore, odore, sapore, consistenza). La contaminazione degli alimenti può avvenire al momento della loro produzione, durante la preparazione, oppure dopo la cottura a causa di una manipolazione non corretta degli alimenti.

In particolare, sono da considerarsi alimenti a rischio:

uova crude (o poco cotte) e derivati a base di uova

latte crudo e derivati del latte crudo (compreso il latte in polvere)

carne e derivati (specialmente se poco cotti)

salse e condimenti per insalate

preparati per dolci, creme

gelato artigianale e commerciale

frutta e verdura (angurie, pomodori, germogli di semi, meloni, insalata, sidro e

succo d’arancia non pastorizzati), contaminate durante il taglio.

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Fig.1.1.1B: Percentuale di casi di Salmonelle non tifoidee per categoria di alimento, Rapporto CeRRTA 2002-2007.

Veicoli dell’infezione sono anche superfici e utensili, e qualsiasi alimento manipolato da persone infette, con scarsa attenzione all’igiene personale.

Importanti misure di prevenzione includono l’utilizzo di norme igieniche di base che possono risultare molto efficaci e si basano su semplici precauzioni di ordine igienico sanitario e comportamentale. A causa della grande varietà di salmonelle non-tifoidee esistenti, non è stato ancora possibile mettere a punto un vaccino.

I batteri della salmonella sono facilmente eliminabili attraverso una buona cottura, ma l’effetto sterilizzante del calore di cottura delle carni si annulla se, per esempio, il coltello usato per tagliare la carne cruda viene impiegato poco dopo per tagliare la carne cotta, senza un adeguato lavaggio tra un’operazione e l’altra.

Altrettanto pericolosa è l’abitudine di rompere le uova sottovalutando la

potenziale carica infettiva del guscio. Piccole incrinature nel guscio possono

permettere l’ingresso nell’uovo del batterio eventualmente presente nelle feci

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dovuto a uova contaminate, mentre la carne bovina e suina (consumata cruda o poco cotta) e i derivati del latte possono provocare, rispettivamente, il 15%

e il 5% dei casi.

In linea generale, per diminuire il rischio di salmonellosi, viene consigliato di:

lavare frutta e verdura prima della manipolazione e del consumo

sanificare tutti gli utensili e i macchinari usati per la produzione di alimenti

lavare le mani prima, durante e dopo la preparazione degli alimenti

refrigerare gli alimenti preparati in piccoli contenitori, per garantire un rapido abbattimento della temperatura

cuocere tutti gli alimenti derivati da animali, soprattutto pollame, maiale e uova

proteggere i cibi preparati dalla contaminazione di insetti e roditori

evitare (o perlomeno ridurre) il consumo di uova crude o poco cotte (per esempio, all’occhio di bue), di gelati e zabaioni fatti in casa, o altri alimenti preparati con uova sporche o rotte

consumare solo latte pastorizzato

evitare le contaminazioni tra cibi, avendo cura di tenere separati i prodotti crudi da quelli cotti

evitare che persone con diarrea preparino alimenti destinati alla ristorazione collettiva e assistano soggetti a rischio (bambini, anziani, ammalati).

(www.epicentro.iss.it).

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1.1.2 BOTULISMO

Fig. 1.1.2.A: Clostridium botulinum: Gram positivo, sporigeno, con uno sporangio a clostridio che deforma il germe lungo 4-6 micron; della famiglia delle Clostridiaceae.

Clostridium botulinum è un batterio molto mobile e la tossina che secerne causa una grave intossicazione alimentare, il botulismo. La neurotossina botulinica è infatti estremamente potente ed interferisce con l’acetilcolina delle terminazioni periferiche, bloccando la trasmissione nervosa.

La tossina botulinica è di natura proteica, termolabile a 80° C e resistente ai succhi gastrici. Viene anche utilizzata a scopi medici per la preparazione del Botox, farmaco che crea una paralisi che riduce le rughe di espressione del volto, o in altre applicazioni come il trattamento del dolore facciale grave dovuto a nevralgia del trigemino (www.sicurezzadeglialimenti.it).

La germinazione delle spore ha luogo negli alimenti caratterizzati da bassa acidità, dove successivamente le cellule vegetative dei ceppi proteolitici e non proteolitici, possono moltiplicarsi a temperatura ambiente.

Il germe e le spore si trovano anche nel suolo e nei vegetali: l'uomo viene

intossicato generalmente dalla tossina ingerendo alimenti contaminati e non

ben cotti o conserve alimentari in cui si è sviluppato il batterio. Utili spie di

alimenti contaminati da botulino sono l'odore di putrido, di burro rancido, e la

disgregazione dell'alimento con formazione di bolle gassose, anche se alcuni

tipi di contaminazione possono non mostrare alcuna modifica organolettica

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principali scopi quello di impedire il moltiplicarsi di Clostridium botulinum.

Esistono anche altre forme di botulismo: il botulismo infantile è causato dall'ingestione delle spore che crescono nell'intestino e rilasciano la tossina, mentre una forma più rara si contrae per infezione delle ferite.

Esistono sette tipi di clostridio del botulino, distinti da sei tipi di esotossine:

Clostridium botulinum A: proteolitico, emolitico, si ritrova nei prodotti vegetali, diffuso negli USA

Clostridium botulinum B: proteolitico, presente nei prodotti carnei, diffuso in Europa

Clostridium botulinum C: non interessa la patologia umana

Clostridium botulinum D: non interessa la patologia umana

Clostridium botulinum E: non proteolitico, cresce a 3 °C anche a pH acido (4- 8) e si trova in pesce affumicato, merluzzo, aringhe, tonno conservato

Clostridium botulinum F: raro, osservato nei patè di fegato

Clostridium botulinum G: attualmente nessuna evidenza di tossinfezione alimentare

Il periodo di incubazione è di solito compreso tra 12 e 36 ore, ma può andare

da 2 ore a 6 giorni. Nel primo stadio della malattia possono comparire nausea,

vomito, dolore addominale e diarrea. Successivamente, poiché la tossina

botulinica interferisce con la trasmissione degli stimoli nervosi, il quadro

clinico è caratterizzato da cefalea, vertigini, stordimento, difficoltà

respiratorie fino ad arrivare alla paralisi. La morte può sopraggiungere tra il

terzo ed il decimo giorno. Il tasso di letalità varia tra il 20 e il 50%. Una

paralisi parziale può persistere per 6-8 mesi. La mortalità per botulismo, una

delle malattie rare più gravi, è diminuita anche grazie alla disponibilità di

siero antibotulinico, farmaco che, se somministrato immediatamente dopo

l’insorgenza dei sintomi di intossicazione, può avere effetti risolutivi.

