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La lingua del tempo. Eva Hoffman. Hoffman

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Academic year: 2022

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Eva Hoffman 1945

Nata a Cracovia, ha lasciato con la famiglia la Polonia nel 1958 emigrando prima in Canada poi negli Stati Uniti.

Dopo aver conseguito il dottorato in letteratura inglese ad Harvard, ha lavorato per il «New York Times».

Ha esordito nel 1989 con Lost in translation: Life in a new language, già pubblicato nel 1996 da Donzelli con il titolo Come si dice e ora riproposto in una traduzione aggiornata. A questo sono seguiti altri romanzi, saggi

e reportage, tra cui ricordiamo Shtetl. Viaggio nel mondo degli ebrei polacchi (1997; Einaudi, 2001).

Vive a Londra da oltre trent’anni.

Traduzione di Maria Baiocchi

Vive a Roma, traduce saggistica e narrativa da tre lingue. Da anni lavora a molte delle sue traduzioni dall’inglese con l’amica e collega Anna Tagliavini che, anche stavolta, le ha prestato il suo aiuto prezioso.

off man    La lingua del tempo

€ 17,50

Quando tredicenne con la sorella e con i genitori s’imbarca per l’America, Ewa Wydra abbandona il suo mondo, una Polonia che dopo la Seconda guerra mondiale non è più un luogo sicuro per la sua famiglia di origine ebraica. Appena arrivata sarà ribattezzata Eva Hoffman e da allora inizierà per lei, un’emigrante fra milioni, una ricerca continua: di una nuova patria, l’America, e di una nuova lingua, l’inglese.

Eva Hoffman descrive lo spaesamento dell’emigrato che riconosce le stesse cose di sempre ma con nomi inediti, che deve abbandonare abitudini per apprenderne altre. Traducendo i propri pensieri, ci si arricchisce e ci si perde: si acquisiscono nuovi significati per sopravvivere, ma se ne lasciano a malincuore altri. Il punto di equilibrio per tutti noi, anche per chi non abbandonerà mai il proprio Paese, è accettare di parlare la lingua del tempo e trovare l’armonia nella sola dimensione dove possiamo davvero essere felici:

il presente.

Romanzo

Eva Hoffman

La lingua del tempo

Dovresti sposarlo?

la domanda si presenta in inglese.

Sì.

Dovresti sposarlo?

la domanda si ripropone in polacco.

No.

Il Margine è un marchio Erickson

in copertina Donna in giardino, Johannes Hendrikus Antonius Maria Lutz, 1907-16 (Rijksmuseum)

progetto grafico Bunker

isbn 979-12-5982-001-3 9791259820013

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Eva Hoffman 1945

Nata a Cracovia, ha lasciato con la famiglia la Polonia nel 1958 emigrando prima in Canada poi negli Stati Uniti.

Dopo aver conseguito il dottorato in letteratura inglese ad Harvard, ha lavorato per il «New York Times».

Ha esordito nel 1989 con Lost in translation: Life in a new language, già pubblicato nel 1996 da Donzelli con il titolo Come si dice e ora riproposto in una traduzione aggiornata. A questo sono seguiti altri romanzi, saggi

e reportage, tra cui ricordiamo Shtetl. Viaggio nel mondo degli ebrei polacchi (1997; Einaudi, 2001).

Vive a Londra da oltre trent’anni.

Traduzione di Maria Baiocchi

Vive a Roma, traduce saggistica e narrativa da tre lingue. Da anni lavora a molte delle sue traduzioni dall’inglese con l’amica e collega Anna Tagliavini che, anche stavolta, le ha prestato il suo aiuto prezioso.

off man    La lingua del tempo

€ 17,50

Quando tredicenne con la sorella e con i genitori s’imbarca per l’America, Ewa Wydra abbandona il suo mondo, una Polonia che dopo la Seconda guerra mondiale non è più un luogo sicuro per la sua famiglia di origine ebraica. Appena arrivata sarà ribattezzata Eva Hoffman e da allora inizierà per lei, un’emigrante fra milioni, una ricerca continua: di una nuova patria, l’America, e di una nuova lingua, l’inglese.

Eva Hoffman descrive lo spaesamento dell’emigrato che riconosce le stesse cose di sempre ma con nomi inediti, che deve abbandonare abitudini per apprenderne altre. Traducendo i propri pensieri, ci si arricchisce e ci si perde: si acquisiscono nuovi significati per sopravvivere, ma se ne lasciano a malincuore altri. Il punto di equilibrio per tutti noi, anche per chi non abbandonerà mai il proprio Paese, è accettare di parlare la lingua del tempo e trovare l’armonia nella sola dimensione dove possiamo davvero essere felici:

il presente.

Romanzo

Eva Hoffman

La lingua del tempo

Dovresti sposarlo?

la domanda si presenta in inglese.

Sì.

Dovresti sposarlo?

la domanda si ripropone in polacco.

No.

Il Margine è un marchio Erickson

in copertina Donna in giardino, Johannes Hendrikus Antonius Maria Lutz, 1907-16 (Rijksmuseum)

progetto grafico Bunker

isbn 979-12-5982-001-3 9791259820013

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Eva Hoffman 1945

Nata a Cracovia, ha lasciato con la famiglia la Polonia nel 1958 emigrando prima in Canada poi negli Stati Uniti.

Dopo aver conseguito il dottorato in letteratura inglese ad Harvard, ha lavorato per il «New York Times».

Ha esordito nel 1989 con Lost in translation: Life in a new language, già pubblicato nel 1996 da Donzelli con il titolo Come si dice e ora riproposto in una traduzione aggiornata. A questo sono seguiti altri romanzi, saggi

e reportage, tra cui ricordiamo Shtetl. Viaggio nel mondo degli ebrei polacchi (1997; Einaudi, 2001).

Vive a Londra da oltre trent’anni.

Traduzione di Maria Baiocchi

Vive a Roma, traduce saggistica e narrativa da tre lingue. Da anni lavora a molte delle sue traduzioni dall’inglese con l’amica e collega Anna Tagliavini che, anche stavolta, le ha prestato il suo aiuto prezioso.

off man    La lingua del tempo

€ 17,50

Quando tredicenne con la sorella e con i genitori s’imbarca per l’America, Ewa Wydra abbandona il suo mondo, una Polonia che dopo la Seconda guerra mondiale non è più un luogo sicuro per la sua famiglia di origine ebraica. Appena arrivata sarà ribattezzata Eva Hoffman e da allora inizierà per lei, un’emigrante fra milioni, una ricerca continua: di una nuova patria, l’America, e di una nuova lingua, l’inglese.

Eva Hoffman descrive lo spaesamento dell’emigrato che riconosce le stesse cose di sempre ma con nomi inediti, che deve abbandonare abitudini per apprenderne altre. Traducendo i propri pensieri, ci si arricchisce e ci si perde: si acquisiscono nuovi significati per sopravvivere, ma se ne lasciano a malincuore altri. Il punto di equilibrio per tutti noi, anche per chi non abbandonerà mai il proprio Paese, è accettare di parlare la lingua del tempo e trovare l’armonia nella sola dimensione dove possiamo davvero essere felici:

il presente.

Romanzo

Eva Hoffman

La lingua del tempo

Dovresti sposarlo?

la domanda si presenta in inglese.

Sì.

Dovresti sposarlo?

la domanda si ripropone in polacco.

No.

Il Margine è un marchio Erickson

in copertina Donna in giardino, Johannes Hendrikus Antonius Maria Lutz, 1907-16 (Rijksmuseum)

progetto grafico Bunker

isbn 979-12-5982-001-3 9791259820013

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Aprile 1959. Aggrappata alla ringhiera del ponte superiore del Batory, sento che la mia vita sta finendo. Guardo la folla assiepata a terra per assistere alla partenza della nave da Gdynia — una folla che, all’improvviso, è irrevocabilmente dall’altra parte — e voglio scappare, tornare indietro, cor- rere verso quel trambusto familiare, fra quelle mani che si agitano nel saluto, fra quelle grida. Non è possibile che stia- mo lasciandoci tutto questo alle spalle — eppure è proprio così. Ho tredici anni e stiamo emigrando. È un’idea così la- cerante, così definitiva, che potrebbe anche corrispondere alla fine del mondo.

