Introduzione
1 INTRODUZIONE
1.1 Lotta biologica
L’impiego massiccio di prodotti chimici in agricoltura è recepito oramai con crescente sospetto da parte dell’opinione pubblica. Nel caso di patogeni terricoli, i ben noti problemi legati alla presenza di residui tossici negli alimenti e gli effetti collaterali nei confronti di organismi “no target” presenti nell’ambiente, sono le forze trainanti i principali partiti e movimenti ambientalisti che chiedono una drastica riduzione nell’utilizzo di prodotti chimici in ambito agricolo (Bell et al., 1996; Ristaino e Thomas, 1997).
Allo stesso tempo, fattori di natura prettamente tecnico-economica, quali l’aumento dei costi necessari alla scoperta e allo sviluppo di nuove molecole, dovuto all’insorgenza di resistenza da parte di patogeni e parassiti nei confronti di sempre più numerosi fitofarmaci, hanno contribuito al crescere dell’ interesse verso strategie di difesa che sostituiscano o almeno riducano l’impiego di tali prodotti. I microrganismi benefici sono in prima linea in questo campo di ricerca (Vannacci e Gullino, 2000).
Il termine lotta biologica è stato coniato per la prima volta nel 1919 da H. S. Smith
(DeBach, 1964) in riferimento all’utilizzo di insetti esotici nel controllo di popolazioni di
insetti dannosi. Gli entomologi hanno tentato di mantenere il termine lotta biologica
riferito soltanto “all’azione di parassiti, predatori, o patogeni nel mantenere densità di
popolazioni di altri organismi ad una media più bassa di quella che si avrebbe in loro
assenza” (Baker e Cook, 1974), restringendo così il campo della lotta biologica alla sola
introduzione artificiale nell’ambiente di microflora antagonista ed ignorarando tutti quei
Introduzione
meccanismi di controllo biologico, che da sempre esistono negli ambienti naturali e che da sempre sono stati utilizzati in agricoltura (Campbell, 1989).
Una più ampia e completa definizione di lotta biologica è quella proposta da Cook e Baker (1983) secondo la quale “la lotta biologica é la riduzione della densità di inoculo o delle attività patogeniche del patogeno ottenuta per mezzo di uno o più organismi diversi dall’uomo” dove per uno o più organismi diversi dall’uomo si intendono:
• ceppi avirulenti o ipovirulenti dello stesso patogeno,
• l’ospite stesso reso meno suscettibile attraverso il miglioramento genetico, le pratiche agronomiche od attraverso l’attività di microrganismi associati,
• gli antagonisti del patogeno, definiti come quei microrganismi che interferiscono
nella sopravvivenza o nelle attività patogeniche del patogeno.
La lotta biologica può perciò essere realizzata attraverso pratiche agronomiche che creano un ambiente favorevole agli antagonisti, incrementano la resistenza della pianta ospite od entrambe; attraverso l’incrocio varietale atto a migliorare la resistenza dell’ospite nei confronti del patogeno o a rendere l’ospite più adatto alle attività degli antagonisti; infine attraverso l’introduzione massale di antagonisti, ceppi non patogenici od altri organismi od agenti benefici (Cook e Baker, 1983).
Non tutti gli studiosi di patologia vegetale sono concordi nell’accettare una definizione così ampia di lotta biologica, tendendo ad escludere da tale ambito le pratiche agronomiche e l’utilizzazione della resistenza genetica delle piante ospiti (Campbell, 1989).
Negli studi di lotta biologica, la maggior attenzione è comunque dedicata all’interazione
microbica con la pianta ospite o con il patogeno, atta a ridurre l’inoculo dello stesso e la
Introduzione
1.1.1 Meccanismi di azione degli antagonisti
Un antagonista è un microrganismo (batterio o fungo) che agisce contrastando un patageno bersaglio, interferendo con il suo ciclo biologico, oppure crescendo associato ad esso (Baker e Cook, 1974).
Tra i meccanismi d’azione possiamo ricordare:
• la competizione per nutrienti o altri prodotti presenti in quantità limitata e richiesti dal patogeno,
• l’ antibiosi, cioè la liberazione da parte di un microrganismo di antibiotici o altri composti chimici tossici per il patogeno,
• la predazione, l’iperparassitismo, il micoparassitismo o altre forme dirette di sfruttamento del patogeno da parte di un altro microrganismo,
• l’ induzione di resistenza nelle piante ospiti.