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Le spore di Cl.botulinum si possono ritrovare in quasi tutti gli alimenti, sia di origine animale che vegetale, solitamente a livelli di contaminazione relativamente bassi. Nei cibi freschi gli altri microrganismi normalmente presenti esercitano una forte azione antagonista sullo sviluppo del Cl.

Botulinum. La malattia si manifesta conseguentemente solo dopo l’ingestione di cibi processati, dove è stata possibile la sopravvivenza delle spore,la crescita delle cellule vegetative e la produzione di tossina.

Gli alimenti a rischio sono quelli a basso grado di acidità impropriamente inscatolati quali mais, olive, fagiolini, spinaci, asparagi, tonno e funghi, il pesce affumicato, i cibi fermentati, gli alimenti conservati sott’olio e sotto vuoto e gli insaccati preparati a livello domestico.

Le cellule vegetative non sono particolarmente resistenti al calore e vengono distrutte rapidamente dalla pastorizzazione e dalle temperature normalmente utilizzate per la cottura degli alimenti. Le spore dei ceppi proteolitici hanno resistenza al calore più elevata (da 95 a 121 °C, a seconda dei tipi), di quelle dei ceppi non proteolitici (da 76 a 100 °C, a seconda dei tipi). La neurotossina è relativamente termostabile: viene distrutta a 79°C dopo 20 minuti e a 85°C dopo 5 minuti.

La maggior parte dei casi di botulismo è legata al consumo di prodotti preparati impropriamente a livello domestico. Le norme di prevenzione da adottare prevedono quindi:

 il trattamento degli alimenti acidi (pH 4,5) a temperature elevate e per un tempo adeguato

 la cottura adeguata delle conserve (bollitura con rimescolamento per 15 minuti)

 l’acidificazione degli alimenti

 la conservazione a freddo

 l’addizionamento di NaCl e nitriti a prodotti a base di carne

 lo scarto delle confezioni rigonfie (Roggi et al, 2003).

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Ogni anno vengono segnalati diversi casi di botulismo alimentare; negli ultimi anni è stato però registrato un notevole decremento.

0 10 20 30 40 50 60 70

1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 casi di botulismo alimentare

BOTULISMO IN ITALIA

Fig. 1.1.2.B: Casi di botulismo alimentare in Italia dal 1988 al 1998 (Dati Eurosurvellance, 1999).

1.1.3 LISTERIOSI

Fig.1.1.3.A : Listeria monocytogenes: batterio gram positivo a forma di bastoncello, dotato di motilità mediata da flagelli.

La listeriosi è una tossinfezione alimentare che prende il nome dall’agente

patogeno che la causa, il batterio Listeria monocytogenes. Nonostante

evidenze della malattia siano state descritte fin dalla fine dell’800 in diversi

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animali, il primo caso umano di listeriosi è stato riportato nel 1929, e il primo caso perinatale nel 1936.

Nei paesi occidentali, la malattia sta assumendo sempre più una dimensione problematica per la sanità pubblica, sia per la sua potenziale gravità che per il fatto che epidemie si sono manifestate anche in anni recenti nei nostri paesi, soprattutto in seguito alla distribuzione di cibo contaminato attraverso le grandi catene di ristorazione.

Fig.1.1.3 B: Casi di listeriosi in Italia e in particolare in Emilia- Romagna dal 1991 al 2005 (Fonte:

Assessorato Politiche per la Salute e Regione Emilia- Romagna).

La Listeria monocytogenes si trova nel suolo e nelle acque, e quindi può facilmente contaminare ortaggi e verdure. Molti animali possono essere infettati dal batterio senza dimostrare sintomi apparenti. Il batterio è stato ritrovato anche in un’ampia varietà di cibi crudi, da carni a verdure, e di cibi trasformati, come i formaggi molli e le carni fredde tipiche delle gastronomie, i cibi preparati come hamburger e hot dog, i paté di carne, i salumi, il burro e i prodotti lattiero-caseari, particolarmente quelli fatti con latte non pastorizzato.

Come la maggior parte dei batteri, la Listeria viene uccisa dai processi di

pastorizzazione e cottura, ma i cibi possono essere contaminati anche dopo la

cottura e prima della vendita. Mantenere una adeguata catena del freddo nel

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caso di acquisto di prodotti confezionati è quindi una misura di assoluta importanza per prevenirne la moltiplicazione.

La listeriosi può assumere due forme, quella diarroica più tipica delle tossinfezioni alimentari, che si manifesta nel giro di poche ore dall’ingestione, e quella invasiva o sistemica, che attraverso i tessuti intestinali e il flusso sanguigno si diffonde sviluppando forme più acute di sepsi, encefaliti e meningiti.

La listeriosi è particolarmente pericolosa per le persone immunodepresse (malati di cancro, diabete, Aids), le persone anziane, i neonati e le donne in gravidanza. Le donne in gravidanza sono, secondo i dati dei Cdc americani, 20 volte più suscettibili alla malattia, che può causare aborto spontaneo o parto prematuro, morte in utero o infezione del feto. I sintomi però, nel caso delle donne incinte, sono molto simili a quelli di una influenza leggera.

Tra i neonati, che hanno contratto l’infezione dalla madre, il tasso di mortalità è piuttosto elevato, e la malattia si manifesta sia sotto forma di polmonite che di meningite, difficilmente distinguibili a livello sintomatico da infezioni causate da altri agenti patogeni. Nei neonati però la listeriosi può dare luogo anche ad altri sintomi, come perdita di appetito, vomito, irritazione epidermica. Anche quando l’esito della malattia non è fatale, il neonato ha comunque il rischio di subire danni neurologici a lungo termine e sviluppo ritardato.

La diagnosi precisa di listeriosi può essere effettuata tramite analisi del sangue e/o del liquido spinale.

La migliore strategia di lotta alla listeriosi passa attraverso una efficiente prevenzione, che si può facilmente attuare applicando le generali norme di igiene e attenzione previste per tutte le altre tossinfezioni alimentari:

 cottura completa e corretta dei cibi derivati da animali

 lavaggio accurato delle verdure prima del consumo

 separazione delle carni crude dalle verdure e dai cibi cotti e pronti al consumo

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 uso di prodotti lattiero-caseari pastorizzati

 lavaggio accurato di coltelli, taglieri e mani dopo aver maneggiato cibi crudi

 consumo dei cibi deperibili in tempi brevi

In particolare, i soggetti più a rischio, come le donne in gravidanza o le persone immunodepresse, dovrebbe anche:

 evitare di mangiare panini contenenti carni o altri prodotti elaborati da gastronomia senza che questi vengano nuovamente scaldati ad alte temperature;

 evitare di contaminare i cibi in preparazione con cibi crudi e/o provenienti dai banconi dei supermercati;

 non mangiare formaggi molli se non si ha la certezza che siano prodotti con latte pastorizzato

 non mangiare paté di carne freschi e non inscatolati;

 non mangiare pesce affumicato, a meno che non sia inscatolato in forme che non deperiscono a breve scadenza.

