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1 L’AERODINAMICA IPERSONICA

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L’AERODINAMICA IPERSONICA

1.1

Introduzione

L’aerodinamica ipersonica è quella branca dell’aerodinamica che si occupa dello studio di flussi comprimibili ad elevato numero di Mach. Convenzionalmente vengono definiti flussi ipersonici quelli con numeri di Mach maggiori di 5, anche se questo valore è da considerarsi puramente indicativo in quanto la transizione tra regime supersonico e ipersonico non è caratterizzata da un radicale cambiamento della natura del campo aerodinamico, come avviene invece nel passaggio da un flusso subsonico a uno supersonico, ma dall’insorgere di una serie di fenomeni fisici che acquistano progressivamente importanza all’aumentare del numero di Mach.

Gran parte degli effetti che caratterizzano il regime ipersonico sono connessi con le alte temperature che si sviluppano nell’interazione di un flusso ad alta velocità con i corpi che investe e che possono dare origine a fenomeni di dissociazione e ionizzazione, a reazioni chimiche, a irraggiamento e ad altri effetti detti di gas reale. Lo studio di tali fenomeni prende il nome di aerotermodinamica.

1.2

Fenomeni caratteristici

In questo paragrafo verranno brevemente descritti i principali fenomeni che caratterizzano il flusso ipersonico.

1.2.1 Thin Shock Layers

Come noto dalla teoria classica dell’urto obliquo, facendo riferimento alla Figura 1.1, all’aumentare del numero di Mach l’onda d’urto tende a formarsi sempre più a ridosso della parete secondo la relazione

⎥ ⎦ ⎤ ⎢ ⎣ ⎡ + − γ − β β = θ 2 1 1 2 2 1 2 2 1 ) ( M M (1.1)

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valida per angoli β e θ piccoli.

Figura 1.1 Thin Shock Layer ([1]).

Per M1→∞ la (1.1) diviene θ + γ = β 2 1

dalla quale per γ=1.4 si ottiene β=1.2θ. Quindi risulta evidente che in

condizioni di flusso ipersonico l’onda d’urto giace molto a ridosso della parete e la zona del campo compresa tra l’urto e la parete stessa, detta shock layer, tende a divenire molto sottile e con elevata densità. Gli effetti di alta temperatura possono contribuire ad accentuare ulteriormente questo fenomeno. A bassi numeri di Reynolds lo shock layer è in genere completamente viscoso a causa dell’interazione dello strato limite con l’onda d’urto.

1.2.2 Entropy Layer

L’entropy layer è una regione del campo aerodinamico dove sono presenti elevati gradienti di entropia. Tali gradienti sono creati da onde d’urto fortemente curvate, come quelle che risiedono di fronte ad un corpo arrotondato.

Con riferimento alla Figura 1.2, l’incremento di entropia subito dal flusso a causa dell’urto sarà maggiore nella zona vicina al naso, dove l’urto è praticamente normale, e minore nelle zone più esterne. Per effetto convettivo si avrà quindi un flusso ad entropia elevata vicino alla parete e valori progressivamente minori allontanandosi dalla stessa. In base al teorema di Crocco l’entropy layer è anche una zona ad elevata vorticità che interagisce con la vorticità di origine viscosa originata alla parete, complicando notevolmente lo studio dello strato limite.

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Figura 1.2 Entropy Layer ([1]).

1.2.3 Interazione viscosa

Prendono il nome di interazione viscosa quei fenomeni nei quali lo spessore dello strato limite è tale da provocare modifiche sostanziali nel flusso esterno rispetto a quanto avverrebbe nell’ipotetico caso non viscoso. Se si considera lo strato limite comprimibile su una lastra piana, vale la relazione

x e Re M2 ∝ δ (1.2)

che indica come lo spessore dello strato limite cresca con il quadrato del numero di Mach del flusso esterno, risulta quindi evidente che nel caso di velocità ipersoniche i fenomeni di interazione viscosa possono acquistare una notevole rilevanza.

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All’interno dello strato limite, a causa dell’attrito viscoso, parte dell’energia cinetica del flusso viene dissipata e quindi trasformata in energia interna del gas. In un flusso ipersonico, dove l’energia cinetica iniziale è molto elevata, la dissipazione viscosa porta ad un considerevole incremento di temperatura che assume l’andamento mostrato in Figura 1.3. Dato che la pressione attraverso lo strato limite deve rimanere costante questo aumento di temperatura si traduce, in accordo con la legge dei gas perfetti p = ρRT, in una riduzione di densità e quindi affinché il flusso di massa possa essere smaltito dovrà aumentare lo spessore dello strato limite.

Figura 1.4 Effetto della viscosità ad alti numeri di Mach ([1]).

Uno strato limite più spesso determina un maggior effetto di spostamento sul flusso esterno che si comporta come se investisse un corpo di dimensioni maggiorate. In Figura 1.4 sono messi a confronto il caso viscoso e quello non viscoso per una lastra piana investita da un flusso ipersonico. La presenza dello strato limite determina un’onda d’urto al bordo d’attacco, non prevista dal flusso non viscoso, che modifica la distribuzione di pressione sulla piastra facendola aumentare in particolar modo nella parte anteriore.

