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PREMESSA IL CONSIGLIO DIRETTIVO

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Academic year: 2022

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PREMESSA

Una splendida pagina tolta dal libro “La peste” di Camus: "Rambert che ai primi sintomi della peste cercava di mettersi in salvo, raggiungendo sua moglie e la sua terra oltre il mare, decise di non partire ma di restare. Si persuase che se fosse partito ne avrebbe avuto vergogna e questo avrebbe guastato il suo amore per colei che aveva lasciato. Inutilmente il dott. Rieux gli fece osservare quanto la cosa fosse stupida e che non c'è vergogna nel preferire la felicità.

"Sì", dice Rambert, "ma ci può essere vergogna nell'essere felici da soli". E a motivare la sua decisione di restare, aggiunse: "Ho sempre pensato di essere estraneo a questa città e di non aver nulla a che fare con voi. Ma adesso che ho veduto quello che ho veduto, so che il mio posto è qui, lo voglia o no. Questa storia riguarda tutti".

La storia del carcere riguarda tutti!

Oltre si può: per chi è recluso apre le porte alla speranza, alla possibilità di essere accolto dalla società, significa una nuova identità, nuovi rapporti affettivi, reperimento di una casa e di un lavoro, relazioni umane.

Per chi è libero (chissà chi lo è davvero?) guardare al carcere significa credere nell'uomo con interesse e passione, credere che l'uomo possa cambiare, credere che un sistema penale orientato alla sola forza coercitiva sia perdente, credere che la certezza della pena non corrisponda alla certezza del carcere e che maggior sicurezza non equivalga a maggior repressione.

Vorremmo fare nostra e diffondere una cultura della solidarietà nella consapevolezza che ogni persona è unica, irripetibile, con pari dignità, anche se diversa per vissuto, per pregi e per difetti.

Dall’incontro dei diversi vissuti nasce la solidarietà il cui frutto più maturo è la reciprocità; senza reciprocità la solidarietà è sempre un po’ perbenista, perché ti dà quel senso di soddisfazione per le cose belle che hai fatto per l’altro. Diventa invece autentica quando tu ricevi dall’altro, quando per un dono fatto c’è un dono accolto.

IL CONSIGLIO DIRETTIVO

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STATUTO

Dallo statuto dell'Associazione Il Bivacco:

Articolo 2: oggetto e scopo

L'Associazione non ha scopo di lucro e persegue, con attività di volontariato e facendo riferimento ai principi di ispirazione cristiana, esclusivamente finalità di solidarietà sociale nel campo dell'assistenza ai detenuti e del loro recupero e reinserimento nella società.

L'Associazione si propone di:

a) essere presente nella realtà del carcere per prestare attenzione alle necessità del recluso;

b) aiutare la famiglia del carcerato, favorendone, ove possibile, le relazioni con il familiare recluso;

c) favorire e contribuire attivamente al processo di riconciliazione tra l'attore dell'atto criminoso, la vittima del reato e la società; promuovere il consenso e l'adesione alla mediazione perché il reo e la sua vittima possano riflettere sull'evento che li ha visti contrapposti per trovare nuova comprensione dei fatti e far sì che il reo si assuma la responsabilità non solo nei confronti del diritto violato, ma anche nei confronti di chi ha subito la violazione;

d) esperire ogni azione volta a correggere i pregiudizi che sono alla base di ogni forma di emarginazione, sollecitando una maggiore sensibilità ed attenzione verso la realtà della detenzione ed ai problemi ad essa connessi;

e) rappresentare un valido riferimento nella ricerca di concrete soluzioni a situazioni di profondo disagio proponendo, in stretto collegamento con gli operatori pubblici, progetti ed interventi che facciano riemergere nelle persone detenute l'autostima e restituiscano ad esse motivazioni di vita;

f) esercitare un'azione di denuncia delle situazioni che pregiudicano la dignità ed i diritti delle persone recluse, un'azione di sprone nei confronti delle Istituzioni Pubbliche e un'azione di pressione per il miglioramento e la modifica di leggi e regolamenti inadeguati;

g) sviluppare rapporti con le Istituzioni del territorio e le altre organizzazioni sociali attivando un lavoro di rete finalizzato a sviluppare sinergie che creino condivisione e omogeneità di intervento, così da ottimizzare gli sforzi e da avere migliori possibilità di raggiungimento delle finalità condivise;

h) collaborare con gli organi giurisdizionali allo scopo di svolgere un'azione coordinata ed efficace nell'applicazione delle norme a favore dei detenuti;

i) strutturare percorsi educativo/formativi individuali da proporre alla persona, sia essa liberata o detenuta, per far riemergere nella stessa capacità relazionali che portino al superamento delle condizioni che generano esclusione sociale;

l) fornire assistenza ai liberati dal carcere, attivando quanto necessario a facilitare il loro reinserimento sociale;

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m) promuovere occasioni di lavoro in carcere e fuori; attivare e promuovere iniziative di formazione di base e professionale mirate a sviluppare competenze che facilitino l'accesso dei soggetti detenuti ed ex-detenuti al mercato del lavoro;

n) supportare ed arricchire di competenze specifiche gli operatori del settore per la gestione integrata delle problematiche connesse al reinserimento sociale e lavorativo di persone con un trascorso detentivo;

L'Associazione non può svolgere attività diverse da quelle sopra indicate, ad eccezione di quelle ad esse direttamente collegate o di quelle accessorie per natura a quelle statutarie, in quanto integrative delle stesse.

Articolo 3: associati

L'Associazione è composta da associati suddivisi nelle seguenti categorie:

Soci Operatori che a vario titolo prestano, con costanza ed impegno, la loro opera finalizzandola al mantenimento ed allo sviluppo dell'attività dell'Associazione.

Soci Ordinari che partecipano saltuariamente alla vita associativa e sostengono l'Associazione condividendone gli indirizzi e mettendo anche a disposizione le proprie professionalità.

Tutti gli associati prestano personalmente, spontaneamente e gratuitamente la loro attività e sono in possesso della tessera dell'Associazione. Tutte le cariche sociali sono gratuite. L'attività di volontario non è retribuita in alcun modo. Al Socio, che ne faccia espressa richiesta, possono essere rimborsate solo le spese vive sostenute per prestare la propria attività; dette spese devono essere regolarmente documentate e contenute entro i limiti indicati nei regolamenti dell'Associazione o autorizzati dal Consiglio Direttivo.

Possono essere Soci le persone fisiche che, condividendo le finalità ed i principi informatori del presente Statuto, rivolgono espressa domanda al Consiglio Direttivo dell'Associazione impegnandosi a rispettare Statuto e Regolamenti. L'ammissione è subordinata al parere favorevole del Consiglio Direttivo espresso con provvedimento motivato.

Ai Soci competono i seguenti obblighi:

accettare ed osservare le norme del presente Statuto ed i Regolamenti che disciplinano lo svolgimento dell'attività dell'Associazione; partecipare alla vita associativa; versare annualmente, entro il 31 marzo, la quota associativa fissata dal Consiglio Direttivo.

I Soci hanno diritto:

a partecipare alla vita dell'Associazione tramite anche l'espressione di voto ogni qualvolta sia previsto dal presente Statuto; al sostegno ed alla tutela da parte dell'Associazione quando svolgono la loro attività di volontariato; ad usufruire dei mezzi e della struttura organizzativa per il raggiungimento degli scopi dell'Associazione.

La qualifica di Socio si perde:

per recesso, per morosità,

per esclusione dovuta a gravi motivi, ritenuti tali dal Consiglio Direttivo.

Articolo 4: simpatizzanti e benemeriti

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Sono simpatizzanti dell'Associazione le persone che, pur non partecipando alla vita associativa, ne condividono gli scopi e gli indirizzi e contribuiscono al loro raggiungimento con il sostegno economico.

Sono benemeriti dell'Associazione coloro che la sostengono con versamenti in denaro o lasciti ritenuti di particolare rilevanza dal Consiglio Direttivo.

Alle persone simpatizzanti ed ai benemeriti non competono gli obblighi ed i diritti riservati ai Soci.

