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STUDI DI TEOLOGIA 20. a cura della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce

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Academic year: 2022

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STUDI DI TEOLOGIA – 20

a cura della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce

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volumi pubblicati da Armando Editore

1. L’ecclesiologia trent’anni dopo la “Lumen Gentium”, P. Rodríguez (a cura di) 2. Chiesa e società, E. Colom

3. La teologia, annuncio e dialogo, G. Tanzella-Nitti (a cura di) 4. Lavoro umano e redenzione, H. Fitte

5. Mistero trinitario ed economia della grazia, G. Tanzella-Nitti 6. Creazione e salvezza nel libro della Sapienza, M. Fabbri 7. Teologia della Bibbia, M. Tábet

volumi pubblicati da EDUSC

8. «Lieti nella speranza». La gioia nel Nuovo Testamento, B. Estrada 9. Natura, grazia e gloria, F. Ocáriz

10. «Pascete il gregge di Dio». Studi sul ministero ordinato, A. Miralles

11. Un solo mediatore? Pensare la salvezza alla luce della «Dominus Iesus», A. Ducay 12. «Vedo scorrere in voi il sangue di Cristo». Studio sul cristocentrismo di

san Josemaría Escrivá, A. Aranda

13. «Cittadini degni del vangelo» (Fil 1,27). Saggi di etica politica, A. Rodríguez Luño 14. Identità cristiana: i fondamenti, A. Aranda

15. Dalla Pasqua alla Parusia. La successione apostolica nel «tempus Ecclesiae», P. Goyret

16. Concittadini dei santi e familiari di Dio. Studio storico-teologico sulla santità della Chiesa, M. de Salis

17. Bibbia e teologia morale. Paradigmi ermeneutici per il dialogo interdisciplinare, G. De Virgilio

18. Biblia, teología y lingüística del texto, C. Jódar

19. Una Chiesa incarnata nella storia. Elementi per una rilettura della Costituzione Lumen gentium, M. de Salis

(3)

Antonio Ducay

Gesù

Coscienza, libertà, redenzione

Saggio di cristologia

EDUSC

(4)

Copyright 2019 – ESC s.r.l.C Via Sabotino 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637

info@edusc.it

www.edizionisantacroce.it ISBN 978-88-8333-849-6

Impaginazione di Gianluca Pignalberi (in LATEX 2")

(5)

Indice

INTRODUZIONE 7

SEZIONEI

LA CONOSCENZA UMANA DICRISTO 11

1. Il fondamento . . . 11

2. I dati del vangelo . . . 14

3. L’emergere del tema all’epoca dei Padri . . . 22

a) La conoscenza di Gesù nei testi antichi . . . 23

b) La crisi agnoeta . . . 31

c) Spunti conclusivi . . . 34

4. La sistematizzazione medievale . . . 37

a) Bonaventura da Bagnoregio . . . 39

b) Tommaso d’Aquino . . . 41

5. Cambio di paradigma . . . 43

a) La svolta verso il soggetto . . . 44

b) La ricerca sul “Gesù storico” . . . 46

6. Sviluppi degli ultimi decenni . . . 48

a) Rinnovamento della neoscolastica . . . 49

b) Lonergan, Rahner, Von Balthasar . . . 51

c) Situazione attuale . . . 63

7. Uno sguardo al presente . . . 66

SEZIONEII LA LIBERTÀ UMANA DICRISTO 71 1. Cenni storici sul concetto di libertà . . . 71

2. La libertà umana di Cristo: qualche annotazione storica . . . . 76

3. Problematica neoscolastica . . . 82

4. Fermenti di rinnovamento . . . 85

5. Problematica recente . . . 89

6. Un tentativo di riflessione a partire dall’unione ipostatica . . . 95

a) La libertà divina . . . 95

b) La libertà umana . . . 97

(6)

Indice

SEZIONE III

COSCIENZA,LIBERTÀ,REDENZIONE 111

1. La figura complessiva di Gesù: coscienza e libertà . . . 111

2. Dagli atti di Gesù alla redenzione . . . 118

3. Il ruolo della Pasqua nella redenzione . . . 121

4. Cristo, Spirito, Redenzione . . . 124

BIBLIOGRAFIA 127

INDICE DEI NOMI 131

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Introduzione

La dottrina della salvezza dell’uomo in Gesù Cristo è sempre stata al centro della fede e della vita cristiana. Il Signore si è fatto carne per la nostra salvezza, è morto e risorto per noi: questa verità è incisa nel cuore del simbolo della fede1. Lungo la storia teologica, tuttavia, del rapporto tra l’Incarnazione del Verbo e la salvezza sono state date spiegazioni diverse.

In ogni epoca si è posto l’accento sugli aspetti più congeniali alla menta- lità del tempo. Nel periodo patristico si impose l’idea, in verità piuttosto semplice, che Dio si fosse fatto uomo per renderci simili a Lui. Per spiegare questo scambio tra Dio e l’uomo, i Padri, soprattutto quelli di lingua greca, affermavano che, nell’Incarnazione, la purezza e l’immortalità divine sono entrate in contatto con la debolezza e con la caducità della nostra carne, per salvarla e divinizzarla. L’idea era espressa spesso anche in termini di negazione: “quello che non è stato assunto non è neppure salvato”2.

1Nel presente lavoro useremo i termini salvezza e redenzione per riferirci in modo ampio al frutto della venuta di Gesù. Il sostantivosalvezza indica abitualmente la condizione che l’uomo ottiene quando partecipa dei benefici della redenzione, ossia dell’opera di Gesù Cristo, sia che ciò avvenga in modo storico sia che si realizzi metastoricamente.

2L’espressione si trova in Sant’Ireneo di Lione,Adv Haer, V, 14,1[E. Bellini, Ireneo di Lione. Contro le eresie e gli altri scritti, Jaca Book, Milano 1981, p. 436]: “perché se la carne non avesse dovuto essere salvata, il Verbo di Dio non si sarebbe fatto carne (Gv 1,14), e se non si fosse dovuto chiedere conto del sangue dei giusti, il Signore non avrebbe avuto sangue” (per l’uso di questo concetto in ambito gnostico cf.Ibid., I, 6,1[Ibid., p. 61]: “Nulla invece ha assunto di illico[di uomo materiale] perché la materia non può accogliere la salvezza”); Origene,Disputa con Eraclide, 7[G. Gentili, Paoline, Alba (CN) 1970]: “Non avrebbe potuto salvare l’uomo intero se non avesse assunto in sé l’uomo intero”; Tertulliano, De carne Christi, 10 (SC 67, 70,17ss.), che sottolinea questo principio in relazione all’anima di Cristo; Sant’Atanasio,L’Incarnazione del Verbo[E. Bellini, Città Nuova, Roma 1976, p. 54]: “Infatti egli divenne uomo affinché noi fossimo deificati; egli si rivelò mediante il corpo affinché noi potessimo avere un’idea del Padre invisibile; egli sopportò la violenza degli uomini affinché noi ereditassimo l’incorruttibilità”; San Gregorio Nazianzeno,Lettera 101 a Cledonio[C. Moreschini, Città Nuova, Roma 1986, p. 207]: “poiché quello che non è stato assunto da Cristo è rimasto non sanato, mentre quello che ha formato un’unione con Dio, quello è stato sanato”; Proclo di Costantinopoli,Oratio I[PG 65,687D-690A]: “Nisi enim me induisset, haud mihi salutem contulisset”; San Massimo il Confessore,Opusc. theol.

et polem. 9[PG 91,128D-129A]: “id quod non est assumptum remedio careat, quod autem Deo unitum est, hoc salutem nanciscatur”; San Giovanni Damasceno,De fide orthodoxa, 3,6[V. Fazzo, Citta Nuova, Roma 1998, p. 175. D’ora in poi, V. Fazzo, seguito dal numero

(8)

Introduzione

Per quanto valida e apprezzabile sotto diversi aspetti, questa visione dell’opera salvifica poteva tuttavia comportare il rischio di riconoscere uno scarso valore all’umanità assunta nell’Incarnazione, che si sarebbe limitata a ricevere l’azione e la forza trasformante del Verbo, e avrebbe quindi svolto un ruolo piuttosto passivo nell’opera di salvezza. Fu dei teologi medievali il merito di aver messo in risalto il valore soteriologico dell’umanità di Cristo, che l’intuizione greca rischiava di lasciare in ombra. Tommaso d’Aquino considerò la natura assunta come uno strumento del Verbo, uno strumento vivente e razionale, orientato a compiere le opere divine. In virtù dell’Incarnazione il Verbo di Dio poteva agire come creatura, con coscienza e libertà umane, con perfetta carità. Poteva autodeterminarsi e contrapporre il suo amore e la sua obbedienza alla ribellione dell’umanità, per liberarla dal peccato.