In letteratura viene di solito fatta la distinzione tra interazione viscosa “forte” e “debole”. Nel primo caso si ha una mutua interazione tra strato limite e flusso esterno in quanto la distribuzione di pressioni, alterata dalla presenza dello strato

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limite, incide sullo strato limite stesso modificandone dimensioni e proprietà. Nel secondo caso, invece, l’effetto di feedback del flusso esterno sullo strato limite è minimo e può essere trascurato. Il tipo di interazione viscosa che si instaura dipende fortemente dalla derivata dello spessore di spostamento δ* rispetto ad x; dove dδ*/dx è grande si ha interazione forte, dove dδ*/dx è piccolo si ha interazione debole. Nel caso della lastra piana si ha interazione forte nella zona anteriore dove il picco di pressione che vi si genera tende a schiacciare lo strato limite facendo aumentare sia l’attrito viscoso che lo scambio termico alla parete. Si ha invece interazione debole nella zona più a valle dove lo strato limite è sostanzialmente insensibile alla variazione del flusso esterno rispetto al caso non viscoso.

Il parametro di similitudine che governa il fenomeno dell’interazione viscosa è

χ definito come C Re M3 ∞ = χ (1.3)

dove Re è il numero di Reynolds riferito alle condizioni del flusso imperturbato e C è il fattore di Chapman-Rubesin calcolato alla parete

e e w w C µ ρ µ ρ = (1.4)

Valori più alti di χ sono associati con l’interazione forte, mentre valori più bassi corrispondono all’interazione debole, come valore di transizione si può assumere

χ=3.

Un'altra classe di fenomeni di interazione viscosa è l’interazione strato limite-onda d’urto, che si verifica quando un’onda d’urto incide su uno strato limite. In Figura 1.5 è schematizzato un caso tipico di un’onda d’urto riflessa da una parete. L’urto incidente crea un gradiente di pressione avverso molto elevato e lo strato limite si separa, dando luogo ad una seconda onda d’urto. Il punto di separazione è localizzato leggermente a monte del punto di incidenza dell’onda d’urto poiché la porzione subsonica dello strato limite “avverte” in anticipo il repentino aumento della pressione a valle. Dopo la separazione lo strato limite torna verso la parete e vi si riattacca generando una terza onda d’urto che, una volta unitasi con quella generata dalla separazione, forma l’onda d’urto riflessa. Nel punto in cui si riattacca alla parete, lo strato limite può divenire molto sottile dando luogo ad una zona di forte scambio termico. L’interazione onda d’urto-strato limite costituisce ancora oggi uno dei più attivi settori di ricerca di tutta l’aerodinamica e numerose attività in questa direzione sono state svolte presso Centrospazio ([2],[3],[4]) prima nell’ambito del programma FESTIP (Future European Space Transportation Investigation Programme) dell’ESA, e successivamente in collaborazione con CIRA e Politecnico di Torino.

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Figura 1.5 Schema qualitativo di interazione onda d’urto-strato limite ([1]).

1.2.4 Effetti di alta temperatura

Come precedentemente accennato sia la dissipazione di energia cinetica che avviene all’interno dello strato limite, sia la formazione di onde d’urto normali davanti ad un corpo possono produrre, in un flusso ipersonico, temperature dell’ordine delle migliaia di gradi Kelvin, rendendo lo smaltimento del calore generato l’aspetto dimensionante per qualsiasi velivolo progettato per volare a tali velocità.

Tra i principali effetti dovuti alle alte temperature vanno elencati:

• L’eccitazione dell’energia vibrazionale delle molecole, che rende i calori specifici cp e cv funzioni della temperatura. Di conseguenza anche il rapporto dei calori

specifici γ non avrà più un valore costante ma sarà anch’esso funzione della temperatura. Per l’aria questo fenomeno comincia a diventare importante a temperature superiori a 600 K.

• La dissociazione delle molecole che compongono il gas. Per l’aria alla pressione di 1 atm, la dissociazione dell’ossigeno (O2 → 2O) avviene tra i 2000 K e i 4000

K, mentre quella dell’azoto (N2 → 2N) ha luogo tra i 4000 K e i 9000 K.

• La formazione di ioni (N → N+ + e, e O → O+ + e), che avviene a temperature

superiori ai 9000 K, trasformando il gas in un plasma parzialmente ionizzato. Questo fenomeno è responsabile della temporanea interruzione delle comunicazioni radio (black-out) con le navicelle spaziali durante il rientro nell’atmosfera. Negli ultimi anni si è sviluppata un’area di ricerca, la magnetoidrodinamica (MHD), che ha lo scopo di sfruttare le proprietà

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elettromagnetiche del plasma per controllare il flusso attorno ai velivoli ipersonici mediante campi magnetici. In questo modo, ad esempio, si potrebbero spostare le onde d’urto allontanandole dalla superficie del velivolo, in modo da ridurre drasticamente il flusso di calore verso la parete. Una campagna di esperimenti di MHD è stata condotta presso Centrospazio/Alta in collaborazione con l’ASI nel 2004 ([5]) ed una in collaborazione con ESA nel 2006.

• Le reazioni chimiche che possono innescarsi, nel caso dell’aria, tra azoto e ossigeno con formazione di ossido d’azoto. Tali reazioni sono indesiderate poiché causano ulteriore scambio termico alla parete, in tal senso è stato dimostrato, durante lo sviluppo dello Space Shuttle Orbiter, che utilizzando per il rivestimento materiali non catalitici rispetto alle suddette reazioni, si ottiene una sensibile riduzione del flusso di calore alla parete.

• L’irraggiamento proveniente dal gas contenuto nello shock-layer se le temperature raggiungono valori particolarmente elevati (~10000 K). Nel caso del rientro della capsula Apollo ad una velocità di circa 11 km/s, nello shock-layer si registrano temperature intorno agli 11000 K e circa il 30% del calore totale scambiato è dovuto all’irraggiamento. I meccanismi che generano l’irraggiamento nel volo ipersonico, specialmente alle alte quote, non sono tuttora ben noti, anche a causa della difficoltà di riprodurre questi effetti in impianti a terra.

