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375/2017 Agonismo e gioco

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375

settembre 2017

Agonismo e gioco

Pier Aldo Rovatti Il paradosso dell’agonismo 3 Allegato: Friedrich Nietzsche, da “Agone omerico”

Beatrice Bonato Giochi di potere, giochi di libertà 19 Allegato: Peter Sloterdijk, da “Stress e libertà”

Massimo Recalcati Il gioco del desiderio 40 Allegati: Jean-Paul Sartre, da “L’essere

e il nulla” e Jacques Lacan, da “Scritti”

Stefano Bartezzaghi “Chi vince non sa cosa

si perde” 53

Allegato: Michel Leiris, da “Carabattole”

Davide Zoletto La scuola come “spazio” di gioco 73 Allegato: Roger Caillois, da “I giochi e gli uomini”

Eleonora de Conciliis Il gioco scolastico

e la vertigine dello smascheramento 80 Allegato: Pierre Bourdieu, sul gioco di campo Antonello Sciacchitano “Bambino, vuoi giocare

con me?” 101

Allegato: John F. Nash jr, da “Giochi cooperativi”

Alessandro Dal Lago Per un’archeologia

del combattimento sportivo 113

Allegato: miscellanea

MAL D’ARCHIVIO 129

Réné Major Il turbamento dell’archivio a partire da

Freud 131

Silvano Facioni L’iperbole dell’archivio 139 Giovanni Leghissa Tra enciclopedia e archivio 153 Diana Napoli “Mio nonno non era nazista” 165

INTERVENTI

Tiziano Possamai Rimozione adattiva e sapere 181

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aut aut, 375, 2017, 3-18

Il paradosso dell’agonismo

PIER ALDO ROVATTI

L a domanda, sottesa alle riflessioni che danno corpo a questo fascicolo di “aut aut”, potrebbe avere la seguente formula- zione: “Attraverso il gioco possiamo tentare di disattivare gli ef- fetti negativi dell’attuale agonismo sociale?”. Prima di risponde- re con un “sì” o con un “forse sì” bisogna intendersi sulle parole, a cominciare dalla parola “gioco” che è per sua natura sfuggente e difficile da usare.

Nella domanda si dà per scontato che la pratica del gioco sia in grado di stare in una posizione più vantaggiosa rispetto a tutte le pratiche dell’agonismo che ormai caratterizzano le nostre re- lazioni quotidiane. La premessa è dunque che il gioco segni uno scarto significativo rispetto all’agonismo, non coincida né pos- sa sovrapporsi con esso come invece tendiamo a credere. Ma riu- sciamo a parlare di gioco, a servirci del gioco, senza considerare che l’agone, l’agón per usare l’antico termine greco, insomma l’a- gonismo, anche nelle sue varianti più estreme o estremizzate di oggi, è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza ludica?

Possiamo introdurre tutti i distinguo del caso, comunque non arriveremmo al nocciolo della questione se disconoscessimo il fatto che sussiste sempre un’implicazione che dobbiamo portare alla luce e discutere. Scindere gioco e agonismo non ci fa guada- gnare nulla: dovremmo invece guardare a come stanno insieme.

Per farlo mi pare necessario introdurre un’altra parola, e cioè

“paradosso” – quella che di solito adoperiamo per caratterizzare

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4

proprio l’aspetto sfuggente del gioco – e considerare la parados- salità dell’agonismo stesso.

L’agonismo è paradossale perché possiede due facce, potrem- mo dire una faccia “buona” e una faccia “cattiva”: quando per- de la faccia buona e prevale solo la sua faccia cattiva, l’agonismo come tale è morto, cioè diventa un’altra cosa che non ha più al- cuna parentela con il gioco. Ma non è neppure possibile ridurlo alla sua faccia buona (quella non violenta per intenderci) perché anche così perderemmo di vista il gioco.

In breve, ritengo che, per “disattivare” gli effetti perniciosi e socialmente devastanti dell’agonismo, occorra tentare di con- servarne la paradossalità, il suo carattere essenzialmente doppio, anziché incamminarci verso un elogio irenistico (e astratto) del gioco. Il lettore si chiederà cosa possa mai significare concreta- mente un simile salvataggio della duplicità dell’agonismo. Credo che il riferimento al vincere e al perdere, considerati assieme, sia quello più indicativo.

Entrare in un qualsiasi tipo di agón è sempre accompagnato dal desiderio di vincere e dall’anticipazione del piacere ricavabi- le dalla vincita. Ma tutti sanno che se ci si mette in gara (con al- tri e/o con noi stessi) c’è ogni volta la possibilità di perdere. Noi tentiamo di scindere la buona dalla cattiva chance, magari rite- nendo di essere i migliori, ma non ci sarebbe alcun agonismo se vincere e perdere non fossero essenzialmente mescolati nel gioco che intraprendiamo, sicché potremmo ragionevolmente pensare che agisce qui un godimento più sottile, meno semplicistico, se- condo il quale l’elemento più importante è qualcosa che potrem- mo chiamare “saper vincere”.