Mia sorella, di quattro anni più piccola di me, mi stringe forte la mano senza una parola, capisce a malapena dove ci troviamo, quello che ci sta succedendo. I miei genitori sono tutti agitati, hanno appena subito una perquisizione da par- te della polizia doganale, che ha pensato bene di congedarli con un’ultima provocazione antisemita. Ma gli ufficiali non sono stati abbastanza furbi o abbastanza sospettosi da con- trollare me e mia sorella; una fortuna, visto che addosso ab- biamo un po’ di argenteria che è proibito portare fuori dalla Polonia. Ce l’hanno cucita addosso, dentro grandi tasche sotto le gonne, e sopra abbiamo enormi maglioni a nascon- derla.

Quando la banda di ottoni a riva intona l’allegra mazurka dell’inno nazionale polacco mi sento trafiggere da una ma-

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linconia adolescenziale così potente che improvvisamente smetto di piangere e cerco di resistere, immobile, al dolore.

Disperata, vorrei fermare il tempo, fermare la nave con la mia volontà. Soffro la mia prima grave crisi di nostalgia, o tęsknota — una parola che mescola alla nostalgia i toni della tristezza e del desiderio. È una sensazione di cui sono desti- nata a imparare bene tutte le tonalità e le sfumature, ma in questo momento mi piomba addosso come la rivelazione di tutta una nuova geografia di emozioni, l’annunciazione di quanto possa ferire l’assenza. O il presagio dell’assenza, per- ché in questo momento del distacco sono piena fino all’orlo di tutto ciò che sto per perdere — delle immagini di Craco- via, che amavo come si ama una persona, dei villaggi cotti dal sole dove passavamo le estati, di tutte le ore trascorse sui passaggi musicali insieme al mio insegnante di pianoforte, delle chiacchiere e delle fughe con gli amici. Se guardo avan- ti m’imbatto in un enorme vuoto gelido — un oscuramento, un annullamento dell’immaginazione, come se l’obiettivo della macchina fotografica si fosse chiuso, o sul futuro fosse stata tirata una pesante tenda. Non so niente della meta, il Canada: solo i vaghi contorni di un mezzo continente, di vasti spazi e poca gente. Durante la guerra, quando i miei genitori si erano nascosti nella foresta in un bunker mime- tizzato da rami d’albero, mio padre aveva un libro intitolato Canada fragrant with resin che, nella sua orribile prigionia, gli parlava di distese selvagge e maestose, di animali liberi di vagare senza essere cacciati, di libertà. E in parte è anche per quello che stiamo andando lì invece che in Israele, dove sono andati quasi tutti i nostri amici ebrei. Ma per me nel- la parola «Canada» riecheggia qualcosa di spaventoso, un po’ come «Sahara». No, la mia mente rifiuta l’idea di essere portata là, non voglio essere stanata dalla mia infanzia, dai miei piaceri, dalle mie certezze e dalla speranza di diventare una pianista. Il Batory salpa, la sirena per la nebbia emette

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il suo suono da shofar come un muggito, ma tutto il mio essere è impegnato in una lotta ostinata, nel rifiuto di muo- versi. I miei mi poggiano le mani sulle spalle per consolarmi e per un attimo sanno che, per quanto l’abbiano desiderato, questo distacco è doloroso.

Molti anni dopo, durante un party a New York, una don- na mi raccontava di aver avuto un’infanzia magica. Suo pa- dre era un diplomatico importante in un Paese asiatico e lei aveva vissuto circondata dal lusso e dall’eleganza, fra gli inchini dei servi e le avances discrete di uomini adulti. Non c’era da stupirsi, diceva, se quando quella fase della sua vita si era chiusa, a tredici anni, lei si era sentita cacciata dal pa- radiso e da allora non aveva fatto altro che cercarlo.

No, non c’era da stupirsi, ma quello che stupisce è che tut- to può diventare il paradiso. Le dissi che ero cresciuta in un povero appartamento di Cracovia, in tre stanze modeste con altre quattro persone, circondata da battibecchi, sotterranee espressioni di dissenso politico, racconti delle sofferenze della guerra e dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza.

Eppure, al momento di partire, anch’io mi ero sentita espul- sa dal felice, protettivo giardino dell’Eden.

Sto a letto e guardo sul soffitto le ombre delle tende smos- se dal vento e i fari di qualche rara macchina di passaggio.

Cerco di resistere al sonno che si avvicina. Stare sveglia è così dolce che voglio ritardare il momento della perdita del- la coscienza. Sto rannicchiata sotto un enorme piumone ricoperto di seta ricamata a mano. Dall’altra parte della ca- mera c’è la culla di mia sorella. Dalla «prima stanza», quella dei miei genitori, li sento respirare. La cameriera, una della lunga serie di ragazze di campagna venute a lavorare da noi, dorme in cucina. Cracovia 1949: ho quattro anni e non so- spetto neppure di assaporare quella felicità in un Paese ap- pena devastato dalla guerra, un posto dove mio padre deve

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darsi da fare per portare a casa qualcosa di più della nostra magra razione di carne e zucchero. So solo che sono nella mia stanza che per me è il mondo e che i disegni sul soffitto mi bastano perché… beh, perché ci sono, perché il mondo esiste e scorre così dolcemente nella mia testa. Di tanto in tanto, da pochi isolati più in là mi giunge il ronzio del tram:

la gioia più completa. Mi piace andare in tram, col suo mo- vimento snodato vivificante ma non troppo veloce, e mi pia- ce sapere, dal mio letto, in quale strada sta passando, mi ripeto che sono a Cracovia, Cracovia, come dire casa mia e l’universo. Domani uscirò con mia madre, insieme a lei an- drò da Kazimierza Wielkiego, la strada dove abitiamo, a via Urzçdnicza, dove sta la mia amica Krysia, e già la prospetti- va della passeggiata per una strada che mi è nota e che pure può serbarmi ancora tante sorprese mi riempie di piacere.

Lentamente le immagini e i suoni si allontanano e le pa- role con cui li chiamo mi si confondono nella mente. Fin- ché mi riesce, osservo il processo delizioso del sonno che mi avvolge. La consapevolezza di scivolare verso un altro stato della coscienza è anch’essa una forma di felicità.

Tutte le notti sogno una vecchietta — una Baba Yaga avvizzita, mezza nonna mezza strega, con un fazzolettone nero: se ne sta seduta, tutta curva e piena di rughe, su una panchina in fondo al nostro cortile, lontano lontano. È in- finitamente vecchia e infinitamente piccola e dal fondo del cortile, che è diventato infinitamente profondo, mi fissa attraverso le fessure dei suoi occhi saggi e maliziosi. Forse però sono io. Forse sono su questa terra da tanto, tanto tem- po ed è per questo che capisco l’espressione di quegli oc- chi. Forse questa maschera da bambina che porto è solo un sogno. Forse sono il sogno di una Baba Yaga che esiste dal principio del tempo e da dentro la sua antica forma guardo il mondo e so che tutto è immutabile e conoscibile.

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È un giorno pieno di sole, ma all’improvviso, mentre im- pasta o mi rammenda il gomito di un maglione, mia madre comincia a piangere sommessamente. «È l’anniversario del- la sua morte — dice guardandomi compassionevole, come se anch’io facessi parte del suo dolore —. Non posso smette- re di pensare a lei».

Io lo so chi è «lei», mi sembra di averlo sempre saputo.