In Figura 1.6 è mostrata la temperatura raggiunta dietro un’onda d’urto normale, in funzione della velocità di rientro nell’atmosfera e ad una quota di 52 km, sia nel caso di gas caloricamente perfetto sia in quello di gas chimicamente reagente in equilibrio. Si può notare come, trattando il gas come ideale, si commetterebbero errori grossolani.

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Figura 1.6 Temperatura dietro un’onda d’urto normale ([1]).

1.2.5 Effetti della bassa densità

A rigor di logica gli effetti della bassa densità non sono necessariamente connessi con il volo ipersonico dato che non sono una conseguenza dell’elevato numero di Mach, tuttavia nella maggior parte delle applicazioni pratiche le velocità ipersoniche vengono raggiunte negli strati alti dell’atmosfera, dove l’aria è più rarefatta.

Le equazioni di Navier-Stokes, che governano il moto dei fluidi, sono basate sull’ipotesi che il mezzo sia continuo e quindi la loro applicabilità è ristretta ai casi in cui la distanza media tra le molecole sia molto inferiore rispetto ad una lunghezza di riferimento. La distanza media tra le molecole è espressa dal cammino libero medio definito come la distanza che in media una molecola percorre tra due urti consecutivi con le altre molecole. Il cammino libero medio λ è legato alla densità dalla relazione

ρ σ = λ 1 2 R kB (1.5)

dove kB è la costante di Boltzmann, R è la costante del gas e σ, che ha le

dimensioni di un’area, è detta collisional cross section e dipende dal gas

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λ = 6.63x10-8 m e l’ipotesi di continuità del mezzo è pienamente giustificata,

mentre salendo ad esempio a 100 km si ha approssimativamente λ = 0.3 m e quindi il cammino libero medio ha un valore paragonabile alle dimensioni di un oggetto volante.

Quando la densità del mezzo diviene molto bassa la prima assunzione che tende ad andare in crisi è la condizione di no-slip alla parete, ovvero la velocità del flusso alla parete del corpo non è più zero, ma assume valori finiti. Un’analoga situazione si presenta anche per il campo di temperatura. In questa situazione le usuali equazioni del mezzo continuo sono ancora applicabili, ma le condizioni al contorno imposte devono tener conto degli effetti di velocity slip e temperature slip. A densità ancora più basse le equazioni del continuo non sono più applicabili e si deve ricorrere alla teoria cinetica per lo studio di tali problemi. Infine, quando la densità del fluido è talmente bassa che solo poche molecole impattano sulla superficie del corpo per unità di tempo, si ha il regime di flusso libero molecolare (free molecular flow).

Il parametro di similitudine che governa le transizione tra i vari regimi di flusso è il numero di Knudsen, definito come il rapporto tra il cammino libero medio e una dimensione caratteristica del corpo.

L

Kn= λ (1.6)

In Figura 1.7 sono visualizzati i diversi modelli e i relativi campi di applicabilità in relazione al numero di Knudsen

Si osserva come le equazioni di Navier-Stokes siano applicabili per Kn < 0.2, anche se gli effetti di slip devono essere inclusi già per Kn > 0.03. Da Kn > 1 in poi si ha regime di free molecular flow. L’intervallo 0.03 < Kn < 1 costituisce quindi una zona di transizione dal continuo al discreto.

Figura 1.7 Regime di applicabilità dei modelli fluidodinamici in funzione del numero di Knusen ([1]).

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1.2.6 Effetti di non-equilibrio

Quando nel fluido si realizzano le condizioni tali per cui entrano in gioco le reazioni chimiche e di dissociazione, si deve tener conto del tempo necessario affinché questi fenomeni possano raggiungere l’equilibrio, ovvero del loro tempo di rilassamento tr. Se la velocità del flusso è tale da far sì che il tempo di permanenza

tp delle particelle fluide in una certa zona del campo sia inferiore a tr, non sarà

possibile raggiungere le condizioni di equilibrio chimico previste dai valori locali di pressione e temperatura. Il flusso si troverà quindi in una condizione di non-equilibrio.

Il parametro di similitudine che governa il non-equilibrio è, come si deduce dalle osservazioni precedenti, il rapporto tra tempo di permanenza e tempo di rilassamento, detto anche numero di Damköhler

r p

t t

Da= (1.7)

Quando Da tende a infinito le reazioni avvengono istantaneamente e la composizione chimica del fluido può essere determinata punto per punto risolvendo l’equilibrio termodinamico con i valori locali di pressione e temperatura, in questo caso si parla di equilibrium flow. Quando viceversa Da tende a zero, le reazioni avvengono con velocità praticamente nulla e le proprietà del fluido rimangono sostanzialmente invariate, in questo caso si parla di frozen flow.

Quanto detto a proposito delle reazioni chimiche è vero anche per i modi energetici vibrazionali, che a differenza di quelli traslazionali e rotazionali, necessitano di un elevato numero di urti molecolari per raggiungere l’equilibrio. I tempi del rilassamento dell’energia vibrazionale sono comunque inferiori a quelli delle reazioni chimiche di circa di un ordine di grandezza, anche se gli effetti sono visibili già a temperature relativamente basse. Ad esempio ad una temperatura di ristagno di 2000 K, la percentuale di entalpia frozen può variare dall’ 11% a 50 bar di pressione di ristagno, fino al 50% a 10 bar. La dipendenza del tempo di rilassamento τ dell’energia vibrazionale da pressione e temperatura può essere espressa, per la maggior parte dei gas biatomici, dalla relazione

3 1 2 1 T C C ln p ln ⎟ ⎠ ⎞ ⎜ ⎝ ⎛ + = τ (1.8)

dove C1 e C2 sono valori determinati sperimentalmente che dipendono dalla

natura del gas e dal fatto che esso si trovi o meno in una miscela.