Dal punto di vista istituzionale, la listeriosi rientra nel gruppo di malattie per le quali sono stati stabiliti sia negli Stati Uniti che in Europa reti di sorveglianza sulla sicurezza alimentare con obbligo di denuncia. Queste reti, volte a individuare focolai di infezione e determinarne la causa, permettono di agire sia ritirando i prodotti dal mercato che adottando le necessarie misure nei confronti degli impianti di produzione e informando la popolazione a rischio.

Data la sua natura batterica, il trattamento della malattia passa attraverso una

terapia antibiotica, sia per gli adulti che per i bambini. Una cura antibiotica

somministrata precocemente a una donna incinta può prevenire la

trasmissione della malattia al feto (www.epicentro.iss.it).

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1.1.4 BRUCELLOSI

Fig. 1.1.4. A: Brucella (B.abortus e B. suis): piccoli cocco- bacilli Gram negativi

Gli agenti eziologici della Brucellosi sono del genere Brucella del quale esistono 7 specie, con diverse biovarianti ciascuna: Brucella melitensis, B.abortus, B.suis, B.ovis, B.neotomae, B.canis, B.maris.

La brucellosi è una zoonosi: tutte le infezioni nell'uomo sono conseguenti

all'esposizione ad animali infetti o all'ingestione di latte e latticini

contaminati. La malattia è cosmopolita, ma ha una maggiore prevalenza nel

bacino del Mediterraneo, nella penisola araba, nel subcontinente indiano e in

America Centrale. La trasmissione all'uomo avviene per diretto contatto con

animali infetti, con loro secrezioni attraverso soluzioni di continuità di pelle o

attraverso le mucose, o tramite l'ingestione di latticini infetti e non

pastorizzati. La brucellosi è una malattia professionale degli allevatori, dei

veterinari, dei lavoratori dei mattatoi e del personale di laboratorio. Le carni

sono raramente fonte d'infezione perché di solito vengono cotte e comunque

la carica batterica è bassa. La trasmissione interumana è rarissima. Gli

individui immunodepressi non sembrano essere particolarmente a rischio di

sviluppare la malattia. Nei Paesi dove era presente, l'eradicazione della

brucellosi bovina ha abbattuto significativamente l'incidenza di malattia

nell'uomo.

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Fig.1.1.4.B: casi di brucellosi dal 1976 al 1998 in Italia (Fonte ISTAT e Ministero della Sanità).

La gravità della malattia dipende dalle condizioni immunitarie e nutrizionali del paziente, dalla carica infettante e dalla via di acquisizione dell'infezione.

Le brucelle sono patogeni intracellulari facoltativi: sono in grado di sopravvivere all'interno delle cellule fagocitiche dell'ospite, evitando di essere uccise. Le brucelle con il circolo sanguigno raggiungono i linfonodi e, da lì, si disseminano ad altri linfonodi, al midollo osseo, al fegato e alla milza.

I segni e i sintomi della malattia sono poco specifici: febbre, sudorazione, malessere, anoressia, cefalea, artro- mialgie. La malattia si manifesta improvvisamente dopo 2-4 settimane dall'infezione. Il segno principale della malattia è la febbre, che, all'inizio è irregolare, remittente o intermittente (con sbalzi giornalieri, fino a 38-39°C), e dopo qualche tempo, nei casi non trattati, diventa tipicamente "ondulante", salendo e scendendo durante la settimana.

La brucellosi è una malattia sistemica e può interessare qualunque organo e

tessuto. Quando il coinvolgimento di un organo prevale sugli altri si parla di

malattia focale.

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La malattia non trattata ha un andamento solitamente benigno. La terapia antimicrobica accorcia la durata della malattia, allevia i sintomi e riduce l'incidenza delle forme complicate e delle ricadute.

La prevenzione dell'infezione umana dipende dal controllo e dall'eliminazione dell'infezione animale, che si attua principalmente con la vaccinazione dei capi di bestiame. Al momento non esistono vaccini sicuri ed efficaci per l'uomo (Cnesps-ISS, 2008).

1.1.5 EPATITE A

Fig.1.1.5.A: Virus dell’epatite A (HAV): famiglia Picornaviridae, genere Hepatovirus.

L'epatite virale A è una forma di epatite virale causata dal virus dell'epatite A (HAV). E’ una malattia virale acuta che colpisce il fegato.

Dopo un periodo di incubazione compaiono, in genere bruscamente, febbre, malessere, nausea, inappetenza, vomito, dolore addominale, seguiti dopo pochi giorni da ittero; la malattia solitamente ha un'evoluzione benigna conferendo un' immunità permanente.

Nei Paesi in via di sviluppo l'infezione del virus dell'epatite A colpisce

generalmente l'infanzia e presenta un decorso asintomatico nel 70% dei casi o

sintomi lievi. Raramente l’infezione determina un’epatite fulminante. Il tasso

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di mortalità è di circa lo 0.3%, ma è più elevato con l’avanzare dell’età (in soggetti di età superiore a 40 anni è di circa il 2%).

La trasmissione può avvenire per contatto diretto da persona a persona, tramite oggetti o mani contaminate; attraverso l'ingestione di acqua e alimenti contaminati, specie verdure e molluschi poco cotti o consumati crudi. Il virus può essere trasmesso, anche se più raramente, per via parenterale. Rara è la trasmissione dalla madre al bambino, durante il parto.

La contagiosità di un soggetto va da 1-2 settimane prima dell’insorgenza dei sintomi fino a una settimana dopo la comparsa dell’ittero.

E’ il più comune tipo di epatite riportato in Italia dove la malattia è endemica soprattutto nelle Regioni meridionali. E’ presente in tutto il mondo, soprattutto in America Centrale, Sud America, Africa, Medio Oriente, Asia e Pacifico Occidentale. Nei Paesi in via di sviluppo a scarso livello igienico- sanitario è un’infezione endemica e interessa soprattutto la prima decade di vita; nei Paesi industrializzati il contagio avviene in età adulta.

