UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI SCIENZE MATEMATICHE FISICHE E NATURALI
Elaborato Finale di Laurea in Scienze Biologiche Classe di laurea N.12
Curriculum Bioindustriale
Strategie e metodi per la produzione biologica di idrogeno.
Candidato: Tutore interno:
Simone Morra prof.ssa Francesca Valetti
Anno Accademico 2006/2007
INDICE
1. Introduzione: rilevanza della produzione biologica di idrogeno 1 2. Biofotolisi dell’acqua 3
2.1 Bioproduzione di idrogeno nelle alghe verdi unicellulari 3 2.1.1 Vie metaboliche 4
2.1.2 Sistemi colturali 7 2.1.3 Gene sulP 8
2.2 Bioproduzione di idrogeno nei cianobatteri 9 2.2.1 Vie metaboliche 9
3. Produzione di idrogeno da composti organici 12
3.1 Bioproduzione di idrogeno nei batteri anaerobi 12 3.1.1 Vie metaboliche 12
3.1.2 Sistemi colturali e substrati 13
3.2 Bioproduzione di idrogeno nei batteri purpurei non sulfurei (PNS) 15 3.2.1 Vie metaboliche 15
4. Sistemi enzimatici 18 4.1 Idrogenasi 18 4.2 Nitrogenasi 24
5. Altre strategie per la produzione biologica di idrogeno 26 5.1. Sistemi biomimetici in vitro 26
5.2. Produzione integrata 28
6. Discussione sulle prospettive e sui metodi di ricerca e sviluppo nella produzione biologica di idrogeno 30
7. Conclusioni 33 8. Bibliografia 35
1. Introduzione: rilevanza della produzione biologica di idrogeno
Nella continua ricerca di fonti energetiche sostenibili, ci si è resi conto che l’unica fonte di energia virtualmente inesauribile è il Sole.
Ad eccezione della geotermia e delle maree, tutte le fonti di energia rinnovabile sono in realtà alimentate dal Sole: il fotovoltaico, le centrali idroelettriche (che sfruttano l’energia potenziale di acqua che è stata spostata in altezza dal calore del Sole), le centrali eoliche (che sfruttano correnti di aria mosse dal calore del Sole), le biomasse (che utilizzano materiali frutto di attività fotosintetiche).
Sulla Terra, la disponibilità intermittente della luce solare, dovuta alla rotazione del nostro pianeta, alle stagioni e ai fenomeni metereologici, crea però non pochi problemi relativi al suo accumulo per un successivo utilizzo. Anche la vita mostra di essersi evoluta adattandosi all’alternanza giorno-notte, alla disponibilità alternata di energia solare.
Spesso non ci si rende conto che anche combustibili comunemente impiegati, come la legna o i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale), costituiscono di fatto una riserva di energia solare, accumulata sotto forma di legami chimici milioni di anni fa. In modo analogo oggi si cercano nuovi metodi per accumulare nei legami chimici l’energia solare (Lewis 2006).
Fra questi, la tecnologia fondata sull’idrogeno (H2) sembra la più promettente, anche in termini di impatto ambientale. Infatti l’unico prodotto dell’ossidazione dell’idrogeno è l’acqua, onnipresente sul nostro pianeta e negli organismi viventi, e pertanto considerata meno pericolosa dei prodotti dei sistemi attuali di produzione energetica.
Il fatto che, come l’anidride carbonica (CO2), anche il vapor acqueo sia un gas ad effetto serra (Filippini 2001) sembra trascurabile, soprattutto se si pensa che 1) esso è già presente in natura in grandi quantità e che 2) una tecnologia fondata sull’idrogeno comporterebbe un equilibrio fra l’acqua immessa nell’ambiente e quella sottratta per la sua produzione, a differenza dell’utilizzo di combustibili fossili che comporta solamente un continuo rilascio di gas di scarico.
Rimangono tuttavia alcuni problemi tecnici da risolvere, fra cui quelli ingegneristici riguardanti lo stoccaggio, il trasporto e la distribuzione dell’idrogeno; ma il problema che probabilmente ne limita maggiormente l’uso riguarda la sua produzione su larga scala a costi ragionevoli.
Fra le tecnologie oggi disponibili (AAVV 2002), la più diffusa si basa sull’ossidazione di idrocarburi (metano, idrocarburi leggeri, frazioni pesanti, gas di raffineria) con ossigeno e/o acqua, per ricavare idrogeno molecolare:
CnH2n+2 + n/2 O2 Æ n CO + (n+1) H2 CH + n HO Æ n CO + (2n+1) H
Il procedimento a gas d’acqua utilizza carbone e vapor acqueo a 900-1000°C:
C + H2O Æ CO + H2
Successivamente si aggiungono altro vapor acqueo e catalizzatori, a 400-500°C:
CO + H2O Æ CO2 + H2
É evidente che questi processi non risolvono i problemi di approvvigionamento energetico, ma li trasferiscono semplicemente sotto un’altra forma, poichè si basano su combustibili fossili, e liberano tanta CO2 quanto gli attuali sistemi di produzione energetica.
L’elettrolisi dell’acqua permette di ricavare idrogeno direttamente dall’acqua, applicando una corrente a due elettrodi:
H2O Æ H2 + ½ O2
Questa tecnica è molto interessante quando la corrente applicata proviene da celle fotovoltaiche, e quindi il processo risulta in un accumulo di energia solare in molecole di H2. Purtroppo la sua applicazione si scontra con l’elevata richiesta energetica del processo, che si traduce in una bassa resa: servono 4-5 kWh/m3 di H2 contro i teorici 3 kWh/m3. In questo quadro ampio e desideroso di nuove proposte si collocano le numerose e poco esplorate prospettive di produzione biologica dell’idrogeno.
Le principali possibilità sono:
• la biofotolisi dell’acqua, che permette di ottenere idrogeno dalla scissione dell’acqua utilizzando direttamente la radiazione solare (Melis 2001);
• la fermentazione di rifiuti e materiali di scarto, che avrebbe il duplice beneficio di trattare i rifiuti e produrre idrogeno (Kapdan 2005);
• sistemi biomimetici basati su meccanismi o componenti biologici (Esper 2006);
• sistemi integrati che utilizzano più microrganismi e più substrati (Kapdan 2005).
Le rese ancora relativamente basse dei vari processi sono compensate da una bassissima richiesta di energia e da investimenti iniziali ridotti.
Inoltre va considerato che i sistemi biologici, a differenza di quelli artificiali, hanno per definizione la capacità di autoreplicarsi e automantenersi, realizzando autonomamente e continuamente la “manutenzione” di cui hanno bisogno.
2. Biofotolisi dell’acqua
La biofotolisi dell’acqua è probabilmente il processo più interessante per la produzione di idrogeno, poichè prevede (teoricamente) la scissione dell’acqua, con liberazione di idrogeno gassoso (H2) e ossigeno gassoso (O2). In realtà, le reazioni che avvengono sono più complesse e prevedono varie tappe, e non vi è mai produzione contemporanea di H2 e O2, ma il composto che viene utilizzato per la produzione di idrogeno è sempre l’acqua. In questo modo si può ottenere idrogeno da una sostanza non pericolosa e ampiamente distribuita sulla Terra.
I microrganismi che utilizzano queste reazioni per la loro sopravvivenza sono anche capaci di catturare la radiazione solare e di indirizzarla più o meno direttamente verso questo processo.
L’interesse nasce quindi dal fatto di poter utilizzare un sistema compatto (a differenza delle celle fotovoltaiche accoppiate a elettrolisi dell’acqua) che è contemporaneamente capace di assorbire la luce solare e trasformarla in un composto chimico ad alta energia che può essere recuperato facilmente: l’idrogeno molecolare.
I microrganismi che sono stati studiati per questo particolare metabolismo appartengono ai gruppi delle Alghe verdi (Eucarioti) e dei Cianobatteri (Procarioti).
2.1 Bioproduzione di idrogeno nelle alghe verdi unicellulari Le prime osservazioni del metabolismo dell’idrogeno nelle alghe (e nelle piante) avevano individuato un processo, denominato fotoriduzione, in cui si ha riduzione di CO2 con consumo di idrogeno (Gaffron 1939).
Successivamente (Gaffron 1942) si scoprì che se le alghe del genere Scenedesmus erano tenute al buio e in assenza di aria, veniva sviluppato lentamente idrogeno e se le si illuminava, il processo era più rapido. Si vide anche che il processo scompariva se le alghe erano rimesse in condizioni aerobiche.
Vista la complessità e la labilità di questo fenomeno per quasi cinquant’anni non si è potuta intravedere alcuna possibilità di utilizzo; successivamente molto è stato chiarito dei meccanismi molecolari e cellulari che portano allo sviluppo di idrogeno gassoso, ma numerose questioni restano da chiarire.