È la sorella piccola di mia madre, uccisa durante la guer- ra. Anche tutti gli altri membri della famiglia di mia madre sono morti, la madre, il padre, i cugini, le zie. Ma è per la sorella il dolore più lancinante. Era così giovane, diciotto o diciannove anni: «Non aveva ancora vissuto» dice, ed è morta in un modo così orribile. L’uomo che l’ha vista entra- re nella camera a gas raccontava che lei era fra quelli cui è toccato scavarsi la fossa da soli e che le sono diventati grigi i capelli il giorno prima di morire. Una storia che mi colpi- sce come una fiaba dei fratelli Grimm, ma più crudele, più magica. Solo che è una storia vera. O no? Non ha la stessa, tangibile realtà del tram di Cracovia. Forse dopo tutto non è mai successo, forse è solo una storia, e una storia si può rac- contare in un altro modo, si può cambiare. Quell’uomo era l’unico testimone, magari ha scambiato qualcun altro per la sorella di mia madre. Fra me, senza dirlo a nessuno, decido che da grande girerò il mondo in cerca della zia perduta.

Può darsi che sia sopravvissuta e che sia emigrata in uno di quei posti strani di cui ho sentito parlare, come New York o il Venezuela. Forse la troverò e la riporterò a mia madre, e il suo dolore si placherà.

Mia sorella porta il nome di questa persona che nella no- stra vita esiste come un’ombra quasi tangibile — Alina — e mia madre spesso sente una strana compassione per la sua bambina più piccola, come se con quel nome le avesse as- segnato anche il peso di un destino terribile. «A volte mi si spezza il cuore per lei — mi dice —, non so perché ma ho

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paura per lei». Io stessa eredito un po’ di quelle paure e vedo mia sorella come una creatura fragile e vulnerabile che ha bisogno di tutto il mio amore e di tutta la mia protezione.

Ma anche mia madre mi sembra fragile, come solo provviso- riamente strappata alla morte che da un momento all’altro potrebbe reclamarla. L’oceano della morte è così immenso e la vita un continente così leggero. Tutti quelli che conosco hanno perso qualcuno durante la guerra e quasi nessuno dei miei amici ha i nonni. Sul tram vedo uomini mutilati e mi terrorizza il pensiero di come dev’essere difficile la loro vita.

Essere adulti, concludo, vuol dire essere vicini alla morte.

Solo mio padre, che ha salvato più volte la vita sua e della moglie durante la guerra grazie alla sua forza fisica e alla sua astuzia, sembra abbastanza forte e solido da resistere al suo abbraccio sempre in agguato.

Mio padre è un uomo basso e dalla corporatura potente, che naturalmente a me sembra molto alto, e che da giova- ne aveva fama d’essere «forte come un toro». Più tardi mi racconteranno che l’unica volta che l’hanno visto piangere è stato quando sono nata io. E del resto anche allora la morte aveva provato a riprendersi la mia vita; sono nata due mesi dopo la fine della guerra. Quando mia madre era già mol- to avanti nella gravidanza, i miei genitori dovettero sfollare da Leopoli, passata senza tante cerimonie dalla Polonia alla Russia, e fare la strada fino a Cracovia, dove si erano diretti solo perché era la città grande più vicina in territorio po- lacco. Il viaggio lo fecero su un camion sgangherato pieno di sacchi di patate e di gente che cercava di varcare il prima possibile il nuovo confine e lasciava la casa e gli averi solo per conservare la nazionalità. Così, dopo tutte quelle soffe- renze, la mia nascita in un buon ospedale cittadino, e con la prospettiva di riprendere una vita normale dopo tanto orrore, deve aver significato per loro, a parte tutto il resto,

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un nuovo inizio. E i miei genitori volevano disperatamente ricominciare da capo, vivere. Più tardi mi avrebbero raccon- tato la felicità di essersi lasciati «tutto quello» alle spalle, e la felicità di vedere di tanto in tanto ricomparire, chissà come, qualcuno che avevano creduto morto. Come dev’essere stata intensa quella gioia! Mio padre — ed è uno dei pochi indizi del dolore della perdita che deve aver provato — chiese a mia madre di mettermi il nome di sua madre, anche se, se- condo la tradizione, la prima figlia femmina avrebbe dovuto prendere il nome della parente morta più vicina per parte di madre. Ma certo ai miei genitori non mancano i morti da onorare e così mi vennero imposti i nomi delle due nonne:

Ewa e Alfreda, due donne di cui ho un’idea assai impreci- sa. Neppure le fotografie sono sopravvissute alla guerra: lo stacco dal passato è totale.

I miei genitori mi raccontano poco degli anni prima della guerra a Zalosce, una cittadina vicino a Leopoli, come se la guerra oltre ad aver spazzato via letteralmente quel mondo, ne avesse cancellato anche la rilevanza emotiva nella loro nuova condizione. «Beh, eravamo solo gente comune» mi ha detto una volta mio padre in risposta a una mia domanda, liquidando l’importanza di quel periodo della loro vita. Di quel quadro emergono solo i contorni appena tracciati. Tut- ti e due vengono da famiglie di rispettabili mercanti. Mio padre era il figlio viziato e lo scavezzacollo del villaggio che rimorchiava le ragazze per strada e che non aveva finito gli studi perché era un lazzarone. La famiglia di mia madre era più ortodossa e, benché lei fosse un’allieva modello, non le fu permesso di andare all’università, come avrebbe tanto vo- luto, né di studiare il violino quando uno dei suoi insegnanti si offrì di darle lezioni gratis perché pensava che fosse «mu- sicale». Non le era neppure permesso mostrare le braccia o le gambe, né parlare ai ragazzi quando non era accompa- gnata. Non ho idea di come sia andata la fase di corteggia-

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mento, ma so che la decisione di sposare mio padre — uno dei ragazzacci del posto — fu ritenuta un atto di ribellione grave. La sua storia personale aveva instillato in mia madre una decisa avversione — sorprendente per quei tempi — per le «arti femminili», e per tutta la mia infanzia e adolescenza fece attenzione a non insegnarmi niente di cucina e cucito nel timore che quelle attività potessero distogliermi da altre più interessanti.

Mio padre, suppongo, nella sua straripante felicità, scam- bia il primo figlio per un maschio e per molti versi comin- cia a trattarmi come un ragazzo. Preferisce vedermi vestita sportiva — cioè con i pantaloni, lunghi o corti — e con i capelli a spazzola. Nel complesso vuole che io diventi sportif

— brava nelle gare e in tutte le manifestazioni di prestanza fisica. Così nella nostra «prima stanza» mi insegna a fare ginnastica: esercizi acrobatici così popolari in quel perio- do, forse per via del diffuso imperativo sulla forma fisica, parte dell’ideologia e tratto distintivo dell’Uomo Nuovo.

Cerca di iniziarmi a tutti i possibili sport all’aria aperta e a volte la sua pedagogia non è propriamente incoraggiante.

A cinque anni mi compra una bicicletta da maschio troppo alta per me e appena ho imparato a reggermi in equilibrio mi spinge con forza gridando «veloce! veloce! veloce!» fino all’ovvia caduta. Mi insegna a nuotare col vecchio metodo:

mi butta in un fiume e sta sul ponte vicino a guardarmi andare sotto e risalire a galla, bocca piena d’acqua e dignità ferita. Mi porta sulla pista di pattinaggio di Cracovia e mi fa volteggiare vertiginosamente nell’aria gelida. Una delle sue idee più brillanti, almeno per me e mia sorella, è quella di comprarci l’Hula Hoop, proprio quando quella mania, appena importata dall’America, colpisce Cracovia con forza simbolica. Lui conquista quell’oggetto del nostro indicibile desiderio semplicemente saltando a piè pari una di quelle interminabili file a serpentone che si vedono in tutte le stra-

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de polacche. Mio padre è molto bravo a farsi strada in quelle file, ma in questo caso si tratta di un oggetto così raro che molti hanno passato la notte ad aspettare e il suo gesto im- pudente lo espone al rischio del linciaggio. Riesce comun- que a portare a casa quella ruota di plastica arancione, ai miei occhi degna di qualunque rischio perché mi rende mol- to popolare fra i miei amici, con i quali passo ore e ore a far- la ruotare sempre meglio e sempre più a lungo intorno alla vita, ai fianchi e al collo. Facciamo a gara a chi dura di più.