Il virus dell'epatite A è inattivato dall'ebollizione o dalla cottura a 85°C per circa 1 minuto. I cibi cotti costituiscono un veicolo per la malattia se vengono contaminati dopo la cottura. E' raccomandata un'adeguata clorazione dell'acqua per inattivare il virus. Nei Paesi in via di sviluppo i viaggiatori potrebbero minimizzare il rischio di epatite A e di altre malattie gastrointestinali evitando cibi e acqua potenzialmente contaminati: non devono bere acqua non sicura e bevande con ghiaccio né mangiare frutti di mare crudi, verdure crude, frutta da sbucciare.

La profilassi si effettua attraverso le comuni norme igienico- sanitarie, tuttavia la vaccinazione rappresenta la misura di prevenzione più efficace.

In studi randomizzati l’efficacia protettiva del vaccino per l’epatite A si è

dimostrata essere molto elevata (del 94-100%).

Un ciclo vaccinale completo determina un elevato titolo anticorpale dopo 15

giorni dalla vaccinazione, sebbene inferiore a quello osservato a seguito di

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infezione naturale. L’efficacia a lungo termine non è stata ancora stabilita in quanto il vaccino è disponibile da non molti anni; tuttavia anticorpi titolabili persistono per almeno 8 anni, negli adulti, dopo un ciclo completo. Modelli matematici stimano che i livelli protettivi di anticorpi possono persistere da 24 a 47 anni.

L’epatite virale A è una tra le più importanti infezioni virali veicolate dagli alimenti, in Italia, e presenta un andamento caratterizzato da flessioni e ampi incrementi di dimensioni epidemiche. Anche nel caso dell’epatite virale si osserva una netta tendenza, nell’ultimissimo periodo, al decremento del numero di casi notificati in Italia, come nel resto del mondo.

Fig. 1.1.5.B Casi di Epatite A negli Stati Uniti dal 1952 al 2002.

0 10 20 30 40 50

52 56 60 64 68 72 76 80 84 88 92 962002

Anno

Tasso per 100,000

(22)

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

casi di epatite A

EPATITE A IN ITALIA

Fig.1.1.5.C: Casi di Epatite A in Italia dal 1985 al 2002.

Se da un lato si registra un decremento nell’incidenza delle malattie a trasmissione alimentare, dall’altro i trend registrati e le proiezioni di lungo periodo non permettono di “abbassare la guardia”.

A riprova del fatto che cultura alimentare e stile di vita condizionano

fortemente la distribuzione delle malattie, si può evidenziare come proprio

l’epatite A ha fatto registrare un picco tra il 1996 ed il 1997 per l’epidemia in

Puglia che si è protratta per due anni. Per la stragrande maggioranza dei casi

segnalati, l’acquisizione dell’infezione era correlata con il consumo di frutti di

mare, alimento responsabile, peraltro, della maggior parte dei casi di colera

del 1994. Le campagne di educazione sanitaria, ma anche interventi mirati di

profilassi vaccinale, hanno contribuito alla riduzione dei livelli di endemia per

epatite A in Puglia (Ministero della Salute).

(23)

1.2 RISCHI NON BIOLOGICI

Come per il rischio di tipo biologico, anche per il rischio di tipo chimico è corretto parlare di valori di accettabilità piuttosto che di rischio zero. La sicurezza alimentare infatti non dipende dalla totale assenza di contaminanti, ma dalla loro concentrazione e quindi dalla dose di assunzione. Questo concetto basilare non deve essere dimenticato soprattutto quando, disponendo di metodologie analitiche sofisticate, si può arrivare a riscontrare analiti indesiderati presenti a livelli di rilevabilità sempre più bassi.

Nelle derrate alimentari possono essere presenti fattori tossici naturali quali le micotossine (aflatossine, ocratossine, patulina) prodotte dalle muffe che colonizzano gli alimenti, ma anche fattori tossici non naturali quali residui di pesticidi (fitofarmaci), ormoni, residui di idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili e diossine, additivi volontari (nitriti-nitrati, anidride solforosa, solfiti, ecc.), contaminanti dovuti al rilascio di sostanze dai materiali di imballaggio. (Roggi et al., 2003).

Gli alimenti possono inoltre essere contaminati ad opera di insetti, acari ed anche da vertebrati quali roditori ed uccelli, soprattutto nella fase di stoccaggio nei magazzini.

1.3 SICUREZZA DEGLI ALIMENTI

Le malattie trasmesse con gli alimenti costano molto in termini di sofferenza

umana, in termini economici per tutta la società come perdita di giornate

lavorative, di mercato, di spese mediche, legali ed assicurative. Una grossa

responsabilità per la diffusione delle malattie trasmesse con gli alimenti va

imputata ad errori umani commessi in fase di processo, sia per cattiva

(24)

manipolazione, con conseguente contaminazione crociata, sia per mancato rispetto dei limiti critici di temperatura, acidità, salinità, ecc.

Per ridurre queste malattie occorre attuare un radicale cambiamento nell’approccio preventivo per arrivare ad un’attenta valutazione e gestione dei rischi.

Fino agli anni ’70, la sicurezza dei prodotti alimentari veniva garantita attraverso un sistema retrospettivo basato sulla trilogia “analisi- controlli- interventi”. Venivano cioè analizzati campioni di prodotto finito al fine di individuare l’eventuale presenza di markers di patogenicità o di danno per la salute del consumatore. Tale strategia si è rivelata inefficace per diversi motivi, tra cui l’impossibilità di un controllo da parte delle autorità sanitarie di tutti i lotti in tutte le aziende che operano nel settore alimentare, la difficoltà di risalire alle cause che hanno provocato un eventuale difetto, l’improponibilità di un controllo sulle singole caratteristiche della qualità e la distribuzione non omogenea dei microrganismi all’interno dell’alimento.

Riconosciuta l’inaccettabilità matematica del concetto “rischio zero”, si è tentato di perseguire l’obiettivo di sicurezza alimentare, sapendo che la qualità dipende da un gran numero di fattori distribuiti lungo l’intera catena di produzione, dalla fattoria alla tavola.

Tema fondamentale della nuova filosofia della sicurezza alimentare è l’analisi del rischio. Essa consiste nell’esame sistematico di un prodotto alimentare, delle sue materie prime e dei suoi ingredienti per determinare i rischi di natura biologica, chimica e fisica e definire le necessarie misure preventive.

Nasce in quest’ottica, a metà degli anni ’80, il sistema HACCP (Hazard

Analysis and Critical Control Point), una metodologia di analisi che

individua i rischi per la salute dei consumatori connessi al consumo degli

alimenti e le misure preventive per il loro controllo.