Più di altri teologi del suo tempo, san Tommaso, con la sua dottrina, facilitò la comprensione dell’idea centrale del pensiero dei Padri greci: Gesù ha salvato ciò che ha assunto attraverso l’amore che era presente nella sua anima, e che lo ha portato all’offerta libera di Sé per la salvezza dell’umanità.

Gli atti interiori, spirituali di Cristo erano il motore della redenzione, il nucleo dell’azione salvifica. L’Aquinate diede così un contributo importante per la comprensione dello svolgimento della salvezza.

In tempi più vicini a noi, il concilio Vaticano II ha operato una svolta significativa nella formulazione dell’antica idea patristica. Acquisita (con san Tommaso) l’importanza dell’attività spirituale dell’umanità assunta dal Verbo, laGaudium et Spes ha ricordato che tale attività si dispiegava negli avvenimenti quotidiani, ossia nelle condizioni e nelle circostanze ordinarie della vita di Gesù: “il Figlio di Dio (. . .) ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo”3. Con questa affermazione il concilio esplicitava la dimensione concreta, pratica, della redenzione e della salvezza. Le mani, l’intelligenza, la volontà, il cuore corrispondono alle “sfere” della vita pratica, della vita spirituale, dell’affettività. Ci si riferiva, dunque, all’uomo intero, con la sua “intera” vita4. Ciò che il documento conciliare intendeva dire, in definitiva, è che, avendo condotto una vita pienamente umana, Cristo ha assunto, elevato e purificato tutte le sfere dell’esistenza, così che

(o dai numeri) di pagina]: “Egli tutto intero assunse me tutto intero, e tutto intero si unì al tutto intero, per donare la salvezza al tutto intero. Infatti ciò che non è assunto non è sanato”.

3N. 20.

4Abbiamo approfondito questo tema nell’articoloLa redenzione come apertura della vita umana alla grazia, “Annales Theologici” 29 (2015), 123-138.

(9)

Introduzione

nessuna di esse restasse “esclusa” dalla “divinizzazione”5. Il suo incontro con la realtà umana ha operato una redenzione che si estende alla vita pratica, con tutte le sue molteplici e varie attività.

È proprio questo il tema principale del nostro lavoro: l’incontro di Cristo con il mondo, il punto di contatto tra l’amore che salva (quello di Gesù) e l’amore che fallisce (quello dell’uomo peccatore). Cercheremo di proporre uno studio sintetico sugli atti interni di Gesù: atti di conoscenza, di amore, atti liberi, che sono origine della salvezza nella storia. La tesi centrale del libro, quella che, per così dire, lo vertebra è che tali atti doveva- no necessariamente partecipare della condizione storica dell’uomo. Se il mondo è stato salvato attraverso l’incarnazione, gli atti che sono all’origine della salvezza dovevano essere anch’essi pienamente storici, incarnati, non

“esenti” da ciò che la condizione umana intrinsecamente comporta. Non va dimenticato, però, che erano sempre azioni del Verbo divino, e che quindi, in quanto tali, erano per molti aspetti uniche e singolari, non ascrivibili a nessun altro uomo: proprio in virtù di questa loro singolarità potevano salvare e riscattare l’umanità. Da quanto detto consegue la necessità che la trattazione sia improntata a un certo equilibrio, così che la singolarità e la storicità, la temporalità e la trascendenza di tali atti non prevalgano l’una sull’altra, ma siano integrate l’una nell’altra. Il nostro studio si muove, per così dire, lungo il “filo rosso” di questo difficile equilibrio, che induce a riflessioni di varia natura: antropologica e filosofica, ma anche inerenti alla storia del dogma, alla cristologia e alla teologia della salvezza.

Il volume è strutturato in tre sezioni, ciascuna delle quali costituisce una breve monografia, e potrebbe quindi essere letta indipendentemente dalle altre. Le prime due presentano sinteticamente ildossier teologico relativo, rispettivamente, alla coscienza/conoscenza e alla libertà di Cristo. Quando ci è sembrato opportuno o necessario ai fini della trattazione, abbiamo aggiunto alcune riflessioni personali sui concetti o sui temi presi in esame.

Nell’ultima sezione abbiamo applicato i dati ricavati dai primi due saggi alla teologia della salvezza (soteriologia), per rilevare lo stretto legame che unisce la venuta di Gesù nel mondo agli atti redentori e, in particolare, agli atti interni, spirituali di Cristo.

Il libro nasce in ambito accademico e trova una possibile applicazione nei gradi superiori dell’insegnamento della Teologia. Per esigenze di sintesi, tante riflessioni e approfondimenti non vi hanno trovato posto. Ci auguria-

5“Per la fede della Chiesa è essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo

‘si è fatto carne’ ed ha assuntotutte le dimensioni dell’umano tranne il peccato (cfr. Eb 4,15)”.

Giovanni Paolo II, Lett. Apost.Novo Millennio Ineunte, 22.

(10)

Introduzione

mo, ad ogni modo, che la trattazione possa giovare alla comprensione del tema e all’ormai antico dialogo teologico su questi complessi e suggestivi argomenti, nella certezza che, sulle tante tematiche inespresse, il lettore troverà validi e autorevoli testi che potranno illuminarlo. A lui l’augurio di un percorso lieto e proficuo.

RINGRAZIAMENTI

Questo libro non avrebbe visto la luce senza il contributo, diretto o indiretto, di tante persone. A tutte va il mio più sentito ringraziamento. Il prof. Paul O’Callaghan ha gentilmente accettato, malgrado i suoi molteplici impegni, di leggere il testo: lo ringrazio per il paziente lavoro e per le preziose osservazioni. Il dialogo con il prof. Marco Vanzini e con gli altri colleghi del Dipartimento di Teologia Dogmatica ha contribuito non poco a far maturare le idee: sono loro grato per la disponibilità e per l’amicizia dimostratami. La dottoressa Loretta Sanna ha compiuto il miracolo di trasformare il testo, arduo e grammaticalmente inquinato dalla mia lingua madre, in un’opera di gradevole lettura. Il suo lavoro è stato semplicemente eccezionale. Ringrazio, infine, la casa editrice Edusc, che si è fatta carico della pubblicazione con celerità e premura, la mia Università, che mi ha offerto in ogni momento i mezzi adeguati per portare avanti il lavoro, e i dirigenti della Biblioteca, per la loro cortesia e comprensione. Delle eventuali pecche o dei punti oscuri rimasti nel testo mi dichiaro invece unico responsabile.

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Sezione I

La conoscenza umana di Cristo

1. IL FONDAMENTO

Sin dai tempi della condanna dell’apollinarismo da parte della Chiesa (362), divenne dogma l’esistenza in Cristo di un intelletto e di una cono- scenza umani1. La teoria apollinarista che negava l’intelletto umano di Gesù e lo “sostituiva” con il Logos divino, implicava, come conseguenza diretta, che l’uomo Gesù sapeva quanto il Logos, perché conosceva con lo stesso intelletto del Logos. La tesi fu rifiutata dalla Chiesa del tempo. Nel secolo successivo il concilio di Calcedonia ribadì l’integrità dell’umanità di Cristo, vero Dio e vero uomo e, quindi, dotato di intelletto umano, e affermò l’esistenza in Gesù di due diverse facoltà intellettuali, di due diversi modi di conoscenza, l’uno divino e l’altro umano, che, per ciò stesso, non si identificavano. Gesù, dunque, in quanto Dio fattosi uomo, conosceva la realtà in modo divino e in modo umano. Da allora la dottrina della Chiesa è rimasta invariata: due intelletti, due modi di conoscenza. Il progredire della riflessione su Gesù portò san Tommaso ad affermare che, se Cristo non avesse avuto altro modo di conoscere che quello divino (la scienza pre- sente nell’intelletto divino), la sua anima umana, da se stessa, non avrebbe conosciuto nulla ed Egli non avrebbe esercitato il suo intelletto2.

L’affermazione tomista ci offre un buon punto di partenza per introdur- re il tema della conoscenza umana di Cristo. Con il suo intelletto divino

1Apollinare riteneva che due “perfetti” non potessero dar luogo a una vera unità. Da convinto sostenitore qual era della divinità di Cristo, giunse quindi a proporre un modello cristologico che non considerava quella di Gesù un’umanità piena. Il suo errore consisteva nell’attribuire al Verbo (Logos) il ruolo proprio dell’anima intellettiva dell’umanità di Gesù.

