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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA MILANO arti visive PITTURA. SPAZIO INTERIORE E MONDO ESTERNO: come approcciare l ambiente tramite l interiorità

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ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA MILANO arti visive

PITTURA

“SPAZIO INTERIORE E MONDO ESTERNO:

come approcciare l’ambiente tramite l’interiorità”

Relatore tesi: Letizia Cariello Relatore progetto: Letizia Cariello Docente di indirizzo: Omar Galliani

Pierfilippo Gatti, 36744

A.A. 2018/2019

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Spazio interiore e mondo esterno:

come approcciare l’ambiente tramite l’interiorità

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INDICE

ABSTRACT 07

INTRODUZIONE 09

CAP. IIl mondo interiore 15

CAP. II Il linguaggio:

l’interiorità nel mondo esterno 43

CONLUSIONE 75

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ABSTRACT

Argomento della ricerca è la relazione tra spazio interno e mondo esterno, come sono connesse queste due dimensioni e come l’una influenzi l’altra. Nello sviluppare la trattazione si è cercato di definire dapprima l’interiorità, intesa in quanto spazio fisico e spirituale, e successivamente di analizzare come quest’ultima si manifesti nell’ambiente e come questo ne costituisca il presupposto. L’indagine teorica è affiancata in tutto il percorso da una ricerca visiva che declina ed esemplifica gli argomenti trattati in una sorta di racconto visivo. Il perseguimento degli obiettivi preposti nel corso dell’intera ricerca ha portato, in fase conclusiva, alla presa di coscienza di una connessione tra lo spazio interno e il mondo che ci circonda. Tale connessione è capace di integrare il nostro essere all’interno di un disegno più ampio, di una struttura invisibile nella quale siamo immersi, capace di farci vivere secondo un progetto e non più un contingente programma. Tutto è nelle nostre mani, la scelta è semplice

“essere o non essere, sè e ogni cosa”.

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INTRODUZIONE

“Mai un uomo è più attivo di quando non fa nulla, mai è meno solo di quando è solo con sè stesso”. Questa frase di Catone esprime perfettamente una sensazione che nutro e coltivo dentro di me sin da quando ho ricordi, ovvero quel farsi compagnia da soli, quel fantasticare che ai bambini riesce tanto bene, capace di intrattenerci attraverso un dialogo infinito e insivibile con noi stessi. Senza averne coscienza, crescendo, mi rifugiavo di volta in volta in quel luogo interiore, dolce e gentile, che ognuno di noi possiede nella sua intimità e lì capivo cosa mi piaceva e non mi piaceva, chi aspiravo a essere e chi non volevo assolutamente diventare.

Tre anni fa, scrivendo la tesina per concludere i miei studi liceali sul pittore fiammingo Hieronymus Bosch, iniziavo a guardare e praticare l’arte con gli occhi di un neofita e scoprivo che quelle domande che riguardavano la mia vita, la mia intimità, il mio essere più nascosto e profondo trovavano le risposte e le analogie con questo “nuovo” mondo. Presi definitivamente consapevolezza di ciò che mi interessava quando, ormai al termine della mia ricerca sul pittore fiammingo, mi imbattei nell’opera di Dino Buzzati Cronache Di Una Visione: Dino Buzzati e Hieronymus Bosch. Qui lo

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scrittore bellunese mette in bocca a un vecchio pazzo, presunto erede di Hieronymus, la verità secondo me più essenziale e analitica a cui qualsiasi interpretazione sarebbe potuta arrivare:

“E’ così semplice; così limpido! Se non è mai esistito un pittore più realista e chiaro di lui! Altro che fantasie, altro che incubi, altro che magia nere, la realtà nuda e cruda che gli stava davanti.[..] Tutto qui il suo segreto: era uno che vedeva e ha dipinto quello che vedeva…”.

Questa affermazione fu per me un punto di non ritorno: cosa era realtà e cosa fantasia? Quale era la relazione tra ciò che è dentro di noi, la nostra immaginazione, la capacità poietica e il mondo che ci circonda? Ed era davvero possibile che quel mondo invisibile e impalpabile del pensiero potesse sostituire la realtà?

Queste domande mi hanno accompagnato per tutti i tre anni di accademia, per risolverle ho dovuto studiare, ascoltare, chiedere, osservare qualsiasi tipo di persona, di qualsiasi età e con qualsiasi formazione culturale e naturalmente ho dovuto rifugiarmi spesso in quella “camera della mente” da cui tutto è

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Qualcosa ho capito, mai avrei letto, visto e imparato abbastanza ma è giunto il momento di chiudere un capitolo di questa storia e mettere la prima bandierina di questa scalata, che è iniziata prima e che continuerà poi.

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CAP. I

Il mondo interiore

In questo primo capitolo mi propongo di indagare quell’

impercettibile e infinito spazio che è il mondo interiore degli esseri umani contraddistinto principalmente dalla più astratta seppur la più essenziale delle attività della vita dell’uomo: il pensare.

E’ necessario innanzitutto capire che cosa si intende concretamente con l'aggettivo “interiore”, riferito a uno spazio che oltre che spirituale è anche fisico. Il biologo e zoologo Adolf Portmann, nel libro raccolta Le Forme Viventi ci aiuta ad arrivare a una definizione analitica del tema trattato: “La separazione tra interno ed esterno - ci spiega l’intellettuale svizzero - crea un nuovo livello di vita. Essa permette il costituirsi di una complessa struttura nervosa centrale all’interno, nella quale l’esperienza cosciente si afferma sempre di più come particolare modo di essere, un modo di essere che dalla grande e inconscia realtà di ciò che vive estrae una parte, per farne il centro della propria essenza mondana.”