(25)

E’ uno strumento preventivo capace di anticipare potenziali problemi per la sicurezza degli alimenti, attraverso l’applicazione di misure di controllo (stabilite sulla base di conoscenze scientifiche ed epidemiologiche), e/o di adottare opportune misure correttive prima che la situazione si trasformi in un danno per la salute del consumatore, ossia prima che si verifichi la malattia alimentare.

L’analisi del rischio prevede tre azioni fondamentali integrate:

- Valutazione del rischio: stima scientifica degli effetti di danno (o di potenziale danno) per la salute derivante dall’esposizione umana a pericoli di origine alimentare.

- Gestione del rischio: processo volto a stabilire le regole per arrivare ad accettare, minimizzare o ridurre un rischio valutato e a selezionare e porre in atto adeguate strategie per il suo controllo.

- Comunicazione del rischio: processo interattivo di scambio di informazioni ed opinioni sui rischi tra esperti di valutazione, di gestione ed altre parti interessate.

Un aspetto particolare della comunicazione del rischio è il sistema di notifica delle allerte alimentari.

1.4 LE ALLERTE ALIMENTARI

Il meccanismo delle comunicazioni rapide, sempre più numerose negli ultimi anni, è uno strumento essenziale per la valutazione di eventuali rischi e per la tutela del consumatore.

Per notificare in tempo reale i rischi diretti o indiretti per la salute

pubblica connessi al consumo di alimenti o mangimi è stato istituito il

Sistema Rapido di Allerta Alimentare (RASFF), sotto forma di rete, a cui

partecipano la Commissione Europea e gli Stati membri dell'Unione.

(26)

L'Ufficio VIII della Direzione Generale della Sicurezza degli alimenti e della nutrizione del Ministero della Salute è il punto di contatto italiano per il sistema di allerta comunitario.

Al riguardo il flusso delle "allerte" deve garantire sia la completezza delle informazioni che la tempestività della comunicazione. Ciò si realizza con apposite procedure operative che prevedono:

schede di notifica standard (completezza delle informazioni);

uso della posta elettronica (tempestività della comunicazione).

Le notifiche vengono quindi comunicate e condivise tra gli Stati membri via rete, in tempo reale.

L’attività del sistema di allerta prevede il ritiro di prodotti pericolosi per la salute umana o animale. Nel caso di rischio grave ed immediato (esempio tossina botulinica), oltre a disporre immediatamente il sequestro dei prodotti tramite l’intervento del Comando Carabinieri della Sanità e degli Assessorati Regionali, la procedura di emergenza può essere integrata con comunicati stampa.

In questo caso vengono informati i cittadini sul rischio legato al consumo di un determinato prodotto e sulle modalità di riconsegna dell’alimento alla Asl territorialmente competente.

Il caso relativo al sequestro di quattro prodotti per l'infanzia della Nestlè nel 2005, contaminati dall'isopropylthioxanthone usato per la stampa dei contenitori, è uno dei tanti esempi di rapida notifica di allerta; grazie al cordinamento tra istituzioni internazionali e nazionali si è potuto procedere all’immediato ritiro dei prodotti contaminati e ad una tempestiva comunicazione ai cittadini.

Il sistema di allerta comunitario trova il fondamento giuridico nella Direttiva

92/59/ CEE del consiglio europeo recepita col decreto legislativo 115/95,

(27)

del Parlamento europeo e del Consiglio, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l'autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (www.ministerodellasalute.it).

Le informazioni disponibili sono suddivise in notifiche di allerta (alert notifications), notifiche di informazione (information notifications) e notifiche di notizie (news notifications).

Le “notifiche di allerta” vengono inviate quando cibi, mangimi o materiali a contatto con il cibo che presentano il rischio, sono già sul mercato e quando è richiesta una rapida azione. Ogni stato membro ha i suoi meccanismi di azione per emarginare il problema e per informare la cittadinanza.

Le “notifiche di informazione” concernono cibi, mangimi o materiali a contatto con gli alimenti per i quali è stato identificato un rischio, ma per i quali gli altri stati membri della rete non devono intraprendere rapide azioni, perché il prodotto non ha ancora raggiunto, o non è più sul loro mercato.

Le “notifiche di notizie” comprendono qualsiasi tipo di informazione giudicata interessante per le autorità di controllo degli Stati membri, ma che non è stata considerata come una “Alert” o come una “Information”

notification da uno stato membro (RASSF, Annual Report 2007).

La Commissione Europea ha istituito sul proprio sito uno spazio apposito per la consultazione on line delle notifiche settimanali (weekly overview of alert and information notifications) trasmesse dai paesi della comunità.

Nei dati descritti nel Report 2007 del RASFF (Rapid Alert System for food

and feed), si mette in evidenza come il 22% delle notifiche di allerta

alimentare sia imputata a microrganismi potenzialmente patogeni, mentre la

restante percentuale sia determinata dalla presenza di allergeni (4%), additivi

(7%), corpi estranei (9%), metalli pesanti (9%), contaminanti industriali (6%),

micotossine (8%), residui di pesticidi (4%), residui di medicinali veterinari

(3%), altro.

(28)

Fig.1.4.A: Percentuali dei diversi rischi nelle notifiche di allerta del RASSF

.

Il settore alimentare, in particolare, presenta ancora numerosi problemi nella comunicazione del rischio come evidenziato dal desiderio dei consumatori di conoscere la verità sugli episodi di malattie alimentari, dalle preoccupazioni sulla sicurezza alimentare, sugli additivi e sulle procedure di lavorazione.

Se l’attenzione fino ad ora è stata dedicata a migliorare le condizioni dell’offerta delle merci e dei servizi, le questioni più strettamente inerenti i consumatori, ed in particolare il loro grado di informazione, sono state tralasciate.

Da parte degli operatori del settore manca un sistematico sforzo nella corretta comunicazione dei rischi alimentari, mentre spesso parziali informazioni scientifiche compaiono qua e là, interpretate in modo contraddittorio e

22%

9%

9%

7% 8%

7%

6%

6%

4%

4%

3%

3% 2% 2% microrganismi patogeni

metalli pesanti corpi estranei micotossine composizione additivi alimentari non determinati

contaminanti industriali allergeni

residui di pesticidi

residui di farmaci veterinari aspetti organolettici

infestazioni da parassiti ogm

(29)

1.5 GLI ALLARMI ALIMENTARI MEDIATICI: BSE, INFLUENZA AVIARIA, DIOSSINA NEGLI ALIMENTI

Negli ultimi anni, una catena ininterrotta di allarmi alimentari ha catalizzato l’attenzione dei mass media e dell’opinione pubblica, con complesse ripercussioni sulla percezione dei rischi associati agli alimenti. L’incertezza dei dati scientifici, la difficile comprensione dei rischi, ma in particolare il sensazionalismo con cui sono state presentate le notizie dai mass media, hanno contribuito ad influenzare una percezione del rischio che spesso non coincide con i reali pericoli alimentari.