Capite bene che il “saper vincere” consiste nel tenere unite le due facce del paradosso dell’agonismo e implica allora, al tempo stesso, un “saper perdere”. Come se il piacere dell’agonismo in quanto gioco provenisse dalla capacità del giocatore di identifi- carsi paradossalmente sia con il vincente sia con il perdente.

Nelle pagine che seguono cercherò di precisare meglio questa

pista, che sembra sì molto lontana dalla competizione unilatera-

le che governa, nei piani alti come in quelli bassi, la scena socia-

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5

le che stiamo abitando, ma che è comunque una pista possibile che ci viene aperta dall’esperienza del giocare. Dire che nell’at- tuale competitività non c’è più alcun gioco, o che ormai lo “spa- zio di gioco” è stato eliminato, non vuol dire né che l’esperienza ludica sia stata lasciata definitivamente alle nostre spalle né che non possa essere riattivata.

Al contrario, è urgente riconoscerla, valorizzarla e metter- la all’opera a vantaggio di ciascuno di noi. Se l’agonismo l’aves- se davvero bruciata nella sua frenesia del prevalere, ci sarebbe da chiedersi di che natura sia il piacere al quale miriamo, o solo se abbiamo effettivamente da guadagnarci evacuando in questo modo il gioco. Oppure, rovesciando il ragionamento, domandar- si se non sia arrivato il momento di riempire nuovamente di sen- so l’agonismo così cadaverizzato per restituirgli ciò che ha “per- duto” credendo di avere “vinto” la sua battaglia, insomma ciò che ho appena indicato con la parola paradosso.

Propongo intanto al lettore un salto all’indietro attraverso al- cune pagine in cui Nietzsche riflette su cosa fosse l’agone per gli antichi greci. Vorrei subito ringraziare Beatrice Bonato che mi ha messo sulle tracce di questo testo nietzschiano (cfr. il suo libro Sospendere la competizione, Mimesis, Milano-Udine 2015) e che ritorna sulla questione nel contributo che si può leggere in que- sto stesso fascicolo di “aut aut”.

Tenderei a valorizzare in modo particolare le pagine di Nietzsche del 1872 (intitolate Agone omerico) perché le ritengo molto utili per capire da quale lontananza può arrivarci il discor- so sulla paradossalità dell’agonismo.

Nietzsche e le due “eris”

Vale la pena di fornire qualche spunto di ciò che Nietzsche propone in questo breve scritto del 1872 dedicato a Esiodo e a ciò che sta dietro i poemi omerici. Chi ha un po’ di famigliarità con la quasi coeva Nascita della tragedia non si stupirà nel trovare un ulteriore smontaggio della retorica della felice “umanità” tradizionalmente applicata alla società e alla cultura dell’antica Grecia.

“Un tratto di crudeltà” appartiene a tale cultura, così Nietzsche,

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19

aut aut, 375, 2017, 19-39

Giochi di potere, giochi di libertà

BEATRICE BONATO

N elle prossime pagine riprenderò la ri- flessione sul tema della competizione, a cui due anni fa ho dedicato un’analisi critica, compiendo un percorso di attraversamento che a un cer- to punto incrociava la questione del gioco.

1

Mentre in quel con- testo mi premeva soprattutto portare alla luce l’ambigua com- plicità tra gioco e agonismo, qui proverò a rispondere a una do- manda un po’ diversa: se cioè si possa dare una relazione tra gio- co e agonismo tale che, grazie al gioco, sia possibile allentare la pressione dell’agonismo. La affronterò, ancora una volta, come un esercizio senza un esito garantito, senza l’illusione di arrivare a una risposta univoca. L’esercizio ha luogo nella forma di un’a- nalisi, ma quest’ultima raddoppia e accompagna pratiche di vita e lavoro nelle quali cerco di continuare a rimettere in gioco ipo- tesi che mi sembrano ancora convincenti.

Vedo delinearsi due possibili strade. La prima disgiunge l’ago- nismo dal gioco, sulla base del fatto che esistono dopotutto giochi non agonistici.

2

Nel saggio sulla competizione suggerivo di pren- dere questa strada, riconoscendo e rafforzando giochi, pratiche e forme di vita, libere dall’agonismo. La seconda è una via più stret- ta, più rischiosa. Senza pretendere di uscire dalla competizione,

1. B. Bonato, Sospendere la competizione. Un esercizio etico, Mimesis, Milano-Udine 2015, cap. “Mettersi in gioco”, pp. 49-63.

2. Cfr. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1967), trad. di L.

Guarino, Bompiani, Milano 1995.

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si tratterebbe di scommettere su un’attenuazione della carica di- struttiva, al limite violenta, che l’agonismo contiene, e di farlo pro- prio grazie allo spirito del gioco. Proprio gareggiando, nello spiri- to del gioco, le gare da cui siamo ossessionati potrebbero apparir- ci in una luce diversa. L’agonismo sarebbe disinnescato, o quanto- meno indebolito, nel momento in cui fosse esercitato secondo il suo stesso gioco. Non escludo che questa seconda via si possa per- correre, nonostante i trabocchetti che ci riserva.