Ciò che sostiene Portmann, in altre parole, è che negli esseri umani, così come in qualsiasi altro essere vivente caratterizzato da una superficie opaca e non trasparente, come

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è la pelle in ognuno di noi, quest’ultima segna una sorta di confine che determina una separazione tra ciò che contiene, che noi definiamo l’interiorità, e ciò che esclude ovvero l’ambiente che ci circonda.

Attività principale del nostro agire interno è, come ci insegna Hannah Arendt nel suo capolavoro La Vita Della Mente, il pensare. La scrittrice di origine tedesca, dopo la pubblicazione dei suoi testi forse più conosciuti ispirati dal processo Eichmann che la portarono alla teorizzazione della Banalità del male, arrivò al successivo e ultimo step della sua ricerca filosofica con l’obiettivo di rispondere alla domanda con la quale si scontravano da secoli pensatori, intellettuali e filosofi e cioè: Che cos’è pensare?

La Arendt sottolinea sin da subito quella differenza, quella opposizione tra intimo ed esterno, dentro e fuori, invisibile e visibile, che in altri termini analizzava Portmann. “Un essere vivente - scrive la filosofa naturalizzata

americana - sebbene sia parte del mondo delle apparenze, è in possesso di una facoltà, la capacità di pensare, che permette

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la perdita del senso comune è ciò che capita a chiunque rifletta su qualcosa: ai pensatori di professione capita solo più spesso”.

Conseguenza di queste considerazioni è che se il pensiero si ritira, anche se temporaneamente, dal mondo sensibile, caratteristica fondamentale dell’attività della mente è l’invisibilità. Gli uomini infatti seppur esistenzialmente condizionati in ogni loro agire possono “trascendere spiritualmente” ovvero “speculare in modo da attribuire significati all’ignoto e all’inconoscibile”.

L’antica grecia ci da testimonianza di ciò con numerosi esempi:

da Omero, il poeta per eccellenza che alcune testimonianze ci dicono essere stato cieco a Tiresia, accecata da Giunone così da potergli accordare il dono della profezia. Cosa ci vogliono insegnare questi miti? Ce lo spiega un’altra volta la Arendt: “Il pensiero facendosi cieco al dato sensibile rimuove così tutto ciò che è vicino, allo scopo di fare spazio al lontano perchè divenga manifesto. In termini più semplici, nella proverbiale distrazione del filosofo ogni cosa presente è assente poiché qualcosa di assente in realtà è presente”.

Il poeta in origine era metaforicamente cieco, non coinvolto in ciò che appare, ben al riparo dal visibile, proprio per essere in grado di vedere l’invisibile, di osservarlo, di essere non attore ma bensì spettatore del mondo e narrarlo “con magiche parole per incantare tutti gli uomini”, e consegnarli con un gesto d’amore

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all’immortalità poiché “ una cosa detta procede immortale, se è stata ben detta”.

Così quando mi imbattei nella poesia di Charles Baudelaire I Ciechi in cui il poeta francese conclude chiedendosi “Cosa cercano nel Cielo, tutti questi ciechi?” La risposta che giaceva già dentro di me era forte e decisa: Altro! altro da ciò che gli attori di questo mondo vedono, altro dal sensibile, dal visibile, dall’apperenza, qualcosa di assoluto forse, qualcosa di sacro che si nasconde agli occhi del corpo ma non a quelli dell’anima.

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Pierfilippo Gatti, “Cosa cerchi in cielo?” 100x70 cm, grafite su carta

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Poeti, scrittori, filosofi e artisti, tutti sono alla ricerca della stessa cosa e un’ulteriore conferma l’ho avuta dialogando con l’artista Federica Poletti.

I soggetti dell’artista modenese appaiono soffocati, nascosti, isolati. L'umanità dipinta ad olio da Federica è quasi sempre femmina, quasi sempre ritratta in quel delicato e potente passaggio che si instaura tra l’intimo inconscio e la realtà. Nel suo studio mentre dipinge le chiedo come la sua interiorità, le sue emozioni o la sua fantasia mutino la percezione del reale.

Lei, sicura, afferma: “Totalmente! La mia percezione ribalta la realtà e ne crea un’altra parallela. Dipingendo creo rappresentazioni del mondo, di ciò che vedo ed è implicito nel mio lavoro un certo distacco dal reale e dal prossimo”.

Come a lei stessa piace definire, i suoi dipinti sono Anti-ritratti, in cui si intuisce senza troppa difficoltà tutta l’angosciante inadeguatezza dell’essere umano che si nasconde dietro stratificazioni manipolate di dolore, ansia e fragilità. “La via di fuga è sempre stata necessaria, inevitabile e ben tracciata - afferma l’artista in riferimento al suo lavoro e al suo stesso

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Federica Poletti, “Overwhelmed” 100x120 cm, olio su tela.

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Federica Poletti, “Memore” 40x40 cm, olio su tela

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Siamo dunque riusciti a chiarire cosa si intende per interiorità definendola come spazio fisico e spirituale e quali sono le caratteristiche della facoltà di pensare, contraddistinta da un ritiro da ciò che è presente e vicino a favore di un’attività riguardante contenuti assenti e lontani. La domanda da porsi ora, al fine di comprendere ancora meglio le dinamiche nascoste e invisibili dell’interiorità degli essere viventi, è: dove siamo quando pensiamo?