Gli allarmi mediatici su BSE, influenza aviaria e diossina negli alimenti sono particolarmente indicativi di quanto distante possa essere la quantità di notizie nei mass media, e quindi l’influenza sulla percezione del rischio, dal rischio oggettivo per tali fattori.

1.5.1 BSE

La BSE (Bovine Spongiform Encephalopathy), universalmente nota come

“morbo della mucca pazza” è una malattia del gruppo delle Encefalopatie Spongiformi Trasmissibili (TSE), o malattie da prioni, che colpisce prevalentemente bovini, ed è causata da un agente infettivo non convenzionale: questo agente infettivo non è un virus, bensì una proteina modificata rispetto alla forma “non patologica”, definita “prione”.

Fig.1.5.1A: il prione della BSE

(30)

La malattia prende il nome dalle lesioni encefaliche, che appaiono all’esame microscopico come aree otticamente vuote che ricordano appunto l’aspetto

“di spugna”. Gli esami dei tessuti cerebrali delle mucche con la forma conclamata di malattia, mostrano chiaramente la presenza delle tipiche lesioni spongiformi, causate dall’accumulo nei neuroni della forma patologica (PrPsc, acronimo da Prion Protein Scrapie) di una proteina, detta PrPc, fisiologicamente presente nelle cellule nervose bovine come anche in quelle degli altri animali e dell’uomo.

La malattia colpisce maggiormente le mucche da latte, che si ammalano con maggior frequenza all’età di circa 5 anni. Dal punto di vista clinico i sintomi rilevabili sono prevalentemente di tipo neurologico, tra cui prevalgono modificazioni del comportamento, della sensibilità, del movimento.

La BSE è stata diagnosticata per la prima volta nel Regno Unito nel 1986. Si riteneva fosse una malattia specifica della specie bovina, finché non furono descritte, a partire dal 1990, nuove forme morbose analoghe nel gatto e in alcune specie di felidi e di ruminanti selvatici di giardini zoologici inglesi, alimentati con carni e mangimi con componenti di farine di carne ed ossa di ruminanti. Fin dal 1988 erano stati sollevati sospetti di un legame tra la BSE e la somministrazione di farine animali negli allevamenti bovini inglesi.

Sospetti che nello stesso anno sfociarono nella messa al bando ufficiale di questi prodotti dall’alimentazione dei ruminanti del Regno Unito, seguita da analoga decisione comunitaria dal 1994.

Nel Regno Unito si sono contati fino ad ora circa 190.000 casi di BSE: il

picco si è riscontrato nel 1992 con oltre 37.000 nuovi casi, contro i poco più

di mille del 2000. A luglio del 2001, nel resto della Comunità Europea sono

stati diagnosticati circa 2000 casi di BSE.

(31)

Fig. 1.5.1.B: Casi di BSE bovina nel mondo e nel Regno Unito

0 5000 10000 15000 20000 25000 30000 35000 40000

1987 1988

1989 1990

1991 1992

1993 1994

1995 1996

1997 1998

1999 2000 Casi di BSE nel mondo di cui nel Regno Unito

Attualmente si ritiene che la crisi sia stata innescata dal “riciclaggio” del prione attraverso l’utilizzo di carcasse di bovini affetti da BSE nella produzione di farine di carne ed ossa destinate all’alimentazione animale.

Per quanto riguarda l’origine della malattia fra i bovini, ci sono diverse ipotesi. Il modello accettato dalla maggior parte degli esperti è di tipo multifattoriale: l’aumento della proporzione di farine di carne che venivano usate nella dieta delle bovine da latte, il riciclo delle carcasse infette, nonché le modifiche nella tecnologia di produzione delle farine a partire dal 1981-82, avrebbero innescato e favorito l'amplificazione fra i bovini di un agente raro e non ancora identificato, oppure di un ceppo dell’agente della scrapie delle pecore.

L’attitudine dimostrata dall’agente della BSE al cosiddetto “salto di specie”

ha portato nuova apprensione quando, nel 1996, fu descritto il primo caso della cosiddetta nuova variante della malattia di Creutzfeld-Jakob (nvCJD).

Dal 1996 ad oggi sono stati segnalati 129 casi di nvCJD nel Regno Unito, 6 in

Francia, 1 in Canada, 1 in Irlanda, 1 in Italia e 1 negli USA (www.who.int).

(32)

Oggi è di fatto generalmente accettato che la malattia sia dovuta all’esposizione a materiali specifici a rischio, cioè a tessuto nervoso e ad altri tessuti bovini in cui è stata dimostrata la presenza dell’agente.

Oggi, a livello di sanità pubblica, la malattia viene considerata prioritaria per la percezione che l’opinione pubblica europea e mondiale ha avuto ed ha attualmente del problema. Il timore di contrarre una malattia comunque letale (al pari della rabbia, per esempio) può costituire una chiave di lettura per interpretare la profonda crisi e la perdita di fiducia di parte dei consumatori nei confronti della carne bovina.

In Italia, nel primo semestre 2001, in seguito all’entrata in vigore delle disposizioni che prevedono i test per BSE su tutti i capi macellati oltre i 24 mesi di vita e alla positività in alcuni di essi, si è assistito a una riduzione notevole del consumo di carni bovine. La crisi BSE si è aggiunta ad altre questioni legate alla più generale problematica della sicurezza alimentare. Al 3 gennaio 2002 secondo il Ministero della Salute sono stati rilevati 49 casi positivi su oltre 455.000 analisi effettuate.

Per quanto riguarda le disposizioni comunitarie per l’adozione di un Sistema di Sorveglianza Permanente, l’Italia è all’avanguardia o comunque al passo con gli altri Stati Membri: è previsto infatti l’esame obbligatorio per tutti i bovini con sintomi, l’effettuazione dei test BSE in laboratori autorizzati delle categorie a rischio, (si testano tutti i morti in stalla e tutti i bovini macellati di età uguale o superiore a 24 mesi). Sembra tuttavia opportuno potenziare gli sforzi per altri due punti espressamente indicati dalla Comunità Europea:

l’ottenimento di risultati di Risk Analysis per tutti i potenziali fattori di

insorgenza della malattia e la loro evoluzione nel tempo e l’implementazione

di un programma di formazione destinato a veterinari, allevatori, ed altre

categorie di operatori allo scopo di incoraggiare la segnalazione di casi clinici

sospetti. (Epicentro, 2008).