Terrò sullo sfondo, per tornarci solo alla fine di queste pagi- ne, un breve e denso testo di Peter Sloterdijk, autore che sull’a- gonismo ha da dirci moltissimo. Ma non vorrei arrivarci prima di aver fatto ancora qualche considerazione sul saggio, anch’esso breve e di straordinaria pregnanza, che il giovane Nietzsche de- dicò all’agonismo, e dal quale questo fascicolo trae ispirazione.

3

Nietzsche non esprime, né qui né altrove, una critica all’esa- sperazione dell’agonismo, e neppure agli ambigui usi strumentali del gioco. Egli deplora, semmai, l’illusione borghese, decadente, di salvare insieme la verticalità e la sicurezza di poter tranquil- lamente rimanere tutti allo stesso, mediocre livello, senza essere disturbati da contese troppo aspre. Nell’antica Grecia, al contra- rio, per tenere alto lo standard di eccellenza nelle arti e nelle tec- niche, quando qualcuno si innalzava troppo sopra la media co- mune la competizione veniva riattivata:

Questo è il nocciolo della concezione greca dell’agonismo:

essa aborrisce il dominio esclusivo e teme i suoi pericoli; essa desidera, come strumento di difesa contro il genio, un secondo genio. Ogni attitudine deve svilupparsi attraverso la lotta: così ordina la pedagogia greca. Gli educatori moderni, per contro, di nulla hanno tanta paura quanto dello scatenamento della cosiddetta ambizione.

4

3. “Agone omerico” è una delle “Cinque prefazioni per cinque libri non scritti” com- poste nel 1872; in F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1991.

4. Ivi, p. 123.

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Continuo a pensare che una grande distanza ci separi da entrambe le scene evocate da Nietzsche, la più antica e la più recente. La società “filistea” dell’Ottocento somiglia così poco alla nostra da sembrarci forse ancora più lontana del mondo greco. Non credo perciò di poter trarre da queste righe elementi per una rivalutazione del ruolo dell’invidia sociale, la cattiva eris di Esiodo che aveva tanto colpito il filosofo. Non vorrei però allontanarmi da quel testo senza averne afferrato un altro filo, che mi aiuterà a procedere in una direzione un po’ diversa.

Mentre descrive e confronta impietosamente i giocatori an- tichi e moderni, Nietzsche dà in un certo modo per scontato il gioco che li coinvolge, l’attività che li gioca e li mobilita e le per- sone in carne e ossa che tengono le fila del gioco stesso. Ora, è proprio su questo secondo livello che vorrei spostarmi.

Grandi giochi

La questione del gioco, posta in questi termini, è complementare a quelle della valutazione e del governo. Chi decide chi sono i mi- gliori, chi sono i vincitori nelle competizioni? Quale meccanismo selettivo sarà in grado di portare al vertice i più adatti a misurare, valutare, governare i giochi sociali? Proviamo a immaginare alcu- ne risposte politiche concrete. La prima sarà quella aristocratica:

un’élite coopta i suoi successori, distribuisce i ruoli e stabilisce le regole, eventualmente spariglia le carte nel caso si creino pericolosi fenomeni di appiattimento. Riattiva la competizione, suscitando, contro l’eccesso del genio, un secondo genio. Tutto questo avvie- ne all’interno di una cerchia limitata, distinta dalla massa in base a un’eccellenza di vita già condivisa, che non necessita di venir negoziata o definita oggettivamente.

L’altra è la variante democratica contemporanea, dove a fa-

re la differenza non è soltanto l’ampliamento del numero dei

concorrenti, ma soprattutto il venir meno di standard qualitati-

vi di eccellenza riconosciuti. Ciononostante si deve valutare, si

deve competere, si deve giocare. È quasi impossibile sottrarsi al

richiamo della sfida. Ma se coloro che governano i giochi non

hanno modelli né fini a cui guardare, essi tenderanno a utilizzare

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aut aut, 375, 2017, 40-52

Il gioco del desiderio

MASSIMO RECALCATI

Due sogni

Un paziente porta questo sogno in analisi: è al tavolo da poker insieme ad altri giocatori. Ogni volta che riceve le carte per iniziare una nuova partita si trova tra le mani quattro assi che lo rendono ogni volta vincitore. Dopo diversi giri di carte dove questo schema si ripete inesorabile gli altri giocatori, stanchi di perdere, lo lascia- no solo. Nessuno vuole più continuare a giocare con lui. Il sogno termina con una sensazione di disperata impotenza.

In questo sogno emerge una verità prima del gioco: non si può giocare se si vince sempre, se ogni volta ci troviamo nelle mani quattro assi. Non solo: nessuno, in quel caso, è più disposto a con- dividere il gioco con noi. Questo sogno illustra altresì un fantasma fondamentale della nevrosi: rifiutare in tutti i modi il costo della castrazione e della sua Legge comporta l’impossibilità del legame con l’Altro e la pietrificazione amorfa della propria vita che non può più giocare la partita della propria esistenza.