Numerosi studi sono stati compiuti su svariate alghe verdi, come Scenedesmus obliquus
Fig. 1. Chlamydomonas (SEM).
(http://remf.dartmouth.edu/images/alga eSEM)
Platymonas subcordiformis (Guan 2004). L’organismo maggiormente studiato è Chlamydomonas reinhardtii (Fig. 1, Melis 2001), poichè è ben conosciuto (il genoma è stato sequenziato interamente) ed è un modello di studio della fotosintesi (Raven 2002).
2.1.1 Vie metaboliche
Gli enzimi responsabili della produzione di idrogeno in C. reinhardtii sono stati identificati (Happe 1993, Forestier 2003) come due [Fe]-idrogenasi (HydA1 e HydA2). Si tratta di due enzimi omologhi contenenti nel gruppo prostetico ferro, organizzato in un cluster FeS (cfr.
cap. 4), localizzati nello stroma del cloroplasto (Maione 1986, Happe 1994).
I geni che codificano per le [Fe]-idrogenasi si trovano nel genoma nucleare e la sintesi proteica avviene pertanto su ribosomi liberi nel citoplasma. Una sequenza peptidica segnale per il trasporto nel cloroplasto (CTP), presente all’N-terminale, permette l’importanzione dell’enzima nello stroma del cloroplasto e successivamente viene rimossa tramite idrolisi (Happe 2002a).
Siccome il metabolismo dell’idrogeno nei cianobatteri, precursori dei cloroplasti, non si basa su [Fe]-idrogenasi, l’osservazione che nelle alghe questi geni non siano nel cloropla- sto, ma nel nucleo, permette di ipotizzarne un’origine evolutiva diversa (Melis 2004).
Le [Fe]-idrogenasi delle alghe verdi sono caratterizzate da un’elevata attività enzimatica (in C. reinhardtii 200 nmol H2/(µg Chla1)/h, Winkler 2002a), ma anche da una fortissima sensibilità all’ossigeno (Ghirardi 1997). E’ sufficiente una pressione parziale di O2 minore del 2% per inattivare irreversibilemente l’enzima, pertanto solo in anaerobiosi le [Fe]- idrogenasi delle alghe vengono espresse e sono attive (Forestier 2003).
Il donatore di elettroni per le [Fe]-idrogenasi è la ferredossina ridotta (Florin 2001), una proteina che fa parte della catena di trasporto di elettroni dei cloroplasti.
Nellla fotosintesi, la fonte di elettroni per la catena di trasporto degli elettroni è l’acqua, dalla cui ossidazione si ottiene O2. Il fotosistema II (PSII), un complesso associato alle membrane tilacoidali, è in grado di accettare gli elettroni dell’acqua e di assorbire radiazione elettromagnetica, eccitandosi, con grande efficienza. Il PSII eccitato riduce un pool di plastochinoni (PQ), che fa da tramite verso il complesso del citocromo b6-f, la plastocianina (PC) e quindi il fotosistema I (PSI). I plastochinoni, ossidandosi e riducendosi, legano e rilasciano protoni e trasportandoli all’interno del tilacoide. Come il PSII, anche il PSI si eccita assorbendo la radiazione elettromagnetica e quindi riduce, attraverso alcune molecole intermedie, la ferredossina (Fd). In condizioni normali, la ferredossina cede elettroni ad una Fd-NADP+ reduttasi (FNR), che riduce il NADP+ utilizzato dal processo fotosintetico; un’ATP-sintasi alimentata dal gradiente protonico
generato dalla fotolisi dell’acqua e dal pool di plastochinoni produce ATP (Taiz 1998, Fig. 2).
Se la cellula si trova in anaerobiosi, le idrogenasi vengono espresse e competono con la FNR per l’interazione con la ferredossina e ricevono elettroni per ridurre protoni (Fig. 2).
In questo modo la luce assorbita dai fotosistemi viene utilizzata per la produzione di idrogeno.
Il PSII, che genera O2 dall’acqua, impedisce l’attività delle idrogenasi, ma si è scoperto che è possibile inibirne reversibilmente l’attività rallentandone il turnover. Il PSII, infatti, è molto soggetto a danni dovuti alla radiazione e pertanto necessita di una frequente sostituzione. Coltivando l’alga in assenza di solfati (Wykoff 1998, Melis 2000), si inibisce la sintesi di aminoacidi solforati e quindi la possibilità di produzione di nuove proteine e pertanto la sostituzione del PSII è rallentata. In questo modo si riesce a ridurre l’attività del PSII finchè l’ossigeno prodotto diminuisce al di sotto della richiesta di ossigeno per la respirazione mitocondriale: il poco ossigeno prodotto dal PSII inibito viene consumato dai mitocondri e non inattiva le idrogenasi (Fig. 3A).
Si apre a questo punto il dibattito sulla provenienza degli elettroni che percorrono la catena di trasporto nel cloroplasto durante l’assenza di zolfo, alimentando l’idrogenasi. Le fonti di elettroni sono probabilmente molteplici e frutto dell’interazione di più meccanismi (Melis 2001). Si stima che gli elettroni che percorrono la catena di trasporto nei tilacoidi e che alimentano le idrogenasi provengano all’80% dal PSII (Antal 2003). L’attività del PSII è notevolmente ridotta, ma non annullata, come dimostrato da studi sulla fluorescenza (Antal 2003). Inoltre, dopo una forte inibizione iniziale, durante la produzione di idrogeno l’attività del PSII aumenta nuovamente (Antal 2001). In questo modo la produzione di idrogeno consisterebbe principalmente in una biofotolisi diretta dell’acqua. Tuttavia una così grande dipendenza dal PSII dovrebbe produrre quantità di ossigeno non trascurabili, e il meccanismo che lo consuma non è stato ancora indagato attentamente.
Inoltre si è ipotizzato che un’altra fonte, probabilmente meno significativa, di elettroni per la produzione di idrogeno sia costituita da substrati organici accumulati nella cellula, quali proteine e amido. Alcuni studi (Zhang 2002, Fouchard 2005) evidenziano la diminuzione di contenuto proteico e di amido nella cellula durante la produzione di idrogeno.
Inoltre, studi con mutanti in cui l’accumulo dell’amido è fortemente compromesso (delezione dell’isoamilasi codificata dal gene sta7), mostrano che la produzione di idrogeno è ridotta del 20-40% rispetto al WT (Posewitz 2004). Se il mutante viene complementato con il gene funzionante, si ottiene produzione d’idrogeno paragonabile al WT. Questo studio dimostra che il metabolismo dell’amido in Chlamydomonas è molto importante nella produzione di idrogeno (Posewitz 2004). E’ stato proposto (Melis 2004)
di aumentare l’espressione di questo gene per aumentare l’accumulo di amido e favorire la successiva produzione di idrogeno.
Tramite studi con inibitori (Florin 2001) si è compreso che il punto di ingresso nella catena di trasporto degli elettroni provenienti da questi substrati sono i plastochinoni (Fig. 2).
Infatti in presenza di DCMU2, che blocca il trasferimento di elettroni dal PSII ai PQ, la produzione di idrogeno viene ridotta, ma continua, mentre utilizzando DBMIB3, che si interpone fra i PQ e il complesso del citocromo b6-f, il processo è fortemente inibito.
E' stata ipotizzata (Godde 1980) la presenza di una NAD(P)H-PQ ossidoreduttasi, che donerebbe gli elettroni provenienti dal citoplasma ai plastochinoni. Studi più recenti hanno ipotizzato che questo enzima sia una NADH-deidrogenasi di tipo II (NDH-2, non inibito dal rotenone) (Mus 2005).
Inoltre, è stato osservato che in condizioni anaerobiche le alghe possono utilizzare anche un metabolismo di tipo fermentativo, simile a quello utilizzato dai batteri del genere Clostridium (cfr. 3.1) (Winkler 2002b, Hemschemeier 2004).
Coltivando quindi le alghe in anaerobiosi, in assenza di zolfo e in presenza di luce si può ottenere sviluppo di idrogeno molecolare (Fig. 2).
Fig. 2. Produzione di idrogeno in Chlamydomonas reinhardtii, un’alga verde unicellulare. Le [Fe]-idrogenasi HydA producono idrogeno utilizzando gli elettroni che provengono dalla catena di trasporto del processo fotosintetico. HydA1 e HydA2 vengono espresse in anaerobiosi, poichè sono inattivate dall’ ossigeno.