STORIA

La storia dell'associazione Il Bivacco inizia oltre dieci anni fa, nel 1989, quando un ristretto gruppo di persone, legate da rapporti di amicizia ed da comuni esperienze di volontariato nel campo dell'handicap, sceglie di occuparsi di detenuti ristretti nella Casa di Reclusione di Milano - Opera.

Una ragazza non deambulante ha un fratello agli arresti domiciliari: risulta spontaneo ricercare i modi per aiutarlo a riprendere un percorso rinnovato di vita.

Si tratta di un diverso tipo di problematica rispetto all’handicap, di un nuovo mondo. Rapportarsi con una istituzione totalizzante come il carcere è difficile, la nuova realtà è piena di contraddizioni e pone interrogativi inquietanti.

Il carcere appare da subito come la rappresentazione più autentica dei problemi sociali irrisolti, il luogo dove spesso relegare i figli del disagio, delle famiglie inesistenti, della scuola da sempre formatrice di orizzonti ideali e dell'insufficienza dei servizi assistenziali.

Si tenta, spinti solo dalla buona volontà, di creare un collegamento tra il carcere ed il mondo libero; alle spalle non c’è ancora alcuna struttura ben definita.

Costruire relazioni significative con persone detenute, senza una valida organizzazione, non ha speranza di continuità e di efficacia. Manca un confronto sistematico e la possibilità di avere tenuta nel tempo, con il rischio di creare illusioni e false aspettative.

Nel 1991 prende formalmente vita l’associazione Il Bivacco, dandosi un proprio statuto. E’ una fase in cui l’impegno degli associati è soprattutto quello di garantire la presenza all’interno del carcere: colloqui con i detenuti, disbrigo di pratiche burocratiche, organizzazione di attività artigianali e ludiche, promozione di incontri e di scambi tra detenuti e persone impegnate nel sociale o in politica, costruzione di un rapporto di confronto/collaborazione con la Direzione del carcere.

La presenza in carcere è sì un’azione prioritaria, ma non è sufficiente se la finalità dell’associazione vuole essere quella di “restituire” il carcere al territorio.

Dall'estate del 1992 quattro ergastolani, detenuti nella Casa di Reclusione di Milano - Opera, lavorano al computer traducendo su floppy disk libri ad uso dei ciechi e dei disabili in genere.

E’ questa una particolare attività che Il Bivacco ha sostenuto ed ha collaborato a sviluppare.

Che quest’idea sia venuta in mente ad alcuni ergastolani non è casuale. Anche i primi testi in braille, una ottantina d’anni fa, furono preparati da amanuensi reclusi nel carcere di Marassi (Genova).

E questa attività da "amanuensi informatici" è rivolta proprio a chi non può usare gli occhi o le mani per leggere: ciechi, persone costrette all'immobilità nel corpo.

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Il testo computerizzato ha bisogno di varie modifiche rispetto al modo in cui è impostato per i "normodotati". La struttura tradizionale del testo risponde ad una logica visiva e presuppone l’utilizzo delle mani. In questo senso tecnico, i quattro ergastolani non sono semplici amanuensi, ma dei rielaboratori di testi:

da una logica visiva a una logica che sia insieme tattile, uditiva e visiva.

Diversamente dal libro tradizionale, il libro elettronico così concepito non può trovare una diffusione sufficiente per attirare investitori, in quanto interessa esclusivamente una minoranza di persone.

L’impossibilità di trarre profitti rappresenta la principale difficoltà a migliorare le condizioni di dialogo e di comunicazione delle persone disabili.

Ciò dimostra che ogni disabilità è relativa: sono certe condizioni sociali o

“disattenzioni culturali” facilmente superabili a determinare un sovrappiù di handicap. Allo svantaggio fisico si aggiunge l’ulteriore handicap nella comunicazione che diventa particolarmente grave quando impedisce o limita fortemente la lettura. All’handicap fisico si sovrappone, come nel nostro caso, una condizione di “prigionia” determinata da ragioni culturali e sociali.

Il Bivacco offre attualmente oltre 1.300 opere, rese già disponibili all'Unione Italiana Ciechi e ad altre associazioni di disabili.

Nel 1994, uno dei soci fondatori rende disponibile, presso la propria abitazione, un monolocale che rappresenterà, sino al 1996, l’unica possibilità per l’associazione di accogliere detenuti in permesso premiale.

L'accoglienza non è solo disponibilità di alloggio, ma offerta di opportunità per percorrere insieme un nuovo cammino.

Nello stesso anno l’associazione procede all'iscrizione nel Registro Regionale del Volontariato al fine di poter strutturare rapporti con l’Ente Pubblico che rendano più qualificato il proprio intervento.

LAVORO PER PROGETTI

SEDE E CASA ALLOGGIO

Nel 1996, grazie anche ad un contributo della Regione Lombardia, l’associazione si dota, in Melegnano, di una propria sede con annessa casa alloggio.

La scelta di ubicare la sede a Melegnano, presso un immobile concessoci in locazione da un privato, è stata condizionata dall’impossibilità di disporre, nell’immediato, di un’altra struttura di proprietà pubblica, ecclesiale o del privato sociale a prezzo agevolato.

CARCERE E TERRITORIO: A PORTE APERTE

Nel 1997 il Bivacco si è fatto ente promotore e gestore di un progetto di sperimentazione di servizi innovativi nella costruzione di politiche sociali rivolte al reinserimento di persone detenute ed ex detenute, dal titolo:

“Carcere e territorio: a porte aperte”, approvato e sostenuto dalla Regione Lombardia.

La specificità del progetto di sperimentazione, che ha avuto durata biennale, si qualifica in relazione all’oggetto di lavoro identificato: connettere carcere e territorio, detenuti e sistema sociale, attraverso un processo di reciprocità.

A tal fine è entrata pienamente in funzione la nostra sede, da noi integralmente ristrutturata, a Melegnano (MI) in Via Castellini, 72, costituita da numerosi locali che ospitano la Casa di Accoglienza, il Centro Servizi, e la Cooperativa Sociale Soligraf.

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La Casa di accoglienza è costituita da due monolocali, destinati ad ospitare, per la fruizione dei permessi premiali, detenuti sprovvisti di altra idonea possibilità; nella medesima struttura vi sono inoltre due alloggi assegnati a detenuti in misura alternativa.

Nella Casa di Accoglienza i detenuti incontrano una “comunità”, delle opportunità lavorative, delle relazioni di aiuto che restituiscono loro parte di una nuova identità sociale e che generano affidabilità, competenze, fiducia consentendo loro di esprimersi in contesti di “normalità”.

Una ulteriore opportunità per soddisfare le esigenze abitative di chi viene liberato dal carcere è rappresentata dai cinque alloggi, siti in Milano, che l’ALER (Azienda Lombarda Edilizia Residenziale), dal 1999, ci ha concesso in locazione per 16 anni a condizione di curarne la ristrutturazione e la messa a norma degli impianti e dalla disponibilità di un alloggio di nuova costruzione che il Comune di Melegnano ci ha messo a disposizione per le nostre finalità.

La Caritas Ambrosiana e due privati, che hanno scelto l’anonimato, ci hanno sostenuto economicamente per realizzare gli anzidetti lavori di ristrutturazione.

La vera centrale di coordinamento per un concreto reinserimento dei detenuti è il Centro Servizi che ha tra i suoi principali obiettivi quello di creare collegamenti strutturati tra il carcere ed i soggetti esistenti sul territorio, quali le pubbliche istituzioni, la comunità civile e le risorse del volontariato e dell’imprenditoria.

La Comunità, attraverso l’azione di sensibilizzazione promossa dal Centro Servizi, viene sollecitata a riflettere e a mettere in campo energie costruttive per concretizzare spazi di incontro, di lavoro e di vita a sostegno del processo di emancipazione delle persone in stato di detenzione.

Punto di riferimento per chi voglia conoscere l’Associazione e le sue finalità, fornisce supporto organizzativo per gli incontri fra gli operatori ed è di ausilio per la documentazione e per la predisposizione del materiale informativo/divulgativo, predispone il calendario degli incontri e degli interventi, effettua la raccolta di dati ed informazioni strutturando banche dati, predispone la rassegna stampa, redige progetti di formazione per operatori, elabora progetti di formazione per utenti, valuta la convenienza di eventuali commesse di lavoro predisponendo appositi “business plan”, effettua studi di impresa e sostiene l’avvio di nuove realtà produttive.