Un altro paziente che condivide, se fosse possibile, questo

fantasma sogna di essere pronto per entrare in campo con la pro-

pria squadra di calcio quando l’allenatore, improvvisamente, gli

dice di mettersi in panchina perché non ha più un ruolo di ti-

tolare nella sua squadra. Dovrà osservare la partita senza gioca-

re. Mentre però gli comunica questa decisione, l’allenatore – che

le associazioni condurranno alla figura tirannica del padre – gli

passa di nascosto un sacco che contiene una somma di denaro

che nel racconto del sogno il paziente definisce “smisurata”. Con

tutto quel denaro tra le mani – simile ai quattro assi del sogno

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precedente –, il soggetto resta con la netta e bizzarra sensazione di essere stato truffato.

Anche in questo sogno non c’è possibilità di partecipare al gio- co. La posizione del soggetto è quella di uno sguardo che contem- pla da fuori quello che accade sul campo di gioco. Con l’aggiunta che questa posizione comporta un guadagno “smisurato” quasi a sottolineare che, nella prospettiva della nevrosi, è sempre più red- ditizio evitare il gioco, che, come tale, implica sempre la possibili- tà della perdita. Nondimeno, in questo guadagno sproporzionato, il soggetto avverte che è in atto una truffa: la solitudine colpevole di escludersi dal gioco.

In entrambi questi due sogni in primo piano è il desiderio di evitare il gioco del desiderio. Questo evitamento si produce come un guadagno ripetuto e privo di perdita (primo sogno) o “smisura- to” (secondo sogno), il quale ostacola la possibilità del gioco stes- so o, se si preferisce, si sostituisce alla possibilità del gioco. Non c’è gioco, quanto piuttosto un tornaconto “smisurato” nel sottrar- si al gioco che, tuttavia, mutila drasticamente la vita del soggetto.

Il gioco è sempre senza padronanza

I due sogni che ho brevemente commentato realizzano il deside- rio paradossale di evitare l’evento senza padronanza del gioco.

È il fantasma fondamentale della nevrosi: evitare il rischio del desiderio assecondando la domanda dell’Altro, facendosi il servo impotente del suo desiderio (nevrosi ossessiva), oppure liberando il desiderio dalla domanda dell’Altro nella rincorsa utopica di una realizzazione sempre differita di se stesso (isteria).

Il logos filosofico che abita questi due sogni vorrebbe garan- tire al soggetto una padronanza impossibile. Tuttavia, questa im- possibilità appare proprio laddove l’illusione della padronanza pare realizzarsi: i quattro assi e la somma “smisurata” rendono impossibile l’arte del gioco. Se si è i soli padroni del gioco è let- teralmente impossibile giocare perché si gioca sempre con l’Al- tro.

1

L’indebolimento della padronanza è infatti un motivo es-

1. Solo il fantasma perverso stabilisce che è possibile giocare incarnando la posizione.

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senziale e costituente di ogni gioco. È un tema che ritroviamo in quelle pagine di L’essere e il nulla dove Sartre contrappone l’at- tività del gioco allo “spirito di serietà”. I materialisti e i rivolu- zionari di professione (gli psicoanalisti?) non sanno giocare per- ché leggono il mondo a partire dal dominio serioso dell’ogget- to. “L’uomo”, scrive Sartre, “è serio quando si prende per un oggetto.”

2

Ma cosa significa prendersi per un oggetto? E di qua- le gioco si sta parlando? Prendersi come oggetto significa rinun- ciare alla propria singolarità e al senza fondo – senza garanzia – dell’Altro che questo comporta.

Il gioco di cui si parla è quello fondamentale della psico- analisi, ovvero il gioco del desiderio. Questo gioco implica un paradosso di fondo che è al cuore della trovata freudiana dell’inconscio: il soggetto non è padrone di questo gioco, non può insignorirsi delle sue regole, né governarne l’esito: “Il sog- getto non è padrone in casa propria”, ripete insistentemente Freud. Esso, in quanto giocatore, appare come, innanzitutto, gio- cato dal gioco del desiderio. È quello che lo “spirito di serietà”, secondo Sartre, esclude radicalmente: il materialista e il rivolu- zionario di professione (lo psicoanalista?) percepiscono i valori solo attraverso il loro “consolidamento rassicurante e cosista”,

3

ovvero li ipostatizzano trasfigurandoli in idoli immobili, in una Causa universale che vorrebbe annientare ogni increspatura del- la singolarità – sempre senza alcun modello – della vita. Que- sto significa prendersi come un “oggetto”, come un oggetto, ap- punto, al servizio dell’Altro. Lo spirito di serietà fonda l’essenza del totalitarismo che rende impossibile ogni forma di gioco per- ché nell’attività del gioco è la libertà della soggettività che pone

“il valore e le regole dei suoi atti”.

