INTRODUZIONE
Il proposito che ha in principio animato quest’indagine nel suo complesso, scaturita come esposto nella premessa da un corso professionale per adattatore cinetelevisivo, era essenzialmente quello di capire in che modo il doppiaggio potesse influire su un opera cinematografica. Rilevare, cioè, cosa succede a un film quando viene doppiato. Non solo, è interessante sapere quali sono quelle condizioni che lo spettatore “tacitamente” accetta quando assiste ad un’opera doppiata, e quindi, quale pellicola finiamo per vedere quando ci rechiamo in una sala cinematografica italiana, a differenza di quella che invece “avremmo visto”
proiettata nel paese di origine. Viene da sé, che per avere risposte a questi interrogativi, la nostra ricerca doveva obbligatoriamente dirigersi verso tutte quelle problematiche che il dialoghista deve affrontare e risolvere. Solo in seguito alla piena comprensione della loro natura di questi “ostacoli” e quindi delle strategie necessarie per ovviare ai gap comunicativi tra le due lingue, si può giungere a capire esattamente in che modo un testo doppiato è manipolato, e se si presenta diverso rispetto al suo originale. Solo in un secondo momento si è deciso di spostare la ricerca su una precisa categoria cinematografica, quella shakespeariana, e di restringere infine il campo ad una sola delle opere del Bardo:
l’Amleto.
Come ogni indagine, è normale che anche questa sia iniziata con la
necessaria fase di documentazione, prima generalizzata e poi sempre più
approfondita. Deriva essenzialmente da queste letture il primo capitolo, il più
descrittivo dei tre di cui si compone l’intero lavoro. Questa prima parte mira
essenzialmente a prendere coscienza della lunga tradizione, ormai più che
secolare, che vede Shakespeare dominare sugli schermi delle sale
cinematografiche. Si tratta, sostanzialmente, di una carrellata volta a illustrare le pellicole che, dal King John del 1899 fino ad As You Like It nelle sale in questi giorni, hanno dato lustro a questa nicchia cinematografica. Quanto abbiamo tentato di fare, voleva non essere soltanto uno sterile elenco di pellicole, ma piuttosto una ricerca ragionata sulle fasi e gli sviluppi del connubio Shakespeare/macchina da presa, inevitabilmente vincolato ai progressi tecnologici che il cinema compieva di anno in anno.
In primo luogo (e in particolar modo per quanto interessa i nostri scopi di studio), sarà l’avvento del sonoro la prima delle innovazioni che rivoluzionerà profondamente le produzioni cinematografiche. Successivamente, sarà invece una sempre più precisa conoscenza da parte dei registi delle potenzialità comunicative di quest’arte a portare cambiamenti nel cinema, fino a giungere alla maturità che oggi dimostra. Affidandoci alle numerose pubblicazioni in materia, abbiamo cercato di fare emergere dall’intero corpus cinematografico shakespeariano le produzioni simboliche, le cosiddette “pietre miliari”, quelle cioè che hanno per qualche motivo rappresentato un punto di svolta. Grande rilievo è stato riservato a quei cineasti di fama mondiale che, a partire da Olivier, hanno dato lustro alle loro opere grazie al drammaturgo di Stratford, e che allo stesso tempo hanno consentito a Shakespeare di godere ancora degli spazi meritati, grazie a questo metodo narrativo nuovo e decisamente inconsueto al suo genio.
Interesse ancora maggiore ha poi suscitato la ricerca delle motivazioni di
questo sodalizio. Perché Shakespeare dopo quattro secoli affascina ancora così
tanto chi fa cinema e inevitabilmente anche i suoi spettatori? Questione che ne
suggerisce un’altra, alla quale non è affatto semplice dare una risposta: com’è
composta la platea che va al cinema per vedere Shakespeare? Chi può essere
attratto dalle sue trame narrate di fronte a una cinepresa invece che su di un
palcoscenico? E, ancor più interessante per i nostri obiettivi, quanto può incidere
tutto questo sulla condotta di chi è chiamato a volgere i dialoghi in italiano? Sono
questi interrogativi cui è stato tentato di dare delle risposte, alcune delle quali
reputiamo esaurienti, altre invece che piuttosto che risolvere dubbi ne hanno
sollevati di nuovi. In particolar modo è il paragrafo 7 del capitolo primo che tenta
di dare le spiegazioni più accurate a questa “mania” di preservare il mito di Shakespeare tramite il cinema.