Cf. J.N.D. Kelly,Il pensiero cristiano delle origini, Dehoniane, Bologna 1992, pp. 354-360.

Una tesi analoga fu proposta dagli ariani.

2Summa theologiae, III, q. 9, a. 1; ad 1o: “Cristo conosceva tutto con la scienza divina mediante un’operazione increata che è l’essenza stessa di Dio, essendo l’intellezione di Dio la sua stessa natura, come dice Aristotele. Ma evidentemente tale operazione non poteva procedere dall’anima umana di Cristo, che è di un’altra natura. Perciòse l’anima di Cristo non avesse avuto altra scienza che quella divina, non avrebbe conosciuto nulla. E così sarebbe stata assunta invano” (corsivo nostro).

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Sezione I

Gesù conosceva ogni cosa come la conoscono il Padre e lo Spirito Santo, perché era con loro un solo Dio onnisciente. Ciò, però, non implica che Egli avesse un sapere umano equivalente a quello divino. Non poteva co- noscere con l’intelletto umano tutto ciò che conosceva con quello divino, perché l’intelletto umano ha dei limiti che sono inerenti alla finitezza della creatura umana3. Esistono necessariamente idee eccelse che sono accessi- bili soltanto all’intelletto divino, perché quello umano non è in grado di raggiungere tali vertici. È vero che Dio può comunicare contenuti di verità irraggiungibili per l’uomo (come accade nel caso dei profeti), e far sì che questi sappia cose che soltanto Lui può sapere, ma per farlo deve adeguare tali contenuti alle capacità e ai limiti naturali dell’uomo, il che implica già di per sé una riduzione, un “abbassamento” pressoché infinito del sapere divino. Affermare il contrario, sostenere, cioè, una sorta di equivalenza conoscitiva tra Dio e l’uomo, significherebbe sminuire le differenze tra le due nature (divina e umana), il che sarebbe assurdo e inaudito4.

Vi era dunque un ambito di realtà (indeterminato a priori) che Gesù conoscevaab aeterno con il Padre nell’unità dello Spirito, e che, invece, non conosceva come uomo, sia perché esso trascendeva assolutamente ciò che un essere umano può conoscere, sia perché Egli stesso, nella sua provvidenza, aveva stabilito di non comunicare tali realtà al suo intelletto umano. Nel suo cammino terreno, quindi, Gesù non le conosceva, mancava di informazioni su di esse. La citata concezione tommasiana della conoscenza umana di Gesù porta a concludere che su quelle realtà l’anima di Cristo non aveva scienza.

Ciò che Gesù conosceva come uomo, dunque, non può essere stabilito aprioristicamente, ma è qualcosa da indagare sulla base della Scrittura e mediante la riflessione teologica. In termini generali occorre innanzitutto osservare che laverità dell’incarnazione richiede che il Verbo si assoggetti realmente ai condizionamenti dell’umanità assunta. Ciò, in linea di massi- ma, comporta una reale rinuncia da parte di Gesù a trascendere ordinaria- mente le leggi della natura creata e delle sue condizioni di esistenza. Se fosse venuto nel mondo senza assoggettarsi alle leggi del creato e ai condizio- namenti che limitano la conoscenza umana del reale, la sua incarnazione sarebbe stata una finzione, una sorta di travestimento.

3Come mostra l’esperienza quotidiana, nell’uomo l’esercizio della facoltà intellettiva è legato alle condizioni della materia, e la materia, pur rendendo possibile la conoscenza sensibile, introduce in essa la sua fallibilità. Un angelo, ad esempio, ha una comprensione della realtà più chiara e precisa di quella che ha un uomo, perché la sua conoscenza non è soggetta alle distorsioni delle leggi proprie del mondo materiale.

4Si pensi, a titolo esemplificativo, che nessun intelletto umano è in grado di reggere la comprensione di una formula matematica eccessivamente lunga e complessa.

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La conoscenza umana di Cristo

Ciò, naturalmente, non significa che Gesù, nella sua conoscenza e nella sua attività, non potesse mai superare i limiti propri dell’ordine e della na- tura umana, che, nel suo caso, erano funzionali alla suamissione di salvezza.

In determinate circostanze, anzi, proprio l’adempimento della missione rendeva opportuno che, nel suo operare, Egli oltrepassasse i limiti natu- rali imposti dall’umanità assunta. Gli esempi di eventi e di situazioni in cui Gesù ha trasceso le leggi della natura e ha manifestato la sapienza o la potenza divina non mancano nel vangelo: nei miracoli la potenza divina di Cristo, pur dispiegandosi attraverso la sua umanità, andava ben oltre ciò che è possibile alla natura creata. Qualcosa di simile accadeva nell’ambito della conoscenza, quando elementi della sua scienza divina, inaccessibili di per sé all’esperienza dei comuni mortali, erano comunicati al suo intelletto umano affinché Egli se ne servisse per il compimento della sua missione.

I vangeli, infatti, attestano che Gesù aveva spesso conoscenze di natura soprannaturale, come, ad esempio, la percezione dei pensieri reconditi di alcune persone. In questo contesto va rilevata soprattutto la sua conoscenza di Dio e della sua propria missione.

Il principio teologico di incarnazione e il principio di missione, uniti agli esempi cui abbiamo accennato, attestano che la vita di Gesù aveva una somiglianza reale e vera con la nostra, ma aveva anche una singola- rità, un’unicità propria e specifica della sua persona. La sua somiglian- za con noi, la sua condizione umana comportavano limiti e restrizioni che si estendevano all’ambito della conoscenza5, ma la sua singolarità gli consentiva di accedere al mistero di Dio e del suo disegno (benché gli esperti non concordino sul modo in cui ciò potesse avvenire). Ne con- segue che Gesù “sapeva”, ma “in una certa misura”: conosceva quanto era necessario per svolgere il suo ministero tra gli uomini, avvertiva in Sé il mistero di Dio e del regno che avrebbe instaurato nel mondo, ma riguardo a tutto il resto spesso doveva informarsi e imparare secondo la normale condizione umana. È logico che conoscesse il mistero di Dio, perché veniva dal Padre, ma altrettanto logico è che, data l’impossibilità dell’onniscienza umana, Egli si informasse per conoscere la realtà e appren- desse. Il suo essere vero Dio e vero uomo si rifletteva, dunque, sulla sua conoscenza terrena.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che ciò che Gesù faceva sulla terra (la missione di salvezza) era mediato dalla sua conoscenza umana, perché, come afferma un adagio scolastico, “nulla è voluto che non sia stato pri-

5Cf.infra, paragrafo I dati del Vangelo, punto c).

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Sezione I

ma conosciuto”6. L’azione segue la conoscenza. Per poter intervenire nel mondo, per decidere in merito alle varie vicende in cui era coinvolto, per portare avanti la sua missione, Gesù aveva bisogno di conoscere la realtà con il suo intelletto umano. Il suo cammino sulla terra, di cui i vangeli ci hanno tramandato un racconto sintetico, fu fruttoimmediato non della sua conoscenza divina, ma di quella umana, che non era onnisciente come la prima. L’intera “vicenda” di Gesù, in sintesi, dipendeva dalla sua attività intellettiva e razionale.

Tradizionalmente la ricerca sulla conoscenza umana di Cristo si è fon- data sui parametri dellaquantità e della modalità: quanto sapeva Gesù?

(fin dove si estendeva la sua conoscenza?) ecome lo sapeva? (da dove pro- cedeva la sua scienza?). L’aspetto prioritario, in ogni caso, è sempre stato quello della conoscenza che Gesù aveva della sua identità. Su questo pun- to l’interrogativo può formularsi in diversi modi7. La risposta, in senso stretto, è ovvia: Gesù era il Verbo e, in quanto tale, aveva un sapere eter- no. Inquadrata nel contesto della vita e dell’esperienza terrena di Gesù, però, la stessa domanda diventa più articolata e si estende sia alla moda- lità sia alle categorie con cui Gesù esprimeva la propria comprensione di Sé.