4

Come accade nello spirito di

del padrone assoluto, ma il suo gioco – il gioco feroce della perversione – non può più es- sere un gioco del desiderio, quanto quello della sua completa distruzione nella sua forma sadica o masochistica. Su questo tema mi permetto di rinviare al mio Jacques Lacan. La cli- nica psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina, Milano 2016, pp. 395-451.

2. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica (1943), trad. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1980, p. 697.

3. Ivi, p. 78.

4. Ivi, p. 697.

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aut aut, 375, 2017, 53-72

“Chi vince non sa cosa si perde”

STEFANO BARTEZZAGHI

0. Il titolo in gioco

Ambigua e paradossale, la forma del motto che appare nel titolo è ciò che più lo rende adeguato ad aprire un discorso sull’agoni- smo. Delle sue tre sezioni [/Chi vince/ /non sa/ /cosa si perde/]

quella sensibile è certamente l’ultima, sensibile perché vi si ma- nifestano sia l’ambiguità sia il paradosso.

In quanto all’ambiguità, il /si/ può avervi

[1.] valore intensivo (come in: “l’appassionato non si perde neanche una puntata del programma”)

1

e

[2.] valore di pronome impersonale (come in: “in questi casi si perde la pazienza”).

La differenza fra i due casi si fa lampante quando si agisce sulla prima sezione, per esempio commutandola alla prima persona singolare. Nel caso [1.], bisogna variare anche la terza sezione:

“Se vinco, non so cosa mi perdo”; nel caso [2.], non è necessario:

“Se vinco, non so cosa si perde”. Ma è anche vero che, fra [1.] e [2.] poco cambia nel senso generale del motto: “(Chi vince non

1. In modo meno generico, il motto e l’esempio fra parentesi sono entrambi casi di

proposizioni antipassive. Cfr. N. La Fauci, Compendio di sintassi italiana, il Mulino, Bolo-

gna 2009. Ringrazio lo stesso La Fauci per le amichevoli osservazioni su questo paragra-

fo inaugurale.

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sa) cosa egli, vincendo, si sia perso / cosa, in generale, vincendo [ci] si perda”.

Il vero punctum del motto sta quindi nel suo carattere di pa- radosso, che a sua volta è fondato innanzitutto sulla relazione se- mantica fra “vincere” e “perdere”. È un’opposizione di recipro- cità, in cui avviene un’inversione del punto di vista da cui si con- sidera la medesima azione. In questo caso si tratta dell’azione agonistica, che implica la presenza di almeno due soggetti e ha un compimento necessario che può essere descritto in due mo- di: /A ha vinto su B/ o /B ha perso da A/.

2

Che un soggetto na- sca non ha come conseguenza, o implicazione, che un altro sog- getto muoia; nella relazione agonistica invece non si vince sen- za che qualcuno perda.

3

Accade lo stesso alla coppia “acquista- re/vendere”. Avrebbe senso una versione commerciale del no- stro motto, che dica: “Chi acquista non sa cosa si vende”? Forse no, ma ai lettori di Marcel Mauss potrebbe risultare soddisfacen- te la versione donativa del motto stesso: “Chi dona non sa cosa riceve”.

Il motto innesca un’attesa: l’attesa che venga confermata l’ov- vietà doxastica per la quale uno vince, uno perde. Nei giochi con il danaro, la vincita del primo corrisponde alla perdita dell’al- tro, tanto è vero che un costrutto come “la perdita del vincito- re” avrebbe un ethos perfettamente ossimorico. Ma qui è nasco- sta una seconda ambiguità. “Perdere” non è solo il reciproco (o inverso) di “vincere”; equivale anche (e questa volta senza corre- lazione a “vincere”) a “non avere più”, come si osserva nel luogo

2. Il pareggio è l’esito incompiuto di un evento agonistico, tanto è vero che in cer- ti giochi e sport la sua eventualità è esclusa dal regolamento, che prevede una delle diver- se possibili modalità di “spareggio”. Il pareggio, o “patta” è invece logicamente obbliga- to nel gioco del tris (fra due giocatori di uguale competenza): questo è l’elemento che nel film Wargames (John Badham, Stati Uniti 1983) impegna il computer auto-epistemologi- co Joshua fino a bloccarne il processo automatico con cui sta per iniziare una guerra ter- monucleare globale e fino a “convincerlo” che esistono giochi in cui “l’unica mossa vin- cente è non giocare”.

3. Per quanto remota possa sembrare la relazione, in giochi come le lotterie, soprat-

tutto quando vi è una sproporzione enorme fra l’entità della puntata e quella della posta

(sproporzione paragonabile a quella, del tutto inappariscente, fra puntata e probabilità di

vittoria).

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comune: “Non sai cosa ti perdi”.

4

Scardinando la tautologia “chi vince, vince” e innestandole il luogo comune “non sa cosa si per- de”, il motto delude l’attesa che ha suscitato e ribalta la tautolo- gia in un apparente nonsense: “Chi vince, perde (ma non lo sa)”.

5

Una parola, infine, sulle virgolette. Ho trovato il motto del ti- tolo in una raccolta di aforismi e citazioni legati al mondo del rugby.