La stessa H.Arendt si è posta questa domanda. Perchè se è chiaro che l’attività del pensiero è un ritrarsi dal mondo delle apparenze sorge spontaneo interrogarsi sul dove ognuno di noi si ritrae quando è assorto nei propri pensieri.

In termini spaziali si può parlare di un non-luogo, in quanto l’io che pensa è ovunque, capace di muoversi tra gli universi, tra le essenze invisibili e dunque eternamente senza patria e orgogliosamente cosmopolita. Già Aristotele lodava la vita contemplativa, in quanto non ha bisogno per la sua pratica “né di strumenti né di luoghi speciali; in qualunque luogo sulla terra uno si dedichi al pensare, ovunque sarà a contatto con la verità come se essa fosse presente”. La Arendt però non riesce a individuare con il Vuoto questo non luogo, poiché nel vuoto non può esserci pensiero, e inserisce un’altra componente:

quella temporale. “Noi non siamo solo nello spazio, siamo

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anche nel tempo, ricordando raccogliendo e richiamando ciò che non è più presente, anticipando e progettando nel modo del volere ciò che non è ancora. [..] Lo scontro di un passato che non c’è più e di un futuro che si avvicina ma ancora non è crea un “Tra”, l’uomo vive in questo “Tra” e quello che chiama presente è lotta, lunga tutta una vita, contro il peso morto di un passato che spinge avanti e il timore di un futuro che spinge all’indietro.”

In questa lacuna tra passato e futuro noi troviamo il nostro luogo temporale quando pensiamo. L’uomo è un guerriero che difende la propria presenza, che si impone nel mutamento perenne. Attraverso la meditazione e il pensiero intimo affermiamo continuamente noi stessi, apportando risposte sempre nuove alla domanda sul senso di tutto ciò.

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Pierfilippo Gatti “ Il tempo passa e tu con lui” 70x50 cm, matita su carta

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Federica Poletti, “Circle” 30 cm di diametro, olio e acrilico su tela

Federica Poletti nello spiegare come nasce l’idea di un suo lavoro cita In Acque Profonde di David Lynch e mi spiega che secondo il regista statunitense “Le grandi idee sono come i grandi pesci: nuotano nel profondo perché necessitano di più spazio e lui per riuscire a pescarli medita e rimane lì a pensare, pensare, pensare… Anche io lavoro sull’inconscio ma anzichè meditare agisco, lavoro, faccio e a forza di fare, fare e rifare e aprire strade capisco che una di queste è quella giusta, è il

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Federica Poletti nello spiegare come nasce l’idea di un suo lavoro cita In Acque Profonde di David Lynch e mi spiega che secondo il regista statunitense “Le grandi idee sono come i grandi pesci: nuotano nel profondo perché necessitano di più spazio e lui per riuscire a pescarli medita e rimane lì a pensare, pensare, pensare… Anche io lavoro sull’inconscio ma anzichè meditare agisco, lavoro, faccio e a forza di fare, fare e rifare e aprire strade capisco che una di queste è quella giusta, è il pesce grande”.

L’artista modenese afferma la sua presenza nell’ascolto della sua interiorità, del suo inconscio che però lascia manifestarsi il più liberamente possibile. “Faccio foto, mi metto un centrino

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da tavola in testa o un maglione ma non so perchè lo faccio e lì per lì non mi interessa saperlo. Più avanti dopo uno, due, tre lavori che vengono fuori nella stessa maniera cerco di capire, di razionalizzare anche se è impossibile capirlo fino in fondo”.

Questo stato che Federica Poletti trova nel lavoro, che David Lynch vive nella meditazione, che i greci chiamano Schole, ovvero l’atto deliberato di astenersi, tenersi indietro dalle attività ordinarie determinate dai bisogni quotidiani al fine di praticare l’ozio, si ritrova nel nunc stans della contemplazione dei mistici medievali.

Teresa D’avila nei suoi scritti testimonia la coesistenza di cultura universale e sentimento religioso, realismo e idealismo affrontando quel cammino, quel viaggio dentro sè di cui abbiamo parlato. Nell’opera Il Castello Interiore, la santa spagnola narra di un viaggio spirituale all’interno della fortezza della propria anima attraverso sette dimore alla ricerca di Dio, del bene e del bello.

Per Teresa d’Avila è certo che chiunque arrivi al punto di

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esprime in ottica cristiana quel distacco, quella presenza di ciò che solitamente è assente e invisibile che secoli dopo la Arendt spiegherà all’interno di una struttura filosofica.

Per chi è alla ricerca, non di oggetti e del particolare, ma dell’inconoscibile e dell’universale che di volta in volta ci

“scivola davanti” o appare e scompare come un “lampo” una distrazione, un distacco o una noncuranza dal mondo sensibile e dal senso comune, sono il prezzo da pagare e così Teresa d’Avila lo esprime in uno dei passaggi più raffinati della sua opera.

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“Oh, c’è proprio da lodare Dio, nel vedere l’irrequietezza di questa farfallina, che pur non ha mai goduto in tutta la sua vita di maggior pace e riposo! Il fatto è che non sa dove fermarsi e posarsi perchè, dopo aver goduto di un tal dono, tutto ciò che vede sulla terra la lascia insoddisfatta, specialmente quando già molte volte Dio le ha fatto gustare di questo vino, dal quale quasi ogni volta si traggono nuovi vantaggi. Ormai non dà alcuna importanza a ciò che faceva quand’era verme, che era tessere a poco a poco il bozzolo. Ora le sono nate le ali: come contentarsi, potendo volare, di andare passo passo ?”.