2. IDATI DEL VANGELO

Nei vangeli troviamo molti dati degni di nota riguardo alla conoscenza umana di Gesù. Secondo la teologia attuale, tuttavia, gli ambiti più significa- tivi verso i quali si dovrebbe indirizzare la ricerca sono tre: a) ciò che Gesù sapeva di Sé e della sua missione; b) ciò che sapeva delle realtà esterne che trascendono la normale conoscenza umana; c) ciò che conosceva della realtà esterna attraverso il normale processo di conoscenza. Dare una risposta esaustiva a questi interrogativi è sicuramente impossibile, non soltanto perché è presumibile che Gesù abbia conosciuto e sapesse molte più cose di quelle attestate dai vangeli, ma anche perché questi ultimi, per loro natura, non sono trascrizioni impersonali di quanto Egli disse, ma conservano nella memoria della Chiesa le sue parole “filtrate” dalla luce della fede in

6Nel caso di Gesù, potremmo dire: nulla èumanamente voluto che prima non sia stato umanamente conosciuto.

7Ci si può chiedere cosa Gesù pensasse di Se stesso e quali titoli usasse per esprimerlo (Messia, Figlio di Dio, ecc.). Una acuta formulazione dell’interrogativo sull’autocoscienza di Cristo è il titolo del libro di F. Dreyfus,Gesù sapeva d’essere Dio?, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985.

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La conoscenza umana di Cristo

Lui, e quindi non garantiscono un accesso diretto alle sueipsissima verba8. Spesso, inoltre, essi ci informano su ciò che il Signore sapeva, ma non di- cono perché, come o da dove avesse ricavato determinate conoscenze. I vangeli canonici, ad ogni modo, costituiscono la nostra fonte più completa e consentono in vari modi di accedere alle parole di Gesù e a ciò che Egli pensava e sapeva.

a) I vangeli attestano che Gesù sapeva di avere una relazione speciale con il Dio di Israele: una relazione unica, che trascendeva l’ambito del normale rapporto religioso dell’uomo con Dio. Gesù parlava di Se stesso come del “Figlio”9, nel senso di Figlio unico o unigenito10. Nella parabola dei vignaioli omicidi Egli ha distinto chiaramente il suostatus in rapporto a Dio da quello di tutti gli altri servitori del Signore11. Non si è annoverato tra i servi, ma si è identificato con il figlio, con l’erede del padrone della vigna, ossia di Dio stesso. A questa sua consapevolezza faceva riscontro la familiarità con cui si rivolgeva a Dio, suo Padre, chiaramente testimoniata anche dall’uso del termineabbà (Padre mio, babbo). Questa parola aramai- ca, così caratteristica della preghiera di Gesù, attesta una prossimità con Dio che era impensabile per la pietà giudaica12, nella quale, anche quando

8L’ispirazione dei vangeli garantisce indubbiamente una sostanziale fedeltà alla verità delle parole e degli eventi di Gesù, ma non quella trasmissione inalterata dei fatti che avrebbe consentito di accedere direttamente al contenuto della sua conoscenza umana.

9Questo titolo compare già nei sinottici ed è ancora più frequente nel vangelo di Giovanni.

10Nei sinottici iloghia in cui compare il titolo “il Figlio” hanno notevoli garanzie di storicità. In Mc 13,32 si dice: “quanto però a quel giorno o a quell’ora nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio eccetto il Padre”. Questologhion risale probabilmente a Gesù stesso, se non nella sua formulazione letterale, almeno nel contenuto, perché difficilmente la prima comunità cristiana avrebbe elaborato di sua iniziativa l’idea che Cristo ignorasse l’ora e il giorno della fine dei tempi. In Mt 11,25-27 si legge: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. All’origine di queste parole c’è probabilmente il ricordo, da parte degli apostoli, dell’esultazione di Gesù per come le anime semplici accoglievano la sua parola. Altre spiegazioni del testo sembrano poco plausibili.

Cf. J. Ratzinger,La legittimità del dogma cristologico, in Id., Opera Omnia, vol. 6/2: Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 245-251.

11“Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: ‘Avranno rispetto per mio figlio!’.

Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: ‘Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!’” (Mt 21,36-37).

12Il termineAbbà (“padre” o “padre mio” in lingua aramaica) era abitualmente usato nell’ambito delle relazioni domestiche per rivolgersi al padre. Era in ogni caso un’espressione

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Sezione I

(raramente) si usava il termine Padre in riferimento a Dio (Dio padre del popolo, misericordioso, santo, ecc.), si conservava sempre un certo senso di distanza rispetto al Signore santo e trascendente.

Il suo particolare rapporto con il Padre era alla base dell’idea che Gesù aveva della sua missione nel mondo. Si può dedurre ciò che Egli pensava analizzando i titoli da Lui usati in riferimento alla sua missione e osservando lo svolgersi di quest’ultima. Si giunge così alla conclusione che Gesù si considerava investito di pieni poteri per realizzare nel mondo il volere del Padre, ossia per instaurare il Regno di Dio.

Riguardo ai titoli, sembra indubbio che Gesù abbia usato spesso l’espres- sione “figlio dell’uomo” in riferimento a Se stesso13, ed è assai probabile che con essa volesse ricollegarsi alla figura del Re-Messia che avrebbe regnato per sempre su Israele14, descritta nel capitolo 7 del libro di Daniele. La visione del profeta ha un contenuto messianico. Dopo aver parlato del succedersi nel mondo dei diversi imperi pagani (babilonese, medo-persiano, greco, romano), raffigurati da animali fantastici dotati di potenza distrutti- va, essa descrive l’avvento del regno definitivo15, rappresentato dalla figura del “figlio dell’uomo”, che riceve da Dio “potere, gloria e regno”, e di cui si

familiare che, al di fuori del Nuovo Testamento, non risulta essere mai stata adoperata per rivolgersi personalmente a Dio. Cf. G. Segalla,Teologia biblica del Nuovo Testamento. Tra memoria escatologica di Gesù e promessa del futuro regno di Dio, Elledici, Leumann (TO) 2006, p. 174ss. Il fatto che il termine sia stato conservato in lingua aramaica da Marco (14,36) e da Paolo (Gal 4,6; Rm 8,15), attesta la sua appartenenza alla prassi di preghiera di Gesù. Il Dio dei cristiani è il Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Colui che Gesù chiamavaAbbà.

13“In breve – afferma James Dunn –, ci si trova davanti a due elementi chiari. Primo ‘il figlio dell’uomo’ quasi non appare nella cristologia primitiva come elemento indipendente dal suo uso nei vangeli. Secondo, l’espressione è totalmente integrata nella tradizione di Gesù ed è quindi molto difficile credere che abbia avuto origine al di fuori della tradizione di Gesù e vi sia stata accolta soltanto dopo pasqua. (. . .)l’espressione era ricordata come modo distintivo di Gesù perché è questo che propriamente era. Fu Gesù che introdusse l’espressione

‘il figlio dell’uomo’ nella tradizione di Gesù. Difficilmente la documentazione potrebbe essere più chiara riguardo a questa conclusione”.Gli albori del cristianesimo, vol. I: La memoria di Gesù, t. 2: La missione di Gesù, Paideia, Brescia 2006, pp. 773-774. Si veda anche N. Ciola,Gesù Cristo Figlio di Dio, Borla, Roma 2012, pp. 255-262.

14Analizzando l’uso che Gesù faceva di questo titolo, si comprende che esso implicava una concezione messianica e trascendente, in linea con la figura di Dn 7 e con alcune figure, simili sotto alcuni aspetti, che compaiono nella letteratura apocrifa (Libro delle Parabole di Enoch, IV libro di Esdra). Cf. N. Ciola,Gesù Cristo Figlio di Dio, p. 258ss. Si veda, inoltre, N.T. Wright,Jesus and the Victory of God, SPCK, London 1996, pp. 360-367; 510-519.

Naturalmente, però, l’espressione racchiudeva anche l’aspetto evidenziato da Ezechiele e dai Salmi: la vera umanità di Gesù, che, con questo titolo, poteva quindi indicare allo stesso tempo la sua condizione umana fragile e il suo messianismo trascendente.

15Cf. B.J. Pitre,The Case for Jesus. The Biblical and Historical Evidence for Christ, Image, New York 2016, cap. VIII. Secondo J.J. Collins, et al.,Daniel. A Commentary on the Book of

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La conoscenza umana di Cristo

dice che “il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7,14). Il profeta non dice come accadrà, ma la precedente terrificante descrizione delle bestie lascia presagire che il Regno del figlio dell’uomo non si instaurerà senza sacrifici. Appropriandosi di questa figura e applicandola a Se stesso, Gesù si è identificato con il Messia- Re dell’universo, che, nella visione di Daniele, “tutti i popoli, nazioni e lingue servivano” (Dn 7,14).