Gli effetti del non-equilibrio, sia chimico che vibrazionale, possono essere particolarmente importanti nell’espansione attraverso l’ugello di una galleria ipersonica, in entrambi i casi si riscontra un aumento del numero di Mach e del numero di Reynolds e una diminuzione della temperatura.

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1.3

Cenni storici e sviluppi recenti

La storia del volo ipersonico ha inizio nella scia dello sviluppo della tecnologia dei motori a razzo negli anni ‘50 e ‘60. La realizzazione di endoreattori sempre più potenti ha permesso infatti di raggiungere quelle quote di interesse per il volo ipersonico prima inaccessibili con i comuni motori airbreathing.

Il primo velivolo a raggiungere velocità ipersoniche fu il WAC Corporal, un razzo progettato e costruito dall’US Army e utilizzato come secondo stadio di un razzo tedesco V-2, che il 24 Febbraio 1949 raggiunse una quota di 400 km e una velocità massima durante la fase di rientro di 8000 km/h. Pochi anni dopo, il frenetico sviluppo delle tecnologie spaziali e la forte competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica ha portato alla realizzazione di capsule che, in fase di rientro nell’atmosfera, hanno raggiunto Mach 25 (Vostok, Mercury, Gemini) o addirittura Mach 36 (Apollo) ponendo così al centro dell’attenzione dei progettisti i problemi legati ai flussi ipersonici.

Il primo aereo appositamente progettato per il volo atmosferico a velocità ipersoniche fu però il North-American X-15, il cui programma di voli, iniziati nel 1959, si protrasse per circa un decennio e permise ai tecnici di NASA e USAF di raccogliere una grande quantità di dati e di verificare svariate possibili soluzioni che costituirono un valido supporto per i paralleli programmi spaziali Mercury e Gemini. Spinto da un propulsore a razzo da 253 kN, l’X-15 raggiunse, nell’arco della sua vita operativa, una quota massima di 107900 m e una velocità di 7270 km/h (Mach 6.72), livelli mai toccati prima da velivoli a sostentazione aerodinamica. Nel design dell’X-15 (Figura 1.8) si riscontrano gli elementi caratteristici dei velivoli ipersonici, allungamento alare estremamente basso, muso e bordi d’attacco arrotondati e superfici aerodinamiche di elevato spessore, tutte caratteristiche comuni anche all’unico velivolo ipersonico tuttora in attività, lo Space Shuttle.

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L’impiego di velivoli ipersonici in campo civile è stato fin da subito visto con estremo interesse da parte degli addetti ai lavori per le enormi potenzialità che questo settore può offrire da un punto di vista commerciale, come ad esempio la possibilità di effettuare voli da Tokio a New York in meno di due ore. Sfortunatamente la propulsione a razzo si è dimostrata estremamente svantaggiosa per questo tipo di applicazioni e quindi, affinché l’aerotrasporto ipersonico possa diventare una realtà, è necessario mettere a punto un nuovo tipo di motore di tipo airbreathing che sia in grado di funzionare ad alte quote e velocità. La tecnologia più promettente in questo senso è quella dei motori scramjet (supersonic combustion ramjet) e da oltre quarant’anni è al centro della ricerca in campo ipersonico da parte della NASA ([6]). I primi test infatti risalgono alla metà degli anni ’60 quando la NASA mise a punto un prototipo di motore scramjet a geometria variabile, alimentato e raffreddato a idrogeno, con lo scopo di studiarne l’efficienza termodinamica e strutturale. A partire dal 1970 si passò allo studio di scramjet a geometria fissa integrati nell’airframe del velivolo che in galleria del vento ottennero importanti conferme dimostrando di essere in grado di spingere un velivolo ipersonico fino a Mach 7 e oltre. Nel 1984, su diretta spinta del presidente Reagan, ha inizio il programma NASP (National Aerospace Plane), un ambizioso progetto finalizzato alla realizzazione di un prototipo di velivolo ipersonico ([7]). A causa del lievitare dei costi, in seguito ai problemi tecnologici riscontrati in fase di sviluppo del progetto, non si riuscì a raggiungere lo scopo prefissato e il programma fu sospeso dopo circa un decennio dalla sua nascita. Con NASP furono tuttavia compiuti notevoli passi avanti nella comprensione dei fenomeni e nella realizzazione delle tecnologie legate al volo ipersonico.

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Nei primi anni ’90 la NASA lancia il programma ASTP (Advanced Space Transportation Program) destinato a raccogliere l’eredità di NASP, ma con un approccio decisamente più efficace ([8]). Differentemente da NASP, che mirava ad applicare le tecnologie già esistenti alla realizzazione di un prototipo di velivolo, con ASTP si tenta di espandere le tecnologie e le metodologie di progetto disponibili, procedendo per piccoli passi e sviluppando e testando singolarmente i diversi sistemi, in modo da creare una base di conoscenze sufficientemente solida per intraprendere in futuro la progettazione di un velivolo completo. In Figura 1.9 è riprodotta la roadmap tracciata da NASA e Dipartimento della Difesa per definire tappe ed obbiettivi del programma ASTP.