Contemporaneamente alla fase della ricerca e della documentazione è iniziata la visione vera e propria dei tre film di Amleto presi in analisi. Sono state esaminate prima le versioni in lingua originale e poi quelle doppiate, alla quale fase è seguito un periodo dedicato esclusivamente alla sbobinatura dei testi delle sei versioni complessive. Per quanto riguarda il film di Kenneth Branagh, del quale esistono due versioni di lunghezze diverse, abbiamo scelto di ricorrere a quella ridotta 1 , detta anche versione “commerciale”. Tale scelta è stata in qualche modo obbligata dalle altre due pellicole, che hanno subito, per mano dei rispettivi registi, dei tagli consistenti alla tragedia orignale; in questo modo abbiamo avuto materiale più omogeneo, ed eravamo pronti per iniziare l’indagine vera e propria.
Dopo aver visto accuratamente le pellicole, s’iniziava ad avere una percezione sempre più chiara di quelle che in effetti erano state le operazioni dei tre dialoghisti e quindi, anche quali parti del testo avevano subito dei mutamenti. Pur essendo questa un’analisi esclusiva dei testi destinati al doppiaggio, si avvertiva, però, il bisogno di un riferimento che andasse oltre il riscontro cinematografico, c’era il bisogno di una prova che confortasse la già “rassicurante” comparazione delle tre versioni cinematografiche. Per questo sono state successivamente prese in ausilio anche le traduzioni italiane del dramma del principe danese più note: la versione di Montale, edita nel 1988 da Mondadori, quella di Agostino Lombardo del 1995, pubblicata da Feltrinelli, e quella di Serpieri del 1997, per Marsilio.
Infine, abbiamo scovato in libreria, pubblicata da Baldini Castoldi & Dalai editore, una versione recentissima, curata da Masolino d’Amico, già adattatore per il film di Franco Zeffirelli. Circostanza questa, essendo d’Amico autore appunto di entrambi in generi mediatici, che ci aiuta oltremodo a capire molte delle dinamiche che si possono venire a creare durante il passaggio dall’inglese all’italiano. Questi testi presi a supporto ci hanno permesso di comprendere in maniera più accurata quali scelte di adattamento fossero da imputare
1
Salvo qualche rarissima eccezione in cui il materiale necessario al confronto era incluso nella
parte scartata per dar vita alla versione ridotta, circostanze comunque rigorosamente comunicate
nel momento della tesi in cui si verificano.
esclusivamente a valutazioni di carattere semantico, e quali altre invece fossero imposte dalle esigenze tipiche del cinema, come può succedere ad esempio per il sincronismo labiale. É stato questo approssimativamente lo stesso atteggiamento che i dialoghisti hanno tenuto in fase d’adattamento. Anche loro, seppur non saccheggiando le traduzioni già esistenti, come hanno confidato durante le intervista sono ricorsi a molte di queste pubblicazioni disponibili. Anzi, è stato proprio muovendosi in questa direzione che si è potuto supporre quale fossero state le influenze e i modelli cui era stato fatto riferimento per le versioni finali italiane, e non solo per quanto riguarda la scelta dei termini, ma anche per conferme o smentite in ambito più strettamente filologico.