Anzi, Gesù non soltanto si considerava il Re-Messia, ma si comportava anche come tale. Giudicava Se stesso con la categoria del definitivo, dell’ulti- mo e supremo inviato di Dio. Annunciava il Regno come una realtà ormai presente e definitiva, e lo manifestava con i suoi poteri e atti straordinari, con i suoi esorcismi, i suoi miracoli e le sue guarigioni. Collegava il Regno alla sua persona e all’adesione degli altri ad essa. Pur mantenendo sempre un atteggiamento di costante mitezza e disponibilità verso tutti, Egli si considerava superiore a Mosè, tanto da “correggere” la Legge data da Dio al profeta, ma anche a tutte le altre figure e istituzioni della storia di Israele.

Comandava sui demoni, aveva fama di compiere miracoli straordinari e perdonava i peccati come soltanto Dio può fare. Tutto ciò, come osservano molti tra i più noti studiosi della sua figura, trova un solido fondamento nelle testimonianze offerteci dai vangeli16.

Potremmo sicuramente approfondire questi temi, ma non ci sofferme- remo ulteriormente su di essi, perché ciò che qui ci interessa rilevare è che Gesù sapeva di essere Figlio di Dio e di avere pieni poteri per instaurare sulla terra il Regno promesso a Israele. Non si annoverava tra coloro che, nella storia di Israele, avevano ricevuto da Dio una particolare missione, perché la sua prospettiva, il suo paradigma erano immediatamente escatologici:

Egli era venuto come ultimo e definitivo compimento delle speranze del popolo ebraico17, ma la sua missione riguardava il mondo intero. Il suo unico vero riferimento, dunque, era il Padre stesso. Aveva la forza di Dio

Daniel, Fortress Press, Philadelphia (PA) 1993, p. 312, “The beasts are not simply collective symbols but can be also understood to represent the rulers”.

16Rimandiamo a M. Bordoni,Gesù di Nazaret. Signore e Cristo, vol. II: Gesù al fonda- mento della cristologia, Herder – PUL, Roma 1982; N.T. Wright, Jesus and the Victory of God; Id., Gesù di Nazareth: sfide e provocazioni, Claudiana, Torino 2003; P. Stuhlmacher, Gesù di Nazaret, Cristo della fede, Dehoniane, Bologna 1992; G. Segalla, Il Regno di Dio centro unitario della missione e dell’opera di Gesù, in Id., Teologia biblica del Nuovo Testamen- to, pp. 131-201, R. Bauckham, Jesus. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2011; F. Varo Pineda,Rabí Jesús de Nazaret, BAC, Madrid 2005.

17Cf. B.F. Meyer,Jesus’ Ministry and Self-Understanding, in B. Chilton – C.A. Evans (eds.),Studying the Historical Jesus. Evaluations of the State of Current Research, E.J. Brill, Leiden – New York 1994, p. 352.

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Sezione I

(era pieno dello Spirito divino) per instaurare il Regno. Dal punto di vista della conoscenza umana, che è quello che qui ci interessa, tutto ciò porta a chiedersicome Gesù poté avere tale comprensione di Sé e della sua missione, in che modo, cioè, Egli giunse a conoscenza della sua unica e impareggiabile relazione con il Padre e della sua singolarissima missione. I vangeli attestano chiaramente questi fatti, ma lasciano alla teologia il compito di indagare, di approfondire e di studiare ogni ulteriore aspetto della questione.

b) Un altro dato messo in luce dai racconti evangelici è che Gesù era in grado di avere conoscenze che trascendono le possibilità della comune conoscenza umana. Questa sua capacità si manifestava soprattutto nelle profezie da Lui pronunciate (la più nota delle quali è il rinnegamento di Pietro), nella facilità con cui intuiva i pensieri delle persone (come, ad esem- pio, in occasione del suo primo incontro con Natanaele) e nella conoscenza di dati che erano al di fuori della portata umana (come quando previde l’incontro con un uomo che avrebbe indicato a Pietro e a Giovanni il luogo in cui si sarebbe consumata l’ultima cena). Queste conoscenze, chiaramen- te, erano di origine soprannaturale. Al di là della possibilità di accertarle storicamente (si noti, ad ogni modo, che nel caso del rinnegamento di Pie- tro è difficile pensare che le cose si siano svolte diversamente da quanto riportato dai testi evangelici), è indubbio che i vangeli ribadiscono spesso che Gesù conosceva i pensieri nascosti delle persone18. Sebbene in alcuni casi si potrebbe pensare a una semplice conoscenza per deduzione natura- le, ricavata, cioè, da dati e segnali esterni, l’insistenza dei testi su questo punto fa dedurre che tale peculiarità era ricordata nell’ambito della prima comunità cristiana come uno dei tratti più significativi della personalità di Gesù. Sembra dunque certo che Egli abbia conosciuto realtà inaccessibili alla comune capacità umana, benché non sia facile determinare fin dove si estendesse questa sua scienza.

c) Tutto ciò, però, non significa che Gesù fosse dotato di ogni tipo di scienza umana. I vangeli, in modo discreto ma inequivocabile, attestano che Egli aveva un’esperienza della vita intellettiva simile a quella di ogni essere umano e soggetta, sotto diversi aspetti, alle limitazioni proprie della condizione umana storica. Come ogni uomo, Gesù doveva informarsi per ottenere i dati necessari per agire, e, come tutti, si sorprendeva talvolta delle

18Si vedano, ad esempio, i brani di Luca sulle guarigioni del paralitico (5,17-23) e dell’uomo con la mano offesa (6,6-11), la scena svoltasi in casa di Simone il fariseo (7,36-50), la discussione tra i discepoli su chi tra loro fosse il più grande (9,46-48), e quella sul potere di Gesù e quello di Belzebul (11,14-32). Cf. lo studio di C.B. Bullard,Jesus and the Thoughts of Many Hearts. Implicit Christology and Jesus’ Knowledge in the Gospel of Luke, Bloomsbury T&T Clark, London – New York 2015.

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La conoscenza umana di Cristo

reazioni delle persone, rifletteva sul da farsi di fronte a notizie inaspettate e riconosceva di non sapere alcune cose.

I testi evangelici contengono un discreto numero di esempi al riguardo.

Gesù reagì quando apprese che Giovanni Battista era stato arrestato19; recatosi nella regione di Tiro, non riuscì, come avrebbe voluto, a rimanere inosservato20; dopo aver guarito un lebbroso, non poté evitare che la notizia si diffondesse e attirasse su di Lui l’attenzione delle folle21; non riuscì a ritirarsi con i discepoli in un luogo appartato per riposare22, né ad ottenere del cibo da un fico rigoglioso ma privo di frutti23. Talvolta, poi, si stupiva del comportamento delle persone: dell’incredulità dei suoi concittadini24, ad esempio, o della durezza di cuore di alcuni farisei25 o dei discepoli, che volevano allontanare i bambini da Lui26. Ma si meravigliava anche delle buone disposizioni di alcuni: della fede della donna cananea27e del centurione romano28, della generosità della povera vedova che aveva messo un quattrino nella cassetta delle offerte. . .29.

Talvolta interrogava e si informava per apprendere dati di cui necessitava per agire. Così, ad esempio, chiese a un padre da quanto tempo il figlio soffrisse di convulsioni30, al cieco Bartimeo domandò di cosa avesse biso- gno31, a Marta, sorella di Lazzaro, chiese dove fosse stato deposto il corpo del fratello32. E nell’episodio dell’emorroissa, pur sapendo di aver operato una guarigione, ignorava inizialmente chi fosse il beneficiato33.

19Quando Gesù “seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao” (Mt 4,12).

20“Non poté rimanere nascosto” (Mc 7,24).

21Cf. Mc 1,42-43.

22Il progetto fallì perché molti “li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero” (Mc 6,30-34).

23Cf. Mc 11,13.

24Cf. Mc 6,6.

25Che disapprovavano soprattutto le guarigioni operate nel giorno del sabato. Cf.

Mc 3,4-5.

26Cf. Mc 10,13-14.

27Tanto da dire di non aver mai “trovato nessuno con una fede così grande” in Israele.

Cf Mt 8,9-10.

28Cf. Mt 8,9-10.

29Cf. Mc 12,41-44.

30Cf. Mc 9,21.

31Cf. Mt 20,31-32.

32Cf. Gv 11,34.