(33)

1.5.2 INFLUENZA AVIARIA

L’ INFLUENZA AVIARIA è stata identificata per la prima volta in Italia più di un secolo fa. E’ una malattia degli uccelli causata da un virus dell'influenza di tipo A, che può essere a bassa o ad alta patogenicità. Diffusa in tutto il mondo, l'influenza aviaria è in grado di contagiare pressoché tutte le specie di uccelli, anche se con manifestazioni molto diverse, da quelle più leggere fino alle forme altamente patogene e contagiose che generano epidemie acute. Se causata da una forma virale altamente patogena, la malattia insorge in modo improvviso, seguita da una morte rapida quasi nel 100% dei casi.

Riserve naturali dei diversi sottotipi di virus dell'influenza aviaria sono le anatre selvatiche, identificate come fonte di contagio per il pollame da allevamento, (polli e tacchini), particolarmente suscettibile alla malattia. Nei Paesi asiatici, un ruolo preminente alla diffusione del virus è stato identificato nella vendita di pollame vivo ai mercati. Inoltre, i virus si possono trasmettere da azienda ad azienda tramite i mezzi meccanici, gli attrezzi e strumenti contaminati, le macchine, i mangimi, le gabbie, o perfino gli indumenti degli operatori.

I virus di bassa patogenicità possono, dopo aver circolato anche per brevi periodi in una popolazione di pollame, mutare in virus altamente patogeni.

Per esempio, secondo quanto riportato dall'Oms, nel corso dell'epidemia del 1983-1984 negli Stati Uniti, il virus H5N2 inizialmente causò bassa mortalità ma divenne poi, nei sei mesi successivi, altamente patogeno, con una mortalità vicina al 90%. Per controllare l'epidemia, in quel caso, fu necessario abbattere più di 17 milioni di uccelli, per un costo totale di quasi 65 milioni di dollari.

Si conoscono almeno quindici sottotipi di virus influenzali che infettano gli

uccelli, anche se tutte le epidemie di influenza altamente patogena sono state

(34)

causate da virus di tipo A dei sottotipi H5 e H7. I virus del sottotipo H9 sono solitamente a bassa patogenicità. A seconda del tipo di proteina combinata con il virus (da N1 a N9), il virus acquisisce una denominazione diversa (H5N1, H7N2 ecc).

Fig.1.5.2A: Il virus H5N1

Tutti i virus influenzali di tipo A sono noti per l'instabilità genetica, in quanto sono soggetti a numerose mutazioni durante la replicazione del Dna e sono privi di meccanismi di correzione. Il fenomeno, definito di “deriva genetica”, genera cambiamenti nella composizione antigenica di questi virus. Una delle attività principali della sorveglianza influenzale è quindi quella dedicata al monitoraggio di questi cambiamenti, condizione di base per la scelta di una appropriata composizione vaccinale. Inoltre, i virus di tipo A possono andare incontro a riassortimenti del proprio materiale genetico, secondo un processo definito di “shift genetico”, che fa sì che vengano prodotti nuovi sottotipi virali diversi da quelli parentali, e capaci quindi di indurre la malattia anche in soggetti che siano stati preventivamente vaccinati contro i ceppi parentali.

Dall’inizio dell’ epidemia nelle zone del Sud-est asiatico che ha preso il via

nel corso del 2003, l’Oms ha lanciato un allarme a tutte le istituzioni

internazionali a cooperare per attuare piani e azioni preventive per ridurre il

rischio di passaggio all’uomo del virus aviario. Condizione essenziale perché

virus che normalmente sono ospitati da animali diventino patogenici per

(35)

l’uomo è che nel processo di riassortimento acquisiscano geni provenienti da virus umani, che li rendano quindi facilmente trasmissibili da persona a persona. I casi di influenza aviaria su uomo registrati nel corso del 2003 e 2004 sono invece casi di trasferimento diretto da pollame infetto a persone.

Dei 15 sottotipi di virus aviari, H5N1 circolante dal 1997, è stato identificato come il più preoccupante proprio per la sua capacità di mutare rapidamente e di acquisire geni da virus che infettano altre specie animali. Gli uccelli che sopravvivono a H5N1 lo rilasciano per un periodo di almeno 10 giorni.

Dall’inizio del 2003, H5N1 ha effettuato una serie di salti di specie, acquisendo la capacità di contagiare anche gatti e topi, trasformandosi quindi in un problema di salute pubblica ben più preoccupante. La capacità del virus di infettare i maiali è nota da tempo, e quindi la promiscuità di esseri umani, maiali e pollame è notoriamente considerata un fattore di rischio elevato.

Nelle epidemie recenti, a partire dal 2003, è stata documentata la capacità di questo virus di contagiare direttamente anche gli esseri umani, causando forme acute di influenza che in molti casi hanno portato a morte.

0 20 40 60 80 100 120 140

2003 2004 2005 2006 2007 2008

N°casi N°morti

Fig 1.5.2.B: Numero di casi umani e di morti per influenza aviaria nel mondo.

Il rischio principale, che fa temere l’avvento di una nuova pandemia dopo le

tre che si sono verificate nel corso del XX secolo (1918, 1957, 1968), è che la

compresenza del virus aviario con quello dell’influenza umana, in una

(36)

persona infettata da entrambi, faciliti la ricombinazione di H5N1 e lo renda capace di trasmettersi nella popolazione umana. (Epicentro, 2008).

1.5.3 DIOSSINE

Le DIOSSINE vengono generate come sottoprodotti non voluti di numerosi processi di produzione, utilizzazione e smaltimento del cloro e dei suoi derivati. Le emissioni industriali di diossine possono essere trasportate per grandi distanze dalle correnti atmosferiche, e, in misura minore, dai fiumi e dalle correnti marine. Le diossine sono sostanze persistenti, per la cui degradazione sono necessari decenni o secoli, e che possono essere riciclate continuamente in diversi comparti ambientali.

La diossina (inglese dioxin), è un composto organico eterociclico la cui struttura consta di un anello con quattro atomi di carbonio, insaturi, e due di ossigeno, di formula bruta C

4

H

4

O

2

.

I suoi isomeri di posizione sono:

La 1,4-diossina (CAS 290-67-5), il capostipite più stabile.

La 1,2-diossina (CAS 289-87-2), di caratteristiche dissimili, più instabile (strutturalmente è un endoperossido).