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Echo , mixed media on canvas , 180 x 200 cm ,2018

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Laddove si pongono certe domande il corpo tende a scomparire, a dissolversi. Secondo Platone solo il corpo del filosofo continua ad abitare la città degli uomini, come se, con il pensare, gli esseri umani si allontanassero dal mondo dei viventi, incarnando così un’affinità persistente in tutta la cultura greca, ovvero quella tra filosofia e morte. Gli uomini si muovono infatti in un mondo in cui l’esperienza più radicale di sparizione è la morte e ritrarsi dalle apparenze equivale a morire.

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Pierfilippo Gatti, ”Domande alla vita” matita su carta, 100x70

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Allo stesso modo il poeta francese Paul Valery affermava, opponendosi al Cogito ergo sum cartesiano “A volte penso e a volte sono”, sottolineando una condizione polare nell’uomo, diviso nel suo essere tra il pensiero e l’agire, tra l’attività della mente e quella del corpo. “Tra cuore e seno” esprime questa condizione, quel “Tra” temporale in cui l’uomo afferma la sua presenza, in un continuo scontro, in una continua ricerca di risposte effimere che diventano esse stesse senso dell’essere.

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Pierfilippo Gatti, ”Tra cuore e seno” matita su carta, 100x70

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Teresa d’Avila nel XVI sec. avverte la grande crisi a cui sta andando contro la chiesa e risponde con un ritorno alla tradizione, all’eremitismo, alla solitudine e al silenzio, scoprendo nella pratica della meditazione il mezzo più efficace per appartarsi da questo mondo. Questi pensieri mi ritornano in mente quando ormai, un anno fa ho avuto il piacere di conosce Andrea Chiesi. Venendo a contatto con lui vieni a contatto con un mondo alternativo e lo capisci sin da quando ti appresti ad arrivare nella sua casa-studio; così lo racconta il cantautore, scrittore e amico dell’artista Giovanni Lindo Ferretti: “Abita in una fortezza vegetale. Un quadrilatero verde scuro, fitto di alti alberi, a far corona e ombra ad una villa ottocentesca dove l’ultima periferia di Modena incontra la prima campagna verso Carpi. [...] Una strada sterrata, basta imboccarla uscendo dall’interminabile coda della tangenziale per essere immersi nella campagna. Si respira a pieni polmoni”.

L’artista modenese mi spiega che fondamentale nella sua vita è la meditazione, che pratica ormai da molti anni, un mezzo capace di “svelare la vera natura delle cose”. Mi spiega che

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verso una nuova rinascita o il raggiungimento dello stato di illuminazione”.

Qui capisco l’interconfessionalità della meditazione e la potenza di un atto che altro non è che un guardarsi dentro, un ascoltarsi fino a scovare gli archetipi più nascosti nel nostro animo, affidando poi al linguaggio il compito di comunicare all’esterno ciò che è interno a noi e rendere universale il particolare.

Circondato dai suoi quadri chiedo ad Andrea Chiesi come nasce un suo lavoro. “La fotografia è il primo sguardo: lo scatto rappresenta il contatto con il mondo reale, attraverso l’inquadratura assorbo il soggetto dentro di me. Quando esploro questi spazi non ho tempo. La mia presenza spesso non è autorizzata e quindi devo essere veloce. Ma in studio tutto cambia, è il momento della lentezza, dell’osservazione, del disegno, dei colori e dell’odore della trementina nell’aria. Nella dimensione pittorica il tempo rallenta e lo spazio esce dalla dimensione del reale per divenire spazio mentale, in cui tutto è sospeso”.

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Andrea Chiesi, “Ombra 22” 100x140 cm, olio

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CAP. II

Il linguaggio: l’interiorità nel mondo esterno

E’ necessario connettere a questo punto del percorso il pensiero interno con l’ambiente che ci circonda. Come ci spiega Antonio Damasio, noto neurologo, neuroscienziato e psicologo: “L’organismo costituito dall’associazione corpo- cervello interagisce con l’ambiente come un tutt’uno:

l’interazione non è del solo corpo né del solo cervello. Ma organismi complessi quali i nostri non si limitano a interagire, a generare le risposte esterne complessivamente designate come comportamento. Essi generano anche risposte interne, alcune delle quali costituiscono immagini che io suppongo essere alla base della mente. - Condizione necessaria a definire un organismo complesso dotato di mente continua Damasio è - la capacità di dispiegare immagini internamente e di ordinarle in un processo chiamato pensiero”.

In altre parole il pensare è frutto degli stimoli esterni a cui è sottoposto il corpo, che elaborati dal lavoro incessante del cervello generano immagini percettive frutto dell’esperienza sensoriale (es. ascoltare la musica, guardare fuori dalla finestra, scorrere i polpastrelli su una superficie). Tali immagini vengono poi mantenute dalla memoria e rievocate nei nostri

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ricordi passati o nella progettazione tramite immagini del futuro:e immagini di qualcosa che non è ancora accaduto hanno la stessa natura di qualcosa che è già stato. Tutto il nostro pensare è per immagini e tutte sono costruzioni del cervello che utilizza “un complesso macchinario neurale di percezione, memoria e ragionamento”.