Poi, quando ho circa undici anni, mio padre compra una motocicletta. Ah, la motocicletta! È solida e viene dalla Rus- sia (nessuno nel linguaggio comune la chiama Unione So- vietica) dove i miei genitori hanno fatto il loro unico viaggio nel 1956, allo scopo di comprare alcuni oggetti moderni in- trovabili nella Polonia postbellica: un frigorifero, un aspira- polvere e una pelliccia per mia madre, e quella motocicletta grossa e sgraziata che suscita l’invidia di tutto il vicinato. In quel periodo nessuna delle famiglie che conosciamo possie- de un qualunque veicolo motorizzato, e tantomeno un’au- tomobile. Sulle strade selciate di Cracovia si vedono soprat- tutto tram e fiacre, i dorozhkas trainati da cavalli, anche se nelle zone più commerciali della città a volte ci sono molte macchine in fila, macchine che sembrano procedere a una velocità pazzesca.

Presto scopro la sensazione della velocità sul corpo: ap- pena ha imparato a guidarla, mio padre mi porta con sé in motocicletta — sceglie me per prima — per una gita in cam- pagna. Fra le proteste spaventate di mia madre monto sulla sella di cuoio dietro di lui e il motore si accende con un gran rumore, quasi un rullo di tamburi, e poco dopo siamo già lontani, procediamo a sbalzi sul selciato e morbidamente sulla strada asfaltata e finalmente acceleriamo sulla strada di campagna, con uno slancio ritmico, eccitante. La nostra prima uscita in moto è scandita da due cadute — come al

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solito mio padre è più focoso che metodico — ma ce la cavia- mo con qualche sbucciatura sulle ginocchia a cui non faccio quasi caso. Non ho nessuna paura di un vero incidente — mi fido troppo di mio padre — e poi la verità è che mi piace es- sere trattata da papà come l’amico del cuore, e torno a casa col volto acceso dal trionfo e dal vento.

«Bramaramaszerymery, rotumotu pulimuli», dico con un’intonazione da cantastorie, come se stessi cominciando un lungo racconto, anche se so bene che quelle che pronun- cio sono solo sillabe senza senso. «Che cosa stai dicendo?» mi chiede mia madre. «Tutto», rispondo e ricomincio da capo:

«Bramarama, szerymery…». Voglio raccontare una storia, tutte le storie, tutte insieme, non le cose che posso dire con le parole che conosco, e cerco di avvolgere tutti i suoni in uno, di accumulare sempre più sillabe, come se potessero formare un nastro di Moebius di parole, un nastro che contiene tutto, tutto. Anche in questo gioco c’è una regola segreta — ed è che i suoni devono ricordare quelli di sillabe vere, che non possono disintegrarsi in rozzo rumore, perché allora equi- varrebbe a non parlare affatto, e io voglio articolare, ma in modo da esprimere tutto il mondo simultaneamente.

Sto giocando a campana oppure vado su una specie di skateboard col manubrio giù per la strada sotto il nostro palazzo quando il volto di mia madre appare nel riquadro della finestra e grida: «Ewa! È ora di rientrare!». Dopo la protesta di prammatica rientro, il portone come al solito è ostruito dalla mole felliniana della portiera, con l’enorme petto straripante dal vestito trasandato. Cerco di scivolarle accanto senza farmi notare ma lei borbotta qualcosa tutta risentita: «L’ebreuccia si crede qualcuno» dice, e io corro su per le scale mezza spaventata mezza divertita dalla sua aria da baubau.

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Il nostro modesto appartamento è considerato rispettabi- le per gli standard polacchi postbellici, se non altro perché è tutto per noi. La cucina è quasi sempre satura del vapore delle grandi pentole con la minestra che cuoce sulla stufa a legna, o della biancheria che viene fatta bollire nelle tinozze per sbiancarla; dietro la cucina c’è un minuscolo balcone, in cui entrano appena due persone e dove di tanto in tanto andiamo a scambiare qualche pettegolezzo con chi pela le patate o sbatte i tappeti o semplicemente se ne sta sui balco- ni vicini a chiacchierare. Sotto c’è un cortile lastricato dove passo ore a far rimbalzare una palla contro il muro insieme agli altri bambini, e un giardinetto dove vado a sentire il profumo delle poche violette che spuntano a primavera o ad arrampicarmi sul melo, e dove mia sorella raccoglie le lumache sotto i rovi di boysenberry e ne riporta a casa tutta fiera secchi interi.

A parte la cucina, la nostra casa è composta dalla «prima stanza», in cui troneggiano il grande armadio di mogano e la stufa con le piastrelle di porcellana blu che arriva fino al soffitto, il tavolo da pranzo e il divano-letto dei miei. La «se- conda stanza» è la camera da letto mia e di mia sorella. Nel bagno c’è una stufa a gas per riscaldare l’acqua, e riempire la vasca richiede un gran daffare. Al principio di ogni inverno un uomo vestito da contadino ci porta il rifornimento di car- bone e di legna tagliata a piccoli ciocchi per il riscaldamento di tutto l’appartamento e a volte vengo spedita a prenderne un po’ in cantina. È un posto umido e buio che scruto ner- vosamente prima di infilarmici dentro di corsa per riempire due ceste con il carbone ammassato nel nostro angolo.

L’edificio di tre piani è sempre animato dalle chiacchie- re e dal viavai della gente in visita, nonché da qualche me- lodramma. La portiera baubau è sposata con un ometto magro magro dall’aria misera e non fa altro che strillargli addosso; un giorno lo ferisce perfino con un coltello. Dopo

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quell’episodio lui si accascia ancora di più, evita tutti e si mette ad allevare galline nell’enorme soffitta sotto il tetto del palazzo. I loro versi rauchi e le piume che volano dap- pertutto trasformano quel luogo in un ambiente surrealista alla Bruno Schulz che mi attrae come qualcosa di magico.

Nell’altro appartamento sotto di noi c’è un calzolaio che, secondo uno stile più classico, si ubriaca e picchia la moglie.

Tutti l’hanno sentita gridare e piangere nel retrobottega del negozio saturo di odore di cuoio e tutti scuotono la testa con aria di commiserazione quando si parla di loro. Ma nessuno si meraviglia. I mariti a volte picchiano le mogli: è la vita.

Poi ci sono i veri vicini — fra i loro appartamenti c’è un continuo viavai di ragazzini, zucchero, uova e visite per il tè.