Il Centro Servizi elabora progetti mirati nel settore dei servizi alla persona deviante e ne effettua un’azione di monitoraggio periodica per garantire standards qualificati ed omogenei nelle prestazioni.

Promuove lo scambio di informazioni, valutazioni e proposte con gli operatori istituzionali e sociali al fine di favorire un’integrazione operativa, nel rispetto dei ruoli e delle competenze, secondo un indirizzo unitario.

Svolge fra tutti gli attori coinvolti un’azione di stimolo alla comunicazione, di confronto sulla programmazione e di condivisione degli intenti e degli interventi; ciò al fine di tessere un lavoro di rete che generi risposte concrete ed adeguate.

I diversi punti di osservazione consentono la costruzione di un quadro più ampio e sfaccettato, magari diverso da quello prefigurato da ogni singola angolazione, ma dove la diversità diventa un punto della rete sociale, tutti i soggetti sono ugualmente referenti significativi per il bagaglio di risorse umane, professionali e di esperienze, di cui sono portatori.

La Cooperativa Sociale Soligraf, avendo un ampio oggetto sociale, è divenuta riferimento ottimale per la gestione di tutte le neonate attività produttive attivate dall’Associazione Il Bivacco dentro e fuori il carcere.

Il Centro Servizi ha supportato la dirigenza della Cooperativa Soligraf nel delicato passaggio verso una forma compiuta di imprenditorialità sociale rafforzandone la capacità di sopravvivenza autonoma sul mercato; in tal modo il

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profitto di impresa diviene lo strumento capace di consentire ulteriori inserimenti lavorativi, puntando al circolo virtuoso “inserimento – ricollocazione - inserimento” al fine di realizzare sinergicamente, cooperativa e Centro Servizi, un sistema capace di generare successo di completamento dei progetti di reinserimento sociale.

Soligraf, cooperativa di inserimento lavorativo, promuove l’orientamento del detenuto alla comunità attraverso il lavoro inteso come strumento di crescita e di valorizzazione della persona attraverso la solidarietà, la responsabilizzazione e la creatività del singolo.

FALEGNAMERIA: DENTRO E FUORI

Valutata l’importanza del lavoro come strumento d’integrazione sociale, di fronte ad un comportamento discriminatorio dei datori di lavoro nei confronti delle persone con problemi di giustizia, vista la necessità di dare risposta ad un’esplicita ed incalzante domanda di inserimento lavorativo anche al fine di consentire l’accesso alle misure alternative alla detenzione, nel 1997 abbiamo progettato l’avvio di un’attività artigianale di falegnameria prevedendo l’allestimento di due laboratori, uno all’interno del Carcere di Milano-Opera e l’altro all’esterno.

Nella fase di realizzazione si sono evidenziate molteplici difficoltà per lo più riconducibili a tutte quelle limitazioni che sono strettamente connesse ad una struttura totalizzante come il carcere. In aggiunta si sono riscontrate serie difficoltà nel reperire risorse umane idonee e tecnicamente qualificate che supportassero validamente l’attività produttiva.

Nel corso del 1999, per uscire da una situazione di stallo, in partnership con la cooperativa Galdus, è stato presentato e approvato un progetto di formazione, a valere sul Fondo Sociale Europeo, che ha consentito anche la realizzazione di piccole commesse di lavoro. E’ previsto un ulteriore corso formativo di specializzazione al termine del quale sarà effettuata la selezione di alcuni corsisti ritenuti idonei a divenire soci della costituenda cooperativa sociale.

OLTRE IL MURO

Gli obiettivi del progetto, presentato al Comune di Milano nel 1999 e approvato dallo stesso nell’anno 2000, sono finalizzati ad individuare percorsi di accompagnamento educativo e di accoglienza per il reinserimento sociale e lavorativo di ex detenuti e di detenuti ammessi alle misure alternative alla pena.

I contenuti del progetto si concretizzano nell’offrire disponibilità di accoglienza in strutture abitative “protette” strutturando progetti individuali che permettano al detenuto di ricostruirsi una nuova identità e contestualmente realizzando un lavoro di sensibilizzazione e di promozione nei confronti della comunità.

Da questa esperienza di accoglienza, parte integrante di un percorso di accompagnamento di durata anche superiore all’anno, che ha dato risultati molto positivi ai fini dell’accrescimento delle nostre competenze metodologiche ed organizzative, l’associazione può oggi programmare interventi più articolati e prevedere la partecipazione a progetti di più ampio respiro.

DIETRO LE SBARRE: NON SOLO BIANCO

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Il progetto, ideato all’inizio del 2000, vuole offrire un’opportunità di integrazione nel tessuto sociale alle persone detenute extracomunitarie, con l’introduzione nell’équipe di accompagnamento del “mediatore culturale”.

La partecipazione degli stranieri ad attività devianti costituisce un fattore determinante dell'involuzione dell'atteggiamento degli italiani verso gli stranieri.

Siamo passati da una fase di neutralità, negli anni ‘70, ad una fase di inconsapevolezza che copre la prima metà degli anni ’80 e, da una fase di emergenza che riguarda la seconda metà degli anni ’80, a quella dell'etichettamento, nella quale lo straniero si trasforma da problema sociale in problema di ordine pubblico, da soggetto indesiderato a soggetto socialmente pericoloso: il suo stereotipo tende a divenire il suo principale elemento definitorio facendo crescere la distanza sociale.

In questo contesto la condizione carceraria trova il punto di maggior criticità nel momento in cui il detenuto extracomunitario si trova ad affrontare lo spazio tra una condizione di piena reclusione e l’affacciarsi al mondo esterno.

Le ragioni sono da ricercarsi da un lato nel difficile percorso di riorientamento soggettivo intrapreso dalle persone straniere liberate e dall’altro nella forte resistenza (stigma, pregiudizio) presente nell’ambiente che rende difficile il processo di reinserimento sociale.

Le azioni sono rappresentate dalla disponibilità di accoglienza in strutture abitative a ex detenuti e a detenuti extracomunitari che possono usufruire delle misure alternative alla pena detentiva e che non sono nelle condizioni di accedere a tali misure, perché privi di riferimenti parentali o impossibilitati al rientro nel paese di origine, e dall’individuazione di mirati percorsi di accompagnamento.

CARCERE: PERCORSI DI TUTORING

In considerazione della stipula, nell’ultimo biennio, dei seguenti protocolli:

• “Protocollo d’intesa” tra la Regione Lombardia ed il Ministero di Grazia e Giustizia che prevede al cap. 3 (interventi trattamentali) “la creazione delle condizioni utili ad attivare un efficace rapporto di collaborazione tra Amministrazione Penitenziaria, Giustizia Minorile, Ente Locale e Organizzazioni di Volontariato” e che “gli interventi a favore delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale in forma totalmente o parzialmente extra murale rivestono per la Regione carattere di particolare importanza”;

• “Protocollo d’intesa” tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che sottolinea l’impegno ad una reciproca collaborazione ed alla promozione di interventi mirati;

e dell’emanazione della Circolare n. 3528/5978 del 18/07/00, da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, diretta a tutti gli istituti e servizi periferici e che evidenzia il ruolo di tutto rilievo del volontariato nell’azione trattamentale;

ed al fine di meglio qualificare l’intervento/azione in questa specifica area del disagio, il Centro Servizi de Il Bivacco ha recentemente redatto un progetto denominato "Carcere: percorsi di tutoring".

La finalità del progetto è quella di restituire alla comunità persone

“socialmente competenti”, capaci cioè di individuare modalità di emancipazione personale attraverso azioni diverse da quelle illecite. Tale finalità si sviluppa mediante l'individuazione di un percorso di tutoring mirato al reinserimento sociale e lavorativo di ex detenuti e di detenuti che vengano ammessi alle misure alternative alla pena detentiva.

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La figura del tutor si definisce attraverso la funzione dell'accompagnamento alla persona nella fase di orientamento verso la collettività, mediante un percorso concreto, programmato nel tempo e verificabile nei risultati.

