Dopo aver descritto i microrganismi capaci di produrre idrogeno, le condizioni necessarie e gli enzimi direttamente coinvolti è interessante analizzare almeno due strategie che si basano su queste conoscenze: la produzione con sistemi biomimetici in vitro e l’utilizzo di sistemi integrati comprendenti più microrganismi.
5.1. Sistemi biomimetici in vitro
I sistemi biomimetici in vitro, ossia sistemi artificiali che imitano processi esistenti in natura, presentano alcuni vantaggi. I componenti del sistema possono essere scelti, ed eventualmente modificati, anche fra microrganismi diversi, in base alle caratteristiche desiderate; si può così assemblare un meccanismo con gli elementi migliori fra quelli disponibili, che sarebbe molto complicato inserire in una cellula viva (Esper 2006).
Alla base di questi sistemi vi è solitamente un’idrogenasi, a cui vengono forniti con vari metodi gli elettroni di cui ha bisogno per ridurre i protoni ad idrogeno.
Alcuni studi hanno utilizzato gli enzimi purificati della via dei pentosi fosfati per ossidare glucosio ed alimentare una [NiFe]-idrogenasi purificata da Pyrococcus furiosus (Woodward 1996, 2000). Gli enzimi della via dei pentosi fosfati ossidano il glucosio in più tappe e producono NADPH, che viene riossidato
dalla [NiFe]-idrogenasi con produzione di idrogeno (Fig. 22). In questo modo è stato possibile ottenere un’altissima resa: 11,6 moli di H2 per mole di glucosio-6-fosfato consumato, il che significa una resa del 97% circa rispetto al massimo teorico di 12 moli di H2 per mole di glucosio (Woodward 2000).
La reazione è stata condotta a 40°C, poichè gli enzimi della via dei pentosi fosfati utilizzati erano mesofili; ma è probabilmente possibile velocizzare la reazione operando a temperature superiori utilizzando enzimi termostabili, poichè la [NiFe]-idrogenasi utilizzata proviene da un batterio ipertermofilo ed ha un optimum di attività a 85°C.
Per alimentare la reazione è possibile utilizzare materiali polisaccaridici anche di rifiuto, previa idrolisi (Fig. 22). E’ anche possibile realizzare il processo in un passaggio solo, ad
Fig. 22. Produzione enzimatica di idrogeno in vitro. Una [NiFe]-idrogenasi purificata riceve elettroni dal NADPH, che viene ridotto dagli enzimi della via dei pentosi fosfati, anch’essi purificati. Il glucosio, che viene ossidato, può essere ottenuto per idrolisi di materiali polisaccaridici, come gli scarti agricoli o alimentari. Utilizzando glucosio-6-fosfato il sistema ha dimostrato di avere una resa del 97% circa (realizzato in base a Woodward 1996 e 2000).
esempio aggiungendo alla miscela di reazione l’enzima cellulasi, che idrolizza il glucosio dalla cellulosa (Woodward 1996).
Questi studi, però, sono stati condotti su volumi molto ridotti, quindi non è ancora possibile prevedere una rapida applicazione pratica.
Altri studi si ispirano invece alla fotosintesi (cfr. 2.1). Questi sistemi semi-artificiali sfruttano i due fotosistemi (PSI e PSII) per “convertire” la luce in elettroni a basso potenziale, che vengono utilizzati da un’idrogenasi per produrre idrogeno (Esper 2006).
L’idrogenasi deve essere tenuta separata dal PSII, che evolve ossigeno, e può inattivarla; i due enzimi si trovano quindi in due spazi fisici separati e gli elettroni vengono spostati tramite due elettrodi. In sostanza quindi il sistema è una cella galvanica attivata dalla luce (Fig. 23): in una semicella si trova il PSII che, se illuminato, ossida l’acqua ad ossigeno e cede gli elettroni ad un elettrodo (anodo); all’altro elettrodo (catodo) si trova il PSI che abbassa ulteriormente il potenziale per poi cedere, tramite un mediatore, gli elettroni all’idrogenasi. Quando il sistema è illuminato, nella semicella dove si trova il PSII avviene l’ossidazione e nella semicella dove si trova l’idrogenasi avviene la riduzione (Esper 2006). Il PSI può anche trovarsi nella stessa semicella con il PSII (Wenk 2002).
La separazione fisica delle due reazioni ha due grandi vantaggi: il primo è la separazione dell’ossigeno, prodotto dal PSII, dall’idrogenasi, che può quindi essere mantenuta in condizioni anaerobiche. In questo modo è possibile l’utilizzo di [Fe]-idrogenasi, dotate di alta attività catalitica ma alta sensibilità all’ossigeno (Esper 2006). Il secondo vantaggio è la produzione di H2 puro, non mescolato ad altri gas, come invece avviene in tutti gli altri processi finora descritti.