Pertanto, la produzione di idrogeno è impedita dall’attività del PSII, che genera ossigeno; coltivando l’alga in assenza di solfati è possibile ridurre l’attività del PSII e ottenere l’anaerobiosi grazie al consumo mitocondriale di ossigeno. Gli elettroni (e-) necessari vengono quindi forniti in parte dall’attività residua del PSII e in parte dalla degradazione di substrati cellulari, come amido e proteine, tramite una NADH- deidrogenasi di tipo II (NDH-2). Il pool di plastochinoni è il punto comune d’entrata degli elettroni nella catena di trasporto dei tilacoidi; successivamente il PSI riceve gli elettroni e cattura la luce, riducendo la ferredossina, che trasporta gli elettroni alle idrogenasi. Il gradiente protonico generato nel tilacoide dal flusso di elettroni alimenta l’ATP-sintasi (realizzato in base a Taiz 1998 e Melis 2001).
All’esistenza delle idrogenasi in questi organismi viene attribuito un ruolo importante: in anaerobiosi, l’ATP necessario alla cellula (che non può essere prodotto in quantità sufficienti dai mitocondri) può essere sintetizzato anche nei cloroplasti grazie al gradiente protonico generato dal flusso di elettroni attraverso i plastochinoni (Fig. 2, Melis 2000);
inoltre probabilmente questo sistema ha un ruolo nella dissipazione di equivalenti riducenti in eccesso.
2.1.2 Sistemi colturali
L’anaerobiosi e la carenza di zolfo sono condizioni molto drastiche per Chlamydomonas, perchè comportano la crescita in mezzi carenti di nutrienti importanti e il consumo delle riserve cellulari, e pertanto non possono essere mantenute indefinitamente.
E’ stato sviluppato (Melis 2000) un processo in due fasi che permette di alternare il metabolismo fotosintetico (aerobico, con accumulo di biomassa) alla fotoproduzione di idrogeno. Dopo una fase aerobica in un mezzo completo, in cui avvengono la fotosintesi e l’accumulo di biomassa, le cellule vengono centrifugate e risospese in un mezzo privo di zolfo e sigillate, per bloccare gli scambi di gas con l’ambiente.
L’anaerobiosi vera e propria si attua dopo 24-30 ore (Fig. 3A): il turnover del PSII viene rallentato dalla carenza di zolfo e lo sviluppo fotosintetico di ossigeno viene compensato dal consumo di ossigeno da parte dei mitocondri (respirazione). In questo periodo viene accumulato amido (Tsygankov 2006) e successivamente si osserva produzione di idrogeno (Fig. 3B). In seguito è possibile ripetere il processo, riportando le alghe nel mezzo completo e ricominciando il ciclo: sono stati ripetuti con successo tre cicli (Melis 2000).
E’ anche possibile immobilizzare le cellule in matrici di vario tipo, come fibre di vetro (Laurinavichene 2006); in mezzi privi di zolfo le alghe immobilizzate producono idrogeno.
L’immobilizzazione protegge le alghe da stress meccanici e semplifica il passaggio fra i
Fig. 3. A) Durante l’assenza di zolfo, l’ossigeno prodotto dalla fotosintesi diminuisce rapidamente grazie all’inattivazione del PSII e dopo 24-30 ore risulta minore di quello necessario alla respirazione, permettendo di ottenere l’anaerobiosi. B) Poco dopo lo stabilirsi dell’anaerobiosi, inizia la produzione di H2, circa 30 ore dopo l’inizio dell’assenza di zolfo (Melis 2000, modificato).
2.1.3 Gene sulP
Siccome la coltivazione di Chlamydomonas reinhardtii in mezzi privi di zolfo presenta numerose criticità, come la difficoltà di eliminare lo zolfo dalle colture e lo stress a cui le cellule sono sottoposte, una possibilità interessante nasce dagli studi sul gene sulP.
SulP è un gene nucleare e codifica per una solfato permeasi di tipo ABC che si localizza nell’envelope del cloroplasto (Chen 2004). Il suo ruolo è quello di trasportare ioni solfato dal citoplasma al cloroplasto, in cui vengono ridotti e organicati.
Siccome la presenza di solfato è stata individuata come un punto chiave della produzione di idrogeno, si è subito pensato di down-regolare l’espressione di sulP (Chen 2005), per ridurre la disponibilità di solfato nel cloroplasto.
Sono stati creati circa 750 mutanti, in cui è stata inserita una sequenza antisenso del gene sulP, che sono stati selezionati per l’attività dell’enzima arilsolfatasi (ARS). ARS è un enzima periplasmatico che viene prodotto quando la cellula si trova in ambienti carenti di zolfo e idrolizza solfato da gruppi aromatici; la scelta di ARS come indicatore per lo screening è dovuta alla semplicità di esecuzione, anche se risulta essere un marker indiretto della down-regolazione di SulP.
Infatti, fra i mutanti ottenuti, quello con maggiore attività di ARS è risultato produrre meno idrogeno del WT. Si è verificato che questo mutante ha una capacità di ossidare H2O molto limitata. Pertanto, un’eccessiva inibizione di trasporto del solfato e un’eccessiva inibizione del PSII sono risultate dannose ai fini della produzione di idrogeno.
Siccome l’entrata di solfati nel cloroplasto è ridotta ma non bloccata, è necessario utilizzare mezzi di coltura con concentrazione di solfati non superiore a 100 µM; questo fatto risulta molto vantaggioso rispetto alla coltivazione in mezzi completamente privi di solfati: in mezzi con solfati 100 µM, la produzione di idrogeno è praticamente assente nel WT, mentre risulta piuttosto elevata e duratura nei mutanti (Chen 2005).
2.2 Bioproduzione di idrogeno nei cianobatteri
I cianobatteri, o alghe verdi-azzurre, sono un ampio gruppo di procarioti fotoautotrofi che attuano la fotosintesi ossigenica, utilizzando i due fotosistemi. Tracce dei primi cianobatteri sono state ritrovate in rocce sedimentarie di 3,5 miliardi di anni fa e a queste forme di vita si attribuisce la prima importante immissione di ossigeno nell’atmosfera terrestre (Schopf 2000); inoltre, a causa delle numerose similitudini, si è ipotizzato che i cloroplasti eucarioti abbiano avuto origine da cianobatteri fagocitati, tramite un processo di endosimbiosi.
I generi in cui è stata particolarmente studiata la produzione di idrogeno sono Anabaena, Nostoc (entrambi filamentosi con eterocisti), Synechocystis (unicellulare, privo di eterocisti), Oscillatoria (privo di eterocisti).
2.2.1 Vie metaboliche
Gli enzimi coinvolti appartengono a tre classi (Tamagnini 2002, Dutta 2005):
1) nitrogenasi (geni nif): è il complesso enzimatico chiave della fissazione dell’azoto, secondo la reazione complessiva (cfr. anche cap. 4):
16ATP + 16H2O + N2 + 10H+ + 8e- Æ 16ADP + 16Pi + 2NH4+ + H2 (Dutta 2005) La reazione richiede elettroni e ATP al microrganismo, che è disposto a cederli in cambio della fissazione dell’azoto atmosferico in ammonio. In carenza di N2 l’enzima è comunque attivo e permette la produzione di idrogeno.
La nitrogenasi è irreversibilmente inattivata dall’ossigeno, quindi questo processo può avvenire solo in condizioni anaerobiche. Fra i cianobatteri, solo gli azotofissatori posseggono questo enzima; un esempio è il genere Anabaena.
2) uptake-idrogenasi (geni hup): sono [NiFe]-idrogenasi (cfr. cap. 4) e si trovano anch’esse nelle eterocisti dei cianobatteri
azotofissatori. Sono enzimi preposti all’ossidazione dell’idrogeno prodotto dalla nitrogenasi per alimentare la catena respiratoria (ossiidrogenazione o reazione di Knallgas), permettendo di recuperare elettroni dall’H2 e di riutilizzarli, ad esempio per ridurre O2.
Dal punto di vista della produzione di
idrogeno è quindi un enzima antagonista; sono stati preparati alcuni mutanti ricombinanti, in cui i geni della uptake-idrogenasi (hupSL) sono stati deleti, che mostrano una produzione di idrogeno più elevata (Happe 2000, fig. 4).
Fig. 4. Nei mutanti di Anabaena privi delle uptake- idrogenasi la produzione di idrogeno è fortemente aumentata rispetto al wild type (Happe 2000, modificato).
3) idrogenasi reversibili o bidirezionali (geni hox): sono [NiFe]-idrogenasi, presenti nelle cellule vegetative e anche nelle specie che non fissano l’azoto. Possono catalizzare sia l’ossidazione di H2 che la riduzione di H+. Per questa reazione accettano elettroni direttamente dal NAD(P)H (Cournac 2004), e sono studiate nel genere Synechocystis e in altri batteri, come Ralstonia eutropha (Alcaligenes eutrophus).