Nell’ambito del programma ASTP rientra anche il progetto Hyper-X, che ha recentemente portato alla realizzazione e alla prova in volo di un prototipo in scala di velivolo ipersonico, denominato X-43A, con motore scramjet airframe-integrated alimentato a idrogeno. Dopo un primo tentativo fallito nel 2001, l’ X-43A (Figura 1.10) ha volato con successo per due volte nel 2004 raggiungendo gli obbiettivi prefissati di Mach 7 e Mach 10 rispettivamente ([11]). Il principale scopo della missione dell’ X-43A era quello di testare le reali capacità del propulsore, oltre a quello di verificare l’affidabilità dei metodi di calcolo applicati per la sua progettazione. Importanti indicazioni sono state raccolte anche per quanto riguarda i sistemi di bordo, la dinamica del volo, lo smaltimento termico e i materiali.

Figura 1.10 Il velivolo per ricerca X-43A ([10]).

L’interesse da parte della NASA per il volo ipersonico e i motori scramjet è fortemente legato anche alla possibilità di utilizzare questo tipo di tecnologia per sistemi di lancio di nuova generazione. Molti studiosi ritengono infatti che il futuro delle missioni spaziali debba necessariamente passare per sistemi di lancio a bassa spinta ([12]). A tale proposito è stato creato dalla NASA in collaborazione con il Dipartimento della Difesa un programma molto ampio di ricerca in questo

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settore denominato NGLT (Next Generation Launch Technology). La possibilità di raggiungere orbite LEO con velivoli a sostentazione aerodinamica, in grado di decollare orizzontalmente, totalmente riusabili, a bassa spinta ed elevato impulso specifico consentirebbe non solo un sostanziale abbattimento dei costi, ma anche un notevole incremento della sicurezza grazie all’impiego di sistemi a bassa densità di energia.

Anche sul fronte europeo la ricerca nel settore dell’aerodinamica ipersonica ha subito nell’ultimo ventennio un rapido sviluppo ([13]). Nel 1988 l’ESA inaugura presso l’ESTEC in Olanda, una sezione appositamente dedicata agli studi sull’aerotermodinamica con lo scopo di creare il background di conoscenze necessario per intraprendere le missioni future. Gli studi di aerotermodinamica all’ESTEC hanno interessato svariati settori tra cui:

• flussi esterni su veicoli aerospaziali durante la fase di rientro, in particolar modo rivolti alla determinazione di carichi termici e strutturali e allo studio dei sistemi di controllo sia in regime di flusso continuo che di free molecular flow.

• sviluppo di sistemi di aerofrenamento mediante paracadute, utilizzato poi nelle missioni di esplorazione di Marte;

• flussi interni ai veicoli aerospaziali: motori airbreathing e relative prese d’aria, ugelli di espansione e sistemi di regolazione della portata d’aria; • fenomeni aeroelastici in regime ipersonico;

• flussi chimicamente reagenti in camere di combustione o nello shock-layer di un velivolo aerospaziale in fase di rientro in atmosfera;

• fenomeni di non-equilibrio in flussi bi-fase o tri-fase.

Uno degli obiettivi principali di ESA negli ultimi anni è stato quello di mettere a punto una serie di strumenti e di procedure di supporto alla progettazione e alla qualificazione di veicoli spaziali. Con questo intento sono state avviate numerose attività raggruppabili in tre categorie principali: sperimentazione a terra mediante impianti ipersonici come shock tunnels o arc-heated tunnels, implementazione di codici di calcolo affidabili e test in volo delle innovazioni tecnologiche introdotte.

Per quanto riguarda il primo punto, l’ESA ha contribuito alla costruzione di importanti impianti come Plasmatron e Scirocco, con lo scopo principale di testare i materiali utilizzati per il rivestimento dei veicoli spaziali e studiarne le interazioni catalitiche e ablative a contatto con aria ad altissima temperatura. Plasmatron, installato presso il von Karman Institute, con i suoi 1200 kW di potenza è attualmente la più grande galleria ipersonica di tipo ICP (Induction-Coupled Plasma) al mondo. La sua torcia al plasma è fissata ad una camera di prova di 1.4 m di diametro per 2.5 m di lunghezza e può produrre sul provino flussi di calore fino a 2900 kW/m2 ([14],[15]). Scirocco, realizzato dal CIRA a

Capua, è una galleria del vento ipersonica con riscaldatore ad arco della potenza di 70 MW, in grado di produrre flussi a velocità prossime a quelle orbitali (~8 km/s) e con temperatura di ristagno pari a 10000 K. La camera di prova di

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Scirocco ha un diametro di 5 metri, mentre il getto d’aria raggiunge il metro e mezzo di diametro.

Importanti risultati sono stati ottenuti anche per quanto concerne le prove di volo ([13]). Nell’Ottobre 1998, durante il terzo volo del lanciatore Ariane 5, la capsula ARD (Atmospheric Reentry Demonstrator) è stato il primo veicolo di ESA ad effettuare un rientro completo nell’atmosfera, consentendo ai tecnici di raccogliere una gran quantità di dati su carichi termici, ionizzazione (blackout), apertura dei paracadute, etc. Esperienza meno felice è stata quella del CRV (Crew Rescue Vehicle) X-38 ([16]), un velivolo aerospaziale progettato in collaborazione tra NASA e ESA con lo scopo di trasportare personale da e verso la stazione spaziale internazionale ISS. Nel biennio 1998/99, presso la base di Edwards in California sono stati effettuati test di discesa e atterraggio dell’X-38 dopo essere stato portato in quota agganciato all’ala di un B-52. Il programma, che doveva concludersi nel 2007 con l’entrata in servizio della navetta, è stato definitivamente cancellato nel Marzo 2002.