Un agente di lotta biologica (Biological Control Agents, BCAs) agisce attraverso uno dei suddetti meccanismi o più frequentemente attraverso più di un meccanismo (Elad, 1996).
Tuttavia, meccanismi di azione di alcuni Agenti di Lotta Biologica rimangono tuttora sconosciuti (Baker e Cook, 1974) ed alcune interazioni antagonistiche non cadono in alcuna delle categorie classiche sopra elencate (Zimand et al., 1996).
Il primo meccanismo d’azione che andremo ad esaminare è la competizione. La
competizione fu definita da Clark (in Baker e Snyder, 1965) come “lo sforzo di due o più
organismi di guadagnarsi la quantità desiderata di un substrato quando l’offerta dello
stesso risulti insufficiente per entrambi”. Essenziale perchè avvenga la competizione è
che il “substrato”, la risorsa, sia limitante; se la risorsa è presente in quantità sufficiente
Introduzione
per tutti, allora non c’è competizione.Così come la competizione per la luce rappresenta il fattore più importante nell’evoluzione e nella sociologia delle piante superiori, così la competizione per i substrati e lo spazio, rappresenta il fattore principale per i funghi eterotrofi del suolo (Garret, 1956).
La competizione tra i microrganismi avviene per lo più per i nutrienti (es. carboidrati, azoto ed altri fattori di crescita) ma può verificarsi anche per lo spazio (es. siti di infezione) o per l’ossigeno (Faull, 1988). L’acqua non rappresenta un fattore di competizione per i funghi in quanto questi sono in grado di alterare il potenziale idrico, adeguandolo alle loro esigenze (Frankland, 1981) anche se i microrganismi possono però competere per lo spazio che presenta il contenuto d’acqua ottimale.
L’ossigeno, in alcuni casi, può diventare un fattore limitante; in presenza di organismi della rizosfera molto attivi oppure di suolo umido e asfittico, la deficienza di ossigeno si localizza di solito intorno alla radice. La competizione per l’ossigeno svolge quindi un ruolo importante in condizioni di questo tipo e i competitori che riescono ad esaurire le risorse di ossigeno del terreno più rapidamente, sono tra i più interessanti per il biocontrollo (Baker e Cook, 1974).
Gli habitat naturali fungini sono caratterizzati da una scarsa disponibilità di nutrienti facilmente accessibili (zuccheri semplici e amminoacidi). Tra gli elementi presenti nel terreno soltanto il ferro, l’azoto ed il carbonio hanno un’importanza tale da giustificare uno stato di competizione in caso di carenza. Anche se richiesto in quantità ridotte, il ferro riveste un’importanza primaria nel metabolismo cellulare dei funghi.
L’assimilazione del ferro da parte dei funghi avviene di solito attraverso l’emissione di
composti organici chelanti a basso peso molecolare (500-1000 Da), chiamati siderofori.
Introduzione
prodotti può essere ristretta ad una particolare famiglia strutturale, ma in molti casi, i funghi sono in grado di sintetizzare siderofori riconducibili a diverse famiglie strutturali.
L’ampia variabilità trova spiegazione nella maggiore capacità di adattamento alle diverse condizioni ambientali (Anke et al., 1991).
Nel biocontrollo di microorganismi fitopatogeni, l’attività dei siderofori riveste un ruolo di primaria importanza. Il sequestro del ferro da parte di antagonisti produttori di siderofori può infatti portare all’inibizione della crescita o dell’attività metabolica dei patogeni (Loper, 1990; Misaghi et al., 1982).
La competizione per l’azoto può verificarsi in substrati dove questo è presente a basse concentrazioni. Alcuni funghi hanno mostrato un adattamento ecologico a condizioni di questo tipo (Lockwood, 1981). In particolare la competizione per l’azoto è risultata essere evidente in substrati con un elevato rapporto C/N, quali ad esempio residui vegetali, legno, acqua e substrati artificiali presentanti tale elevato rapporto (Lockwood e Filonow, 1981).