I Czajkowski del secondo piano sono «gente bene», il che vuol dire che hanno un certo prestigio prebellico: forse era- no ricchi, o colti, o professionisti importanti. Pan (il signor) Czajkowski, un bell’uomo scavato, spesso sta male e dal suo letto parla con foga di quello che hanno fatto «al nostro Pa- ese», come se volesse imprimermi nella mente un messag- gio. In seguito vengo a sapere che durante la guerra faceva parte della resistenza clandestina. I Rumek sono i primi ad avere un telefono in tutto l’isolato e da quel momento han- no spesso nell’ingresso una piccola folla che aspetta di usa- re l’apparecchio. Dall’altra parte del pianerottolo ci sono i Twardowski, che vengono regolarmente da noi per parlare di politica e ascoltare Radio Europa Libera — occasione in cui la porta di casa viene accuratamente sprangata — e per discutere i brandelli di informazione che si riescono a cap- tare tra le scariche. La figlia dei Twardowski, Basia, mi piace molto: è parecchio più grande di me e ha le più belle trec- ce del mondo, a volte le porta arrotolate intorno alla testa;

quando non c’è nessuno a occuparsi di me e di mia sorella lei viene a stare da noi. Vuole studiare medicina e mi fa ve- dere dei libri con orrende immagini di organi e di malattie e

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io le parlo dei problemi che più mi stanno a cuore, come per esempio se è peggio morire prima delle persone che amia- mo o vederle morire. Ma un giorno, lei ha circa sedici anni, quando vado nel suo appartamento per chiedere qualcosa in prestito la trovo sulle ginocchia del padre che la picchia in modo metodico, con una cinghia di cuoio. Quella scena mi paralizza, lui invece continua a frustarla incurante della mia presenza. Io sto lì a osservare quella situazione umi- liante fino a che lui non smette e dà alla figlia il permesso di andarsene. Da quel momento in poi Basia non mi parla più nello stesso modo amichevole.

Tutto questo succede al numero 79 di Kazimierza Wielkiego, alla periferia della città, nella zona di passaggio dalle abitazioni cittadine alle case contadine, ai giardinetti e alla terra incolta piena di erbacce. Come l’appartamento dove viviamo, anche il nostro territorio sociale mediobor- ghese ha i confini incerti, viviamo in una posizione inter- media, anfibia, il che non sembra dare troppo fastidio ai miei. Conoscono tutte le sfumature di classe, ma non han- no grandi ambizioni in quel senso. Nel gran calderone del- la Polonia del dopoguerra se la sanno cavare e affrontano la vita con grande energia. Mio padre preferisce l’azzardo dell’iniziativa individuale — per quanto illegale in quella società — allo zelo della routine quotidiana. Anche se ha un lavoro fisso al negozio «Import-Export», la sua intelligenza e le sue risorse le dedica tutte a pericolosi piani per far soldi:

comprare i dollari proibiti o contrabbandare argento dalla Germania Orientale. È uno dei tanti che si dedicano a quei giochi che fanno parte dell’eterno Grande Gioco di fregare il Sistema, un’attività che impegna gran parte della vita dei polacchi e che — dato l’atteggiamento diffuso nei confronti di quel Sistema — è ritenuta onorevole, piena di fascino e di rischio. Tutti — è questa l’opinione comune — sono in qual-

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che modo coinvolti in una qualche attività illegale: doppio lavoro, o uso delle attrezzature della fabbrica per produrre merci extra da rivendere privatamente fuori orario, oppure andare in Ungheria a vendere generi introvabili in quel Pa- ese come lenzuola o pettini di plastica (per un certo perio- do la plastica furoreggiava) sempre in cambio dei proibiti e preziosi dollari. Come fosse possibile per qualcuno sbarcare il lunario senza quelle attività collaterali è un mistero: i sa- lari medi bastavano appena per sfamare una famiglia e non certo per vestirla.

Così, per tutta l’infanzia mio padre scompare per molti giorni di fila e ricompare altrettanto inaspettatamente por- tando in casa il forte aroma delle sigarette, del suo cappotto- ne di pelle e del vasto mondo. In genere al suo ritorno lui e la mamma si mettono a parlare fitto fitto in yiddish, la lingua dei soldi e dei segreti. Ma è solo quando stiamo per emigra- re in Canada che mi mostra un puzzle che ha costruito nel parquet. Toglie i pezzi e mi mostra un piccolo nascondiglio dove, per tutti quegli anni, ha tenuto la valuta straniera.

È roba pericolosa, come scopriamo quando uno dei suoi amici viene mandato in Siberia, ma mio padre si diverte a quel gioco, come si diverte a correre forte in motocicletta sulle dissestate strade polacche. Le sue iniziative illegali sono anche quelle che ci permettono di rimanere nei limi- ti di una rispettabile piccola borghesia, ovvero di andare al ristorante una volta al mese, fare lunghe vacanze estive, tenere una cameriera in casa e avere più di un cambio di vestiti, nonché di tanto in tanto comprare qualche articolo d’importazione, come le scarpe con i tacchi a spillo per mia madre o una camicetta di nylon per me.

Mia madre, a modo suo, si tratta da signora e conduce una vita piacevole e piena. Si occupa della casa con l’aiuto di una cameriera, fa amicizia con le signore nel parco dove porta me e mia sorella a giocare tutti i giorni, legge i suoi li-

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bri, mi porta a prendere il gelato in uno degli adorabili caffè di Cracovia, e consiglia mio padre nelle sue iniziative. An- diamo all’opera, a teatro e al cinema — tutte cose accessibili a poco prezzo — e spesso andiamo a trovare gli amici. Per un certo periodo i miei genitori sono contenti della vita che fanno, in una grande città vivace, colta e dove arrivano le notizie di quello che succede nel mondo.

Certo tutti e due aspirano a «qualcosa di meglio» per le loro bambine. Anzi hanno grandi ambizioni, soprattutto per la primogenita che sembra particolarmente intelligente e dotata. Nessuno dei due ha un’idea di come ottenere quel qualcosa in più — qualunque cosa sia — né di quanto lavoro o disciplina richiederà. Per quanto si circondino delle como- dità borghesi, non si fanno abbindolare dall’etica del lavoro.

La vita che hanno avuto è stata abbastanza irrazionale da permettere loro di credere nel gioco — nel rischio e nella fortuna — più che in un ordinato progresso. E poi non esiste niente che somigli a un ordinato progresso nella Repubblica Socialista del Popolo. È chiaro a tutti che non serve a nien- te provarci. Lavorare duro nella «professione scelta», che il più delle volte è stata scelta per te, quando non c’è gratifi- cazione né possibilità di migliorare la propria condizione e quando domani può succedere qualsiasi cosa, è per i gonzi o gli schlemiels. Il Sistema — che per l’eterno scetticismo polacco compendia tutti i sistemi — produce una nazione di giocatori e di cinici.

Ma, oltre che per via della loro situazione contingente, i miei genitori coltivano l’antica convinzione — eredità di secoli di duro lavoro non volontario — secondo la quale la condizione di vita ideale è quella del dolce far niente. Mia madre ha un malcelato rispetto per le donne pigre. La pi- grizia è indice di un carattere portato al lusso, edonista, ca- pace di apprezzare i piaceri. «Sai che Ormianska chiama la cameriera dalla cucina per farsi portare i cerini che stanno

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a pochi centimetri dalla sua mano?», dice mia madre mez- za scandalizzata, mezza ammirata. Quel tipo di egoismo è il cuore stesso del potere femminile che consiste nell’abilità di farsi fare le cose dagli altri, di farsi viziare. Mia madre non è la sola a nutrire quella convinzione secondo cui un certo tipo di egoismo è il più sexy dei vizi, qualcosa che ha a che fare con la regalità. In seguito si mostrerà stupita dalla grande quantità di energia che sono pronta a sprecare per soddisfare la mia ambizione. Non si capacita — e chi po- trebbe darle torto? — della fretta continua di cui sono pre- da, non capisce dove voglio arrivare.

In un certo senso i miei genitori conserveranno sempre qualcosa di pre-urbano nel loro atteggiamento, qualcosa che sfugge alle categorie del mondo industriale. Ma al tem- po stesso la guerra — loro seconda patria — li ha scagliati, con un salto enorme sull’abisso, in braccio alla modernità.