Anche le [NiFe]-idrogenasi sono inibite dall’O2, ma in misura minore rispetto alle [Fe]- idrogenasi (Ghirardi 1997), assenti nei cianobatteri.
Nei cianobatteri l’attività della nitrogenasi non dà luogo ad una fotolisi diretta dell’acqua, ma questa è mediata da numerosi substrati cellulari. Si possono individuare due fasi, separate spazialmente (nei cianobatteri con eterocisti) o temporalmente (negli altri): nella prima fase si ha la fotosintesi ossigenica che produce carboidrati di riserva (glicogeno);
nella seconda fase la nitrogenasi “utilizza” i carboidrati per fissare N2 e generare H2.
Le eterocisti presenti nei cianobatteri filamentosi, come Anabaena (Fig. 5) e Nostoc, sono cellule differenziate, con una struttura che si è evoluta appositamente per creare un ambiente anossico in cui la nitrogenasi possa funzionare al meglio: una spessa parete limita l’entrata di O2, il PSII è assente, e un’elevata respirazione cellulare consuma rapidamente l’O2 eventualmente presente; gli scambi con le cellule vegetative sono mediati da strutture particolari note come microplasmodesmi (Raven 2002). In questi microrganismi vi è una separazione spaziale fra la fotosintesi ossigenica, che avviene nelle cellule vegetative, e l’attività della nitroge- nasi, che avviene nelle eterocisti (Fig. 6).
L’attività della nitrogenasi, e quindi la produzione di idrogeno, è favorita in mezzi carenti di nitrati, nitriti e ammonio (che natu- ralmente inibiscono l’enzima) e di azoto molecolare, che compete per l’enzima (Dutta 2005).
La produzione di idrogeno dovuta alla nitrogenasi è molto dispendiosa in termini di energia, per la continua richiesta di ATP ed equivalenti riducenti. Pertanto risulta svantaggiata rispetto alla produzione con [NiFe]-
Fig. 5. Anabaena (Madigan 2003).
Fig. 6. Metabolismo dell’idrogeno nei cianobatteri filamentosi con eterocisti; la fotosintesi avviene nelle cellule vegetative, e l’idrogeno viene prodotto nelle eterocisti dalla nitrogenasi; le uptake- idrogenasi presenti possono consumarlo (realizzato in base a Dutta 2005).
idrogenasi (Rupprecht 2006). Il processo diventa più interessante in mutanti in cui un gene, hetR, è over-espresso e induce un maggior numero di cellule a differenziarsi in eterocisti (Rupprecht 2006) oppure in mutanti in cui le uptake-idrogenasi sono state delete (Happe 2000).
Nel cianobatterio non azotofissatore unicellulare Synechocystis sp. PCC 6803 l’unico enzima responsabile del metabolismo dell’idrogeno è una [NiFe]-idrogenasi reversibile (Appel 2000), codificato dai geni hoxEFUYH (Tamagnini 2002), che media scambi di elettroni fra i coenzimi
piridinici e l’idrogeno (Fig.
7), probabilmente contribuen- do alla regolazione del pool di NADPH e NADH nella cellula (Cournac 2004).
A differenza delle altre, questa idrogenasi è espressa anche in presenza di O2 e
sembra essere attiva a basse pressioni parziali di O2. Inoltre l’enzima, sebbene negli estratti cellulari venga inattivato a causa del contatto con l’ossigeno atmosferico, può essere facilmente riattivato ponendolo in anaerobiosi, con H2 e NAD(P)H (Cournac 2004).
E’ stato realizzato un mutante (Cournac 2004), M55, in cui l’enzima NAD(P)H deidrogenasi di tipo I (NDH1) è eliminato. Questo enzima è associato alle membrane tilacoidali e ossida i coenzimi piridinici, alimentando la catena respiratoria. Eliminandolo, il mutante accumula un pool di coenzimi piridinici fortemente ridotto (dalla fotosintesi e da altre vie) che alimenta la produzione di idrogeno. In presenza di glucosio la produzione di idrogeno è ulteriormente aumentata, grazie al consumo respiratorio di O2 e all’entrata di equivalenti riducenti nel processo fotosintetico.
E’ stato osservato inoltre che la coltivazione di Synechocystis sp. PCC 6803 in presenza di metano e carenza di zolfo aumenta la produzione di idrogeno (Antal 2005).
L’immobilizzazione dei cianobatteri con vari sistemi (schiume di poliuretano o polivinile, fibre cave, grani di vetro, cotone) permette di aumentare la produzione di idrogeno, sia in durata che in quantità (Markov 1995); ad esempio, questo semplice sistema permette di aumentare il numero di eterocisti nei cianobatteri filamentosi, fatto che, come già detto, favorisce la produzione di idrogeno.
Fig. 7. Produzione di idrogeno in Synechocystis sp. PCC 6803. Una [NiFe]-idrogenasi, unica responsabile della produzione di idrogeno in questo microrganismo, utilizza i coenzimi piridinici ridotti dalla fotosintesi.
3. Produzione di idrogeno da composti organici
Un’attenzione particolare va data alla possibilità, ampiamente studiata, di produrre idrogeno partendo da materiali organici di rifiuto (Kapdan 2006, Rupprecht 2006).
Con i microrganismi che crescono in queste condizioni è possibile accoppiare la produzione di idrogeno alla bonifica di materiali inquinanti, come gli scarti dell’industria alimentare, agricola e i fanghi derivanti dalla depurazione delle acque.
I microrganismi che possono essere utilizzati sono batteri purpurei non sulfurei (PNS) e batteri anaerobi (Kapdan 2006).
3.1. Bioproduzione di idrogeno nei batteri anaerobi
La fermentazione anaerobica di materiali di rifiuto, come ad esempio le acque e i fanghi reflui, è una pratica molto diffusa negli impianti di depurazione, come in natura.
Esistono numerosi studi che prendono in considerazione la produzione di idrogeno da substrati come fanghi derivanti dalla depurazione delle acque reflue (Ting 2007), scarti della purificazione dell’amido (Yokoi 2002), scarti agricoli (Zhang 2007), glicerolo (Ito 2005) e altro (Kapdan 2006).
3.1.1. Vie metaboliche
Numerosi microrganismi anaerobi sono in grado di produrre idrogeno, e fra questi quelli più studiati sono quelli apparteneti al genere Clostridium. E’ anche stato osservato che i Clostridi rappresentano la popolazione prevalente (64,6%, Fang 2002) nei fanghi in cui si ha produzione di idrogeno. Anche specie della famiglia delle enterobatteriacee possono produrre idrogeno durante la fermentazione acido mista o 2-3-butandiolica, come Enterobacter aerogenes (Fang 2002, Madigan 2003, Kapdan 2006).
Le specie di Clostridium vivono grazie a fermentazioni diverse, in base alle quali spesso sono classificate (Madigan 2003); questi batteri producono grandi quantità di acidi organici, che possono successivamente essere impiegati come substrato per la crescita di batteri purpurei non sulfurei (PNS), aumentando la resa complessiva del processo (cfr. par.
3.2 e cap. 5).
Gli enzimi direttamente coinvolti nella produzione di idrogeno sono [Fe]-idrogenasi, che accettano elettroni dalle ferredossine o dalle flavodossine. La ferredossina può essere ridotta in due processi; si tratta di due vie che permettono al batterio di recuperare dall’ultima molecola della glicolisi (il piruvato) una molecola di ATP, che in anaerobiosi è molto prezioso.
Nella prima via il piruvato può essere scisso in acido formico e acetil-CoenzimaA (acetilCoA) dall’enzima piruvato-formiato liasi; successivamente dall’acetilCoA viene liberato il coenzimaA e l’energia del legame tioestere viene utilizzata per formare acetil-
fosfato da cui, per fosforilazione a livello del substrato, si ottiene ATP. Successivamente l’acido formico viene ossidato dell’enzima formiato deidrogenasi a CO2 e i suoi elettroni vengono trasferiti alla ferredossina (Fig. 8, Thauer 1977).
La seconda reazione, detta fosforoclastica, è simile: il piruvato viene scisso dall’enzima piruvato-ferredossina ossidoreduttasi in acetilCoA e CO2 e gli elettroni vengono direttamente ceduti alla ferredossina. L’acetilCoA viene poi utilizzato per ottenere ATP (Fig. 8, Thauer 1977).
3.1.2 Sistemi colturali e substrati
In condizioni reali sorgono alcuni problemi: siccome i batteri del genere Clostridium sono anaerobi stretti, per garantirne la sopravvivenza e l’attività metabolica, è necessario utilizzare gas inerti (come argon, azoto, o l’idrogeno stesso) e sostanze riducenti (come la L-cisteina) per eliminare l’ossigeno. Un’alternativa interessante è l’utilizzo contemporaneo di batteri anaerobi stretti ed anaerobi facoltativi, come Enterobacter aerogenes, che consumano l’ossigeno presente, consentendo di raggiungere l’anossia senza aggiunta di alcuna sostanza, con un forte risparmio economico e una buona resa (Yokoi 2001, 2002).