E’ evidente, dunque, come il nostro pensare sia un pensare attraverso un corpo e che tale corpo sia immerso all’interno di un ambiente sensibile.

Non c’è nulla nella vita ordinaria dell’uomo che non possa divenire cibo per il pensiero e anche le questioni metafisiche che la filosofia nei secoli passati ha affrontato scaturiscono da ordinarie esperienza quotidiane.

“Il pensiero - sintetizza magistralmente la Arendt - implica sempre il ricordo; ogni pensare è un ripensare”.

L’uomo come essere non determinato alla nascita ha infatti la possibilità di rivolgere il proprio interesse a ogni oggetto e argomento, dal più nobile al più insignificante che lo attrae. Lo

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strutture metalliche. A volte lo studio insiste sulla struttura, altre mi lascio andare alla contemplazione emotiva del paesaggio. Credo che dipenda dallo stato d’animo del momento, o dalle fasi della vita che ho attraversato, o semplicemente perchè mi interessano entrambe le cose”.

Come accennato in precedenza, nell’analizzare il processo pratico nell’elaborazione di un’opera di Andrea Chiesi vediamo quei passaggi che Damasio in termini scientifici e la Arendt in termini più filosofici individuano nell’attività del pensiero.

L'artista modenese infatti parte da ciò che osserva (esperienza sensibile), di questo contatto col mondo esterno resta un’eco all’interno (elaborazione del dato sensibile in una immagine conservata grazie alla memoria) per poi, attraverso il linguaggio della pittura far nascere una immagine nuova (ri- organizzazione delle immagini mentali in un pensiero).

Come dice lui stesso, infatti: “Io parto da ciò che mi circonda e attraverso la pittura ricreo luoghi di una realtà interiore. La pittura crea mondi nuovi, tra gli infiniti possibili. E’ un atto magico dall’alba dei tempi.”

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Andrea Chiesi, “Karma 32” 50x70cm, olio su lino

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Andrea Chisi “Karma 31” 50x70 cm, olio su lino

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La tillandsia è una pianta che in natura, per vivere, trae acqua e nutrimento direttamente dall’atmosfera (umidità, pioggia, rugiada, nebbia…) tramite le foglie e che dunque nel momento in cui venisse privata di un contatto con l’ambiente morirebbe essiccata. La peculiare caratteristica di questa pianta chiarisce in modo lampante il rapporto inevitabile e necessario che ogni essere vivente coltiva con l’ambiente che lo circonda e del dialogo che interiorità e mondo esterno intrattengono.

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Pierfilippo Gatti, “Tillandsia” 70x50 cm, stampa su tela e cotone

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Citando il filosofo statunitense Hubert Dreyfus “L’essere dell’uomo è un essere-nel-mondo [...] l’uomo vive autenticamente quando riesce a incontrare il mondo non solo teoricamente, ma anche praticamente”.

Apparire a sé stessi, non sarebbe sufficiente a garantire la realtà e ne è un esempio il pensatore che prende commiato dall’universo sensibile, come visto nel capitolo precedente, alla ricerca all’interno di un mondo spirituale di una verità, che però, una volta dis-velata non può manifestarsi se non come un’ulteriore apparenza.

La credenza che una causa (nascosta) debba essere di rango superiore all’effetto che produce (visibile) è una credenza fallace tra le più antiche e radicate. Questo non esclude che l’apparire di qualcosa nasconda qualcos’altro (es. dissimulare della paura e rivelare il coraggio), in ogni apparenza c’è una parvenza ma come riassume magnificamente la Arendt

“L’errore è il prezzo che paghiamo per la verità”.

In linea di massima si può dire, citando A.Portmann che “Ciò che è più esterno parla proprio di ciò che è più interno”

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realtà costituisce l’espressione e il riflesso di uno stato interiore dell’essere ben aldilà delle funzione di conservazione, di selezione e di utilità immediata. Il concetto di autopresentazione è descrittivo, è il manifestarsi di un’interiorità nei caratteri esterni: “Non ciò che una cosa è, ma come essa appare costituisce il problema della ricerca”.

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Nel video “Vivi e lascia vivere” volevo appunto esprimere questa traccia, questa sorta di sindone dell’anima che si imprime nel foglio tramite il gesto artistico e tramite il corpo.

Tutto ciò che appare, altro non è che una manifestazione dell’interiorità, un rigurgito dell’anima che trova una forma e un colore nel mondo sensibile attraverso un linguaggio, quale è l’arte.

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Pierfilippo Gatti “Vivi e lascia vivere”, video, 2018

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Ogni elemento tende all’apparire, a manifestarsi, a dis-velarsi al mondo sensibile. E’ compito dell’artista coglierlo e rendere così “Visibile l’invisibile”.

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Pierfilippo Gatti, “Senza titolo” 70x45, olio su tela, cotone e mercuro cromo

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La domanda, a cui parzialmente si è già data risposta nel corso della trattazione, che viene spontaneo porsi a questo punto è: in che modo l’interiorità si manifesta nel mondo sensibile?