Orientare alla comunità significa creare opportunità, cioè condizioni nelle quali il detenuto valorizza la legalità dentro di sé, e nei rapporti valorizza la legalità e la comunità compiendo un percorso di promozione delle opportunità.

L’azione del tutor si manifesta attraverso momenti di consulenza, di riflessione guidata, di stimolo allo sviluppo di una personale capacità di autogestione e dell’elaborazione di un percorso di reinserimento di cui l’aumento dell’autostima, la percezione di sé come padrone delle proprie azioni, l’idea di sé come protagonista delle proprie scelte rappresentano il fondamentale punto di arrivo.

Il tutor e’ un operatore e non un semplice volontario, perché dispone di competenze di cui è consapevole e costruisce percorsi “intenzionali” e rigorosi sul piano del metodo; svolge ruoli operativi che non si sovrappongono a quelli istituzionali/professionali ed esercita un'azione di integrazione e sinergia di rete tra le istituzioni penitenziarie e giudiziarie, le imprese e le realtà socio-assistenziali e di volontariato del territorio.

Questo lavoro risponde alle esigenze collettive di sicurezza, con la convinzione che l’equazione polizia + carcere = sicurezza è un inganno, un tragico e pericoloso errore che semplifica problemi ben più complessi. La collettività non è più sicura quando la distanza tra i “buoni” ed i “cattivi” aumenta. La comunità è più sicura se chi ha violato le regole del patto sociale riesce a ri- apprendere, nei suoi rapporti con le istituzioni, con gli operatori, con i suoi simili, che è possibile, anzi conveniente, ri-definirsi e sperimentarsi come soggetto in grado di assumersi le proprie responsabilità, di autodeterminarsi all’interno di vincoli, regole, convenzioni sociali, peraltro mai fisse ed immutabili.

METODOLOGIA

PERCORSI DI ACCOMPAGNAMENTO

L’esigenza di lavorare in una rete di integrazione tra servizi diversi richiede di muoversi con orientamenti definiti e progettualità che sappiano fare interagire i vari contributi in un unico linguaggio comune.

L’utilizzo di un progetto personalizzato, inteso come piano di lavoro orientativo che identifichi tappe e indicatori significativi, essendo lo stesso anche somma di strumenti (schede, relazioni, diario, questionari), permette di oggettivare lo schema del percorso e di mettere in comunicazione i diversi soggetti coinvolti.

E’ opportuno che fin dalla fase iniziale della elaborazione del progetto siano molto chiari e condivisi da tutti gli attori le aspettative, gli obiettivi, i ruoli di ciascuno, i tempi, i flussi informativi e i punti deboli che possono costituire un impedimento alla riuscita del progetto.

Durante il percorso, il progetto sarà tanto più completo e preciso quanto maggiore sarà lo scambio di informazioni tra tutti gli interlocutori circa i fatti più significativi che cambiano o incidono sul percorso del cliente.

L’azione di accompagnamento prende le mosse da una premessa irrinunciabile: la specificità di ogni persona.

Partendo da questo assunto non possiamo che strutturare un metodo finalizzato alla conoscenza della persona cliente, delle sue caratteristiche, dei tratti della sua personalità e della sua identità di persona adulta.

Si tratta di una metodologia fondata sull’abilità di verifica e di correzione in corso, al cui interno si cerca di associare allo stesso modo tutti i partners:

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il cliente, il tutor, l’équipe, gli operatori pubblici e del privato sociale. Il confronto fra i diversi soggetti consente di contenere le possibili distorsioni soggettive, permettendo di raggiungere la miglior obiettività nelle diverse fasi del percorso.

L’anamnesi sarà composta da una fase descrittiva della storia del soggetto e dalla raccolta di informazioni utili al suo reinserimento: curriculum vitae, aspetti generali della personalità, valutazione delle capacità, lo stato dei legami affettivi primari, le aspettative, gli interessi, le risorse materiali di cui il soggetto dispone, carriera deviante e situazione giudiziaria.

Nell’elaborazione del percorso giuoca una parte rilevante il periodo detentivo:

il comportamento, la considerazione che gli altri reclusi ne hanno, il ruolo che si è ritagliato all’interno della comunità detenuta, l’analisi trattamentale effettuata dagli operatori penitenziari.

E’ compilata una scheda personale di rilevazione dei dati nel tempo testata ed affinata e soggetta a verifiche periodiche.

Se si tratta di un progetto che prevede anche un percorso di inserimento lavorativo, in collaborazione con un referente dell’impresa profit o non profit, verrà redatta la scheda di valutazione dello sviluppo professionale, ad inizio e fine percorso.

La fase di raccolta dati si pone l’obiettivo di conoscere il cliente, predisponendo le basi per l’attuazione del patto - contratto con l’Associazione.

Nel corso del cammino di reinserimento sociale l’équipe di accompagnamento si avvale di strumenti descrittivi e valutativi sottoposti ad aggiornamenti periodici; i singoli tutors utilizzano lo strumento diario per una valutazione pertinente e funzionale del comportamento del cliente in modo da identificarne i punti forti/deboli, i bisogni e gli obiettivi realizzabili.

Il sistema di valutazione e di verifica si prevede a frequenza trimestrale, con la presenza del responsabile del progetto, del tutor, di due componenti l’équipe di accompagnamento, dell’operatore pubblico della mediazione all’inserimento socio/lavorativo, del referente dell’impresa, se trattasi di inserimento lavorativo e, quando le condizioni lo permettono, anche dell’interessato alla verifica, dando valore reale alle sue autovalutazioni.

In questa sede vengono aggiornate le schede, lette le relazioni, consultato il materiale raccolto, visitati i diari, evidenziati i nodi problematici, i progressi conseguiti e gli obiettivi raggiunti. Si decide l’opportunità o meno di continuare il percorso, si formulano gli adattamenti necessari al buon esito del progetto e si verbalizza l’esito della verifica.

Il termine del progetto personalizzato non può essere inteso rigidamente, in quanto la data finale è variabile in base agli esiti della verifica.

Per la buona riuscita del percorso di accompagnamento, il tutor dell’Associazione non deve ritenere che sia sufficiente seguire tutte le fasi del percorso e provvedere alla compilazione scrupolosa delle schede di rilevazione. Il successo del percorso di reinserimento sociale non dipende certo da un’attenzione burocratizzata finalizzata alla registrazione asettica di avvenimenti ma dall’attenzione che il tutor ha dedicato all’ascolto, al suo

“camminare con” lungo un percorso definito insieme, dalla sua capacità di stabilire una relazione empatica.

Il tutor diventa “compagno di viaggio”, non controllore; dà fiducia e richiede l’osservanza delle regole stabilite consensualmente, è rispettoso dei tempi di crescita e di cambiamento di ciascuno.

PERCORSO DI INSERIMENTO LAVORATIVO

All’interno del quadro complessivo di intervento, il lavoro, inteso come fattore sociale di formazione, di normalizzazione e di integrazione, diviene strumento importante per l’azione di reinserimento sociale.

Il progetto individuale evidenzia i criteri per il reinserimento lavorativo sul piano qualitativo, tipologico e metodologico. Nello specifico: le capacità

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lavorative del soggetto, le esperienze lavorative e formative pregresse, le mansioni che maggiormente rispondono alle abilità dell’utente, l’analisi dell’offerta di lavoro e la ricerca dell’impresa disponibile ed idonea all’inserimento, l’individuazione del referente aziendale, la definizione degli obiettivi e dei tempi, la formulazione dei percorsi formativi, la definizione dello strumento di mediazione all’inserimento lavorativo (stage, tirocinio, borsa lavoro, integrazione salariale, ecc.), la definizione della tipologia e dell’inquadramento contrattuale, i tempi e le modalità di verifica.

Il percorso di inserimento lavorativo prevede l’acquisizione graduale e contemporanea dei tre livelli fondamentali di apprendimento: conoscenze teoriche, pratiche e responsabilizzazione gestionale.

Le fasi del percorso sono così definite:

• socializzazione,

• entrata e tenuta della dimensione lavorativa globale,

• apprendimento dei compiti,

• autonomia organizzativa.

