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I reati tributari - parte XXV: rassegna mensile di giurisprudenza

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I reati tributari - parte XXV: rassegna mensile di giurisprudenza

di Danilo Sciuto

Pubblicato il 15 ottobre 2014

nella rassegna giurisprudenziale del mese di ottobre continuiamo a segnalare le recenti sentenze in materia di diritto penale tributario

Premessa

Continua la nostra illustrazione delle sentenze della Cassazione penale tributaria emesse nell’anno 2013.

Tra le altre sentenze, segnaliamo, in questa puntata, quelle che affrontano il tema del concorso apparente di norme, nonché quella in tema di utilizzo in dichiarazione di fatture false.

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Rimpatrio di denaro e dichiarazione infedele

Come correttamente rilevato dal Tribunale e dal Gip, la situazione disciplinato dal richiamato D.L. n. 78 del 2009, art. 13 bis (c.d. scudo fiscale, ndr), non ha a che vedere con il caso in esame. Il denaro individuato dalla Guardia di Finanza proveniva, infatti, dall’estero e confluiva nelle casse della società degli imputati come capitali sociale e finanziamento soci e non come reddito della società stessa. Al fine di realizzare l’evasione fiscale e, cioè, di sottrarre all’imposizione redditi della società, il percorso avrebbe dovuto invece essere quello, opposto, dell’esportazione clandestina di capitali. La richiamata disposizione sul cosiddetto scudo fiscale si riferisce proprio a tale ipotesi, essendo diretta a favorire il rientro dei capitali sottratti all’imposizione fiscale in Italia attraverso il loro clandestino trasferimento all’estero. Nulla di tutto questo – come bene evidenziato dal Tribunale – è successo nel caso in esame, in cui, invece di sfruttare la favorevole circostanza che i capitali si trovano già all’estero, gli imputati hanno scelto di farli rientrare verso la società, più probabilmente allo scopo di effettuare un illecito riciclaggio degli stessi nella produzione di beni e servizi in Italia.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 32956/2013)

Responsabilità del rappresentante legale

Nei reati tributari, anche se si esclude la confisca per equivalente per la società, il

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rappresentante legale espone al rischio di escussione il proprio patrimonio, quando porta in deduzione nella sua dichiarazione reddituale costi fittizi, avvalendosi di documenti contabili relativi ad operazioni inesistenti. In questo caso il reato viene commesso a diretto vantaggio del reo, attraverso la copertura dell’ente.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 41694/2013)

Le condizioni per la rilevanza penale delle condotte elusive nel reato di infedele dichiarazione

Con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, contestato all’indagata, particolarmente convincente è il ragionamento seguito dalla Seconda Sezione (Sez. 2, n. 7739 del 22/11/2011 – dep. 28/02/2012) nel ribadire che i reati tributari di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione possono essere integrati anche dalle condotte elusive ai fini fiscali che siano strettamente riconducibili alle ipotesi di elusione espressamente previste dalla legge, ovverossia quelle di cui agli artt. 37, comma terzo, e 37 bis del d. P.R. n. 600 del 1973. A sostegno della rilevanza penale della condotta elusiva si osserva, in primo luogo, che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. f), fornisce una definizione molto ampia dell’imposta evasa e che il sistema tributario prevede istanze di interpello preventivo: l’interpello ordinario previsto dalla L. 27 luglio 2000, n.

212, art. 11, che sì riferisce a “obiettive condizioni di incertezza sulla corretta applicazione di una norma”, peraltro con riferimento a “casi concreti e personali”; l’interpello antielusivo di cui alla L. 30 dicembre 1991, n. 413; art. 21, l’interpello disapplicativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8; quello relativo alle società controllate estere di cui all’art. 167 del T.U.I.R.; quello di rating internazionale (D.L. n. 269 del 2003, art. 8). In tale contesto assume particolare rilevanza il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 16, (Adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive), il quale dispone che “Non da luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 21, commi 9 e 10, si è uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso”. Nonostante la relazione al decreto legislativo precisi che tale disposizione non può essere letta come “diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo”, sembra evidente che detta disposizione induca proprio a ritenere che l’elusione, fuori dal procedimento di interpello, possa avere rilevanza penale e ciò è confermato dal contesto in cui è inserito il citato art. 16 che è quello del Titolo III “Disposizioni comuni” concernenti proprio la materia penale {pene accessorie, circostanze attenuanti, prescrizione) e, in particolare, subito dopo l’art. 15 che concerne le “violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie”.