La gran parte dei loro docili preconcetti e convinzioni è sta- ta corrosa dal tarlo della grande sofferenza e rimpiazzata da un nichilismo assolutamente modernista. La legge, la poli- tica, l’ideologia sono loro indifferenti. Sono stati spogliati della fede religiosa e dei residui della pruderie vittoriana e ortodossa. In un certo senso è impossibile scioccarli, hanno perso l’innocenza di una morale ereditata e fuori discussio- ne. La sola cosa che resta loro è un profondo scetticismo sulle motivazioni umane, una sorta di esistenzialismo casa- lingo — una filosofia uscita dalla guerra, dopo tutto — con la sua scommessa che, giacché tutto è assurdo, tanto vale spremere il succo da ogni momento. Vogliono la felicità con ostinazione, implorano i loro figli di essere felici, felici a tut- ti i costi: una ricetta che alla lunga si rivelerà un terribile paradosso.

Sto tornando a casa dalla scuola. Cammino lentamente, intenta a un gioco in cui è proibito poggiare i piedi sulle

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connessure fra una lastra e l’altra della pavimentazione. Il sole proietta il suo groviglio di luci e di ombre. Intorno non succede nulla. Niente esiste per me all’infuori di questo momento in cui cammino verso casa con passo ritmico. Ma improvvisamente il tempo mi trafigge con la sua tristezza.

Questo momento non durerà. Ogni passo che faccio can- cella una quota di tempo. Presto sarò a casa e allora questo momento, la presenza di questo momento sarà svanita — penso — e il tempo già fugge dietro le mie spalle, come una corrente impalpabile risucchiata in un vortice invisibile.

Come è possibile che questa pienezza, questo mio essere sulla strada, questo momento così florido a un certo punto scompaia? È come quando ruppi quella grande bambola di porcellana che, per quanto la desiderassi di nuovo intera, se ne stava lì rotta, sul pavimento. Non posso fare nien- te, neppure per sottrarmi a questa stretta che mi trascina all’indietro. Di quanti momenti è fatta la mia vita? Sento il mio respiro: ogni volta che inspiro sono più vicina alla morte. Rallento il passo: non sono ancora a casa, ma pre- sto ci sarò, ormai sono sempre più vicina, ma ancora non ci sono… non ancora… non ancora… Ricordati questo, mi dico, come se così potessi preservarne qualche frammento.

Quando sarai adulta te ne ricorderai. E ti ricorderai che ti eri detta: ricorda.

Mi lascio andare sulla schiena, portata dalle acque ri- bollenti e schiumose del fiume, senza opporre nessuna re- sistenza. Sento un leggero gradevole brivido di pericolo:

è bello essere avvolti dalla corrente, sentirne l’energia e il movimento. Poi mi tiro su trionfante e corro a riva verso un gruppo di amici e di familiari. Ci sono mia madre, la sua migliore amica Pani Ruta (Pani è come dire Madame) e tan- te altre signore con i figli. I loro mariti, che non possono abbandonare il lavoro, vengono solo per una parte dell’e-

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state. Le donne siedono sulla sponda verde del fiume con sullo sfondo le linee pulite dei campi di grano a scacchiera, e giocano a carte, leggono e oziano. Le cameriere, che sono venute con noi da Cracovia, ci preparano il pranzo oppure si riposano a loro volta da qualche parte.

Siamo quattro famiglie che hanno l’abitudine di trascor- rere le vacanze insieme e per diverse estati di seguito pren- diamo in affitto alcune case di contadini in un piccolo villag- gio vicino a Biały Dunajec, ai piedi dei monti Tatra, dove ci rifugiamo per nove o dieci settimane di ozio senza condizio- ni. L’impresa più ardua è arrivarci, perché il villaggio è al- quanto primitivo e dobbiamo portarci il guardaroba estivo, ma anche una serie di prodotti della civiltà come bacinelle, lenzuola morbide, pentole e padelle, e una pila di libri. Una bella mattina di ogni estate ci alziamo presto, prendiamo il taxi — evento raro! — che ci porta alla stazione ferroviaria e poi, con molto trambusto, infiliamo tutte le nostre cose sul treno. Scivolo prontamente nel mio umore estivo e passo buona parte del viaggio ipnotizzata dal ritmo irregolare e ripetitivo del treno, guardando fuori dal finestrino gli ap- pezzamenti di terra coltivata e le file di betulle che mi co- municano un grande senso di calma e di ordine, i covoni di grano cotti dal sole e i contadini che si tirano su dal lavoro per salutare il treno che passa.

Le case che prendiamo in affitto a Biały Dunajec sono di proprietà dei górale, montanari che parlano un dialetto polacco diverso dal nostro, noti per la loro ferocia — molti dei loro uomini portano delle graziose e piccole asce infi- late nelle cinture e a volte, dopo i matrimoni o altre feste, sembra che nascano risse in cui quelle asce compaiono in una luce meno graziosa. Ma noi siamo cittadini e queste no- tizie ci arrivano solo dai pettegolezzi del villaggio. La casa dove stiamo è pulita e molto semplice, per terra assi di legno grezzo e sui letti materassi di paglia pungente, sui tavoli di

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legno bruciano lampade a olio. L’odore buono del legno ri- empie le stanze, insieme a quello della paglia e dell’aria fre- sca di montagna; fuori c’è un orticello piccolo e disordinato che sembra contenere tutti i colori della vita: le violette va- riopinte e i fiori di pisello che si arrampicano sui muri della casa, l’aneto che emana il suo odore pungente e i ravanelli duri, dai colori accesi, che a volte mangiamo a colazione in- sieme al pane di segale.

La mattina vado nei fienili a guardare le contadine con le loro vesti larghe e lunghe che mungono le vacche o montano il burro nei secchielli di legno. Non parlano quasi mai, né a me né fra di loro, ma mi piace starmene seduta lì vicino a osservare i loro movimenti pazienti e faticosi. Oppure sto in piedi a guardarle quando vanno a fare il bucato nel fiume gelido e vedo i panni diventare bianchi e risplendere nell’ac- qua limpida sotto il sole. Più tardi vado a girovagare per i boschi e i campi vicini insieme a Marek, inventiamo sempre nuovi giochi e scopriamo nuovi territori. Marek è il figlio di Pani Ruta e ci conosciamo dalla nascita, abbiamo giocato insieme nei parchi, abbiamo passato giornate l’uno a casa dell’altra e insieme abbiamo fatto esercizi di piano. Lui è il mio migliore amico, credo, ma non è solo questo: io sono innamorata di lui. Non riesco a stargli lontano, anche se a volte si diverte a farmi scherzi terribili: fa cadere dalla fine- stra un enorme dizionario proprio mentre io sto passando, e una volta cerca di infilarmi dentro una buca nella foresta, una buca che, lo scopriamo solo dopo, è stata lasciata lì dai tedeschi e forse contiene ancora delle mine.

A un certo punto diventa così vivace e ingovernabile che mia madre mi proibisce di vederlo e di giocarci insieme, ma senza risultato, perché io, appena posso, corro da lui. Par- liamo in continuazione e quando giochiamo con gli altri ra- gazzini siamo sempre complici. A volte, di sera, risaliamo la foresta fino a uno spiazzo erboso pieno di fiori e ci uniamo

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a un gruppo di contadinelli scalzi che arrostiscono le patate su un fuoco all’aperto; la buccia bruciacchiata delle patate ha un sapore delizioso nell’aria notturna e quando ritornia- mo giù usiamo le radici storte degli alberi come gradini del nostro sentiero buio. Oppure, nelle giornate di sole, ci infi- liamo sotto una cascata fino a che i vestiti non grondano ac- qua e mi invade il mio spirito selvaggio e il senso di sicurez- za derivante dalla presenza di Marek. Infatti, nonostante i giochi sfrenati che facciamo, sono profondamente convinta che la sua superiore forza fisica sia lì a proteggermi.