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1.4

Attività sperimentale e gallerie ipersoniche

L’approccio sperimentale ha da sempre ricoperto un ruolo di primaria importanza nello studio dell’aerodinamica ipersonica. I fenomeni connessi con questo regime di flusso, descritti nei paragrafi precedenti, sono in larga parte non ancora ben compresi e ne rendono la trattazione teorica impraticabile, se non con notevoli semplificazioni.

Anche da un punto di vista sperimentale, però, le problematiche che si incontrano nella riproduzione dei flussi ipersonici sono tutt’altro che irrilevanti ([17]). La grande quantità di fenomeni fisici che si innescano all’aumentare della temperatura fanno crescere esponenzialmente la dimensionalità del problema rendendo impossibile la riproduzione di tali fenomeni senza duplicare esattamente tutti i parametri del flusso reale. Questa via risulta comunque impraticabile nella maggior parte dei casi in cui si voglia studiare condizioni di volo di interesse pratico, come ad esempio quelle del rientro di un veicolo spaziale. In questo caso infatti possono essere richiesti valori di ristagno per temperatura e pressione, rispettivamente di 12000 K e 1000 bar. Quello che normalmente viene fatto nello studio sperimentale dell’aerodinamica ipersonica è, perciò, analizzare singolar-mente i diversi fenomeni, con tecniche e apparecchiature specializzate, in grado di replicare solo quei parametri di interesse per il fenomeno che si vuole studiare. Questa tecnica viene comunemente detta ‘simulazione’ e il suo grado di successo dipende fortemente da un’analisi preliminare del problema che si vuole studiare, nella quale se ne individuano i fenomeni caratteristici e i parametri fondamentali che è necessario replicare.

Il parametro più semplice da replicare è il numero di Mach, determinato unicamente dal rapporto delle aree dell’ugello, tuttavia al crescere del numero di Mach è necessario fare in modo che la temperatura in uscita non si abbassi a tal punto da provocare la liquefazione dell’aria1, e cioè fornire una sufficiente

temperatura totale in ingresso. Viceversa il numero di Reynolds, che nelle condizioni reali di volo è piuttosto alto, pone qualche problema in più, specialmente se deve essere replicato insieme alla temperatura statica (che al contrario sarà bassa). Questa difficoltà è subito evidente notando che, per un dato numero di Mach, sussiste la relazione

5 . 0 0T p L Re ω+ (1.9)

dove si è adottato la legge esponenziale per la viscosità con esponente ω. Qualche difficoltà si incontra anche per ottenere bassi numeri di Reynolds a causa dei fenomeni di non equilibrio nell’espansione del gas attraverso l’ugello, che come accennato nel paragrafo 1.2.6 hanno l’effetto di aumentare il numero di Reynolds e il numero di Mach. Problematica è anche la duplicazione della velocità di volo,

1 La temperatura statica alla quale si verifica il passaggio di stato è

strettamente influenzata anche dalla pressione totale, orientativamente si può considerare un valore compreso tra 30 e 50 K.

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poiché come noto, in un ugello la massima velocità in uscita è limitata dalla quantità 0 lim e 1RT 2 u − γ γ = (1.10)

corrispondente al caso di espansione infinita. In base alla (1.10), quindi, una velocità di 5 km/s richiederebbe una temperatura totale di 12000 K circa.

Nel corso degli anni sono state sviluppate diverse tipologie di gallerie del vento, con l’intento di ottenere flussi con caratteristiche sempre più vicine a quelle reali. Ognuna di esse è adatta ad operare in un certo range di temperatura e pressione totali, per cui la scelta del tipo di galleria da utilizzare è strettamente legata al fenomeno che si desidera riprodurre. Il fattore maggiormente caratterizzante per un impianto ipersonico è la tecnica con cui si genera il gas ad alta entalpia, ovvero il tipo di riscaldatore utilizzato, che a sua volta incide profondamente sul tempo di prova, sul grado di contaminazione del flusso, sui numeri di Mach e di Reynolds ottenibili, etc. Nella mappa di Figura 1.12 sono raffigurati i campi di impiego di vari tipi di gallerie ipersoniche in termini di temperatura di ristagno e tempo di prova.

Figura 1.12 Campo di applicazione dei vari tipi di gallerie ipersoniche in relazione alla durata della prova e alla temperatura totale ottenibili ([18]).

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1.4.1 Gallerie con riscaldatore ad arco

In questo tipo di impianti, il gas di prova viene riscaldato per mezzo di un arco elettrico fatto scoccare tra due elettrodi. Uno dei maggiori vantaggi di questa soluzione è il fatto che è limitato il contatto delle pareti solide con il gas ad alta temperatura, e questo riduce i problemi legati all’erosione e alla contaminazione del flusso permettendo il raggiungimento di temperature anche molto elevate (decine di migliaia di Kelvin).

L’efficienza di questo tipo di riscaldamento dipende fortemente dal rapporto tra il volume dell’arco elettrico e quello della camera all’interno della quale il gas viene riscaldato. L’arco elettrico, infatti, tende ad assumere un diametro molto piccolo, specialmente all’aumentare della corrente, a causa della costrizione esercitata dal campo magnetico autoindotto. Affinché vi sia un buono scambio termico è necessario che una grande quantità di gas entri a contatto con l’arco elettrico. Due soluzioni sono state studiate per aumentare il rapporto di volume dell’arco:

• aumentare corrente e voltaggio dell’arco a valori molto spinti (hotshot tunnels); • diminuire la sezione di passaggio del gas nella camera di riscaldamento (arcjet

tunnels).