Le attività spirituali, invisibili in sè e rivolte all’invisibile della mente divengono manifeste solo attraverso il linguaggio, tale medium deve annullare quel ritrarsi dal mondo visibile che è la pre-condizione dell’attività del pensiero.“E’ nell’interazione con il mondo esterno che la materia della mente si traduce in agire pratico, in linguaggio e in comportamenti.” La metafora, per esempio, nel linguaggio quotidianamente parlato fornisce un’intuizione tratta dal mondo delle apparenza capace di fungere da ponte tra l’interiorità impercettibile della mente e il mondo delle apparenze svolgendo un ruolo fondamentale nella comunicazione tra esseri umani e nella comprensione altrui Come ci spiega in modo provocatorio e allo stesso tempo originale ed esemplare il filosofo e scienziato cognitivo Daniel Dennet “La storia della filosofia è una storia che fa acqua da tutte le parti , ma è anche costellata di metafore che non dimenticheremo mai. Io le chiamo, rubando un termine

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logica di queste idee. Eppure esse sono meravigliose calamite dell’immaginazione, capaci di riorganizzare il pensiero e fecondarlo con nuovi spunti speculativi. [...] Le metafore non sono “solo” metafore; le metafore sono gli strumenti del pensiero.”

Il nostro modo di esprimerci e le strutture ad esso connesse si sono sviluppate naturalmente col tempo andando ben oltre quelle che sono le nostre necessità di sopravvivenza biologica, arrivando a una complessità e a una sintesi incredibile ampliandosi parallelamente al ragionamento scientifico, a quello artistico e a quello utilitaristico-ingegneristico. Lo stesso Damasio afferma che “i fenomeni linguistici possono essere estremamente complessi, in quanto esprimono le nostre capacità di concettualizzazioni astratte, di simbolizzazione della realtà, di descrizioni metaforiche e poetiche del mondo che ci circonda.”

Un ulteriore esempio è dato dalla testimonianza di numerosi antropologi- paleontologi come Ian Tattersall e Giorgio Manzi, che unanimemente intravedono nella capacità di elaborare un pensiero simbolico il punto di svolta fondamentale nello sviluppo e nella sopravvivenza della nostra specie.

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Lo stesso concetto di simbolo (dal greco “σύμβολον”) implica il concetto di un’unità ritrovata, di un riconoscimento reciproco delle due parti. Nel mondo ellenico infatti il termine veniva utilizzato per indicare una lastra o una tessera o anche un anello che veniva consegnato a ognuna delle due componenti coinvolte in un patto. Quell’oggetto, quel ” simbolo” era sinonimo di riconoscimento e ospitalità implicito tra le parti che lo possedevano. Come ci spiega Donald Davidson, filosofo analitico statunitense “Ciò che è peculiare della razionalità umana è innanzitutto la sua capacità di interagire con il mondo esterno. [..] Noi identifichiamo infatti i nostri stati mentali tramite il loro relazionarsi al mondo esterno. E tale relazione semantica tra pensiero e mondo, è una relazione di tipo causale: sebbene le nostre credenze, intenzioni, desideri, paure siano stati privati e soggettivi, essi possono essere identificati soltanto attraverso il loro legame causale con il mondo esterno, soltanto in quanto fanno riferimento ad oggetti ed eventi esterni”.

Questa attenzione per il reale, questa volontà di penetrare la realtà così a fondo tramite l’arte per disvelare la vera natura, l’essenza nascosta che sta dietro alle maschere, agli usi e ai costumi della società la incarna alla perfezione Nicola Alessandrini. Un artista nato il 31 dicembre del 1977 a

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Macerata, dove tutt’ora vive e dove al lavoro di artista è costretto ad alternare “il lavoro da impiegato grafico di m.” e infatti quando accetta gentilmente di rispondere a qualche domanda, specifica che dovremo chiamarci durante la pausa pranzo, momento in cui l’ufficio è vuoto.

Nicola Alessandrini non apprezza chi associa la sua arte a un surrealismo pop- contemporaneo e ci tiene a specificare: “Ciò che faccio - mi spiega - è reale e mantengo sempre la realtà come riferimento. Si tratta semmai di smascherare una visione differente dell’uomo stesso.”

Mi cita per spiegarsi meglio “Anatomia umana” di Carol Chernov. Nel racconto dello psicanalista e scrittore argentino, un uomo si sveglia a Buenos Aires e scopre di essere l'ultimo maschio in vita sul pianeta. Questa condizione paradossale lo trasforma in preda, prezioso strumento di procreazione al fine di ripopolare la terra e lo priva inoltre del controllo sul proprio corpo e gli impone un'esistenza da fuggitivo camuffato perennemente da donna. A un certo punto del racconto però Chernov inizia una riflessione circa la natura dell’uomo

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teoricamente mostrerebbe tutto: ciò che ingerisce, ciò che lo macchia, che lo decora… “Allo stesso modo nelle mie opere io ricerco un realtà che sia più reale del reale e per arrivare a ciò utilizzo la fantasia, l’arte, che resta pur sempre un filtro visivo - cotinua Alessandrini.

“Non può esserci un’arte non storica, che non si riferisce al suo tempo” e il campo di battaglia in cui la storia si manifesta nelle opere dell’artista marchigiano è il corpo umano, inteso come corpo politico in cui si scontrano tensioni sociali, culturali, economiche e legislative. E’ impossibile esimersi dal confronto con ciò che viviamo e il corpo è la cartina tornasole delle manipolazioni che subiamo.

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Nicola Alessandrini, “I guardiani” 120x220 cm / 110x210 cm, inchiostro e grafite su carta

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Nicola Alessandrini, “I guerrieri” 100x140cm, inchiostro su carta

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Nicola Alessandrini nel proseguire la chiacchierata mi dice che legge molto e si nota e parla con riferimenti a libri, fatti di cronaca, politica, arte… Quando però deve descrivere il suo lavoro si limita a scrivere poche parole, neanche sue, ma della fidanzata: “Questo è il mio lavoro. Nonché la mia natura.