Un secondo problema è dovuto al fatto che non è conveniente sterilizzare i materiali impiegati, e pertanto la competizione fra i microrganismi presenti e quelli eventualmente aggiunti per la produzione di idrogeno può impedire o ridurre i risultati attesi.
Ad esempio, la presenza di batteri metanogeni, tipicamente apprezzata nel trattamento dei reflui zootecnici e delle acque, non è vantaggiosa in questo caso; l’idrogeno prodotto viene utilizzato dai metanogeni per ridurre CO2 e produrre metano (Madigan 2003). Nei reflui non trattati si osserva infatti una prima fase in cui c’è produzione di idrogeno e una secon- da in cui l’idrogeno viene consumato e si osserva produzione di metano (Ting 2007, Fig 2).
Fig. 8. Produzione di idrogeno nei batteri fermentatori. Il piruvato viene ossidato tramite due vie ad acetato e CO2, con produzione di una molecola di ATP. Gli elettroni sottratti alla molecola servono passano dalla ferredossina all’idrogenasi (realizzato in base a Thauer 1977).
Per ovviare a questo inconveniente si sono sviluppate strategie che prevedono trattamenti termici o chimici prima della fermentazione. Il trattamento termico (Kapdan 2006) inattiva numerose specie di batteri, che potrebbero competere per la produzione di idrogeno, ma non i Clostridi, che sopravvivono grazie alla resistenza delle spore.
I trattamenti chimici che si sono dimostrati vantaggiosi consistono nell’acidificazione del substrato. Uno studio (Ting 2007) ha dimostrato che con questa tecnica (HClO4 fino a pH 3) e con un inoculo di un ceppo di Clostridium, si ottiene un’elevata produzione di idrogeno e la scomparsa della produzione di metano, che invece è presente nel fango privo di trattamenti (Fig. 9). Altri trattamenti presi in considerazione (inoculo semplice, basificazione, congelamento) conducono a un modesto sviluppo di idrogeno e non riducono la metanogenesi.
I materiali che sono stati usati come substrato per la produzione di idrogeno sono
numerosi e i tipi di microrganismi sono molto vari e raramente vengono identificati con precisione; spesso si tratta di ceppi isolati dagli autori durante studi precedenti che si sono rivelati efficienti.
Per alcuni materiali, molto ricchi in carboidrati, è necessario aggiungere una fonte di azoto, per permettere una buona crescita batterica. Ad esempio uno studio (Yokoi 2002) che utilizza residui della produzione di amido di patata suggerisce di aggiungere come fonte di azoto un prodotto di rifiuto proveniente da un altro processo; in questo modo non è necessario aggiungere sostanze costose, come il peptone, e si trattano due rifiuti.
Per altri materiali, troppo ricchi di sali, può essere necessaria una diluizione, che però si traduce in un aumento dei costi (Ito 2005).
Fig. 9. Cinetiche di produzione di idrogeno (A) e metano (B) in un fango derivante da impianti di depurazione delle acque.
Il fango non trattato e non inoculato ( verde) nelle prime ore produce idrogeno che successivamente viene consumato per produrre metano.
Il fango inoculato con un ceppo di Clostridium senza pre-trattamenti ( azzurro) si comporta in maniera simile, ma la produzione di metano è molto più consistente, anche se l’inoculo non contiene batteri metanogeni.
Il fango acidificato e inoculato ( arancio) non produce metano, ma solo grandi quantità di idrogeno (Ting 2007, modificato).
3.2 Bioproduzione di idrogeno nei batteri purpurei non sulfurei (PNS) I batteri purpurei non sulfurei, come
Rhodobacter sphaeroides (Fig. 10), possono crescere e produrre idrogeno in anaerobiosi con un metabolismo di tipo fotoeterotrofo;
possono cioè utilizzare la luce come fonte di energia e acidi organici (o altri composti organici) come fonte di carbonio. Pertanto è possibile utilizzare come substrati sia materiali
di rifiuto grezzi, che materiali già trattati con la fermentazione e ricchi di acidi organici (Kapdan 2006); di questa importante possibilità si discuterà nel paragrafo 5.2 (produzione integrata).
La produzione di idrogeno con i PNS è stata studiata utilizzando acque di scarto dei processi di produzione dello zucchero, della spremitura delle olive, della produzione del tofu (Kapdan 2006). Alcuni studi prendono anche in considerazione la possibilità di immobilizzare in varie matrici i batteri (Zhu 1999).
3.2.1 Vie metaboliche
Va osservato che nei PNS la fotoeterotrofia non è l’unico metabolismo possibile (Koku 2002): fotoautotrofia, respirazione aerobica, anaerobica e fermentazione non conducono a produzione di idrogeno; pertanto le condizioni di crescita vanno controllate per indirizzare il metabolismo verso la fotoeterotrofia.
Gli enzimi coinvolti nel metabolismo dell’idrogeno sono nitrogenasi e [NiFe]-idrogenasi.
Come nei cianobatteri, la nitrogenasi produce idrogeno in parallelo alla fissazione dell’azoto, ma in carenza di quest’ultimo può produrre idrogeno secondo la reazione (Koku 2002):
2H+ + 2e- + 4ATP Æ H2 + 4ADP + 4Pi
Le [NiFe]-idrogenasi sono reversibili in vitro, ma in vivo si comportano esclusivamente da uptake-idrogenasi, consumando l’idrogeno liberato. Per ridurne l’attività sono state sviluppate diverse strategie che prevedono la coltivazione in mezzi carenti di nichel o l’aggiunta di EDTA per chelarlo: riducendo la disponibilità di nichel si riduce la presenza di idrogenasi cataliticamente attive.
Sono stati anche realizzati vari mutanti di Rhodobacter sphaeroides RV (Franchi 2004) in cui il gene hupL, codificante la subunità catalitica dell’idrogenasi, viene inattivato tramite inserzione di un gene per la resistenza al trimetoprim. In questi mutanti la produzione di idrogeno risulta superiore rispetto al WT (Fig. 11B).
Fig. 10. Rhodobacter sphaeroides (http://mmg.uth.tmc.edu/sphaeroides/).
Nei PNS esiste inoltre la possibilità di accumulare riserve carboniose sotto forma di poli-β- idrossibuturrato (PHB). Questo polimero è molto interessante dal punto di vista industriale perchè può essere un valido sostituto biologico della plastica comune (Madigan 2003), ma in questo caso rappresenta, come è facile intuire, un antagonista, poichè per la sua sintesi sono necessarie risorse che vengono sottratte alla bioproduzione di idrogeno.
Per ridurre la produzione di PHB si possono utilizzare substrati che più facilmente sono indirizzati alla produzione di idrogeno, come l’acido lattico, il malico e il succinico (Koku 2002). Andrebbe tuttavia considerato che le riserve di PHB potrebbero anche essere mobilitate in un secondo momento e permettere la produzione di idrogeno in carenza di nutrienti esogeni.
Sono stati realizzati dei mutanti, privi dell’enzima PHA-sintasi (coinvolto nella sintesi di PHB), che tuttavia non mostrano elevata produzione di idrogeno in tutte le condizioni di crescita studiate (Fig. 11A). Questo risultato dimostra che le interazioni fra queste vie vanno ancora approfondite.
La doppia inattivazione dell’idrogenasi (hupL) e della sintesi di PHB permette invece ai mutanti di produrre elevate quantità di idrogeno per tempi lunghi (Fig. 11C, Franchi 2004).
Gli elettroni e l’ATP necessari alla nitrogenasi per compiere la riduzione dei protoni vengono forniti dal ciclo degli acidi tricarbossilici (TCA) e dalla fotosintesi (Fig. 12).
A livello del ciclo TCA vengono utilizzati i nutrienti disponibili e in particolare gli acidi organici (lattico, malico, propionico, butirrico, acetico...), che vi entrano facilmente, poichè spesso sono gli stessi che fanno parte del ciclo. Dall’ossidazione degli acidi organici si ricavano trasportatori di elettroni ridotti (NADH, ferredossina) che alimentano la nitrogenasi (Fig. 12).