D’altro canto, non vi sarebbe necessità di una esimente speciale per la tutela dell’affidamento se l’elusione fosse irrilevante dal punto di vista penale, mentre nessun elemento né testuale né sistematico consente di ritenere che tale norma si riferisca, come da alcuni ritenuto, a casi di evasione in senso stretto e non di elusione.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 36894/2013)

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La deduzione dei costi in nero nella contestazione della dichiarazione infedele

I costi sostenuti dall’imprenditore accusato di evasione fiscale, anche quando non sono imputati al conto economico, sono ammessi in deduzione nella misura in cui risultano da elementi “certi e precisi”. Al fine di valutare il superamento delle soglie di punibilità fissate dalla legge, il giudice penale ha l’onere di procedere a una disamina analitica dei documenti dai quali i costi sono fatti derivare, “non potendosi far coincidere la mancanza di elementi certi e precisi relativi a detti costi con l’irregolarità, anche macroscopica, della tenuta della contabilità”.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 37131/2013)

Le condizioni di non punibilità nelle rilevazioni nelle scritture contabili

Le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio che, ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. n. 74 del 2000 non danno luogo a fatti punibili a norma degli artt 3 e 4 dello stesso decreto legislativo sono solo quelle che, pur essendo state eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, rispondono a «metodi costanti di impostazione contabile”. Tale disposizione deve essere Interpretata nel senso che la prova dell’esistenza di metodi costanti di impostazione contabile deve emergere con chiarezza dalla lettura dei bilanci e delle scritture contabili nella loro interezza e non può, invece, essere considerata raggiunta sulla base di semplici rilievi a campione. L’oggetto dell’accertamento è, infatti, proprio la “costanza” dei metodi in questione, che sola può far ritenere non punibile la violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, senza che possa assumere rilevanza la semplice utilizzazione, frequente ma non costante, di detti metodi. La Corte d’appello ha, come si vedrà, fatto corretta applicazione di tali principi, perché ha escluso la ricorrenza nel caso di specie della causa di non punibilità di cui al richiamato art. 7, appunto ritenendo non raggiunta la prova dell’esistenza di metodi costanti di impostazione contabile.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 36910/2013)

Concorso apparente di norme tra art. 10 e art. 5 del D.Lgs. n. 74/00

Il concorso apparente di norme sussiste quando una stesso fatto appare disciplinato da più norme, ma in realtà solo una di esse è destinata a trovare applicazione, sicchè solo una delle ipotesi di reato previste può ritenersi configurabile, con esclusione dell’applicazione delle norme che disciplinano il concorso di reati. Per risolvere il conflitto tra le due o più norme astrattamente applicabili, l’art. 15 c.p., prevede il principio di specialità, stabilendo che “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione speciale deroga alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. Secondo il costante indirizzo di questa Corte, il solo criterio idoneo a risolvere il conflitto apparente di norme è dato dal criterio logico strutturale di specialità individuato dall’art. 15 c.p., poichè il ricorso a criteri di valore quali quelli di consunzione ed assorbimento rischia di attribuire al giudice un’eccessiva discrezionalità in contrasto con il principio di legalità, e più in particolare, del principio di tassatività della fattispecie penale (da

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ultimo, Sez. U., n. 1963 del 2010 Orbene, nella fattispecie in esame, non può essere ravvisato un concorso apparente di norme tra le fattispecie di omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa alle imposte direttive e all’IVA e la fattispecie di occultamento o distruzione di documenti contabili, anche se entrambe le fattispecie sono caratterizzate dalla presenza del dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte sui redditi o sull’IVA, peraltro il delitto di occultamento o distruzione dei documenti contabili prevede anche la possibilità che il dolo specifico si riferisca alla finalità di consentire l’evasione a terzi. Sono infatti completamente diverse le condotte: il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, incrimina una condotta omissiva, ossia l’omessa presentazione delle dichiarazioni obbligatorie ai fini dell’imposizione fiscale, prevedendo una condizione obiettiva di punibilità, consistente nel superamento di una soglia quantitativa di imposta evasa. Si tratta di un reato omissivo di natura istantanea che si perfeziona (ed esaurisce) alla scadenza del termine previsto dalla legge per tali adempimenti.

Le condotte tipiche della fattispecie tipizzata dall’art. 10, invece, sono condotte attive (la distruzione ovvero l’occultamento, totale o parziale dei documenti contabili o dei documenti di cui è obbligatoria la conservazione, per cui si abbia una impossibilità seppure parziale di ricostruire il volume di affari o dei redditi; se nel caso di distruzione il reato può anche dirsi istantaneo (ferma restando la concreta difficoltà di provare la data della commissione del fatto), nel caso di occultamento, il reato ha indubbiamente natura permanente, in quanto tale condotta perdura sino al momento della temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione richiesta dagli organi verificatori. Emerge con chiarezza che non sussiste, dunque, alcuna relazione di genere a specie tra le fattispecie poste a confronto, non potendosi ritenere in alcun modo sovrapponibile, seppure in parte, il fatto tipico, ben diverso, delle due fattispecie e pertanto questo Collegio ritiene che debba essere affermato il principio di diritto che il delitto di omessa dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e ai fini dell’IVA ben può concorrere con il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, in quanto va escluso il concorso apparente di norme tra la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, e quella di cui all’art.