Invisibile e pieno. Di un pieno perfetto.” Analitico e poetico.

Poi in un’altra intervista scopro altre parole a supporto di questa definizione dicendo che è “il monologo di un vasetto per conserve stipato sullo scaffale di un magazzino che rivendica la propria interezza in quanto il suo lavoro di chiudere, sigillare, essere pieno ne costituisce l’intima natura. In realtà non mi sento propriamente così… credo al contrario che il senso di completezza ed autosufficienza sia qualcosa di transitorio, ed ho un bisogno costante di sentirmi sempre più “intero”, poiché penso che la reale completezza non sia quella della chiusura e del limite ma quella dell’estrema apertura e della continua ricerca”.

Se infatti “come artista sento, assorbo, vivo, divengo spugna e puttana della realtà” e lo conferma nello spiegarmi i suoi metodi di lavoro fondati sempre sullo scatto fotografico, allo stesso tempo dice “ cerco di epurare le mie opere dal mero autobiografismo e da un sentimentalismo eccessivamente autoreferenziale, cercando di donare loro una vita indipendente

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che abbia valore e si nutra costantemente anche e soprattutto di sguardi non miei”.

Per fare ciò, per essere altro da sè, per andare oltre al proprio sguardo Nicola Alessandrini cerca nei suoi soggetti quell’uomo invisibile di cui parla Chernov, che nella sua invisibilità si afferma come il più appariscente grazie alla fantasia chirurgica, magnifica ed essenziale che rende le sue opere più reali del reale.

Il pensare, per ricapitolare, è di per sè un atto spirituale e trascendentale capace nella sua azione di congedare sul piano teorico il corpo, al quale però non solo resta irriducibilmente connesso ma al quale, anzi, è debitore per le funzione percettive che esso svolge nell’ambiente che conferiscono il materiale all'immaginazione produttiva per creare immagini costituenti il pensiero stesso.

Il prodotto delle attività mentali poi, vista la nostra condizione di esseri viventi portati all’autopresentazione, si manifesta nel

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al nostro stesso pensiero. Nessuno di noi infatti sa esattamente fino in fondo ciò che dice, sono gli altri, in parte, che danno un senso al nostro esprimerci.

In parole semplici per stabilire delle connessioni è necessario vivere dentro e fuori di noi. Vivere nel mondo esterno in cui siamo nati e che ci educa a una serie di nozioni fondamentali alla sopravvivenza sociale, senza scordarsi però di abitare quel luogo interiore che Caterina da Siena intuitivamente e magnificamente aveva chiamato “la camera della mente”, dove ognuno di noi è in grado, così come fece Caterina, di rifugiarsi, di ascoltarsi e di conseguenza di guardare il mondo che ci circonda dalla serratura della porta della nostra camera interiore.

Se si perdesse l’equilibrio precario tra i due mondi, sia che il

“mondo vero” abolisca “quello apparente” o viceversa, l’intero sistema di riferimento entro il quale il nostro pensiero si era abituato ad orientarsi va in pezzi. A questo punto, nulla sembra più avere alcun senso.

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Anna Madia, “Aletheia” 100x100 cm, olio su tela

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Anna Madia, “ Sleeping beauty” 27x19 cm, olio su tela.

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Anna Madia è un’artista, oggi insegnante all’accademia Albertina di Belle Arti di Torino, nella quale fu anche studente, che lavora attraverso la creazione di immagini nelle quali realtà e fantasia, visibile e invisibile si intrecciano dando vita a un’atmosfera unica, sospesa, dolce e allo stesso tempo violenta che ti colpisce senza che nemmeno ti sia concesso di capire il perchè.

“L’essere umano - spiega l’artista torinese in un’intervista per Hong Kong Art Touring - è fatto per immaginare e i piani intermedi del pensiero, dell’immaginazione, delle funzioni psichiche, del reale e del surreale, si intrecciano e si alimentano tra loro così da creare enigmi e domande circa la mente umana.” Nel parlare del suo lavoro infatti, così tanto fondato sull’inconscio soprattutto attraverso l’analisi degli stati in cui esso emerge (sonnambulismo, coma, allucinazioni), non riesce a non rievocare ricordi passati della sua infanzia: “Una volta all’anno nella mia famiglia c’è l’abitudine quasi rituale di lavare la lana dei materassi. Ogni angolo della casa era ricoperta di questo soffice materiale colore panna conferendo a

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Anna Madia, “Silencio I” 73x60 cm, olio su tela

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Conclusione

E’ giunto il momento di trarre le conclusioni, di tirare le somme e vedere dopo che si è ritirata l’onda della saggistica che cosa è rimasto.

Alla fine di ogni colloquio con gli artisti che amabilmente si prestavano a rispondere alle mie curiosità mi preservavo una domanda: “Che tipo di connessione ritieni che ci sia tra ogni elemento che vi è al mondo?”

Avevo cioè intuito sin da quando ero bambino e compreso e fatto mio solo recentemente che l’esperienza desolante della solitudine e quella impalpabile della noia cadevano sconfitte di fronte alla potenza del pensare.