La fotosintesi che avviene nei PNS è di tipo anossigenico: è presente un solo fotosistema (P870, i cui pigmenti determinano la denominazione dei batteri purpurei) che è coinvolto in una fotofosforilazione ciclica: gli elettroni ricircolano continuamente nelle membrane
Fig. 11. Produzione di idrogeno in Rhodobacter sphaeroides RV coltivato su rifiuti alimentari (frutta e verdura) precedentemente fermentati. A) L’inattivazione della sintesi di PHB (mutante PHA-) non migliora la produzione di idrogeno. B) L’inattivazione dell’uptake idrogenasi (mutante Hup-) porta ad una produzione più abbondante e duratura. C) L’inattivazione sia della sintesi di PHB che dell’uptake idrogenasi (mutante PHA-/Hup-) aumenta notevolmente la quantità e la durata della produzione. (Franchi 2004, modificato).
fotosintetiche (Fig. 12) e pertanto non è necessaria la fotolisi dell’acqua, che determinerebbe liberazione di O2. Grazie a questo meccanismo l’ambiente intracellulare è povero di ossigeno e la nitrogenasi può essere attiva.
Il NAD(P)H può essere comunque ridotto, con sottrazione di elettroni dal ciclo, che vengono riacquisiti dall’ossidazione di composti come H2S, S2O32-, S0, Fe2+, ad opera del citocromo c2 (Madigan 2003).
Come nelle piante e nelle alghe, il flusso di elettroni attraverso un pool di chinoni determina un gradiente protonico che alimenta l’ATP-sintasi. L’ATP così generato supporta il fabbisogno cellulare e la nitrogenasi per la produzione di idrogeno.
Siccome, a differenza delle alghe verdi e dei cianobatteri (che attuano la fotosintesi ossigenica), i batteri purpurei non sulfurei vivono già in natura in condizioni di anossia, l’attività della nitrogenasi è favorita; pertanto l’utilizzo di questi batteri per la bioproduzione di idrogeno risulta facilitata, in quanto la crescita in anaerobiosi è una condizione “già nota” al microrganismo e ai suoi macchinari.
Fig. 12. Metabolismo dell’idrogeno nei batteri purpurei non sulfurei. Substrati e acidi organici entrano nel ciclo degli acidi tricarbossilici (a sinistra) e dalla loro ossidazione si ricavano trasportatori di elettroni ridotti che alimentano la nitrogenasi. La fotosintesi anossigenica (a destra) cattura la luce, genera un gradiente protonico attraverso la membrana cellulare ed alimenta la produzione di ATP, anch’esso coinvolto nella produzione di idrogeno (modificato da Koku 2002 e Madigan 2003).
4. Sistemi enzimatici
Gli enzimi direttamente coinvolti nella produzione dell’idrogeno sono, a seconda dei microrganismi, idrogenasi e nitrogenasi (cfr. capp. 2 e 3). Si tratta di metalloenzimi che catalizzano la reazione 2H+ + 2e- H2, contribuendo significativamente alla regolazione dello stato redox dell’ambiente intracellulare e al metabolismo energetico.
4.1 Idrogenasi
Le idrogenasi sono un gruppo di enzimi che hanno in comune la capacità di catalizzare la reazione 2H+ + 2e- H2 in maniera reversibile, almeno in vitro (Vignais 2001, Tamagnini 2002). I partner della reazione, che possono quindi agire da donatori o accettori di elettroni, sono coenzimi piridinici (NAD, NADP), citocromi, coenzimi F420 e ferredossine.
In base alla composizione del gruppo prostetico, le idrogenasi sono state suddivise in tre classi filogeneticamente distinte: [Fe]-idrogenasi, [NiFe]-idrogenasi e idrogenasi prive di cluster FeS (Korbas 2006). Le differenze fra le tre classi non si limitano al contenuto metallico, ma anche la sequenza genica e aminoacidica e la struttura assunta differiscono (Vignais 2001). Caratteristica comune a tutte le idrogenasi è una più o meno marcata sensibilità all’ossigeno.
Le idrogenasi prive di cluster FeS conosciute non sono numerose e si trovano negli archea metanogeni (Zirngibl 1990). Inizialmente
sembravano enzimi privi di metalli, ma successivamente si è scoperto che, a differenza delle altre idrogenasi, non contengono metalli organizzati in cluster FeS, ma sono legate ad un particolare cofattore contenente ferro (Buurman 2000, Korbas 2006).
Le [Fe]-idrogenasi (codificate dai geni hyd, Vignais 2001) importanti nella produzione biologica di idrogeno si trovano nei batteri del genere Clostridium (cfr. 3.1) e nelle alghe verdi unicellulari (cfr. 2.1), ma le [Fe]- idrogenasi si trovano anche in numerosi altri batteri e in alcuni eucarioti. Sequenze geniche omologhe sono presenti nei lieviti e nell’uomo (narf, Vignais 2001, Happe
Fig. 13. Struttura modulare delle [Fe]-idrogenasi.
Nell’enzima possono essere presenti, oltre all’H- cluster dotato di attività catalitica, alcuni domini accessori. In alcuni casi i domini accessori si trovano su catene separate e danno luogo a complessi multimerici; sotto ogni catena è indicato il peso molecolare in kDa (Vignais 2001).
2002b), ma durante l’evoluzione hanno perso residui aminoacidici importanti e assunto nuove funzioni.
Le [Fe]-idrogenasi sono generalmente monomeriche, con una struttura modulare (Fig. 13):
il peptide può avere dimensioni variabili, grazie ad alcuni domini che possono essere presenti o meno. In alcuni microrganismi certi domini si trovano su catene separate, che danno luogo a complessi enzimatici dimerici, trimerici e anche tetramerici (ad esempio nei generi Desulfovibrio e Thermatoga) (Vignais 2001).
Recentemente è stata studiata un’idrogenasi molto più piccola delle altre, dotata di elevata attività catalitica, che risulta strutturalmente simile a parte dell’H-cluster (Tosatto 2006).
Le informazioni strutturali sulle [Fe]-idrogenasi provengono soprattutto da studi comparativi con la struttura cristallografica dell’enzima di Clostridium pasteurianum (CpI, pdb 1FEH, Peters 1998); esistono anche strutture cristallografiche di [Fe]-idrogenasi di batteri del genere Desulfovibrio (DdH), che non sono monomeriche.
Il dominio dotato di attività catalitica prende il nome di H-cluster (HC) ed è altamente conservato. Nel sito attivo dell’HC sono presenti sei atomi di ferro organizzati in un subcluster [4Fe-4S]
collegato tramite una cisteina ad un subcluster [2Fe], o centro binucleare (Fig. 14).
La forte sensibilità all’ossigeno tipica delle [Fe]-idrogenasi sembra essere dovuta al legame di questa molecola con uno degli atomi di ferro del sito catalitico (Das 2006).
Il subcluster [4Fe-4S] è coordinato alla proteina da quattro cisteine (in CpI 300,
355, 499, 503), di cui una fa da ponte con il subcluster [2Fe] (in CpI la cisteina 503). Un solo atomo di ferro di quest’ultimo è quindi legato covalentemente alla proteina, mentre il secondo atomo è connesso tramite ligandi CO/CN, atomi di zolfo non proteici e coordinato probabilmente con una molecola d’acqua (Fig. 2, Peters 1998). Le quattro cisteine che costituiscono il sito attivo sono altamente conservate, così come alcuni aminoacidi che lo circondano (Vignais 2001).
L’H-cluster è l’unico dominio presente nelle [Fe]-idrogenasi mature delle alghe studiate:
Chlamydomonas reinhardtii (Happe 2002a, Forestier 2003), Scenedesmus obliquus (Florin
Fig. 14 Struttura del sito attivo dell’H-cluster nelle [Fe]- idrogenasi, modificato e visualizzato con RasMol (pdb 1FEH). Il subcluster [4Fe-4S], a sinistra, è costituito da quattro atomi di ferro covalentemente connessi con la proteina tramite quattro residui di cisteina, altamente conservati. Il subcluster [2Fe], a destra, è costituito da due atomi di ferro connessi da ligandi CO/CN e zolfo non proteico. Uno dei due atomi di Fe è connesso alla proteina e al subcluster [4Fe-4S] da una cisteina (da Peters 1998).
Fig. 15. A) Struttura della [Fe]-idrogenasi di Clostridium pasteurianum (CpI, pdb 1FEH). L’H- cluster (blu) contiene il sito attivo e i tre domini accessori (viola, azzurro e verde), con i rispettivi cluster FeS (realizzato con PyMol, da Peters 1998).
B) Struttura di HydA1 da Chlamydomonas reinhardtii, ricavata in base a CpI dal software PS2 (http://ps2.life.nctu.edu.tw/index.php). Il sito attivo è stato aggiunto con il software PyMol; in giallo il segmento assente in CpI, ma presente nelle idrogenasi delle alghe.