33Cf. Mc 5,25ss. I vangeli riferiscono anche di altre domande poste da Gesù: al demonio che si era impossessato di un uomo a Gerasa, ad esempio, chiese quale fosse il suo nome

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Sezione I

Marco e Matteo, inoltre, affermano espressamente che Gesù non cono- sceva l’ora della fine dei tempi: “quanto (. . .) a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre” (Mc 13,32;

cf. Mt 24,36). Il testo, noto come “loghion dell’ora”, è particolarmente significativo perché gli evangelisti, ovviamente, non avevano alcun interesse a evidenziare i limiti della conoscenza umana di Gesù. Intendevano anzi presentarlo come Figlio di Dio e Messia di Israele, e testimoniare la sapienza contenuta nella sua dottrina, che spesso destava stupore nelle folle. Ciò depone quindi a favore della storicità delloghion, che risale probabilmen- te allo stesso Gesù, e che ha trovato posto nei vangeli perché sottolinea l’inutilità di speculare attorno al tempo della fine. È evidente, del resto, che l’affermazione di Gesù si inquadra nel contesto della sua venuta e mis- sione nel mondo, vale a dire di ciò che Egli conosce nella sua coscienza umana, e non può essere estesa o trasferita entro l’orizzonte di ciò che oggi chiameremmo la “Trinità immanente”34.

Il vangelo di Luca contiene un altro passo significativo: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (2,52)35. L’evangelista parla dunque di un normale processo di sviluppo e di maturazione umana, collegato, nel suo racconto, alla sosta di Gesù nel Tempio all’età di dodici anni. Il brano attesta da un lato il vivo interesse del fanciullo che, ritto tra i maestri, chiedeva, ascoltava e interrogava per conoscere ogni particolare della religione israelitica, e dall’altro una profondità di comprensione reli- giosa eccezionale per la sua giovane età36. L’importanza di questo episodio, dunque, deriva non soltanto dal fatto che testimonia la precoce intelligenza religiosa di Gesù (indirizzando, così, verso la fonte nascosta da cui essa deriva), ma anche dal fatto che attesta che la sua comprensione maturava in conformità con la cultura del suo tempo e attraverso le relazioni con le persone con cui entrava in contatto. Sotto questo aspetto, quindi, il suo sapere rifletteva la sua condizione storica, incarnata.

Era proprio quest’ultima a far sì che nelle sue affermazioni si potessero trovare nozioni appartenenti al modo di pensare e alla cultura del tempo,

(Mc 5,9), e nell’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci si informò sul numero di pani che i discepoli avevano portato con sé (Mt 15,34).

34In termini cristologici illoghion dell’ora si riferisce a ciò che la persona divina del Figlio di Dio coglieva con la sua coscienza umana. Tutte le affermazioni di Gesù su Se stesso o sulla sua scienza riguardavano questo sapere: nessuna di esse può essere attribuita direttamente a ciò che la persona divina del Figlio conosce nell’ambito della Trinità immanente. Non abbiamo mai nel vangelo testimonianza diretta e immediata di questo secondo aspetto. Sul tema cf. J. Galot,Le Christ terrestre et la vision, “Gregorianum” 67 (1986), 437-439.

35Preceduto da un’affermazione analoga in Lc 2,40.

36Cf. Lc 2,42-47.

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La conoscenza umana di Cristo

ma non sempre del tutto corrette. In occasione delle controversie con i farisei, ad esempio, Gesù accennò al re Davide, che, entrato nel Tempio, aveva mangiato i pani dell’offerta. L’episodio è narrato in 1Sam 21,1-6, in cui si dice che allora era pontefice Abimelech e non Abiathar, come affermato erroneamente da Gesù. Secondo Raymond Brown è possibile che la tradizione ebraica, per vari motivi, avesse confuso i due pontefici, e che, di conseguenza, Gesù avesse commesso la medesima inesattezza37. Ammettendo che si sia trattato effettivamente di un errore, lo si potrebbe imputare, naturalmente, all’evangelista, ma, anche se così non fosse, se lo avesse commesso Gesù, non ne deriverebbe alcun problema per la dottri- na cristologica38. Questi episodi, infatti, sono aspetti secondari, privi di importanza ai fini della sua missione.

Da quanto detto, ad ogni modo, si evince che i discepoli, pur attribuen- dogli una sapienza unica e singolarissima, non consideravano Gesù estraneo alle normali condizioni di esercizio della conoscenza39. Ne consegue che, benché avesse una chiara percezione della propria persona e missione nel mondo, Gesù ebbe anche un’esperienza del tempo e della storia simile a quella di tutti gli esseri umani. Per lui, come per ogni uomo, il tempo si dispiegava in passato, presente e futuro: il passato, tempo legato alle con- crete esperienze vissute, il presente, tempo da vagliare e da fruire, il futuro, tempo da scandagliare, tempo aperto e misterioso, incerto e imprevedibile.

A questo punto si potrebbe obiettare che la dimensione storica del sapere di Gesù trova un riscontro molto limitato nel vangelo di Giovanni.

Probabilmente è vero, ma occorre tener conto dell’intenzione che muoveva questo evangelista, il cui fine primario era affermare la divinità di Cristo come rivelatore unico del Padre e dell’amore trinitario. Per Giovanni Gesù era la Verità stessa, perché attestava ciò che aveva veduto e udito da Dio per la salvezza del mondo40. La fonte della sua conoscenza era Dio, il Dio eterno, ed era logico, quindi, che Egli avesse “parole di vita eterna” (Gv 6,68).

37Cf. R.E. Brown,Jesus God and Man. Modern Biblical Reflections, MacMillan – Collier Macmillan, New York – London 1967, p. 51.

38L’esegeta americano riporta anche altri esempi di affermazioni attribuite dagli evange- listi a Gesù, ma ritenute oggi non del tutto precise. Tra queste, ad esempio, l’attribuzione a Davide del Salmo 110 e a Mosè del Pentateuco. Cf.ibid., p. 52.

39Lo stesso può dirsi dei concittadini di Gesù, gli abitanti di Nazaret, che, per quanto ne sappiamo, non riscontravano in Lui nulla di anomalo. Quando iniziò a predicare, addirittura, i parenti, credendo che fosse uscito di senno, decisero di andarlo a prendere per dissuaderlo (cf. Mc 3,21). Tutto ciò attesta la naturalezza e la “normalità” con cui Gesù conduceva la sua vita tra i suoi simili. Cf. Mc 6,2-3.

40Cf. Gv 3,31; 8.40. Su questi aspetti cf. I. de La Potterie,Gesù verità. Studi di cristologia giovannea, Marietti, Torino 1973.

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Sezione I

In conformità con questa finalità, il quarto vangelo sottolinea la perfetta conoscenza che Gesù aveva delle persone e delle circostanze: “Signore tu sai tutto” (Gv 21,27), dice Pietro al Risorto sulla riva del lago.

L’esposizione giovannea, ad ogni modo, non può considerarsi contrap- posta a quella dei sinottici, perché non ha il loro stesso intento né il loro

“ambito di riferimento”, ma guarda alla persona di Gesù da un’altra pro- spettiva e con una diversa chiave di lettura. Ciò che i sinottici raccontano dispiegandolo nel tempo, il quarto vangelo tende a concentrarlo nella perso- na del Cristo41. Come è la luce, la vita, la resurrezione, il pane, il pastore. . . , così Gesù è anche la verità42. Tutto il suo “fenomeno”, le sue parole, le sue azioni, tutto in Lui è verità e comunica la vita. Giovanni non guarda a ciò che è transitorio e mutevole in Gesù, ma a ciò che è eterno e che salva;

non si interessa alla carne in sé e alle sue dinamiche, né a come l’intelletto di Gesù traduca in concetti umani la Parola di Dio: ciò che gli interessa è che essa rivela il Verbo e che, di conseguenza, l’Eterno può essere nel tempo, la Parola può risuonare nella storia e la gloria dell’Unigenito si può manifestare43. È questa la visione giovannea della conoscenza di Cristo: l’e- vangelista sottolinea con forza i primi due elementi che abbiamo analizzato, ossia quelli relativi all’aspetto soprannaturale della conoscenza di Gesù, e si occupa dell’aspetto propriamente umano (il terzo elemento) soltanto in quanto manifesta e comunica i due precedenti.