Prima di iniziare ad individuare le strategie specifiche tenute dai tre dialoghisti, sono state analizzate, nel capitolo secondo, le problematiche del doppiaggio, distinguendo quelle comuni ad ogni pellicola, e quelle invece peculiari dei film ispirati a Shakespeare. Sono stati descritti i vincoli cui il dialoghista è costretto in fase di adattamento, riconoscendo le varie sincronie (labiali, gestuali etc.) e tutto quanto invece può scaturire da ragioni normative:
normalizzazione, standardizzazione, ma anche la gestione, da parte di chi cura la stesura della versione doppiata, delle inferenze culturali necessarie alla comprensione del film. Si giunge così al terzo e ultimo capitolo, che è poi quello più distintivo dell’intera tesi, perché riassuntivo di tutte gli ostacoli realmente incontrati durante la minuziosa analisi delle strategie adottate dai dialoghisti alle prese con i tre Amleto. È stata la raccolta di queste numerose circostanze, di cui riportiamo solo le più significative in modo da coprire il più possibile la gamma delle situazioni probabili, che ha consentito il formulare vero e proprio di ipotesi circa i criteri adottati dai tre professionisti. Sono state avanzate supposizioni circa il background culturale dell’adattatore, il rapporto tra parola scelta e il suo significato, lo spostamento di figure retoriche o la totale rimozione di queste a causa dell’appiattimento del testo che inevitabilmente si verifica doppiando.
Questi aspetti del doppiaggio individuati nei tre dialoghisti, sono stati ampiamente
descritti e discussi in questo capitolo finale, ordinati per tipologia e corredati da
esempi e riferimenti testuali. L’impianto creato per la disposizione di queste
casistiche riflette esattamente quella vista nel corso del capitolo secondo per la descrizione delle problematiche. L’unica differenza consiste esclusivamente nel fatto che in quest’ultimo capitolo, oltre ai consueti paragrafi, sono stati creati anche dei sottoparagrafi, in modo da suddividere ordinatamente i modelli all’interno delle rispettive categorie.
Il tutto è stato valutato anche in una prospettiva diacronica; ottica interessante se si considerano i quasi cinquant’anni che intercorrono tra la prima pellicola, quella di Olivier risalente al 1948 e quella di Branagh del 1996, la più recente delle tre. Si è cercato in questa maniera di che capire in che modo il doppiaggio si potesse essere evoluto, sempre che d’evoluzione si possa parlare.
Anche in questo caso sono state avanzate ipotesi, secondo le quali il doppiaggio oggi risulta molto più regolamentato e meno affidato alla sensibilità personale di chi adatta. Molto probabilmente sul doppiaggio grava oggigiorno anche il fatto che le odierne produzioni hollywoodiane, a differenza delle produzioni più datate, sono obbligate dalle ingenti somme investite ad attrarre un sempre crescente numero di spettatori nelle sale. È diventato dunque necessario attirare adesso, anche quella porzione di spettatori solitamente avversa alla cinematografia d’ispirazione letteraria, e il doppiaggio di un film potrebbe in qualche modo finire per essere oggetto di manipolazioni mirate ad aumentare la fruibilità di questo genere di pellicole.
In modo da avvalorare le ipotesi formulate nel corso delle indagini (oppure
a smentirle totalmente se questo fosse il caso), sono stati intervistati due dei tre
adattatori analizzati: il primo, Masolino d’Amico, professore di letteratura inglese
è stato incontrato nel suo studio presso l’Università Roma3. La seconda intervista,
invece è quella a Francesco Vairano, anch’egli romano, che ci ha ricevuto presso
stabilimento di doppiaggio “Dubbing Brothers”, dove stava dirigendo una
sessione di lavoro alla quale ci ha anche gentilmente concesso di assistere, e per la
quale ancora ringraziamo. I contributi derivati da questi due incontri sono riportati
in appendice, insieme agli script originali e i testi dei doppiaggi dei film in
questione.
Ci preme inoltre fare un’ultima precisazione circa l’ “inusuale” scelta per la nostra facoltà, di depositare questa tesi di laurea in formato elettronico. Ciò è dovuto esclusivamente a due ragioni: aderire a quello che certamente diverrà lo standard futuro, permettendo una condivisione e una circolazione del lavoro ottimale grazie all’archivio nazionale costituito in seno al progetto ETD 2 , in cui confluiscono le tesi di questo genere. L’altra motivazione è invece di ordine materiale: la tesi digitale infatti non presenta alcuna limitazione in termini quantitativi, e ciò di ha permesso di allegare i testi sbobinati delle sei pellicole, per cui sarebbe stato altrimenti necessario un tomo aggiuntivo. Oltretutto è stato così possibile depositare anche il file video contenenti le interviste a Masolino d’Amico e Francesco Vairano.
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