Il carbonio, insieme all’azoto, rappresenta l’elemento più importante nella nutrizione degli organismi eterotrofi. La principale fonte di carbonio dei microrganismi del terreno è rappresentata dagli essudati radicali, dalle radici in accrescimento e dai residui colturali.
In un esperimento Burber e Martin (1987) stimarono che il 3-9% dei composti assimilabili prodotti da grano e orzo e fonte di carbonio, venivano emessi come essudati radicali.
La varietà di substrati presenti nel terreno, sia da un punto di vista qualitativo che
quantitativo, fa si che la comunità dei microrganismi sia sempre in continuo cambiamento
e successione. Esiste infatti una diversità biochimica tra i vari organismi; alcuni funghi ad
esempio prediligono substrati costituiti da composti semplici quali zuccheri solubili e
Introduzione
amminoacidi mentre altri sono in grado di metabolizzare, tramite appositi enzimi extracellulari, anche substrati complessi come cellulose e lignine. Le cellulose e le lignine sono degradate da gruppi fungini appartenenti agli Ascomiceti, Deuteromiceti e Basidiomiceti (Lockwood, 1981).
Studi condotti su Fusarium solani, mostrarono come la competizione del carbonio da parte della microflora antagonista presente nel terreno, poteva essere proposta come meccanismo alla base del biocontrollo della malattia (Maurer e Baker, 1965; Snyder et al., 1959).
La competizione per i nutrienti implica la lotta per la cattura e la difesa delle risorse tra i funghi vicini e probabilmente è il principale meccanismo di biocontrollo. La competizione tra un agente di biocontrollo ed un patogeno, qualora la crescita dell’antagonista porti alla riduzione della popolazione del patogeno o della produzione di inoculo, può condurre al controllo della malattia (Paulitz, 1990; Deacon e Berry, 1992).
Il successo della competizione dipende anche dall’abilità dell’antagonista di sostenersi in un ambiente già da lui colonizzato. Nei microrganismi del terreno, ad esempio, risulta essere importante la “rizosphere competence” (capacità di colonizzazione della rizosfera) (Lynch, 1990).
Il secondo meccanismo d’azione che andremo ad esaminare è l’antibiosi. Intesa nel suo significato più ampio, l’antibiosi può essere definita come “l’inibizione di un organismo per mezzo di un metabolita prodotto da un altro”. Sebbene si tratti di solito di un’inibizione di crescita, essa può anche risultare letale (Cook e Baker, 1983).
Per antibiotici si intenderanno quei composti a basso peso molecolare, prodotti dai
microrganismi e deleteri per l’accrescimento o l’attività di altri microrganismi (Fravel,
Introduzione
volatili che non e gli agenti litici (Jackson, 1965), anche se non tutti gli autori sono concordi con questa inclusione.
I funghi hanno dimostrato di essere capaci di produrre un’ampia varietà di sostanze tossiche in grado di agire contro un ampio range di organismi procarioti ed eucarioti. La capacità di un fungo di produrre antibiotici può quindi risultare determinante nell’abilità di colonizzazione di un substrato e di mantenimento della propria presenza sullo stesso (Faull, 1988).
Il terzo meccanismo d’azione che andremo ad esaminare è il micoparassitismo. In natura i funghi spesso crescono su altri funghi, tale associazione non implica necessariamente una relazione di tipo parassitario. Un micoparassita può essere definito come un fungo che vive in intima associazione con un altro dal quale trae alcuni o tutti i sui nutrimenti. I micoparassiti sono raggruppati in necrotrofi (distruttivi) e biotrofi (in equilibrio). Un micoparassita necrotrofo, stabilito un contatto con il proprio ospite, di solito invade le cellule di questo e ne causa la distruzione; un micoparassita biotrofo infligge un leggero o non evidente danno all’ospite (Barnett e Binder, 1973). Nel micoparassitismo biotrofico si stabilisce un contatto persistente ed una occupazione della cellula ospite che rimane viva mentre nel micoparassitismo necrotrofo, le cellule dell’ospite vengono uccise dopo il contatto e molto spesso prima che avvenga la penetrazione.