Mi spiego meglio per non suonare retorico: il pensiero, come abbiamo visto, ci costringe ad abitare quel luogo spesso ignorato che è “la camera della mente”, mettendo in contatto il nostro essere interiore con il resto del mondo. Attraverso questo atto sovversivo è dunque possibile percepire una connessione e avvertire lo schema invisibile che ci circonda, dentro il quale noi siamo immersi. Prendendo coscienza dell’esistenza della struttura di questa sorta di ragnatela e della sua grandezza ci è data l’occasione di scoprire dove siamo situati noi, quale è il nostro ruolo e quale è il nostro progetto,

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così da ricreare quelle unità e riscoprire la viridità del mondo.

Con questo termine Ildegarda di Bingen designa la forza vitale presente in tutti gli elementi in natura e scrive così nel suo Libro Delle Creature “Tutti gli elementi erano al suo servizio poiché percepivano che era vivo e collaboravano con lui in tutte le sue attività, e lui con loro. La terra forniva la sua viridità”.

Con un termine differente ma sempre parallelo mi risponde alla domanda Andrea Chiesi “La vacuità è’ uno dei punti centrali del pensiero buddhista: ogni fenomeno non esiste in sé, ma in relazione a tutto il resto. E’ un concetto confermato anche dalla fisica quantistica, tutto nell’universo è connesso, ogni azione produce conseguenze in tutto il cosmo che ritornano a noi. Il battito d’ali della farfalla che provoca tempeste”.

Compito dell’arte, compito dell’artista e compito di chiunque di noi, è dunque quello di unire visibile e invisibile, di ascoltarci e guardare il mondo attraverso gli occhi della mente e non più unicamente solo quelli del corpo, per ricreare l’unità nascosta che sia noi che la natura celiamo sin dall’origine.

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visione potentemente unitaria del mondo, una visione fondata sulla piena attività sensoriale e nella quale questa attività viene esperita come significativa e pienamente valida. [...] L’intera struttura che sta alla base dell’esperienza primaria non offre solo un criterio di orientamento e di obiettivo di inserimento nel mondo, essa è, ancora di più, una struttura per coordinare all’interno degli stimoli che ci provengono dal mondo, per sviluppare creativamente le forze che sono in noi; è infine, una struttura che ci permette di accrescere, per mezzo delle possibilità creative della nostra attività spirituale, il contenuto fantastico del mondo, così come i poeti e i cantori. Si tratta di conservare al mondo, mediante la libera creazione artistica il suo pieno significato di mondo appartenente alla nostra interiorità”. Solo attraverso tale maniera indicata da Portmann si preserveranno quelle dinamiche e quei fenomeni capaci di far accedere l’uomo a una più ampia e comprensiva realtà vitale.

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“Tutto nell’universo è bello perché simbolo dell’universo”, per essere partecipi di questa bellezza ci è richiesto di essere noi stessi, soltanto noi stessi. Per diventarlo, cosa non semplice, è fondamentale imparare ad ascoltarsi, a percepire le nostre priorità, i nostri gusti e il nostro progetto di vita, abbandonando, per un attimo, il programma che gli altri ci impongono.

Come scrive Fabio Revello nella elegantissima postfazione dell’opera Il bene e Il Bello di Simone Weil: “Con il nostro agire siamo chiamati a realizzare un’unità sempre maggiore, a razionalizzare la verità secondo le leggi della scienza e ad affermare i valori morali.”

La Weil ritiene puerile l’atteggiamento sdegnoso di chi pensa sia folle credere che in una particella di materia possa essere racchiusa l’immensità della natura divina. “L’anima è legata al corpo e, attraverso il corpo, a tutto l’universo. Quando essa contempla il cielo stellato, non vi è un solo astro la cui presenza non agisca su essa; non vi è uno solo dei movimenti che essa imprime al corpo che non modifichi il corso delle stelle. [...] Poiché tutto agisce su tutto, nell’universo esistente;

il corpo subendo l’azione dell’universo tutto intero, trasmette in qualche maniera questa azione umana. L’anima è così unita

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a tutto l’universo, avendo intermediario il corpo, un corpo determinato.”

Così, in conclusione, riassume e mette in guardia la Weil i suoi lettori: “essere o non essere, sè e ogni cosa, si deve scegliere”.

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Bibliografia

La vita Della Mente di Hannah Arendt.

Le Forme Viventi di Adolf Portmann.

L’Errore Di Cartesio: Emozione, Ragione e Cervello Umano di Antonio Damasio

Cervelli Che Parlano: il dibattito su mente coscienza e intelligenza artificiale a cura di Eddy Carli

Il Bello e Il Bene di Simone Weil

Il Castello Interiore di Teresa d’Avila

Libro Delle Creature di Ildegarda di Bingen

Sitografia

- https://www.federicapoletti.com/about - http://www.andreachiesi.it/projects.php

- https://nicolaalessandrini.wordpress.com/category/paintings/

-http://www.thewalkman.it/illustratore-grafico-artista- intervista-nicola-alessandrini/

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NOTE

1. Parole attribuite da Cicerone a Catone nel De Reoubblica, 1,17.

2. Pindaro, Istmica IV.

3. Pindaro, Nemea e istmica IV.

4. Charles Baudelaire, Les Aveugles, 1860.

5. Aristotele, Protreptikos.

6. Metafora di Walter Benjamin.

7. Metafore di Martin Heiddeger.

8. Paul Valery, Discours aux Chiurigiens.

9. Gerald Edelman, Cervelli Che Parlano: il dibattito su mente coscienza e intelligenza artificiale a cura di Eddy Carli.

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