AZIONE DI SENSIBILIZZAZIONE

Con l’azione di sensibilizzazione ci proponiamo di produrre la cultura dell’accoglienza e dell’accettazione delle diversità.

La sperimentazione è stata condotta secondo una metodologia attiva e di animazione della comunità.

L’attività di sensibilizzazione ha riguardato, secondo la specificità degli obiettivi che si sono voluti perseguire, due categorie di destinatari: mondo giovanile ed imprenditoriale.

Quest’azione rivolta ai ragazzi delle scuole medie superiori, degli oratori, degli scouts e dei gruppi giovanili ha per obiettivo:

• far comprendere che il detenuto possiede risorse di ricostruzione delle propria identità in quanto persona capace di cambiamento;

• favorire l’avvicinarsi dei giovani a realtà sconosciute, quale è il carcere, per superare i pregiudizi che creano emarginazione;

• sopperire alla cronica mancanza di informazione e correggere quella distorta proveniente da mass media i quali non fanno altro che diffondere interessi morbosi nei confronti di vicende giudiziarie particolari che di ben altri elementi e conoscenze necessitano per essere compresi;

• recuperare sinergie sviluppando o potenziando il rispetto verso l’altro ,inteso comunque come risorsa della comunità.

Quest’azione rivolta alle associazioni di categoria e sindacali ha per obiettivo:

• far comprendere l’importanza del lavoro per la persona detenuta;

• fornire informazioni normative in materia di lavoro e di fiscalità inerenti il rapporto di lavoro inframurario ed extramurario;

• informare sugli strumenti di mediazione per l’inserimento lavorativo individuando gli enti pubblici competenti;

• sottolineare l’importanza di una formazione che consenta l’acquisizione di professionalità specifiche, anche artigianali;

• verificare la potenziale offerta di lavoro del mercato;

• far conoscere l’imprenditoria sociale e stimolare l’offerta di commesse di lavoro alle organizzazioni non profit.

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RETI DI COLLEGAMENTO

Elenchiamo una serie di rapporti e di relazioni che caratterizzano il nostro operare:

• Movi, Seac, Caritas Ambrosiana, Scout, Gruppi Parrocchiali, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, coordinamento associazioni di volontariato del Sud-Milano e altre associazioni di volontariato (Sesta Opera, Incontro e Presenza e C.I.A.O.).

• Consorzio Nova Spes, Consorzio C.S.C., C.G.M. Consorzio Gino Mattarelli, SIS (Sistema Imprese Sociali), Agenzia di solidarietà per il lavoro, Consorzio Terzo Sistema (Consorzio Cooperative Sociali del Lodigiano e del Sud Milano), Coordinamento delle cooperative sociali di tipo B del Sud Milano, Soligraf cooperativa sociale, Art. 3 Piccola Cooperativa Sociale.

• Regione Lombardia, Presidenza della Provincia di Milano, Comune di Milano (Ufficio Formazione lavoro ed Adulti in difficoltà), comuni di Melegnano, S.Donato Mil., S.Giuliano Mil., Lodi, Peschiera B., Cernusco, Rozzano, Opera e Pavia (Assessorati e Servizi Sociali), ASL 1 e 2 e ASL di Lodi (S.i.l.

Servizio Inserimenti Lavorativi e Ser.t. Servizio Tossicodipendenze), Direzione Carceraria (Direttori, educatori e specialisti), Tribunale di Sorveglianza di Milano, CSSA (Centro Servizi Sociali Adulti) di Milano, Comitato carcere, lavoro e territorio, Facoltà di Sociologia e di Scienza della Educazione di Milano.

• Assolombarda, Associazioni di categoria, Associazioni Sindacali, Sodalitas, Aldac.

TESTIMONIANZE

Helmutl Egger

(Internato in licenza lavorativa)

Un anno fa, quando, dopo sedici anni trascorsi in carcere, ho messo piede nella Casa di Lavoro di Saliceto San Giuliano per essere “preparato alla progressiva integrazione nella società civile”, mi chiesi sgomento: e adesso? Come sarà il tuo futuro? Mi trovai ad un bivio della vita: o accettare questa “progressiva integrazione”, oppure aspettare la prima licenza per dileguarmi e continuare la vita di una volta.

Mi decisi per la prima strada, anche se allora non mi resi ben conto quante difficoltà avrebbe comportato tale scelta. Si, perché ben presto mi resi conto che il programma di reinserimento previsto per chi aveva scelto questo passo veniva addossato dallo Stato totalmente al soggetto desideroso di reinserirsi.

Dunque, dovevo trovare da solo la strada del ritorno nella società.

Però, come? Come migliaia di compagni detenuti, ero solo, non avevo nessuno fuori che mi aspettava, che mi dava una mano, un lavoro, un alloggio. E allora, senza mezzi di sostentamento, abbandonato dallo Stato che si preoccupa solo di isolarti dalla società ma non di reintegrarti in essa, dove avrei potuto andare?

In questo momento di angosciosa incertezza davanti al bivio del proprio futuro, una fortunosa circostanza s’incaricò ad indicarmi la strada da scegliere: un amico mi mise in contatto con l’associazione “IL BIVACCO”, un’associazione di volontari che si interessava della sorte di detenuti ed ex detenuti, e così, avuto la loro disponibilità ad ospitarmi, potei ottenere la prima licenza.

Ora, questa licenza non era solo un mezzo per trascorrere, dopo tanti anni, finalmente, qualche giorno in libertà, ma era molto, molto di più: era il primo passo verso la reintegrazione nel mondo civile!

Questa licenza mi permise di interrogarmi profondamente sulle mie intenzioni per il futuro, di affrontare le prime difficoltà con un appoggio morale alle spalle, e soprattutto di cercare un lavoro e un alloggio, condizioni essenziali per

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ottenere dalla Casa di Lavoro una licenza lavorativa prolungata. Si decideva il mio futuro: essere libero o essere prigioniero e, non solo in senso materiale, ma anche e soprattutto in senso spirituale. Ecco, allora capii le parole che molti anni prima l’allora Cardinale di Venezia e futuro papa Giovanni XXIII pronunciò in una predica a noi ragazzi del riformatorio: “non è libero chi ha lasciato dietro di sé le mura di un carcere, ma bensì chi è riuscito ad abbattere il muro che il passato ha eretto intorno al suo cuore”.

Ma abbattere questo muro non è facile; esso richiede tanta forza, volontà, fortuna e una mano tesa che ti guidi, che ti sorregga quando rischi di inciampare.

Ecco, io questa mano l’ho trovata nell’associazione Il Bivacco, nei suoi assistenti volontari. Non solo perché mi hanno dato al momento giusto ospitalità, ma perché mi hanno dato la loro amicizia, il loro tempo, la loro dedizione, quando avevo bisogno di sfogarmi, di lamentarmi contro le difficoltà della vita quotidiana, o quando semplicemente avevo bisogno di confidare a qualcuno le mie ansie, i miei sentimenti, i miei ricordi.

E questo è molto di più di quanto possa dare lo Stato con le sue istituzioni.

Forse un giorno questi si ricorderà dei suoi doveri che ha assunto con la Riforma Penitenziaria e si assumerà gli oneri del reinserimento sociale di chi ha oltrepassato le soglie della società civile; ma mai potrà sostituire quello che queste persone, che hanno dedicato la loro vita, la loro esistenza ad altre persone in difficoltà, hanno donato: la loro umanità, il loro essere stesso.

Spero che essi possano preservare sempre questo grande dono di umanità e di dedizione sociale e ch’essi si ricorderanno, anche quando le difficoltà che incontreranno sulla loro strada peseranno come macigni sulla loro coscienza e minacceranno di intaccare la loro fede nel loro lavoro e nella loro opera, ch’essi sono per molti esseri come me l’unica luce che li aiuterà ad uscire dal lungo tunnel oscuro che la vita li ha fatto imboccare.

Giancarlo Milani

(affidato al Servizio Sociale)

Penso che sia giusto portare la mia testimonianza in occasione del convegno che l’associazione Il Bivacco ha organizzato sabato 20 gennaio 2001 nell’aula consigliare del comune di Melegnano dal titolo: “Oltre si può”.