L’interazione tra i micoparassiti e loro ospiti fungini avviene in quattro fasi, disposte in sequenza ma spesso sovrapposte tra loro:
1. localizzazione 2. riconoscimento
3. contatto e penetrazione
4. acquisizione del nutrimento
Introduzione
La presenza, la durata e l’importanza di ciascuna fase dipende da diversi fattori: i tipi di funghi coinvolti, se il micoparassita è biotrofo e necrotrofo, l’organo attaccato, il tipo di habitat naturale e le sue condizioni ambientali prevalenti (Whipps et al., 1988).
L’ultimo meccanismo d’azione che andremo ad esaminare è l’induzione di resistenza.
L’induzione di resistenza, sia localizzata che sistemica, si verifica pressochè in tutte le piante in seguito all’attacco di microrganismi patogeni, a danni fisici causati da insetti od altri fattori, a trattamenti chimici di vario tipo inducenti la stessa e in seguito alla presenza di rizobatteri non patogeni (Kuc, 2001; Oostendorp et al., 2001). Notevoli progressi sono stati fatti nel chiarimento delle “vie” coinvolte nell’induzione di resistenza; in molti casi l’acido salicilico e l’acido iasmonico, insieme all’etilene e al protossido di azoto, inducono una cascata di eventi che portano alla produzione e all’accumulo di una varietà di metaboliti e proteine aventi diverse funzioni (Hammerschimdt et al., 2000; van Loon et al., 1998).
Al momento sono note tre vie di induzione di resistenza nelle piante. Due di queste,
vedono coinvolta la produzione di PR (pathogenesis-related-proteins); in un caso la
produzione di PR avviene in seguito all’attacco di microrganismi patogeni, nell’altro in
seguito a necrosi o ferite provocate da patogeni (es. erbivori, insetti ecc.), benchè
meccanismi di diverso tipo possono indurre entrambe le vie. Nel primo caso, (pathogen-
induced-pathways), la pianta produrrà come molecola segnale l’acido salicilico mentre
nell’altro, (herbivory-induced pathway), l’ acido iasmonico. Questi composti e i loro
analoghi, inducono risposte simili anche se applicati esogenamente, inoltre risulta
rilevante lo scambio di informazioni (crosstalk) tra queste due diverse vie (Bostock et al.,
2001).
Introduzione
Le vie indotte dall’ acido salicilico e dall’acido iasmonico sono caratterizzate dalla produzione di PR (pathogenesis-related-proteins). Queste comprendono: chitinasi, glucanasi e taumatine, enzimi ossidattivi quali perossidasi, polifenol-ossidasi e lipossigenasi. Si possono inoltre accumulare composti a basso peso molecolare aventi attività antimicrobica (fitoalessine) (Harman et al.,2004).
Al momento la terminologia associata a queste due vie, dipendendo dalla tradizione individuale di ciascun ricercatore, è molto confusa (Hammerschimdt et al., 2000); per semplicità si indica come SAR (systemic acquired resistence), ciascun processo che vede come risultato il diretto accumulo di PR e fitoalessine (Harman et al.,2004).
Il terzo tipo di induzione di resistenza è quello indotto dai rizobatteri non patogeni, ed è indicata come RISR (rhizobacteria-induced systemic resistence). Sebbene da un punto di vista fenotipico l’RISR sia molto simile alla SAR, essa funziona in modo completamente diverso. La colonizzazione dell’apparato radicale da parte dei rizobatteri non induce infatti una produzione ed un accumulo diretto di PR, ed alcuni ceppi batterici sembrano non indurre neppure l’accumulo di acido salicilico (Bakker et al., 2003). Comunque, in seguito all’attacco di un patogeno, la pianta, in presenza di rizobatteri, vede aumentate le sue capacità di risposta e si ha una diminuzione di severità della malattia. L’RISR quindi detemina un potenziamento delle risposte di difesa della pianta, senza la cascata di proteine tipica delle vie dell’acido salicilico e iasmonico (SAR) (Harman et al., 2004).
1.2 Il genere Trichoderma
Il genere Trichoderma venne introdotto da Persoon circa 200 anni fa e è costituito da un
fungo anamorfico, isolato prevalentemente dal suolo e da materiale organico in
decomposizione (Grondona et al., 1997).