2001) e Chlorella fusca (Winkler 2002a), che però contengono anche un segmento non individuato in nessun’altra [Fe]- idrogenasi. Non esiste ad oggi una struttura cristallografica degli enzimi provenienti da questi microrganismi, ma grazie all’alta omologia con CpI è possibile creare strutture potenziali tramite software bioinformatici (Fig. 15B).
Le idrogenasi delle alghe posseggono all’N- terminale una sequenza (CTP) che indirizza il peptide, sintetizzato su ribosomi liberi nel citoplasma, verso il cloroplasto e viene eliminato tramite idrolisi dopo il raggiungimento di questo comparto cellulare (Vignais 2001, Happe 2002a).
La [Fe]-idrogenasi di Clostridium pasteurianum (CpI) è monomerica ed ha dimensioni molto maggiori rispetto alle idrogenasi delle alghe, poichè contiene, oltre l’H-cluster, tre domini accessori, coinvolti nel trasporto degli elettroni dal partner redox al sito attivo (Fig. 15A).
I tre domini si trovano all’N-terminale e sono FS4A-FS4B, contenente due cluster [4Fe-4S] coordinati ciascuno da quattro cisteine (in verde nella figura), FS4C, con un cluster [4Fe-4S] coordinato da tre cisteine e un’istidina (in azzurro), e FS2, contenente un cluster [2Fe-2S] (in viola).
Questi tre domini presentano omologie con altre proteine coinvolte nel trasporto di elettroni, come le ferredossine (Peters 1998).
Il meccanismo di catalisi prevede, per l’ossidazione dell’idrogeno, la scissione
eterolitica della molecola per dare un idruro come prodotto intermedio; gli elettroni
vengono trasferiti dai centri FeS e i protoni vengono ceduti a molecole d’acqua (Peters 1999). Sembra che questa reazione sia cooperativa, cioè dovuta al legame al sito attivo di una prima molecola di idrogeno, che permette l’ossidazione di una seconda molecola di H2 (van Haaster 2006).
La reazione di riduzione di protoni prevede la cessione di due elettroni dal cluster FeS ad un protone per ottenere un idruro legato al metallo e successivamente la protonazione dell’idruro per ottenere la molecola completa di idrogeno (Peters 1999).
Sembra che entrambe le reazioni avvengano presso il subcluster [2Fe] dell’H-cluster (Nicolet 1999, Peters 1999), ma il sito e le modalità di legame dei substrati non sono ancora stati chiariti (van Haaster 2006).
Le [NiFe]-idrogenasi si trovano in numerosi microrganismi (Vignais 2001) e sono coinvolte nella produzione di idrogeno nei cianobatteri (cfr. 2.2) e nei batteri purpurei non sulfurei (PNS, cfr. 3.2).
In questi microrganismi esiste una distinzione funzionale fra uptake-idrogenasi (geni hup), che sono preposte all’ossidazione dell’idrogeno, e idrogenasi bidirezionali o reversibili (geni hox), che possono anche ridurre protoni. Come si è discusso nei capitoli precedenti, la presenza di uptake-idrogenasi, sia nei cianobatteri che nei batteri PNS, riduce la produzione di idrogeno, e pertanto sono stati realizzati numerosi mutanti, privi di questi enzimi, che mostrano una produzione di idrogeno più abbondante (cfr. 2.2 e 3.2).
Le [NiFe]-idrogenasi, per le quali è stata proposta la nomenclatura di hyn (Vignais 2001), sono enzimi eterodimerici, costituiti da una subunità maggiore (L) e una minore (S). Questi peptidi sono codificati da operoni multicistronici che possono contenere, oltre a quelli strutturali, anche numerosi altri geni, fra cui quelli che codificano per enzimi accessori preposti all’inserimento del cofattore nel sito attivo o altri che contribuiscono a formare complessi enzimatici di dimensioni superiori (Vignais 2001).
La subunità maggiore contiene il sito attivo (Fig. 16), che è costituito da un atomo di ferro
Fig. 16. Struttura del sito attivo della [NiFe]- idrogenasi F di Desulfovibrio vulgaris Miyazaki (pdb 1H2R), modificato e visualizzato con RasMol. A) In forma ridotta l’atomo di nichel è coordinato da quattro cisteine; l’atomo di ferro è coordinato da due cisteine, due CO e un SO.
B) In forma ossidata è presente un atomo non proteico a ponte fra i due metalli, che in questo enzima è zolfo (da Higuchi 1999).
e uno di nichel coordinati da quattro cisteine. Tutte le cisteine (81, 84, 546 e 549 in Desulfovibrio vulgaris Miyazaki, pdb 1H2R) coordinano l’atomo di nichel, e solo due (84 e 549) coordinano l’atomo di ferro; quest’ultimo è anche coordinato da due CO e un SO (Higuchi 1999) o anche da CN in altri microrganismi (Ogata 2005).
Dell’enzima esistono due diverse forme, quella ridotta e quella ossidata (che a sua volta può avere coordinazioni e caratteristiche biochimiche diverse, Ogata 2005). Il sito attivo della forma ridotta non presenta ulteriori coordinazioni (Fig. 16A), mentre in quella
ossidata c’è un atomo a ponte fra il ferro e il nichel (Fig. 16B); la presenza di quest’atomo non modifica significativamente la distanza fra i due atomi di metallo (Higuchi 1999). L’atomo è zolfo in alcune forme dell’enzima (Fig. 16B), oppure è anche stato indicato come un ligando biatomico, ad esempio di due atomi di ossigeno (perossido, Ogata 2005).
Quando quest’atomo è assente, l’enzima è attivo e può catalizzare l’ossidazione dell’idrogeno o la riduzione di protoni, con un meccanismo simile a quello delle [Fe]- idrogenasi, che prevede la formazione di un idruro intermedio legato ai metalli (Higuchi 1999, Fig. 17).
Nella subunità minore sono presenti fino a tre cluster FeS, che mediano i trasferimenti di elettroni fra i partner redox e la subunità maggiore contenente il sito attivo (Vignais 2001, Fig. 18).
Alcune [NiFe]-idrogenasi hanno la peculiarità di contenere del selenio. La struttura dell’enzima è molto simile a quella delle altre [NiFe]-idrogenasi, ma una cisteina che coordina il nichel nel sito attivo contiene un atomo di selenio al posto dello zolfo (selenocisteina). Curiosamente, il codone che codifica per questo residuo è TGA, che in genere corrisponde ad un segnale di termine della sintesi proteica (Garcin 1999, Vignais 2001).
L’assemblaggio dei siti attivi delle [NiFe]-idrogenasi richiede alcuni geni accessori, facilmente individuabili poichè si trovano dopo i geni strutturali all’interno dello stesso operone multicistronco (Vignais 2001). I geni hyp sono coinvolti nell’inserzione di ferro, nichel, CO e CN nel sito attivo; i tagli proteolitici necessari ad attivare l’enzima vengono
Fig. 17. Possibile meccanismo di reazione proposto per la [NiFe]-idrogenasi F di Desulfovibrio vulgaris Miyazaki (Higuchi 1999).
condotti da specifiche proteasi che riconoscono il peptide solo se il sito attivo è stato già assemblato (Vignais 2001).
Esistono numerose [NiFe]-idrogenasi, che sono state suddivise in quattro gruppi, in base a due regioni molto conservate (L1 e L2) poste vicino alle cisteine del sito attivo, che rispecchiano anche una suddivisione funzionale (Vignais 2001):
• Gruppo 1: uptake-[NiFe]- idrogenasi respiratorie associa- te a membrana. Sono responsa- bili della crescita di alcuni microrganismi con consumo di idrogeno; alimentano la catena
di trasporto di elettroni, generando un gradiente protonico. All’N-terminale della subunità minore è presente un motivo, twin-arginine, che consente la traslocazione dell’intero enzima attraverso la membrana citoplasmatica.
• Gruppo 2: uptake-[NiFe]-idrogenasi citoplasmatiche eterodimeriche. Sono prive della sequenza che permette la traslocazione attraverso le membrane e pertanto rimangono nel citoplasma. Rientrano in questo gruppo le uptake-idrogenasi dei cianobatteri (Dutta 2005, cfr. 2.2).
• Gruppo 3: [NiFe]-idrogenasi reversibili citoplasmatiche eteromultimeriche. Sono coinvolte in diversi meccanismi e in numerosi microrganismi, fra cui i metanogeni (in cui il partner redox è il coenzima F420), gli ipertermofili (sulfidrogenasi, capaci di ridurre in vitro S0), i cianobatteri (in cui i partenr redox sono i coenzimi piridinici NAD e NADP, Dutta 2005, cfr. 2.2).
• Gruppo 4: [NiFe]-idrogenasi associate a membrana che evolvono H2. Sono presenti in E. coli, in cui si produce idrogeno ossidando il piruvato (in anaerobiosi stretta), e in Rhodospirillum rubrum, in cui viene prodotto idrogeno per ossidazione di CO (al buio).