La mia è una testimonianza diretta di chi il carcere lo ha vissuto in espiazione di pena.

“IL BIVACCO” nella sua decennale attività , fuori e dentro i penitenziari, ha saputo rimuovere situazioni difficili, promuovere contatti tra detenuti e familiari e, quando è stato possibile, tra detenuti e vittime del reato.

Per il tramite di propri associati, assistenti volontari presenti nella Casa di Reclusione di Milano – Opera ed in altre case circondariali, ha contatti quasi giornalieri con questa “umanità” spesso dimenticata sostenendola moralmente e materialmente.

Numerosi sono i detenuti che usufruiscono di permessi premio nei locali del Bivacco e che vi trovano accoglienza per altri benefici alternativi al carcere.

Attraverso la Cooperativa Sociale Soligraf, emanazione e, ad onor del vero, sostegno economico del Bivacco, alcuni di noi hanno trovato una concreta opportunità di lavoro ed un ambiente estremamente favorevole ad un effettivo reinserimento nel contesto sociale.

Appare del tutto inutile continuare oltre.

Il più grande riconoscimento per l’attività di associazioni come il Bivacco è stato fatto da un alto Magistrato (Dr. Giancarlo Zappa), ora a riposo, e per molti anni presidente di un Tribunale di Sorveglianza di Brescia, che nel suo commento al Codice di diritto penitenziario (La Tribuna Editore) così scriveva:

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”E’ doveroso riconoscere la grande funzione svolta nei penitenziari dal volontariato, che ha aperto con coraggio strade un tempo impraticabili, ha dato indicazioni precise, ha fornito esempi agli Enti Istituzionali che spesso sono lenti nel cogliere le novità e nell’avviare una loro specifica e concreta azione”.

L’altruismo del volontariato, la dedizione di queste persone che spesso sottraggono parte del loro tempo anche agli affetti familiari merita indubbiamente rispetto e sostegno.

La loro è una attività difficile e delicata in un settore troppo spesso misconosciuto. E’ una specie di patto tra la società civile e cittadini detenuti spesso disperati.

Quindi “OLTRE SI PUO’” anzi, lasciateci dire “OLTRE SI DEVE”

Mario Barbuto

(Direttore istituto dei ciechi Francesco Cavazza – Bologna)

Il mio incontro con Il Bivacco è avvenuto nel 1994 quando ero dirigente nazionale dell’Unione italiana ciechi.

Una lettera giunta nella sede centrale di Roma dell’associazione, presentava un’iniziativa volta a favorire l’accesso dei ciechi alla lettura e proponeva un primo elenco di testi disponibili che raggruppava alcune centinaia di titoli.

Il Bivacco organizzava l’attività volontaria di un gruppo di detenuti del penitenziario di Opera, i quali preparavano per i ciechi, testi da leggere tramite il computer con l’ausilio di una sintesi vocale o di un display braille.

Mi venne in mente una curiosa analogia con la diffusione dei primi libri braille in Italia, verso la fine dell’800, copiati a mano pazientemente dai detenuti del carcere di Marassi di Genova. Mi si “accesero” strane lampadine che segnalavano questa, come una buona occasione per accrescere il patrimonio di letture per tante persone gravemente impedite nell’accesso alla carta stampata.

Presi contatto con Il Bivacco e a dispetto del nome, vi ho trovato persone solerti e attente, capaci di unire all’impegno civile una umanità oggi purtroppo un po’ fuori moda. Ci siamo incontrati; ci siamo conosciuti; ci siamo recati a Opera per parlare con Nadia, Rosaria, Giulio e Vincenzo. Ne è nato un progetto:

il TeleBook. Una raccolta di testi digitali distribuiti agli utenti ciechi in Italia e all’estero tramite un cd-rom o prelevabili direttamente da un sito internet.

Una rivoluzione? Forse… Uno squarcio di luce per chi, come me, vive nel buio?

Sicuramente…..

Vincenzo Guagliardo

(ergastolano della Casa di Reclusione Milano – Opera)

Da vari anni conosciamo una sola politica: la strategia delle emergenze, dove ogni conflitto viene rimosso e ridotto a reato, ogni politica si restringe a politica giudiziaria. E' una strategia il cui presupposto è che non vi sia alternativa alla disoccupazione e al disordine sociale, e la cui soluzione sembra essere soltanto il cinismo. La disinformazione fa ignorare ai più che non abbiamo molto da invidiare ai periodi più bui dell'Inquisizione, incoraggia l'indifferenza o il risentimento, una disumanità crescente.

L'élite tecnoburocratica della terza rivoluzione industriale si profila come una minoranza del 5% circa della popolazione in un mondo di fabbriche con pochi lavoratori ma ancora fondato sul profitto e lo spreco di risorse umane e materiali. Diversamente dalla vecchia élite essa tende a essere "impolitica", accettando il disordine sociale e affidando la sua gestione a una repressione senza freni nella vaga speranza che la guerra tra poveri elimini da sola gli eventuali pericoli di una ribellione.

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E' forse la prima volta che una classe dirigente prevede e accetta la violenza degli oppressi come un suo sistematico "a priori", e non soltanto come un'inevitabile conseguenza da reprimere, tant'è che volgarità e violenza sono il primo e quasi unico messaggio propagandato dai mezzi di comunicazione di massa, mentre la Politica, da arte della mediazione delle classi dirigenti che pretendeva di essere, vede governi e parlamenti ridotti a una rappresentazione teatrale condotta da attori poco convinti.

La logica dell'élite tecnoburocratica è utopica e tragica insieme, tanto sembra ignorare a volte le esigenze minime dell'essere umano, o tanto banalizza o minimizza le questioni, affidate magari a un computer per essere interpretate.

Tuttavia, la «società», o almeno una parte di essa, ha già trovato una prima e parziale risposta alternativa al disastro totale che questa élite avrebbe altrimenti già provocato.

Il volontariato è un'attività che coinvolge circa 15 persone ogni 100 in Italia.

E' un movimento che sopperisce al duplice fatto che lo Stato non possa più fornire sufficiente assistenza sociale e il mercato garantire sufficiente occupazione all'interno del modo di produzione industriale. E' una sorta di tappabuchi nato intorno ai valori della solidarietà che prova a costruire un'economia fondata sul senso di appartenenza a una comunità. E' l'unico freno che finora possiamo vedere contro la catastrofe sociale.

Non mi interessa qui parlare dei mille inevitabili limiti di questo movimento estremamente variegato, se non su un solo aspetto: si è dato a costruire un'economia «alternativa» ma non è ancora riuscito ad affrontare il nodo politico che gli consentirà di superare ogni ambiguità, ogni possibilità di essere inquinato da interessi traversali per ridurlo a struttura di servizio degli altri due settori: i frutti seminati dalla filosofia emergenziale. Finché non lo farà, potrà solo tappare i buchi del muro che crolla invece di vedere al di là di esso, non potrà uscire facilmente dal ghetto in cui lo si vuol confinare, non potrà coinvolgere quei lavoratori che pensano ancora, da disperati, solo alla difesa di un posto di lavoro industriale destinato a essere superato per molti dalla fabbrica robotizzata, invece di contribuire a un'alternativa per i loro figli o fratelli minori destinati alla criminalità.

Quell'attività socialmente utile che non rientra nella sfera del mercato o in quella dello Stato è stata definita «terzo settore» da alcuni economisti per sottolineare la sua diversità e la sua potenziale autonomia.

Il terzo settore è pensiero e pratica al di là dell'economia; pratica al di fuori dello Stato e al di là del mercato; pensiero che porta a essere elastici, disposti al compromesso sul piano politico perché si è rigorosi sul piano etico, cioè là dove si tocca la coscienza individuale.

E' un lavoro sociale che preesiste e sopravvive ad ogni politica conosciuta finora. Oggi prova a diventare cosciente di sé, a uscire dall'ombra per essere nuova luce.