Introduzione
Trichoderma è normalmente rinvenibile nel suolo; quasi tutti i suoli dell’area temperata e tropicale contengono circa 10
1-10
3propaguli per grammo di terreno. Questi funghi colonizzano anche legno e parti erbacee in decomposizione, nei quali la forma teleomorfa (appartenente al genere Hypocrea) è stata spesso rinvenuta. Tuttavia la forma perfetta di molti ceppi di Trichoderma, tra i quali anche i principali agenti di bioncontrollo non è ancora nota (Harman et al., 2004). Molti ceppi di Trichoderma ai quali non è stato associato uno stadio sessuale sono ritenuti mitotici e clonali (Kubicek e Harman, 1998).Il genere Hypocrea (ordine Hypocreales, classe Ascomycetes) fu descritto per la prima volta nel 1925 ad opera di Elias Fries. La relazione tra le due forme, anamorfa e teleomorfa, fu identificata soltanto nel 1957 ad opera di Dingley e successivamente da Webster e Rifai (Rifai e Webster, 1966; Webster e Rifai, 1968).
Sebbene siano stati compiuti notevoli passi in avanti nella conoscenza di questo genere, la tassonomia di Trichoderma è tuttora incompleta, e la distinsione delle specie appartenenti a queste genere rimane problematica (Kubicek e Harman 1998).
La maggior parte delle specie appartenenti al genere Trichoderma hanno elevate velocità
di accrescimento in colture artificiali e producono piccoli conidi verdi o bianchi. Queste
caratteristiche rendono relativamente facile l’identificazione di Trichoderma a livello di
genere anche se il concetto di specie all’ interno del genere è di difficile interpretazione e
c’è una considerevole confusione per quanto ne riguarda l’assegnazione di Rifai (Rifai,
1969), sulla base delle caratteristiche morfologiche, suddivise il genere Trichoderma in
nove raggruppamenti di specie. In seguito Bisset (Bisset, 1991) attuò delle modifiche
includendovi anche alcuni anamorfi appartenenti al genere Hypocrea e andando così a
costituire cinque nuove sezioni. Il concetto di specie all’interno del genere Trichoderma
Introduzione
è molto ampio e ciò ha fatto si che si andassero a costituire molti taxa specifici e subspecifici (Grondona et al., 1997).
Le colonie in attivo accrescimento di individui appartenenti al genere Trichoderma inizialmente hanno il micelio immerso nel substrato di crescita. La colonia può presentare un micelio aereo e ialino, che può assumere un aspetto variabile tra disordinato, fioccoso, lanoso e aracdinoide in base al ceppo e al mezzo di coltura. Alcuni isolati possono modificare il colore del substrato di coltura rilasciando pigmenti colore giallo, ambra, verde, rosso tenue e marrone. Una delle caratteristiche peculiari di questo genere è la produzione di odori di cocco o canfora, con intensità variabili tra il molto pronunciato e il fortissimo.
I conidiofori possono essere prodotti dalla colonia in modo diffuso, a ciuffi o con formazione di pustole compatte; generalmente vengono prodotti in distinti anelli concentrici dalle tipiche sfumature verdi, solo raramente possono essere bianche, grigie o marroni. In molte specie i conidiofori sono costituiti da un largo asse principale che porta ramificazioni ad intervalli regolari che producono, a loro volta ramificazioni secondarie, che diventano progressivamente più corte e sottili quanto più sono adiacenti all’apice. Le ramificazioni possono essere più o meno divergenti, solitarie, opposte o in verticilli;
ramificazione verticillate ripetute possono portare alla formazione di una struttura
piramidale altamente ramificata; in altre specie la ramificazione è meno regolare, con
ramificazioni solitarie od opposte e con ramificazioni secondarie scarse. Ciascuna
ramificazione termina con una o più fialidi. Le fialidi sono tipicamente disposte in
verticilli divergenti posti alle estremità delle ramificazioni dei conidiofori, oppure in
verticilli posti direttamente al di sotto dei setti lungo il conidioforo e lungo le
ramificazioni. In altri casi possono essere presenti fialidi opposte o solitarie disposte
Introduzione
irregolarmente. Per quanto riguarda la forma esistono fialidi cilindriche, subglobose o ampolliformi (Fig. 1.1).
Fig. 1.1 – Conidioforo di T .harzianum al microscopio composto.