3. L’EMERGERE DEL TEMA ALLEPOCA DEIPADRI

L’età patristica vide il progressivo sviluppo della cristologia. Ciò influì fortemente anche sul modo di concepire la conoscenza di Cristo. Gli autori dei primi secoli distinguevano appena le due scienze di Gesù. La negazione di una qualunque conoscenza in Lui, quindi, appariva loro come un’implici- ta affermazione dell’inferiorità del Figlio rispetto al Padre e, dunque, come una tesi subordinazionista. In alcuni casi, poi, la distinzione tra scienza umana e scienza divina in Cristo era vista come una sorta di “divisione”

indebita, come un attentato all’unità del soggetto personale che è il Verbo e, quindi, come una forma di nestorianesimo. Allora il linguaggio era spesso impreciso, e le posizioni dei diversi autori erano notevolmente discordanti.

41“Tipicamente giovannea è la concentrazione cristologica”, afferma Donatien Mollat (Giovanni, maestro spirituale, Borla, Città di Castello 1984, p. 64), in accordo con la maggior parte degli studiosi di Giovanni.

42Tutti noti simboli mediante i quali Giovanni esprime e sintetizza il significato di Gesù per l’uomo.

43Cf. Gv 1.

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La conoscenza umana di Cristo

Anche per questo la teologia dei Padri sulla scienza di Cristo non giunse mai ad essere normativa, ma si limitò a offrire alcuni orientamenti che analizzeremo più avanti.

a) La conoscenza di Gesù nei testi antichi

In un significativo scritto, redatto nel contesto della polemica antiariana, Atanasio di Alessandria affermava che, come uomo, Gesù non conosceva tutto. Gli ariani sostenevano l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre, citando a sostegno delle loro tesi alcuni passi biblici, tra cui illoghion dell’ora del giudizio finale (Mc 13,32). Atanasio obiettò che, quando affermava che neppure il Figlio conosce l’ora, Gesù non si riferiva alla sua conoscenza divina, ma a quella umana:

“Neppure il Figlio conosce tale ora; egli dice anche ciò, in quanto uomo, a causa della carne. Anche in questo caso non si tratta di un difetto del Logos (. . .). Come infatti, una volta divenuto uomo, soffre la fame, la sete e patisce insieme agli uomini, allo stesso modo, insieme agli uomini ed in quanto uomo, non sa; ma in quanto Dio, essendo nel Padre in quanto Logos e Sapienza, sa e non c’è nulla che egli non sappia”44.

Benché l’argomentazione di Atanasio fosse molto chiara, la maggior parte degli studiosi ritiene che, all’atto pratico, nella sua concezione su Gesù il teologo alessandrino quasi ignorasse quanto affermava in questo passo.

Il modello delLogos-sarx, cui egli ricorreva per pensare l’Incarnazione, non gli impediva di ammettere l’esistenza di un intelletto umano (nous) in Gesù, ma non lo aiutava neanche ad attribuire qualsivoglia ruolo a tale intelletto45. Riguardo alla verità, secondo Atanasio il ruolo attivo era svolto dal Verbo (Logos), che esercitava sul corpo umano assunto una funzione motrice simile a quella solitamente attribuita all’anima46. Ma se nel mondo era presente l’Immagine eterna del Padre (ilLogos), Colui che era “Dio da

44Contro gli ariani III, 45-46 (in Atanasio. Trattati contro gli ariani, Introduzione, traduzione e note a cura di P. Podolak, Città Nuova, Roma 2003, pp. 307-308).

45Cf. A. Grillmeier,Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, vol. I/1: Dall’età apostolica al concilio di Calcedonia (451), Paideia, Brescia 1982, p. 583.

46Un altro testo di Atanasio di Alessandria fa luce sul principio generale da lui adottato per spiegare la dinamica operativa di Cristo: il ruolo attivo era proprio della divinità, quello ricettivo o passivo dell’umanità. Cristo donava come Dio e riceveva come uomo: “Egli stesso, che è il Figlio di Dio, è divenuto Figlio dell’uomo, ed in quanto Logos dona ciò che proviene dal Padre: tutto ciò che il Padre fa e dona, lo fa e lo elargisce tramite lui; in quanto Figlio dell’uomo, si dice che egli stesso in quanto uomo riceve ciò che da lui stesso proviene”.Contro gli ariani, I, 45 (Podolak, 103).

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Sezione I

Dio e Luce da Luce”, che rilevanza poteva avere una sua immagine creata (ilnous)?47. La mancata conoscenza umana dell’ora del giudizio da parte di Gesù, era, agli occhi dell’alessandrino, del tutto irrilevante, perché Gesù, in ogni caso, era il Logos onnisciente. Il Logos era realmente il motore della vita spirituale e intellettuale di Cristo, colui che muoveva e dinamizzava la carne assunta.

“In Cristo – afferma Raymond Moloney riferendosi al pensiero di Atana- sio – il dominio della conoscenza divina è tale che, in definitiva, non sembra rimanere in lui alcuno spazio reale per l’ignoranza. L’interpretazione oggi prevalente sulla dottrina del dottore alessandrino, quindi, è che, per lui, le affermazioni della Scrittura che danno l’impressione che vi sia ignoranza in Cristo, sono soltanto questo,impressioni, permesse da Gesù come conces- sione alla verità della sua vita nella carne. Per indicare questa concezione gli studiosi hanno forgiato lo strano concetto diignorantia de iure, con il quale intendono[dire] che, in virtù della realtà della sua umanità, Cristo ha ottenuto il diritto di agirecome se non sapesse! Ma in verità la presunta mancanza di conoscenza di Cristo è soltanto apparente”48.

Cirillo di Alessandria assunse una posizione analoga a quella di Atanasio, da cui mutuò lo schema cristologico. Nel commento al testo lucano in cui si parla della crescita di Gesù fanciullo in età, sapienza e grazia (Lc 2,52), Cirillo osservò che sarebbe impensabile che Gesù, mentre il suo corpo ancora cresceva, si mostrasse nella pienezza della sua sapienza e del suo potere; di conseguenza, continuava il teologo egiziano,

“quando senti dire che Gesù cresceva in età e grazia, non devi pensare che gli era data una sapienza aggiuntiva, perché la Parola di Dio non ha bisogno di niente, ma pensa che la sapienza e la grazia che egli possedeva si manife- stavano progressivamente più patenti a coloro che lo frequentavano. Si dice

47Su questo punto cf. K.K.N. Nathan,The Soul of Christ in Athanasius: a Review of Modern Discussions, “Coptic Church Review” 22 (2001), 23-29; P.S. Russell, Ephraem and Athanasius on the Knowledge of Christ. Two anti-Arian Treatments of Marc 13: 32,

“Gregorianum” 85 (2004), 445-474; T.G. Weinandy,Athanasius: The Incarnation and the Soul of Christ, “Studia Patristica” 41 (2006), 265-269; A. Louth, Athanasius’ Understanding of the Humanity of Christ, “Studia Patristica” (1985), 309-318; J. Roldanus, Le Christ et l’homme dans la théologie d’Athanase d’Alexandrie. Étude de la conjonction de sa conception de l’homme avec sa christologie, Reimpr. avec correction, E.J. Brill, Leiden 1977, pp. 355-356;

J.R. Meyer,The Soteriology of Saint Athanasius of Alexandria. The Divinization of Redeemed Man, Facultad de Teología, Universidad de Navarra, Pamplona 1992.

48R. Moloney,Approaches to Christ Knowledge in the Patristic Era, in Th. Finan – V. Twomey (eds.),Studies in Patristic Christology, Four Courts Press, Dublin – Portland (OR) 1998, p. 43 (traduzione nostra).

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La conoscenza umana di Cristo

che egli cresceva, ma la crescita è piuttosto da riferire all’atteggiamento di coloro che si meravigliavano di lui”49.

Secondo Cirillo, dunque, la crescita intellettuale non riguardava la sa- pienza umana di Gesù, ma il giudizio di coloro che lo frequentavano. In altre parole, l’infinita Sapienza di Cristo non mutava in se stessa, perché era divina, ma, a motivo della sua crescita come uomo, Gesù era sempre più capace di trasmetterla50. Come Atanasio, Cirillo riservava al ruolo del- l’intelletto umano di Cristo una scarsa attenzione, confermata, tra l’altro, dal suo commento al brano evangelico sull’ignoranza del Figlio riguardo al giorno e all’ora del giudizio:

“Quando, non so come,[i suoi discepoli] vogliono porre domande e im- parare cose superiori alle loro capacità,[Gesù] li invita a stare tranquilli, convincendoli con ragionamenti stringenti che il Padre non le ha rivelate agli angeli e neppure le avrebbe rese manifeste allo stesso Figlio, se questi fosse stato un semplice uomo della terra simile a loro e non fosse stato per natura Dio”51.