Mentre nella politica tradizionale gli individui hanno finito per dividersi in schieramenti ideologici tali da consentire alla coscienza individuale di mascherare persino a se stessa i propri veri scopi, sfogandosi settariamente contro il prossimo (un prossimo spesso inventato), nel terzo settore l'individuo parte da se stesso, da ciò che può dare concretamente: l'uomo è anzitutto quel che fa.

Conta allora il modo in cui ci si pone concretamente rispetto alle idee affermate e si può invece riconoscere tranquillamente che è inevitabile avere idee diverse alla partenza in un mondo in cui non si nasce nelle stesse condizioni. Il movimento dell'alternativa economica fondata sul lavoro sociale prova così a costruire qui e ora le condizioni psicologiche e culturali del cambiamento; mentre la politica tradizionale le rimanda sempre a un secondo tempo, a dopo il «cambiamento politico», ecco che oggi all'interno del lavoro sociale la tendenza a realizzare ora tali condizioni può fare da premessa, da base, perché la politica non sia ogni volta l'ennesimo auto-inganno che ci fa tornare al punto di partenza.

Il movimento del volontariato, nella sua parte migliore, nella sua autenticità esprime (al di là della stessa coscienza che possano averne a volte i singoli) l'esigenza di una «rivoluzione culturale» per uscire dalle secche di una politica che si rivela illusoria, trappola della falsa coscienza.

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In questi anni di carcere sarei rimasto completamente solo se non fosse stato, oltre che per i nostri vecchi, per dei volontari. A loro devo la mia sopravvivenza fisica e in parte morale. Diversamente dalla legge penitenziaria e da gran parte della politica di sinistra, essi non hanno mai subordinato il rapporto con me a «come la pensassi», e trovo che - senza retorica - questa sia un'alta lezione.

C'è un ultimo importante aspetto dell'emergenza che accomuna la mia condizione alla problematica vissuta dal volontariato. In carcere ho dovuto scoprire che la libertà è la condizione per arrivare alla verità. La «verità» offerta prima della libertà è stata una confessione offerta alle autorità dell'emergenza per ottenere la libertà come premio (sconto di pena, carcere meno duro) ed è perciò sempre stata una verità addomesticata che ha reso sempre più prigioniere le coscienze per liberare i corpi. E' dunque per questo che ho dovuto rifiutare la

«libertà» offertami, per onorare la ricerca della verità. Trovo che nel volontariato ci sia il tentativo di praticare la libertà come condizione per raggiungere un'autentica comprensione delle cose.

Orbene, si dice che spesso chi ha il pane non ha i denti e viceversa. Vedo il lavoro sociale del volontariato come i denti, e la politica di sinistra (meglio, la sua memoria) come il pane senza più denti. Il confronto concreto delle due esperienze intorno al nodo della filosofia emergenziale potrebbe consentire a ognuna di dare il meglio di sé invece che il peggio.

Propongo dunque immodestamente di farsi carico del mio obbiettivo minimo e irrinunciabile nel suo duplice aspetto: poter morire (ognuno) fuori da queste mura. Prima di quel giorno vorrei infatti riabbracciare la mia compagna, i miei vecchi, qualche amico rimasto non separato da loro dal bancone delle sale colloqui, senza controlli visivi. Ma al tempo stesso trovo più dignitoso, per tutti e non solo per me, accettare di stare qui dentro piuttosto che ottenere simili cose come «premio» così come mi richiede la legge oggi. E come, senza rendersene conto, mi hanno chiesto molti amici di sinistra ora lontani quando con candore mi hanno detto : «ma perché non fai come tutti gli altri? Sei tu che vuoi stare in galera».

Dieci anni fa ho visto per la prima volta in vita mia e con grande diffidenza un computer, in carcere, durante un breve corso per tipografi. E in quell’occasione ho conosciuto una signora, Liliana Bucellini, che faceva libri digitali. La sua casa editrice si chiama Freebook. Mi ha spiegato cos’erano i libri in dischetto e ha pubblicato in quel modo un mio lavoro sulla condizione delle persone anziane.

Ho subito abbandonato ogni interesse per i vari lavori tipografici e il mio sguardo si è fissato sul computer.

Cominciavo a rendermi vagamente conto che il computer poteva essere, per chi non può usare le mani o gli occhi, qualcosa in più di un semplice strumento. Doveva essere sicuramente ciò che per me, carcerato, era la scrittura: una protesi che maledici ogni giorno, è vero, perché ti ricorda la tua condizione di prigioniero: devo scrivere a mia moglie invece di poterle parlare o di poterla abbracciare.

Ma la scrittura è anche un modo di uscire parzialmente dalla prigione, per mantenere in vita la propria capacità di sentire, per non ridursi a un vegetale.

Il primo mattone di ogni prigione, infatti, è anzitutto quello della non- comunicazione. Lo svantaggio nella comunicazione colpisce la nostra possibile autonomia di persone, crea un sovrappiù di disabilità. Tutto il resto delle sofferenze viene dopo, come una conseguenza naturale. Così mi sono reso conto di essere in parte un disabile e che i disabili erano in parte dei prigionieri politici.

La disabilità fisica viene trasformata in prigione; la prigione è un trattamento disabilitante.

Rosaria Biondi

(ergastolana della Casa di Reclusione Milano – Opera)

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Devo fare un’amara prima considerazione: per quanto ho visto in questi anni, una vita in prigione può anche diventare “al buio”.

Al buio di tutto, specie per i sentimenti. Un impoverimento della persona, una grande tristezza. C’è solo una possibilità per restare vivi: Vedere oltre, sviluppare un Sesto senso giaccheé tutti gli altri in genere li si ha, anche se impoveriti da una povera quotidianità.

Vedere, sentire, con qualcosa di diverso che non i soli occhi o le orecchie; e cosa“ riuscire a vedere e sentire le persone che ami al di là delle cose che dicono o - il che avviene più spesso - che scrivono.

Una sorta di ipersensibilità che può far soffrire di più, senz'altro è così“, ma che ti tiene vivo. Riuscire a comunicare oltre le parole e la scarsa materialità in cui vivono i rapporti. Avverti tutto questo proprio come una necessita fisica e fisicamente senti dentro emozioni, sensazioni che ti fanno percepire quello che non potresti percepire diversamente. Non posso dire che sia stato il carcere ad avvicinarmi ai mondi emarginati, piuttosto ho seguito il filo delle mie convinzioni. C'è però da dire che, a vederle dal di fuori, in carcere si sviluppano delle dinamiche davvero singolari, anche se spesso, da fuori, il mondo carcerario risulta pressoché invisibile.

Da una parte questa è una fucina di ulteriori emarginazioni; d’altra parte i valori dominanti tendono a essere proprio quelli della società che emargina: il massimo profitto per l’individuo, in qualunque modo. Qui dentro la resistenza a simili valori diventa doppia, e secondo me, vitale.

Giulio Cacciotti

(ergastolano della Casa di Reclusione Milano – Opera)

Questa vicinanza ideale con i mondi emarginati è vero che si è approfondita vivendo sulla mia pelle l’esperienza del carcere; ma so che è stata in me, si può dire, fin da bambino. E i valori di fondo che hanno determinato le scelte fatte nella mia vita non sono mai stati “a prescindere” da essa.

Che questo non sia il migliore dei mondi possibili continuo fermamente a pensarlo e di conseguenza “l’esistente”, subordinato alla logica del profitto, continua a non piacermi neppure per un po’. Contribuire a far emergere quelle

“ricchezze” di cui parlavo prima rappresenta, per me, anche il mantenermi coerente con quei valori di fondo.

Nadia Ponti

(ergastolana della Casa di Reclusione Milano – Opera)

Non so se vi sembrerà banale e retorico quello che dirò: se non si fa qualcosa di utile per gli altri, non si è utili neanche a sé, si diventa degli stupidi volontari. Infatti trovo un po’ stupido questo mondo. La galera sembra fatta apposta per renderti inutile a te e agli altri: quando lo capisci, cerchi di darti da fare.

Andrea Pirola

(Magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano)

Con vivo piacere aderisco all’invito, gentilmente rivoltomi dal Dr. Pierfelice Bertuzzi, che conosco ed apprezzo in qualità di assistente volontario presso il Carcere di Opera, di salutare la pubblicazione del presente libro, che sicuramente contribuirà a rendere più conosciuta, anche al di fuori degli operatori del settore, l’Associazione Il Bivacco.