6

Non conosco il contesto originario, non saprei come ve- rificarne l’attribuzione, non posso escludere che qualcuno avesse coniato il motto in precedenza e sono consapevole che potrebbe essere altrimenti coniato da chiunque si trovi a commentare una propria sconfitta e cerchi di uscire dalla lizza almeno come “vin- citore morale”. Il mio interesse nel motto è nella sua capacità di confondere le acque frettolosamente separate da un’opposizione troppo rigida e piatta fra vincenti e perdenti.

1. Vincenti

Nel corso degli anni ottanta dello scorso secolo, uno slittamento semantico non vistoso ma decisivo ha interessato il participio, aggettivo e sostantivo “vincente”.

Nella sua accezione tradizionale, “vincente” è sinonimo di

“vincitore” e di “vittorioso”. È quindi una qualificazione termi- nativa: giunge alla fine di un’azione. Sembra inoltre in relazione più stretta con la dimensione della “vincita” (“il cavallo vincen- te”, “la schedina vincente”, il “numero vincente”) piuttosto che con la dimensione della “vittoria”, che si correla più frequente- mente al “vincitore”.

Solo in seguito è parsa prevalere un’accezione, al contrario,

“incoativa”, quella secondo cui “vincente” nomina la condizio- ne di chi è “abituato a vincere”, ha “il giusto atteggiamento per vincere”, e alla fine dei conti è addirittura “destinato a vincere”.

4. Sul ruolo dell’ambiguità nei giochi linguistici, S. Bartezzaghi, Parole in gioco. Per una semiotica dei giochi linguistici, Bompiani, Milano 2017.

5. Sembrerebbe inoltre che la perdita del vincitore vada a compensarsi in una vincita del perdente, con in più il sospetto che chi, sul piano pragmatico, risulta perdente, sul pia- no cognitivo sia invece consapevole; viene così da concludere: chi perde sa cosa si vince.

6. M. Pastonesi, E. Pessina, In mezzo ai pali, Libreria dello Sport, Milano 2001.

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aut aut, 375, 2017, 73-79

La scuola come “spazio” di gioco

DAVIDE ZOLETTO

La scuola, in quanto ludus, è uno spazio di gioco, ovvero un punto in cui vi è possibilità di movimento entro uno spazio ristretto.

1

La realtà non ha di queste delicatezze.

2

U na delle prospettive centrali che attra- versano oggi sia il dibattito teorico sul- la scuola sia le pratiche quotidiane de- gli insegnanti è senz’altro quella dell’inclusione. E se, come ha sottolineato Charles Gardou, lavorare per l’inclusione dovreb- be voler dire impegnarci a modificare “i nostri valori e le no- stre pratiche”,

3

allora il fatto di scegliere una prospettiva di tipo inclusivo dovrebbe impegnarci a superare un focus centrato so- lo sull’allievo o l’allieva “altri” e sulla loro “diversità” per met- tere al centro della riflessione e dell’azione educativa il contesto scuola nel suo complesso, la relazione fra l’istituzione scolastica (e gli insegnanti…) e gli allievi e le allieve percepiti come “altri”, e in ultimo – o forse in primis – le modalità con cui vediamo (o più spesso non mettiamo a tema, diamo per scontato…) il nostro stesso fare scuola.

Si tratta in questo senso di continuare, certo, a prestare un’at- tenzione sempre molto concreta alle differenze che si incontra- no nei contesti scolastici, ma si tratta anche nello stesso tempo di non irrigidire tali differenze in rappresentazioni astratte e stereo-

1. J. Masschelein, M. Simons, The Hatred of Public Schooling: The School as the Mark of Democracy, “Educational Philosophy and Theory”, 5-6, 2010, p. 674.

2. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1967), trad. di L. Guari- no, Bompiani, Milano 2000

2

, p. 15.

3. C. Gardou, Nessuna vita è minuscola. Per una società inclusiva (2012), trad. di A.

Goussot, Mondadori Education, Milano 2016, p. 2.

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tipate (è il whiteheadiano rischio della “concretezza malposta”), e di prestare piuttosto particolare attenzione alla concretezza dei processi di differenziazione e identificazione.

Jan Masschelein e Marteen Simons, in un recente saggio che fin dal titolo intende proporre una serrata “difesa della scuola”, hanno osservato, in questo senso, come una delle caratteristiche essenziali della scuola, starebbe proprio nella sua capacità di non identificare gli allievi e le allieve solo con una visione riduttiva e stereotipata delle differenze che loro porterebbero con sé. I due autori non negano certo che la scuola abbia concorso e concorra ancora oggi alla riproduzione di varie forme di stratificazione so- ciale e ineguaglianza, e tuttavia sottolineano anche con forza che una delle caratteristiche più essenziali della scuola stessa sarebbe anche quella di mettere in questione proprio tali processi.