Benché indubbiamente si debba tener conto del contesto antiariano in cui scriveva, e che lo portava a sottolineare la perfetta conoscenza del Verbo (che era Dio come il Padre), resta tuttavia il fatto che Cirillo non voleva ricorrere alla distinzione tra conoscenza umana e conoscenza divina, tra ciò che, in Cristo, apparteneva alla natura assunta e ciò che apparteneva, invece, alla sua propria natura52.

49Thesaurus de sancta et consubstantiali Trinitate, Assertio 28 (PG 75,428).

50Sebbene nell’Assertio 22 del suo Thesaurus Cirillo ammettesse chiaramente la vera umanità di Gesù e, quindi, la possibilità che vi fosse in Lui una certa ignoranza, dalle sue affermazioni successive si comprende che, in realtà, egli considerava tale ignoranza soltanto teorica (theoria). Scriveva infatti: “Abbiamo contemplato la sua divinità nel fatto che per amor nostro non ha rifiutato di scendere ad un livello così basso da sopportare tutto quanto appartiene alla nostra natura, inclusa l’ignoranza che essa comporta” (PG 75,369). Nella pratica, però, per lui questo principio si traduceva soltanto nel fatto che Gesù poteva o meno ritenere opportuno rivelare nell’economia ciò che conosceva (cf., ad esempio, PG 75,377D).

51De sancta et consubstantiali Trinitate, Dialogi VI (PG 75,1074A). Una tesi analoga si trova in Giovanni Crisostomo (cf.Omelie sul Vangelo di Matteo, 77,1[vol. 3, Città Nuova, Roma 2003, p. 213]). Riguardo alla conoscenza di Gesù secondo quest’ultimo Padre della Chiesa cf. C. Hay,Saint John Chrisostom and the Integrity of the Human Nature of Christ,

“Franciscan Studies” 19 (1959), 298-317.

52Secondo Raymond Moloney (cf.Approaches to Christ Knowledge, p. 55) il problema fondamentale è che Cirillo riteneva che Cristo provenisse da due nature, ma che fosse di una sola natura (o realtà concreta) dopo l’incarnazione. Per l’alessandrino, dunque, Cristo sarebbe stato una sola realtà, in cui le nature potevano essere separate soltanto per astrazione

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Sezione I

Maggior rilievo al ruolo dell’intelletto umano di Gesù e della sua cono- scenza umana accordavano gli antiocheni. Ad Antiochia, come è noto, si era sviluppata una cristologia di segno contrario rispetto a quella alessandrina:

laddove, infatti, quest’ultima tendeva a considerare l’unione del Verbo con la carne secondo lo schemaLogos-sarx (che in fondo richiamava l’unione tra anima e corpo), quella antiochena evidenziava maggiormente la vera uma- nità del Salvatore. Come gli alessandrini, gli antiocheni (Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia, Nestorio, Teodoreto di Cirro) accettavano la dottri- na nicena, ma pensavano l’unione secondo il modelloLogos-anthropos, che confessava Gesù come uomo vero e perfetto e come Dio immutabile. Muo- vevano dunque da una “dualità”, ma nelle loro elaborazioni cristologiche avevano poi difficoltà a spiegare l’unità di Cristo e ad attribuirla a un uni- co soggetto. Alcune loro formulazioni sembravano piuttosto prospettare un’unità di due soggetti coordinati o in perfetto accordo tra loro.

Interrogandosi, ad esempio, sulle manifestazioni di fragilità di Gesù, come il patire la fame, l’essere triste o l’ignorare il giorno e l’ora del giu- dizio, Teodoreto di Cirro si chiese a chi dovessero ascriversi, e, qualora si fossero dovute imputare al Verbo di Dio, come potesse Questi ignorarle.

La mancata conoscenza del giorno e dell’ora della fine implicava infatti, secondo lui, che il Verbo era “ignorante” e, quindi, non era uguale al Padre.

E se non era ignorante, ma diceva di esserlo, allora mancava alla verità. La conclusione cui l’antiocheno giunse lo portò a distinguere tra ilVerbo di Dio e la forma di servo assunta dal Verbo:

“Il Verbo di Dio non ignora il giorno che ha stabilito e predestinato, nel quale verrà a giudicare il mondo, perché, essendo immagine immutabile del Padre, egli possiede la conoscenza del Padre. L’ignoranza non si deve attribuire al Verbo di Dio, ma alla forma di servo che, durante tutto quel tempo, seppe tanto quanto la divinità che lo rivestiva gli aveva rivelato”53. Teodoreto, dunque, ammetteva una reale ignoranza in Gesù, perché essa non comportava alcuna nescienza nel Verbo di Dio. Secondo l’antiocheno, infatti, il soggetto delle passioni e dell’ignoranza non era il Verbo, ma la

“forma di servo”, che il teologo intendeva come una realtà unita al Verbo ma

intellettuale, ma non realmente (se questo fosse il reale pensiero di Cirillo è una questione ancora discussa tra gli studiosi). In questa prospettiva, dopo l’attuazione dell’incarnazione, le affermazioni scritturistiche che parlano di ignoranza in Gesù potevano essere riferite all’umanità soltanto intheoria, ma mai in re.

53Il testo è riportato da Cirillo di Alessandria nell’operaApologeticus contra Theodoretum pro XII capitibus, Anathema IV (PG 76,416-417).

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La conoscenza umana di Cristo

diversa da Lui54. Si poteva allora affermare che l’uomo Gesù ignorava alcune cose, perché ciò non implicava attribuiretout court la medesima ignoranza anche al Verbo di Dio. Anzi Gesù sapeva quanto “la divinità che lo rivestiva gli aveva rivelato”55: aveva una sapienza di origine soprannaturale, ma non piena. A differenza degli alessandrini, gli antiocheni non attribuivano a Gesù unaignorantia de iure o fittizia (non era necessario), ma la soluzione da loro proposta, derivante dalla distinzione tra “la forma di servo” e “il Ver- bo”, benché valida sotto certi aspetti, rimase tuttavia legata a una cristologia erronea e inadeguata, che nei secoli successivi fu rifiutata dalla Chiesa.

Nell’Occidente cristiano, intanto, la cristologia procedeva lungo vie meno tortuose. Ambrogio attribuì in generale a Gesù una perfetta sapienza, ma riuscì anche a distinguere adeguatamente tra le sue due conoscenze, quella divina e quella umana. In un passo delDe Incarnationis Domini- cae Sacramento56, infatti, egli riconosceva che Gesù poteva progredire e perfezionare la sua conoscenza, in quanto, essendo uguale al Padre e allo Spirito Santo, possedeva la Sapienza divina, ma non era onnisciente nella sua umanità:

“Con l’intelligenza umana ‘progredì’, secondo quanto sta scritto: ‘E Gesù progrediva in età e sapienza e grazia presso Dio e presso gli uomini’. Come avrebbe potuto progredire la ‘Sapienza di Dio’? Ti ammaestri l’ordine delle parole. C’è un progresso nell’età e un progresso nella sapienza, ma nella sapienza umana.[L’evangelista] mise al primo posto l’età affinché tu credessi che ciò era stato detto in riferimento all’uomo; l’età, evidentemente, non si riferisce a Dio ma al corpo. Se progrediva nell’età umana, progrediva anche nella sapienza umana. La sapienza progredisce con l’intelligenza, se è vero che la sapienza deriva dall’intelligenza.Gesù progrediva in età e in sapienza (Lc 2,52). Quale intelligenza progrediva? (. . .). Ciò che mutava non era divino, e dunque progrediva l’intelligenza umana”57.

Si noti che Ambrogio era pienamente consapevole che, parlare di due intelligenze, comportava il rischio di scindere Cristo in due soggetti. Preve- nendo quindi un’ipotetica obiezione in tal senso, spiegava:

54Cf.Reprehensio XII Anathematismorum (ACO, I, vol. I, part. 6, pp. 107-148). Sulla cristologia di questo autore si veda P.B. Clayton,The Christology of Theodoret of Cyrus.

Antiochene Christology from the Council of Ephesus (431) to the Council of Chalcedon (451), Oxford University Press, Oxford (UK) – New York 2007.

55Cf.supra, nota 53 e testo corrispondente.

56Si tratta di uno scritto omiletico, composto intorno al 382 in risposta alle affermazioni degli ariani.

57De Incarnationis Dominicae Sacramento, 7,71-72 (in Tutte le opere di sant’Ambrogio [Intr., trad., note e indici di C. Moreschini], Città Nuova, Milano – Roma 1977, p. 429).

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