Quando arriva la stagione della mietitura, Marek e io ci uniamo all’intero villaggio e ce ne andiamo sui carri sgan- gherati tirati dai cavalli fino ai campi punteggiati da mucchi di fieno bassi e grossi. Passiamo più tempo a nasconderci dentro a quegli iglù di paglia che a lavorare col forcone, ma i contadini faticano e non si fermano fino a mezzogiorno quando arrivano le donne portando patate, salsicce e latte acido. Poi il lavoro riprende fino al tramonto, quando risa- liamo sui carri, ora coperti da montagne di fieno, così alte che quasi arrivano a toccare il soffitto dei fienili dove ven- gono immagazzinate per l’inverno. Dopo che il fieno è stato tirato giù dai carri, io e Marek giochiamo nel sottotetto del fienile che ha un odore caldo di cavalli e di paglia fresca.

Spesso, mentre gli adulti giocano a carte o chiacchiera- no, io mi sdraio sotto il melo in giardino e guardo le nuvole che si muovono in cielo, e questo mi basta. A volte mi piace stare sola con in testa pensieri-non pensieri, pensieri verdi contro il cielo blu. E mi piace aggirarmi per i sentieri stretti in mezzo ai campi profumati dopo il tramonto, quando co- minciano ad apparire le stelle nel cielo e l’orizzonte si riem- pie come una grande coppa mentre il silenzio ronza solo per me, creandomi dentro una pace ancora più grande.

Di domenica i rumori della vita paesana cessano, ma a metà mattina le campane della chiesa cominciano a suonare

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e una severa processione passa lenta giù per la strada prin- cipale di terra battuta. Per l’occasione tutti i contadini por- tano le scarpe e indossano il vestito della festa, le donne con i gilet ricamati sopra le bluse bianche, mentre gli uomini inalberano cappelli neri a tesa larga e dura con delle penne infilate di traverso. Camminano tutti insieme procedendo lentamente e in modo ritmico e cantando dolci e ingenue canzoni di Gesù e Maria.

Di notte poi, mentre mi addormento, sento a volte i con- tadini che ritornano dai campi e dalle valli intonando canti modali appassionati e puri, musiche come non mi è più ca- pitato di sentire, e allora la tęsknota m’invade anche se non so perché.

Sto nella mia tinozza, poggiata sul tavolo della sala da pranzo e Ciocia Bronia mi lava con le sue grandi mani ra- spose. Mi piacciono quelle mani e mi piace il modo in cui lei mi avvolge nell’asciugamano come se fossi un mite anima- letto. Poi mi asciuga i capelli e mi fa le onde, così sarò «bella come un fiore».

Ciocia vuol dire zietta, ma io so che lei non è una vera parente e che in casa ha uno status ambiguo. È una persona socialmente inferiore — questo mi è chiaro — ma occupa un ruolo speciale e intoccabile nell’affetto dei miei genitori. Do- potutto, durante la guerra li ha salvati quando stavano quasi per morire di fame; forse ha addirittura salvato loro la vita.

L’avevano incontrata in una casa dove erano stati nasco- sti durante l’ultimo anno di guerra, dopo che il loro bunker nella foresta era stato scoperto dagli ucraini. Benché quei passanti avessero giurato di non rivelare il nascondiglio che avevano visto per caso, i miei genitori si erano resi conto che era tempo di andarsene. Troppi ucraini erano dalla parte dei tedeschi. E infatti la loro diffidenza si rivelò fondata: po- chi giorni dopo tutta la zona fu perlustrata dalla Gestapo lo-

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cale, ma allora i miei avevano già trovato qualcuno disposto a nasconderli. Mia madre descrive il contadino che li salvò in modo assai bizzarro: un gobbo, avarissimo e quasi muto.

I suoi due figli, due ragazzoni, appartenevano alla Bande- rowcy, un gruppo fascista e filotedesco. Eppure quell’uomo, cupo e apparentemente duro, cominciò a mostrare segni di affetto e di attaccamento ai miei genitori e quando fu l’ora di separarsi da loro lo fece a fatica. «Non si può mai dire quali sorprese riservi un uomo», ripete mia madre assorta, e quando ne parla a volte le spuntano le lacrime.

Per un anno intero i miei rimasero chiusi nella soffitta di casa sua, quasi sempre seduti su un mucchio di fieno, con- gelati, pieni di pulci e spesso affamati. Fu lì che mio padre una volta vide avvicinarsi i tedeschi, forse venuti a perlu- strare la casa e, senza pensarci due volte, decise di saltare dalla finestra sul retro. Cercò di tirare giù anche mia madre, ma lei si rifiutò. «Non me ne importava più niente di vivere

— mi raccontò in seguito —, ormai non me ne importava più. Ma tuo padre, lui sì che voleva vivere, eccome! È questo che ci ha salvato». In quella circostanza i tedeschi furono distratti da qualcos’altro.

Fu sempre in quella casa che i miei genitori conobbero Ciocia Bronia. Era chiaramente una domestica che lavora- va per quel contadino piuttosto benestante, ma un giorno rivelò ai miei il suo segreto: anche lei era ebrea. Veniva da così lontano che nessuno lo sapeva nel paesino ed era pas- sata inosservata grazie ai suoi tratti che erano quelli di una polacca qualunque: corporatura massiccia e faccia larga.

Da allora, quando le riusciva, portava su ai miei un po’ di pane o di minestra in più e l’ucraino non seppe mai di aver ospitato un’altra ebrea in casa sua.

Finita la guerra i miei e Ciocia Bronia, tutti rimasti senza famiglia, si legarono moltissimo. Dopo aver trascorso alcuni mesi a Leopoli andarono a Cracovia insieme. Tutti e tre ave-

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vano avuto il presentimento, un altro dei loro presentimen- ti, che sarebbe stato meglio ritrovarsi in Polonia piuttosto che nella nuova Russia.

E così adesso Ciocia Bronia vive con noi, la prima di una serie di donne — dopo di lei, le altre sono solo semplici ca- meriere — che occuperanno il lettuccio della stretta cucina.

Lei è il solo legame che i miei genitori hanno conservato col passato prebellico e con la gerarchia prebellica dello shtetl.

Sì, è quasi una parente, solo che mia madre viene da una solida famiglia di mercanti e aspira a essere una persona

«bene», mentre Bronia resterà sempre un’ebrea povera, quasi una contadina. Mia madre legge molto e a volte, men- tre fingo di dormire nella «seconda stanza», sento i miei ge- nitori che discutono con gli amici di un nuovo libro o un film fino a tarda notte. Non so dove stia Bronia durante que- ste conversazioni, forse è in cucina e dorme davvero invece di far finta come me. Bronia non legge e non va al cinema.

Mia madre segue tutte le ultime mode sulle pagine dei set- timanali popolari e a volte, con grande eccitazione perché è una rarità, perfino su quelle dei giornali americani penetrati in qualche modo nel loro circolo. Ci buttiamo sui modelli di quelle riviste, senza fare differenza tra le immagini pubbli- citarie e quelle dei servizi giornalistici, e analizziamo minu- ziosamente i colletti, la vita e le pieghe degli abiti dopodiché portiamo le immagini prescelte alla sarta che cerca, come può, di imitarli.

Bronia non si trucca, porta vestiti lunghi e larghi di cali- cò a fiori e non saprebbe come infilarsi un paio di calze di nylon. Non apre mai un giornale e le sue parole sono inter- rotte da sospiri e invocazioni. «È un po’ primitiva — mi dice la mamma con aria complice —, così superstiziosa. Quando ha le mestruazioni non si lava». Ma quando la mamma è incinta e Ciocia Bronia cerca di pronosticare con le carte se sarà maschio o femmina, la mamma aspetta il verdetto con

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gli occhi che brillano. Quanto a me le credo ciecamente, an- che se non ricordo se avesse previsto giusto o no.

Mi fido completamente di Ciocia Bronia: lei sa come fare i vestiti delle mie bambole e mi dà il pane intinto nel caf- fellatte per colazione. Però so anche che non devo starla a sentire come sto a sentire la mamma, che lei mi ritiene una creatura superiore e che mi guarda con deferenza: «La mia gattina, la mia principessa, la mia bambina d’oro», la sen- to cantilenare e so anche di essere oggetto di un’attenzione speciale, di un amore disinteressato e gentile, che pare ori- ginato proprio dalla mia persona.