La scuola, scrivono Masschelein e Simons, “va contro le ‘leg- gi di gravità’ (per esempio la ‘legge naturale’ secondo cui gli stu- denti di un dato status socio-economico non avrebbero interes- se a certe cose o a certe materie) e si rifiuta di legittimare le dif- ferenze basate sulla ‘gravità’ specifica degli studenti”.

4

E vi riu- scirebbe “non perché la scuola, nella sua ingenuità, neghi l’esi- stenza della gravità, ma perché la scuola costituisce una specie di vuoto nel quale a giovani e studenti viene data la possibilità di fare pratica e di svilupparsi”.

5

In diversi punti del libro Massche- lein e Simons sembrano suggerire che questa caratteristica sareb- be legata al fatto che la scuola pare poter “disattivare il tempo ordinario”, potendo essere vista in qualche modo come un tem- po e uno spazio nei quali potrebbero essere “sospese” tutta una serie di regole e aspettative di tipo sociologico, economico, fa- miliare e culturale: “In altre parole, dare forma alla scuola – fa- re scuola – ha a che fare con una sorta di sospensione del peso di queste regole”.

6

È una tesi suggestiva perché sembra scommettere proprio sul-

4. J. Masschelein, M. Simons, In Defence of the School. A Public Issue (2012), E-duca- tion, Culture & Society Publishers, Leuven 2013, pp. 63-64

5. Ibidem.

6. Ivi, p. 35.

(16)

75

la possibilità per la scuola di costituire uno spazio nel quale ri- mettere in questione quei processi di differenziazione, identifica- zione ed esclusione che invece sembrano purtroppo trovare an- cora oggi troppo spesso conferma proprio nei dati sui risulta- ti dei vissuti scolastici di molti allievi e allieve (si pensi per esem- pio ad alcuni degli elementi che tuttora emergono in riferimento ai percorsi scolastici di allievi e allieve figli di genitori migranti

7

).

Ma è, nello stesso tempo, anche una proposta paradossale, te- nendo conto che, come osservano gli stessi autori, sembrano es- sere a volte anche alcuni aspetti del nostro modo di fare scuola a concorrere appunto alla riproduzione di tali processi.

Non è un caso, forse, che per descrivere questa caratteristi- ca del tempo e dello spazio scolastico, Masschelein e Simons at- tingano a un campo metaforico come quello dei giochi e del gio- care che rimanda, tra gli altri elementi, anche a quello del para- dosso.

8

Ci aveva già pensato, a suo tempo, John Dewey quando, nel suo Esperienza e educazione, aveva scelto l’esempio del gioco per descrivere la paradossale compresenza di libertà e controllo che può caratterizzare un contesto educativo come l’aula scolasti- ca.

9

In questo caso, invece, il tratto ludico paradossale evocato da Masschelein e Simons è quello del delicato rapporto che separa (“sospende”) e a un tempo connette il gioco e la realtà, e al quale i due autori rimandano per descrivere una specifica caratteristica del tempo e dello spazio scolastico: ovvero il fatto che, pur mante- nendo un collegamento con il mondo esterno, la scuola potrebbe permettere che venissero almeno a volte alleggeriti, cambiati di se- gno, sospesi, in una parola: “messi in gioco”, alcuni degli elemen- ti di ineguaglianza che fuori dalle pareti scolastiche (e purtroppo,

7. Cfr.

MIUR

– Fondazione

ISMU

, Alunni con cittadinanza non italiana. La scuola multicul- turale nei contesti locali. Rapporto nazionale a.s. 2014/2015, Fondazione

ISMU

, Milano 2016.

8. Il paradosso non è naturalmente l’unico tratto a cui può rinviare, anche a proposito del mondo della scuola, il campo metaforico dei giochi e del giocare. Si pensi per esempio, anche in riferimento ai temi affrontati da questo fascicolo di “aut aut”, alla possibilità di indagare il ruolo svolto oggi a scuola da un’altra dimensione importante evocata dal cam- po metaforico dei giochi e del giocare, ovvero quella che Roger Caillois chiamerebbe agon (cfr. in merito le considerazioni contenute in I giochi e gli uomini, cit., p. 30 sgg.).

9. J. Dewey, Esperienza e educazione (1938), trad. di E. Codignola, La Nuova Italia, Fi-

renze 1967

2

, p. 36 sgg.

(17)

80

aut aut, 375, 2017, 80-100

Il gioco scolastico e la vertigine dello smascheramento

ELEONORA DE CONCILIIS

Saˇpere aude!

Orazio

1. Il gioco è un oggetto bifronte della so- ciologia, che da un lato ne sottolinea la peculiarità all’interno dei sistemi so- ciali, dall’altro lo usa per spiegare il funzionamento stesso del- la società. In termini altrettanto bipolari, potremmo dire che nel gioco e attraverso il gioco – anzi, i giochi – gli esseri umani da un lato si confrontano (praticano forme complesse di compa- razione), dall’altro si trasformano (si avventurano in esperienze metamorfiche),

1

e che in entrambi i casi essi cercano, e a volte perdono, il senso della propria identità.