Proprio in virtù del mio lavoro di Magistrato di Sorveglianza, ormai da anni in servizio presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, ho potuto constatare ed apprezzare il contributo spesso determinante dell’Associazione Il Bivacco

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finalizzato ha rendere possibile l’accesso a misure alternative anche a detenuti privi di riferimenti abitativi o familiari, che pur meritevoli delle stesse, altrimenti non avrebbero potuto beneficiarne.

L’Associazione pertanto, grazie all’operoso contributo dei propri volontari, è diventata nel tempo un prezioso e insostituibile punto di riferimento per il Tribunale di Sorveglianza di Milano, realizzando nella concretezza della quotidianità un ponte tra il carcere e la società esterna, presupposto indispensabile per tentare di realizzare gli ambiziosi propositi sottintesi alla riforma penitenziaria che altrimenti rischierebbero di rimanere una bella utopia.

Suor Raffaele Maria Bisoni

(Responsabile Centro Zoè e Ass. volontaria nel carcere di Milano-S.Vittore e di Milano-Opera)

Un augurio vivissimo anche dal Centro Zoè a Il Bivacco, ai suoi iniziatori e prosecutori in occasione dei dieci anni dalla fondazione.

Fin dai suoi inizi è stato un valido punto di riferimento per quei nostri utenti ai quali l’associazione ha offerto ospitalità per la fruizione dei permessi premiali e per l’attività di reperimento di un impiego lavorativo.

Il dialogo si è man mano intensificato attorno al comune intento di aiutare le persone detenute a reinserirsi nella società.

Il Bivacco nel tempo ha meglio qualificato il suo intervento riguardante l’accoglienza e l’accompagnamento.

Con il centro Zoè sempre maggiori sono le possibilità di collaborazione e di condivisione di risorse.

Mauro Imperiale

(Educatore del carcere di Como)

Il Bivacco è un’esperienza vera di accoglienza e solidarietà.

L’appassionato di alta montagna in ascesa solitaria che pensa al bivacco, quasi istintivamente evoca l’immagine di un rifugio spoglio e isolato, con il solo occorrente per trascorrere una notte al riparo dal freddo. Un rifugio spoglio, ma aperto a tutti. Un luogo particolare dove potersi riposare e raccogliere i propri pensieri e le proprie emozioni. Un luogo libero, affascinante, che incoraggia l’alpinista a non fermarsi, a salire ancora per raggiungere la vetta.

La fatica scompare di fronte all’immensità dello spazio infinito e ai limiti dell’esistente. Questo breve pensiero per introdurre la storia di un altro Bivacco, diverso dal precedente, che ha una storia ed una esperienza da raccontare e da diffondere. Il Bivacco nasce così. Un cortile abbandonato, situato nel centro di Melegnano, dopo tanti anni di duro e faticoso lavoro, è diventato una piazza grande, piena di vita e colori, una realtà viva sul territorio e per il territorio.

Una realtà aggregativa e sociale che comunica direttamente con il carcere, in una prospettiva di accoglienza e di supporto, tesa a favorire il pieno reinserimento di soggetti svantaggiati socialmente. E in questa piazza le persone s’incontrano, si confrontano, si scambiano i loro patrimoni di vita e di esperienza. é un continuo e reciproco arricchimento, che consente a chi è sempre vissuto ai margini della strada e della vita, di sentirsi parte integrante del corpo sociale.

E ancora in questa piazza le diverse culture e tradizioni dialogano tra loro nel rispetto reciproco delle diversità e nella valorizzazione degli aspetti culturali e umani differenti. E in questa piazza si lavora per crescere autonomamente e dare in tal modo a chi viene accolto gli strumenti per recuperare il senso della sua identità e umanità, in una dimensione di accoglienza e di promozione umana e sociale.

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In questo lavoro, allo spirito assistenzialistico e di delega che spesso ancora connota esperienze di accoglienza, si sostituiscono e vengono attuati i principi della responsabilità, della autonomia e della sussidiarietà, per rendere effettivo ed efficace il processo di crescita e di trasformazione di chi ha sbagliato ed ha conosciuto il carcere. E’ evidente che questo lavoro molto impegnativo viene condotto (insieme agli utenti) da operatori e volontari, che hanno acquisito competenze adeguate nel settore, seguendo corsi di formazione mirati. Il programma è strutturato e articolato in un vero e proprio progetto personalizzato, che prevede fasi diversificate di approccio e intervento. Il Bivacco non è infatti solo accoglienza, ma anche orientamento e accompagnamento relazionale e lavorativo, per favorire il pieno inserimento e l’integrazione sociale. Si diceva del territorio. E il territorio, nell’esperienza del Bivacco, è parte centrale del progetto. Il Bivacco infatti si colloca in una realtà non isolata o emarginata, ma compiutamente inserita e integrata nel territorio di Melegnano, al centro del paese, in un rapporto di continuo interscambio o interazione con le istituzioni penitenziarie e con le altre componenti territoriali (istituzioni e non) della realtà esterna.

Questo radicamento consente di rendere le relazioni e i rapporti più immediati e proficui. Gli istituti penitenziari di Milano-San Vittore, Milano-Opera, Pavia, Como e altri ancora, nel Bivacco hanno trovato un interlocutore molto credibile e significativo, in tema di recupero e di aiuto ai soggetti dimessi o in regime di esecuzione penale esterna, senza riferimenti affettivi, lavorativi e alloggiativi. Dopo queste riflessioni e considerazioni è facile intuire e dedurre che gli utenti della struttura sono soggetti che hanno alle spalle esperienze carcerarie, detenuti extracomunitari senza nome e senza dimora, persone in grave difficoltà sociale e umana, con percorsi incrociati di abbandono e solitudine, persone segnate dai meccanismi dell’emarginazione e dell’esclusione sociale.

Ebbene in questa comunità molte di queste persone hanno sperimentato forme di autentica accoglienza senza discriminazioni di fede, razza o cultura; hanno sperimentato modelli di relazione nuova, hanno riflettuto criticamente sul significato delle loro azioni e dei loro comportamenti, in una prospettiva di trasformazione del proprio stile di vita e dei modelli precedenti di riferimento. Certo i problemi e le difficoltà non mancano, è anche normale che esistano momenti di scoraggiamento e di stanchezza, ma poi si torna sempre ad operare e a lottare, affinché Il Bivacco mantenga e sviluppi la sua importante funzione sociale e si possa estendere anche ad altre realtà territoriali.

Tornando alla divagazione iniziale dell’alpinista in ascesa solitaria verso un bivacco, mi è naturale pensare a Pierfelice Bertuzzi, vero pioniere in ambito sociale e ispiratore del progetto, che con grande coraggio e tenacia ha sfidato l’impossibile per dare anima e vita a questa esperienza.

E’ vero, sono arrivati contributi significativi di enti pubblici e privati, ma senza il coraggio e il lavoro silenzioso (senza alcun protagonismo) di Pierfelice Bertuzzi e di altri amici come lui, il progetto non si sarebbe attuato e quel cortile, oggi pieno di vita e luce, sarebbe rimasto un angolo isolato e avvolto dallo squallore dell’indifferenza. Questa breve presentazione si sofferma solo sulla filosofia e sulla esperienza del Bivacco, ispirata a valori autentici della solidarietà sociale, della condivisione e dell’accoglienza, senza volutamente entrare negli aspetti educativi e tecnici di alto spessore che qualificano e definiscono la struttura intera del progetto. E’

più giusto che di tali principi e dell’intero programma educativo e di accompagnamento sociale esterno si pronuncino gli esperti e i tecnici che se ne sono occupati da anni e sperimentano quotidianamente sul campo l’efficacia del lavoro svolto. Mi piace terminare con una frase di Helder Camara, che riassume per intero il significato di una vera esperienza di accoglienza e solidarietà:

“Quando se sonha è apenas un sonho. Quando sonhamos juntos è o comeco de realidade”. E veramente se tanti uomini sognano la stessa cosa, il sogno diventa realtà.

Diego Montrone

Riferimenti

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