Fig. 18. Struttura della forma ridotta della [NiFe]- idrogenasi di Desulfovibrio vulgaris Miyazaki (pdb 1H2R), visualizzata con PyMol. La subunità maggiore (L), in verde, contiene un sito di legame per il magnesio (blu), e il sito attivo, in cui si vedono l’atomo di ferro (bruno) e quello di nichel (viola). La subunità minore (S), in azzurro, contiene due cluster [4Fe-4S] e un cluster [3Fe-4S] (Higuchi 1999).
4.2 Nitrogenasi
La nitrogenasi è il complesso enzimatico chiave della fissazione biologica di azoto, che è stata stimata in circa 400 milioni di tonnellate di azoto fissato per anno (Rees 2005).
La fissazione dell’azoto atmosferico, ovvero la sua riduzione ad ammoniaca, necessaria per l’utilizzo negli organismi viventi, è molto dispendiosa in termini energetici: consuma elettroni e ATP, e comporta la produzione in parallelo di idrogeno molecolare.
Non molto è stato chiarito di questa capacità della nitrogenasi. Le reazioni riportate precedentemente (cfr. 2.2 e 3.2) in realtà non sono stechiometricamente esatte e andrebbero riscritte come segue (Rees 2005):
N2 + (6+2n)H+ + (6+2n)e- + p(6+2n)ATP Æ 2NH3 + nH2 + p(6+2n)ADP + p(6+2n)Pi Dove tipicamente n>1 e p>2, e pertanto il rapporto fra idrogeno prodotto e azoto fissato non è esattamente definito (Rees 2005). Inoltre anche in assenza di azoto l’enzima è attivo e riduce protoni ad idrogeno (Koku 2002). La nitrogenasi è molto sensibile all’ossigeno, dal quale è rapidamente e irreversibilmente inattivata (Madigan 2003).
L’enzima è un complesso, costituito da due proteine: la dinitrogenasi (proteina FeMo) e la dinitrogenasi reduttasi (proteina Fe) (Madigan 2003, Rees 2005, Fig. 20).
La dinitrogenasi è la proteina direttamente responsabile dell’attività catalitica ed è un tetramero α2β2. Ogni subunità α contiene un cofattore FeMo, che si trova nella subunità α, e un P-cluster, che si trova all’interfaccia fra le due catene (Rees 2005, Fig. 20).
Il cofattore FeMo è il sito attivo, ed è costituito da sette atomi di ferro, nove di zolfo e uno di molibdeno. Al centro del cluster è stato recentemente individuato un atomo, forse di azoto, che non è ancora stato identificato con certezza;
l’intero cluster è connesso alla subunità α della dinitrogenasi dalla cisteina 275 e dell’istidina 442 e inoltre è coordinato ad una molecola di omocitrato (Fig. 19).
Il meccanismo di catalisi non è ancora stato chiarito (Rees 2005).
Il P-cluster è un cluster [8Fe-7S] che cambia struttura a seconda dello stato redox dell’enzima (Rees 2005) ed è coinvolto nei trasferimenti di elettroni fra la dinitrogenasi reduttasi e il cofattore FeMo.
Fig. 19. Struttura del cofattore FeMo, sito attivo della nitrogenasi. Il ferro è in arancio, lo zolfo in giallo e il molibdeno in azzurro. L’atomo centrale è in blu. Si vedono la cisteina 275 della catena α, che coordina il ferro 1 e l’istidina 442 della catena α, che coordina il molibdeno. Quest’ultimo è anche coordinato da due atomi di ossigeno dell’omocitrato (visualizzato con PyMol dal pdb 1M1N).
Fig. 20. Struttura della nitrogenasi. La dinitrogenasi (o proteina FeMo) è la componente catalitica, formata da due catene α e due β. La catena αcontiene il sito attivo, il cofattore FeMo. All’interfaccia con la catena β è presente il P-cluster, centro FeS coinvolto nel rasferimento di elettroni. E’ anche presente un sito di legame per il calcio. Ogni tetramero α2β2 contiene quindi due cofattori FeMo, due P-cluster e due atomi di Ca2+e interagisce con due molecole di dinitrogenasi reduttasi. La dinitrogenasi reduttasi (o proteina Fe) è un omodimero e contiene un cluster [4Fe-4S] importantissimo nel trasferimento degli elettroni, la cui attività è resa possibile dal legame e dall’idrolisi di due molecole di MgATP nelle due catene dell’enzima; per ottenere i cristalli di enzima di utilizza MgADP con AlF4- (visualizzzato con PyMol dal pdb 1N2C).
La dinitrogenasi reduttasi media gli scambi di elettroni con i partner redox (ferredossine e flavodossine) ed è responsabile dell’idrolisi dell’ATP. La proteina è un omodimero capace di legare due molecole di MgATP e contenente un singolo cluster [4Fe-4S] (Rees 2005, Fig. 9). Il legame con l’MgATP, e la sua successiva idrolisi, permettono alle dinitrogenasi reduttasi di assumere diverse conformazioni e di trasferire gli elettroni acquisiti dai partner redox alla dinitrogenasi.
La produzione di idrogeno molecolare, che avviene parallelamente alla fissazione dell’azoto, prevede quindi che la dinitrogenasi reduttasi acquisti elettroni da ferredossine (o flavodossine) ridotte e, accoppiando l’idrolisi di due molecole di ATP, possa cederli alla dinitrogenasi che a sua volta riduce l’azoto e i protoni (Fig. 21).
Fig. 21. Schema del ciclo catalitico della nitrogenasi. Gli elettroni necessari provengono da ferredossine (Fd) o flavodossine (Fld) ridotte; la dinitrogenasi reduttasi acquista gli elettroni e lega due molecole di ATP, che vengono idrolizzate per raggiungere un potenziale sufficiente a trasferire gli elettroni alla dinitrogenasi. La
5. Altre strategie per la produzione biologica di idrogeno
Dopo aver descritto i microrganismi capaci di produrre idrogeno, le condizioni necessarie e gli enzimi direttamente coinvolti è interessante analizzare almeno due strategie che si basano su queste conoscenze: la produzione con sistemi biomimetici in vitro e l’utilizzo di sistemi integrati comprendenti più microrganismi.
5.1. Sistemi biomimetici in vitro
I sistemi biomimetici in vitro, ossia sistemi artificiali che imitano processi esistenti in natura, presentano alcuni vantaggi. I componenti del sistema possono essere scelti, ed eventualmente modificati, anche fra microrganismi diversi, in base alle caratteristiche desiderate; si può così assemblare un meccanismo con gli elementi migliori fra quelli disponibili, che sarebbe molto complicato inserire in una cellula viva (Esper 2006).
Alla base di questi sistemi vi è solitamente un’idrogenasi, a cui vengono forniti con vari metodi gli elettroni di cui ha bisogno per ridurre i protoni ad idrogeno.
Alcuni studi hanno utilizzato gli enzimi purificati della via dei pentosi fosfati per ossidare glucosio ed alimentare una [NiFe]-idrogenasi purificata da Pyrococcus furiosus (Woodward 1996, 2000). Gli enzimi della via dei pentosi fosfati ossidano il glucosio in più tappe e producono NADPH, che viene riossidato
dalla [NiFe]-idrogenasi con produzione di idrogeno (Fig. 22). In questo modo è stato possibile ottenere un’altissima resa: 11,6 moli di H2 per mole di glucosio-6-fosfato consumato, il che significa una resa del 97% circa rispetto al massimo teorico di 12 moli di H2 per mole di glucosio (Woodward 2000).
La reazione è stata condotta a 40°C, poichè gli enzimi della via dei pentosi fosfati utilizzati erano mesofili; ma è probabilmente possibile velocizzare la reazione operando a temperature superiori utilizzando enzimi termostabili, poichè la [NiFe]-idrogenasi utilizzata proviene da un batterio ipertermofilo ed ha un optimum di attività a 85°C.
Per alimentare la reazione è possibile utilizzare materiali polisaccaridici anche di rifiuto, previa idrolisi (Fig. 22). E’ anche possibile realizzare il processo in un passaggio solo, ad
Fig. 22. Produzione enzimatica di idrogeno in vitro. Una [NiFe]-idrogenasi purificata riceve elettroni dal NADPH, che viene ridotto dagli enzimi della via dei pentosi fosfati, anch’essi purificati. Il glucosio, che viene ossidato, può essere ottenuto per idrolisi di materiali polisaccaridici, come gli scarti agricoli o alimentari. Utilizzando glucosio-6-fosfato il sistema ha dimostrato di avere una resa del 97% circa (realizzato in base a Woodward 1996 e 2000).