Oggi questo sistema ingegnoso propone nuove sfide, fra cui l’immobilizzazione sugli elettrodi delle proteine necessarie, la ricerca di idrogenasi particolarmente resistenti e attive e la stabilizzazione dei fotosistemi, complessi multimerici delicati associati a membrana, che richiedono attenzioni particolari (Esper 2006).
Anche in questo caso, l’utilizzo di componenti scelte fra microrganismi diversi ed opportunamente ingegnerizzate potrà migliorare il sistema (Wenk 2002, Esper 2006).
Fig. 23. Schema di un sistema semi-artificiale per la fotoproduzione di idrogeno. Il PSII immobilizzato su un elettrodo (l’anodo) si trova in una semicella dove ossida l’acqua e trasferisce elettroni ad un circuito.
Nell’altra semicella il PSI immobilizzato sul catodo riceve gli elettroni e li trasferisce ad un’idrogenasi. Il sistema funziona quando è illuminato e si basa sulla capacità dei fotosistemi di produrre elettroni a basso potenziale (modificato da Esper 2006).
Prospettive interessanti si aprono anche dagli studi sui catalizzatori metallici di sintesi, che si ispirano ai siti attivi delle idrogenasi (Lewis 2006).
5.2. Produzione integrata
Nei capitoli 2 e 3 sono state illustrate le caratteristiche e le potenzialità di singoli gruppi di microrganismi capaci di produrre idrogeno; si è visto che una produzione integrata, ossia l’utilizzo di questi microrganismi assieme o in successione permette una resa più alta.
La possibilità più semplice e già sperimentata è quella che prevede due fasi consecutive:
una prima fermentazione anaerobica di materiali di scarto, ad esempio agricoli, seguita da una fase di fotofermentazione con batteri purpurei (PNS) (Kapdan 2006) (Fig. 24).
Nella prima fase la fermentazione anaerobica produce idrogeno e accumula acidi organici (cfr. 3.1), che possono essere utilizzati dai PNS (cfr. 3.2). Studi condotti su residui della lavorazione dell’amido hanno utilizzato Clostridium butyricum ed Enterobacter aerogenes nella prima fase e Rhodobacter sp. M-19 nella seconda, portando ad una resa di 7,2 moli di H2 per mole di glucosio impiegato (Yokoi 2001, 2002). Come è già stato discusso, l’utilizzo di una coltura mista di C. butyricum ed E. aerogenes è vantaggiosa poichè permette di raggiungere rapidamente l’anaerobiosi senza l’aggiunta di sostanze riducenti (Yokoi 2001).
Lo stesso processo è stato realizzato in una singola fase, con una coltura mista di C.
butyricum e Rhodobacter sp. M-19, con una resa di 6,6 moli di H2 per mole di glucosio (Yokoi 1998). Questo sistema è reso possibile dal fatto che la fotosintesi dei batteri purpurei è di tipo anossigenico, e non interferisce con l’anaerobiosi necessaria ai batteri del genere Clostridium.
E’ stato anche proposto di trattare con un processo analogo biomassa prodotta da alghe, come Dunaliella tertiolecta (Kawaguchi 2000) Chlamydomonas reinhardtii (Kim 2006).
Un sistema più complesso è stato proposto ed in parte realizzato e prevede una fase fotosintetica ed una fermentativa, che potrebbero essere alternate ciclicamente (Melis 2006, Fig. 24).
Nella fase fotosintetica è stata utilizzata una coltura mista di un’alga verde unicellulare, Chlamydomonas reinhardtii, e un batterio purpureo, Rhodospirillum rubrum. Questi microrganismi utilizzano la luce e la CO2 per accumulare biomassa e produrre idrogeno. La scelta dei due microrganismi è dovuta alle differenze nei pigmenti fotosintetici, da cui dipende la loro capacità di assorbire la radiazione luminosa in zone differenti. In questo modo si sfrutta complessivamente una fascia più ampia dello spettro elettromagnetico (Melis 2004). Il processo deve avvenire in anaerobiosi (cfr. 2.1 e 3.2).
La biomassa prodotta dalla fase fotosintetica può successivamente essere impiegata per una fermentazione anaerobica, da cui si ricavano acidi organici e idrogeno. E’ stato ipotizzato di rendere ciclico il processo, iniziando una nuova fase fotosintetica sul mezzo fermentato, poichè gli acidi organici presenti possono sostenere la crescita nei batteri purpurei e in parte anche dell’alga (Fouchard 2005).
Fig. 24. Schema di due sistemi di produzione integrata. In alto, fermentazione anaerobica seguita da fotofermentazione con batteri purpurei: l’idrogeno viene prodotto nelle due fasi; gli acidi organici prodotti nella prima fase vengono utilizzati dai batteri purpurei. In basso, la fotosintesi di alghe e batteri purpurei produce idrogeno e biomassa, che viene fermentata con produzione di altro idrogeno. Gli acidi organici possono essere riutilizzati in un processo ciclico (modificato da Melis 2006).
6. Discussione sulle prospettive e sui metodi di ricerca e sviluppo nella produzione