Sono stabili anche le relative forme diidrogenate (n,n'-diidro-n'',n'''-diossina)

quindi compresa la 1,3-diossina, mentre l'idrogenazione di entrambi i doppi

(37)

L'isomero 1,4 è un liquido incolore ed estremamente infiammabile, come quasi tutti gli eteri, il composto si può intendere come l'etere ciclico dell'alcool bifunzionale etendiolo (HO-CH=CH-OH) o eten-1,2-diolo, (CAS 1571-60-4, in equilibrio cheto- enolico con la sua forma carbonilica).

L'esposizione dell'uomo alle diossine ha luogo quasi esclusivamente attraverso l'assunzione di cibo, soprattutto carne, pesce e latticini. In casi di esposizione di soggetti a concentrazioni particolarmente elevate di diossine (ad esempio per esposizione accidentale o sul lavoro), si è potuto constatare la potenzialità di questi composti a ridurre la fertilità, le capacità di sviluppo e quelle di immunodifesa, oltre che l'insorgenza di tumori. Gli effetti delle diossine sugli organismi viventi includono anche un’ elevata sensibilità degli embrioni e dei feti di pesci, uccelli, mammiferi e uomo agli effetti tossici delle diossine. Per quanto riguarda l'uomo, gli effetti sullo sviluppo, osservati dopo un'esposizione accidentale elevata, comprendono: mortalità prenatale, riduzione della crescita, disfunzione di organi quali il sistema nervoso centrale, alterazioni funzionali, inclusi effetti sul sistema riproduttivo maschile; alterazioni cellulari del sistema immunitario, variazioni nei livelli di testosterone, nonché variazioni nella produzione di altri ormoni ed enzimi.

Per soggetti la cui esposizione alla diossina è più elevata della media (dovuta, per esempio, ad una dieta prevalente a base di pesce o mammiferi marini), i rischi di effetti negativi quali la possibilità di riduzione del numero di spermatozoi, danni al sistema immunitario ed endometriosi, sono più elevati.

Gli effetti biologici delle diossine sembrano dipendere più dalla loro presenza in particolari organi e/o stadi vitali piuttosto che dall'entità quantitativa dell'esposizione. Studi di laboratorio hanno dimostrato che l'esposizione a dosi bassissime di diossina durante un periodo critico brevissimo nel corso della gestazione è sufficiente ad influire negativamente sulla salute del feto.

Nei paesi industrializzati, i livelli di diossina presenti nel latte umano fanno

(38)

spesso sì che i lattanti assumano quantità di diossina di gran lunga superiori alla TDI (Tollerable Daily Intake) proposta dall'OMS (Lorber et al. 2002).

La presenza contemporanea di diossine e bifenili policlorurati in un organismo può indurre effetti cumulativi o addirittura sinergici rispetto a quelli indotti dai singoli inquinanti.

La diossina è cancerogena per l'uomo e per gli animali. L’EPA (United States Environment Protection Agency) ha stimato che l'attuale esposizione di fondo della popolazione generale alle diossine determina un rischio di contrarre tumore variabile da 1/1.000 a 1/10.000 cittadini.

Proprio per la loro tendenza ad accumularsi nei tessuti viventi, anche un'esposizione prolungata a livelli minimi di diossine può recare danni. Le diossine causano una forma persistente di acne, nota come cloracne; sugli animali hanno effetti cancerogeni ed interferiscono con il normale sviluppo fisico. È stato inoltre dimostrato che l'esposizione alla diossina può provocare l'endometriosi.

Mediamente il 90% dell'esposizione umana alla diossina, eccettuate situazioni di esposizione a fonti puntuali (impianti industriali, inceneritori ecc.), avviene attraverso gli alimenti (in particolare dal grasso di animali a loro volta esposti a diossina) e non direttamente per via aerea: il fenomeno del bioaccumulo fa sì che la diossina risalga la catena alimentare umana concentrandosi sempre più, a partire dai vegetali, passando agli animali erbivori, ai carnivori ed infine all'uomo.

Le diossine vengono prodotte quando materiale organico è bruciato in presenza di cloro, sia esso cloruro inorganico, come il comune sale da cucina, sia presente in composti organici clorurati (ad esempio, il PVC). La termodinamica dei processi di sintesi delle diossine è fortemente favorita da reazioni a più bassa temperatura, sia per motivi energetici che entropici.

Questo è il motivo per cui gli impianti in cui la combustione può portare alla

(39)

formazione delle stesse, sono costretti a funzionare a temperature elevate, indipendentemente dalla convenienza generale dei processi.

Le diossine si generano anche in assenza di combustione, ad esempio nella sbiancatura della carta e dei tessuti fatta con cloro e nella produzione di clorofenoli, specie quando la temperatura non è ben controllata.

Per quanto riguarda i processi di combustione, possiamo ritrovarle in industrie chimiche, siderurgiche, metallurgiche, industrie del vetro e della ceramica, nel fumo di sigaretta, nelle combustioni di legno e carbone (potature e barbecue, camini e stufe), nella combustione (accidentale o meno) di rifiuti solidi urbani avviati in discarica o domestici, nella combustione di rifiuti speciali obbligatoriamente inceneribili (esempio rifiuti a rischio biologico, ospedalieri) in impianti inadatti, nei fumi delle cremazioni, dalle centrali termoelettriche e dagli inceneritori.

Questi ultimi sono stati a lungo fra i maggiori produttori di diossina, ma negli ultimi anni l'evoluzione tecnologica ha permesso un notevole abbattimento delle emissioni gassose da queste fonti.

L'inventario dell'EPA stima come maggiore fonte di diossine negli Stati Uniti l'incenerimento domestico (pratica diffusa in quel paese). Il miglioramento tecnologico degli impianti di incenerimento (ospedalieri, fanghi e urbani) rispetto alle precedenti stime è netto (EPA, Final Report, 2006).

Per quanto riguarda l'Europa, l'Unione Europea, nel rapporto “Compilation of Eu dioxin exposure and health data” , stima che il trattamento dei rifiuti (e in particolare l'incenerimento) e il settore industriale (in particolare il siderurgico) sono i massimi responsabili dell'emissione in atmosfera di diossine (European Commission DG environment, 1999).

Le emissioni più rilevanti di diossina, tuttavia, non sono quelle in atmosfera

ma quelle nel terreno. Su questo versante, i massimi responsabili sono i

pesticidi, in fase di produzione ma anche di uso; seguono a una certa distanza

i fuochi accidentali, nonché ancora una volta lo smaltimento dei rifiuti.

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