Ho circa sette anni quando Ciocia Bronia si sposa con un uomo che non mi piace e i due si trasferiscono a Breslavia, dove non mi piace andare; è una città ancora in macerie e il marito di Ciocia comincia a pizzicarmi le tette appena spun- ta qualcosa da pizzicare. Mia madre pensa che Bronia sia contenta e io credo che nel suo modo tranquillo e silenzioso lo sia davvero. Dopotutto non aveva mai veramente sperato di trovare marito e di essere padrona in una casa sua. Per lei dunque il matrimonio è una conquista, qualcosa di cui dirsi soddisfatta.

Ciocia Bronia resta fedele alla nostra famiglia anche al di là dell’immensa distesa dell’Atlantico. In Canada riceviamo le sue lettere, piene di errori di ortografia, in cui ci prega di mandarle notizie della «sua cara Eva», ma io non le scrivo.

Non potrei mai, lo sento, farle capire la mia nuova vita e inoltre lei è uno dei tanti affetti che mi fanno solo sentire le fitte della nostalgia: per questo cerco di rimuoverla, di estir- parmela da dentro come farei con qualche fastidioso scru- polo o una spina conficcata nel pollice.

Mio padre non parla quasi mai della guerra, per lui è più dignitoso tacerne, un silenzio esagerato. Dopo un po’ non riesce più a parlare di tante cose ed è solo dopo che quegli

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eventi hanno preso posto nel passato lontano che riesce a raccontarne qualche episodio — ma ormai si tratta di un tempo così remoto che quelle storie sembrano favole o av- venture di James Bond. Riuscirò mai a comprendere la re- altà di quello che hanno vissuto? Io sono il risultato della guerra, sono lì le mie vere radici. Ma come sempre succede con le radici, non le so afferrare. Forse non sappiamo mai dire da dove veniamo, forse siamo tutti stati creati dal nulla.

Prima che si nascondessero nella foresta dentro quel bunker, mio padre ebbe un’esperienza drammatica. In quel periodo nella sua città avevano intensificato le retate degli ebrei e i tre fratelli Wydra erano ricercatissimi perché fino a quel momento erano sfuggiti alle attenzioni della Gestapo.

Così un giorno, quando un camion pieno di ebrei diretti al campo di concentramento oltrepassò mio padre, uno degli occupanti non seppe trattenersi e stupidamente gridò: «C’è uno dei Wydra!». Il soldato tedesco naturalmente fece fer- mare il camion e ordinò a mio padre di montare. Nessuno di quelli che erano su quel camion sarebbe ritornato. Mio padre invece sì, perché quando il tedesco fece scendere tut- ti e li infilò in una casa dove passare la notte, lui notò una porta accostata e scivolò via. Si ritrovò sul retro della casa e si mise a correre in aperta campagna verso la foresta. Nel giro di pochi minuti era braccato dall’abbaiare dei cani che lo inseguivano, ma corse forte e una volta nel bosco riuscì a far perdere le sue tracce agli animali. Non conosceva quella zona e si aggirò per la foresta innevata fino all’alba, quando si ritrovò di nuovo ai margini del bosco. Vide un contadino che gli si avvicinava e non sapeva se quell’uomo avrebbe si- gnificato la salvezza o la morte, ma ormai non poteva più scappare. Non c’era altro da fare che fidarsi di quell’uomo che poi si dimostrò una brava persona: portò mio padre nella sua casa, proprio dietro il campo di concentramento dov’era diretto il camion, poi fece avvertire mia madre che

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lo andò a prendere con un carro. Nei giorni seguenti, mi rac- contò mia madre, mio padre ebbe un brutto raffreddore.

Quando erano nascosti nel bunker, mio padre doveva uscire tutte le sere e andare in cerca di cibo. Qualche volta andava nella chiesa del paese dove il prete gli dava un po’

di pane. Ma una notte, mentre ritornava, fu acchiappato da alcuni ucraini forti e ubriachi, che gli dissero che lo avreb- bero portato alla Gestapo. Lo presero ciascuno per un brac- cio, ma mentre attraversavano il ponte sul fiume mio padre

«forte come un toro», con un gesto violento e inaspettato (gesto che mima quando me lo racconta), si liberò di loro spingendoli contro i parapetti del ponte e si tuffò nelle ac- que parzialmente gelate del fiume. Rimase nell’acqua gelida e s’immerse ripetutamente sotto la crosta di ghiaccio per più di un’ora, fino a che non fu sicuro che i suoi inseguitori avevano rinunciato e se ne erano andati. «Ach! — conclude, allargando le braccia con un moto d’impazienza come per scacciare quei ricordi — Che ci si può fare? È successo. È successo e non c’è niente da fare».

Mia madre vuole che io sappia quello che è successo e io conservo tutte le sue parole nella memoria, come perle nere. Ricordare è una questione d’onore, come rivendicare il fatto di essere ebrei. Ma io non capisco quello che ricordo.

Per fare ammenda di quello che è successo dovrei riviverlo tutto con lei e ci provo. Ma no, non riesco ad avvicinarmi abbastanza a quella sofferenza, però non riesco neppure a staccarmene.

Molti anni dopo cerco di liberarmene il più possibile. Non ha senso raddoppiare la sofferenza, aggiungere la mia alla sua. E certamente dalla storia dei miei genitori non posso trarre lezioni utili: la loro vita non c’entra niente con la mia, la loro esperienza di fatto non farebbe che confondermi, tra- sformandomi in una pessimista viscerale. È questo che mi frulla per la testa e per un certo periodo adotto la tattica di

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tenere a distanza di sicurezza la storia di mia madre. Una volta però, anni dopo, in un rumoroso caffè di New York, incontro una persona che aveva conosciuto i miei genitori nella loro città, prima della guerra. È l’unica donna che mi sia capitato di incontrare che li abbia conosciuti in quella situazione; lei è riuscita a individuarli, in quest’altro con- tinente, grazie a una serie di coincidenze e ora vuole par- larmi. È la prima volta che mi rendo conto di come i miei genitori, la cui storia per me ha sempre avuto la potenza di un archetipo, siano un po’ speciali, perfino all’interno di questa metastoria. La donna che mi parla è diversa da mia madre: è divorziata, lavora, è dura. Sua figlia è quanto di più diverso da me io possa immaginare, una commerciante che prende lezioni di danza e che non ha la minima curiosità per il passato, e anche questo per me è sorprendente: dovrem- mo essere più simili, noi che siamo stati plasmati dalla stes- sa Cosa. La madre ha una fotografia che la ritrae insieme a molte altre ragazze, fra cui la sorella della mamma. Stanno su un ponticello in un paesaggio invernale, intabarrate in cappotti con i colli di pelliccia, e hanno l’aria di essere più grandi di quello che sono, tengono il capo piegato in un’in- genua mossa civettuola. Ah, ecco com’era! Somigliava un po’ ad Alinka. Ma quell’immagine non mi dice molto di più, anche così non riesco a strappare il velo. La vecchia amica dei miei genitori però, mentre pranziamo nel bar di Union Square, mi racconta una storia dei miei che non avevo mai sentito. Quando toccò loro correre per rifugiarsi nel bunker

— mi dice — mia madre era troppo debole per farsi strada nella neve perché aveva appena abortito. Mio padre finì per portarsela sulle spalle per tutti quei chilometri. Ecco un’al- tra immagine da archiviare, ancora una perla aguzza e nera da aggiungere alle altre. Mentre ascolto, chino il capo ren- dendomi conto che è da lì che vengo, da quel dolore, sono lì le mie radici ed è inutile cercare di strapparle.

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