1.4.1.1 Hotshot tunnels

In una galleria di tipo hotshot, il gas di prova è inizialmente contenuto in un’apposita camera (arc chamber), nella quale viene innescato un arco elettrico ad alto voltaggio. Generalmente l’alimentazione dell’arco viene affidata ad una batteria di condensatori, un sistema che permette di ottenere correnti elevatissime anche se per tempi molto brevi (pochi millisecondi). Inizialmente l’arc chamber è chiusa da un diaframma, che la separa dall’ugello di espansione, e che si frantuma quando la pressione all’interno della camera raggiunge il valore prestabilito in seguito all’accensione dell’arco. La rottura del diaframma provoca l’efflusso del gas attraverso l’ugello che raggiunge una condizione stazionaria dopo una decina di millisecondi per un tempo utile di prova di 20 ÷ 30 ms.

Grazie alle alte pressioni e temperature raggiunte nell’arc chamber, questo tipo di impianto permette di ottenere flussi ipersonici con numeri di Mach superiori a 20, senza incorrere in liquefazione, e con numeri di Reynolds sufficientemente alti. I maggiori problemi legati con gli hotshot tunnel sono dovuti alla contaminazione del getto, causata dalle elevate correnti dell’arco che, insieme alle elevate temperature nell’arc chamber, provocano una forte erosione degli elettrodi. E’ stato sperimentalmente osservato che il grado di contaminazione del getto può influenzare in maniera determinante le misure di scambio termico sulle pareti del modello, specialmente se nel gas di prova è presente l’ossigeno. Questo fenomeno attualmente limita l’utilizzo degli hotshot tunnel al solo azoto e a temperature totali inferiori a 4000 K. Per limitare gli effetti di erosione sono state studiate e sperimentate con significativo successo varie configurazioni di elettrodi.

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Figura 1.13 L’HOTSHOT 2 dell’Arnold Engineering Development Center (AEDC): una panoramica dell’impianto (in alto) e lo schema dell’arc chamber (in basso) ([19]).

1.4.1.2 Arcjet tunnels

In questo tipo di impianti l’efficienza dello scambio termico è incrementata diminuendo il volume dell’arc chamber, fino a ridurla ad un tubo sottile (constrictor) con i due elettrodi ai capi, nel quale risiede l’arco.

Esistono due possibili configurazioni. Nella prima il diametro del constrictor è inferiore a quello naturale dell’arco, esercitando quindi un’azione stabilizzante sull’arco stesso impedendogli di incurvarsi. Tale dispositivo prende il nome di wall-constricted arc heater. Poiché in questo caso le pareti del tubo sono a diretto contatto con l’arco elettrico, è necessario assicurarsi che esse non chiudano il circuito dell’arco. Per questo motivo il constrictor viene realizzato con un elevato numero di segmenti isolati tra loro con materiale ceramico. E’ inoltre necessario provvedere al raffreddamento del constrictor, date le elevate temperature che si raggiungono al suo interno. Questo, però, crea un forte gradiente radiale nelle proprietà del flusso a causa della differenza di temperatura tra il core e la parete. Tale inconveniente può essere superato ponendo una camera intermedia (plenum chamber), tra il constrictor e l’ugello, che favorisca il rimescolamento del gas. La plenum chamber ha inoltre l’importante funzione di attenuare i fenomeni dovuti

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al non-equilibrio ([20]) che, in impianti di questo tipo, coinvolge l’energia vibrazionale, le reazioni chimiche e, se la temperatura è sufficientemente alta, anche quelle di ionizzazione.

La maggiore limitazione alla pressione ottenibile in impianti wall-constricted arc heater è costituita dal sistema di raffreddamento. Supponendo infatti di operare ad entalpia costante, all’aumentare della pressione aumenterà in modo proporzionale anche la portata attraverso il constrictor, e quindi la quantità di calore che è necessario asportare. Orientativamente con un flusso di calore alla parete di 5 kW/cm2 la massima pressione ottenibile è di circa 12 atm, questo

significa che per mantenere un numero di Reynolds di almeno 106 il massimo

numero di Mach ottenibile è 5.

Nella seconda configurazione di arcjet tunnel, il diametro del constrictor è maggiore del diametro dell’arco. In questo modo è possibile ottenere pressioni fino a 30 atm, e quindi numeri di Mach superiori al caso precedente, a spese di una minore entalpia media del gas e una maggiore non stazionarietà, introdotta dalle deboli oscillazioni dell’arco. In questo caso non è necessario segmentare le pareti del tubo dato che esso non è in diretto contatto con l’arco elettrico.

Anche nelle gallerie arcjet uno dei maggiori problemi è costituito dalla contaminazione del getto a causa dell’erosione degli elettrodi. Come nel caso delle gallerie hotshot, questo fenomeno può avere enormi effetti sui risultati delle prove sperimentali poiché:

• modifica la composizione chimica del fluido, soprattutto in presenza di ossigeno;

• introduce particelle macroscopiche nel getto che quindi si comporta come un flusso bifase;

• aumenta la capacità radiativa del gas provocando una riduzione dell’entalpia media del flusso.

Per ridurre tale problema sono state studiate svariate soluzioni, soprattutto per quanto riguarda i materiali e la configurazione degli elettrodi.

Esempi di questo tipo di impianto sono lo Space Shuttle Interaction Facility della NASA e il già citato Plasma Wind Tunnel Scirocco del CIRA. La loro utilizzazione è rivolta principalmente ai test termici sui materiali di rivestimento delle navicelle spaziali.