10 prevista nei medesimo decreto, non sussistendo tra le stesse quel rapporto di genere a specie che solo può legittimare l’applicazione dell’art. 15 c.p..

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 32054/2013)

Utilizzo fraudolento di fatture per operazioni inesistenti

Questa Sezione, da ultimo anche con la sentenza del 10.5.2012 n. 17452, ha costantemente ribadito l’assunto secondo cui la utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti, con riguardo all’IVA, comprende anche sia la inesistenza oggettiva che soggettiva, ossia quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura. Correttamente viene dai giudici di appello pertanto richiamato il precedente rappresentato dalla sentenza n. 10394 del 16/03/2010 di questa Sezione con cui il principio è stato ancora una volta ribadito. L’assunto si fonda evidentemente sull’interpretazione letterale del combinato del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. a), e art. 8. E d’altronde trova corrispondenza anche nella giurisprudenza formatasi in relazione alla fattispecie del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, cui la disciplina dell’art. 8 evidentemente si ricollega con la finalità di anticipare la tutela del bene giuridico protetto. Si è puntualizzato, infatti, che nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2) la falsità può essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è

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intercorsa l’operazione, intendendosi per “soggetti diversi da quelli effettivi”, ai sensi dell’art. 1, lett. a), del citato D.Lgs., coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale (Sez. 3, n. 27392 del 27/04/2012). E’ pacifico, peraltro, che per operazioni “soggettivamente” inesistenti, devono intendersi quelle in cui uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa, nel senso di non aver assunto, nella realtà, la qualità di committente o cessionario della mercè o del servizio ovvero di erogatore o percettore dell’importo della relativa prestazione. (Sez. 3, n. 3203 del 26/11/2008).

E tale ipotesi si attaglia indubbiamente al caso di specie in cui i giudici di appello correttamente fanno rilevare la natura fittizia dell’interposizione della società ….. nella vendita delle autovetture e la natura sicuramente truffaldina di essa in quanto esclusivamente finalizzata alla presentazione di dichiarazioni fiscali da parte di altre ditte che, in tal modo, riuscivano a lucrare sull’IVA che le ditte del ….. evadevano, sfruttando anche la finzione del …… di essere esportatore abituale. In questa sede il ricorrente eccepisce la insussistenza del reato invocando, quale ius superveniens, il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, il quale, nel sostituire la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, prevede ora che “non sono deducibili i costi e le spese dei beni e dei servizi direttamente utilizzati per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per le quali il PM abbia esercitato razione penale”. Richiamando la relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del d.l. sostiene in particolare il ricorrente che l’indeducibilità non trova applicazione per i costi e spese esposti in fatture che si riferiscono a soggetti diversi da quelli effettivi. Al riguardo deve tuttavia evidenziarsi che, avuto riguardo alla applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, che ha modificato la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, con la sentenza n. 40559 del 2012 questa Sezione ha già avuto modo di precisare che nessun effetto di depenalizzazione può essere ricondotto alla disposizione citata. Si è rilevato nell’occasione, infatti, che la disposizione si è limitata a precisare una regola per le procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, stabilendo che non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso ma che ciò non ha alcun riflesso sulle disposizioni penali relative all’incriminazione di condotte fraudolente. Inoltre in questa sede che nessun richiamo si rinviene nel D.L. n. 16 del 2013, al D.Lgs. n. 74 del 2000, ed, in particolare, all’art. 1, lett. a) che, come detto in precedenza, ricomprende tra le “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” anche quelli che “riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”. Il che è quantomeno singolare per il caso in cui si fosse realmente inteso depenalizzare l’emissione o l’utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti tenuto conto del dibattito alimentato in dottrina e giurisprudenza in questi anni sulla rilevanza penale di quest’ultima condotta da alcuni esclusa sotto il profilo della mancanza di offensività, essendosi sostenuto che l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice non subisce alcuna lesione nell’ipotesi in cui i costi siano stati dedotti legittimamente dedotti perchè inerenti alla produzione del reddito e realmente sostenuti.

(Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 29061/2013)

15 ottobre 2014 Danilo Sciuto

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