1.4.2 Plasma tunnels

Questo tipo di tecnologia è una delle più promettenti attualmente disponibili, inizialmente sviluppata in Unione Sovietica negli anni ’70 è stata recentemente oggetto di una collaborazione russo-europea che ha portato alla realizzazione del già citato Plasmatron presso il Von Karman Institute. Essa adotta come generatore di gas ad alta entalpia una torcia al plasma, uno strumento che consente di ionizzare il gas mediante accoppiamento induttivo (Inductively Coupled Plasma o ICP).

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Il campo magnetico necessario per ionizzare il gas è creato per mezzo di un avvolgimento metallico alimentato con un generatore a radiofrequenza (tipicamente 400 ÷ 500 kHz) ad alto voltaggio (~2000 V). In questo modo possono essere raggiunte temperature totali dell’ordine di 10000 K che consentono di produrre flussi in grado di duplicare le condizioni reali di rientro atmosferico dei veicoli spaziali (Figura 1.14).

Figura 1.14 Condizioni di rientro atmosferico di alcuni veicoli spaziali replicate con gli impianti ICP del Von Karman Institute [15].

Il grande vantaggio delle gallerie ICP è la elevata qualità del flusso, che non essendo a diretto contatto con pareti solide ad elevata temperatura e quindi soggette ad erosione (come gli elettrodi di una galleria ad arcogetto), è privo di contaminazione. Inoltre, tali impianti, si prestano particolarmente al funziona-mento continuo e per questo motivo sono stati principalmente impiegati in test di resistenza al calore dei materiali, misure di scambio termico e studio del comportamento catalitico dei materiali per uso aerospaziale.

1.4.3 Gallerie impulsive

Come il loro stesso nome suggerisce, la caratteristica delle gallerie impulsive è quella di produrre flussi di breve durata. In compenso esse permettono di raggiungere prestazioni eccellenti in termini di temperatura e pressione di ristagno, con l’ulteriore vantaggio della relativa semplicità costruttiva. Di seguito verranno descritti due tipi di galleria impulsiva, i gun tunnels e gli shock tunnels.

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1.4.3.1 Gun tunnels

Un gun tunnel è costituito da un lungo tubo detto pump-tube, inizialmente riempito da un gas a bassa pressione (~1 atm). Ad una estremità del tubo è collegato l’ugello, inizialmente chiuso da un diaframma, mentre all’altra il pump-tube comunica con un serbatoio di gas (driver gas) ad alta pressione (~10 atm). Il gas ad alta pressione e quello a bassa pressione sono separati da un pistone mobile, inizialmente bloccato all’estremità del pump-tube opposta all’ugello.

Quando i fermi che bloccano il pistone vengono rimossi, quest’ultimo si mette in movimento lungo il pump-tube comprimendo adiabaticamente il gas all’interno fino ad un valore tale da rompere il diaframma ed entrare nell’ugello dando quindi inizio alla prova. Il tempo utile di prova è stimabile in qualche decina di millisecondi.

Figura 1.15 Diagramma x-t di un gun tunnel ([20]).

La velocità del pistone all’interno del tubo dipende dalla sua massa e consente di distinguere fra due diversi modi di operare. Se il pistone ha una massa elevata, la sua velocità sarà subsonica e la compressione del gas sarà quindi isoentropica. In questo caso sussiste la seguente relazione tra temperatura e pressione finali,

k 1 0 0 p p T T ⎟⎟ ⎠ ⎞ ⎜⎜ ⎝ ⎛ = con 1 k − γ γ =

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dove T0 e p0 sono rispettivamente la temperatura e la pressione iniziali nel

pump-tube e dove k = 3.5 se γ = 1.4. Con questo tipo di dispositivi non è quindi possibile ottenere temperature molto elevate (generalmente si hanno temperature di 1500 ÷ 1800 K), anche per elevati valori della pressione (fino a 2000 bar). Utilizzando invece un pistone leggero, questo sarà accelerato fino a velocità supersoniche, provocando una compressione per urto del gas di prova e consentendo di raggiungere temperature più alte.

1.4.3.2 Shock tunnels

Lo shock tunnel sfrutta come condizione di ristagno del fluido quelle che si formano all’estremità di uno shock tube dopo che l’onda d’urto è stata riflessa alla parete. Sostanzialmente uno shock tunnel è composto da uno shock tube, un lungo tubo con un diaframma che separa il gas ad alta pressione (driver gas) da quello a bassa pressione (driven gas) nel quale l’estremità inizialmente a bassa pressione è chiusa da un diaframma che la separa dall’ugello (Figura 1.16) e che si rompe quando la pressione raggiunge il valore prefissato.

Il tempo utile di prova è quello che intercorre tra la riflessione alla parete dell’onda d’urto e quella della superficie di contatto, che in genere non supera i 10 ms. La superficie di contatto è quella che separa il fluido della zona 3, che ha le stesse caratteristiche del driver gas iniziale, e quello della zona 2, che è costituito dal driven gas dopo che ha attraversato l’onda d’urto. I gas della zona 2 e 3 hanno stessa pressione e velocità, ma possono avere densità e temperature diverse.

Le prestazioni di uno shock tunnel possono essere molto elevate, con temperature di ristagno di oltre 5000 K e pressioni di ristagno di 2000 atm, che consentono di ottenere flussi con alti numeri di Mach (oltre 25) e numeri di Reynolds dell’ordine di 107.

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Bibliografia del Capitolo 1

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Figura

Figura 1.1 Thin Shock Layer ([1]).
Figura 1.2 Entropy Layer ([1]).
Figura 1.4 Effetto della viscosità ad alti numeri di Mach ([1]).
Figura 1.5 Schema qualitativo di interazione onda d’urto-strato limite ([1]).
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Riferimenti

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