Secondo Roger Caillois – al quale dobbiamo il principale ten- tativo di fondare una sociologia a partire dai giochi

2

in cui, come vedremo, la coppia agon-alea (gara-sorte) rinvia alla comparazio- ne, e quella mimicry-ilinx (maschera-vertigine) alla metamorfo- si –, “il gioco è coesistente, inseparabile dalla cultura” (C 82), che tuttavia esso “sublima” in una dimensione meta-economica:

“Chi ha fame non gioca” (C 14), e perciò solo al di là del biso- gno, in un tempo libero ancorché ritualizzato, non segnato dal

1. Per un’analisi del “gioco” sociale della comparazione, mi permetto di rinviare a E.

de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico, Mimesis, Milano-Udine 2012; sul tema psico-antropologico della metamorfosi (senza la quale, paradossalmente, non vi sarebbe identità), cfr. le insuperabili pagine di E. Canetti in Massa e potere (1960), trad. di

F. Jesi, in Opere, Bompiani, Milano 1992, vol. I

, pp. 1386-1450.

2. R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine (1958), trad. di L. Gua-

rino, prefazione di P.A. Rovatti, Bompiani, Milano 2016, p. 86, d’ora in poi indicato dalla

lettera C seguita dal numero di pagina.

(18)

81

lavoro, si può provare il piacere di gareggiare o superare un osta- colo arbitrario. Del resto l’agone greco, esattamente come l’agi- re politico secondo Hannah Arendt,

3

mette in forma la “rivali- tà tra uomini liberi”, aristotelicamente virtuosi e autosufficienti:

una sorta di “atletismo generalizzato”,

4

il cui nobile scopo com- parativo consiste nel “fornire una prova incontestabile della pro- pria superiorità” (C 130) partendo da una situazione di artifi- ciale uguaglianza, dunque nel vederla riconosciuta senza imporla brutalmente come potere coercitivo.

In tal senso il gioco (compreso quello filosofico) è “la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo” (C 31) grazie a una regolazione “giusta”, sportiva, non servile e non violenta del confronto tra differenze: anche se la sua libertà è tale solo nei li- miti delle sue regole, che lo rendono separato dal mondo ordina- rio, fittizio, incerto (poiché il suo esito è sconosciuto) e soprat- tutto improduttivo,

5

il gioco non può essere imposto.

6

Se limitiamo quest’ultima caratteristica al sistema d’istruzio- ne superiore, posto per definizione al di là dell’obbligo, e con- sideriamo l’“incerta” metamorfosi comparativa prodotta negli studenti dal loro curriculum studiorum, notiamo che il mondo scolastico, nelle sue diverse forme istituzionali, può essere facil- mente assimilato al gioco. Se infatti “ogni istituzione funziona in parte come un gioco” (C 83), in questa società in miniatura, ap- parentemente sottratta alla produzione e popolata da individui non ancora autosufficienti (“minori” anche in senso kantiano), funzionano, spesso inconsciamente, tutte le motivazioni “com-

3. H. Arendt, Vita activa. La condizione umana (1858), trad. di S. Finzi, Bompiani, Mi- lano 1989.

4. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), trad. di A. De Lorenzis, Ei- naudi, Torino 2002, p.

X

.

5. In quanto “non crea né beni né ricchezza, né alcun altro elemento nuovo” (C 26),

“il gioco è occasione di puro dispendio” (C 22): un’attività in pura perdita, su cui cfr. an- che G. Bataille, Il dispendio (1967), a cura di E. Pulcini, Armando, Roma 1997.

6. “Il giocatore non può essere obbligato senza che il gioco perda subito la sua natu- ra di divertimento attraente e gioioso” (C 26); perciò esso è impossibile in quei sistemi so- ciali in cui gli individui sono ridotti ai loro bisogni primari – per esempio nei lager, che la degenerazione totalitaria trasforma in “apparati” (P. Bourdieu, Risposte [1992], trad. di D.

Orati, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 73).

(19)

82

parative” che per Caillois inducono al gioco: il gusto della sfida o della difficoltà da superare, l’ambizione a essere il migliore, il desiderio di misurarsi in una prova di abilità, velocità, resistenza, ingegnosità. Ma funzionano anche, e in modo ancor più nasco- sto, le motivazioni “metamorfiche”: il piacere della finzione e del travestimento, l’attesa e la ricerca del favore del destino, il desi- derio di aver paura (per esempio prima di una prova) o di fare paura (a un compagno o al docente), e soprattutto, con la mes- sa a punto di regole e norme, il dovere di rispettarle e insieme la tentazione di aggirarle (C 84).

Se “non c’è alcuno di questi atteggiamenti o di questi impul- si, del resto spesso incompatibili fra loro, che non si ritrovi tanto nel mondo marginale e astratto del gioco quanto nel mondo non protetto dell’esistenza sociale” (C 84), essi si ritrovano anche nel mondo apparentemente protetto in cui i cuccioli di uomo “gio- cano” a diventare adulti. Nella scuola operano cioè in modo più o meno implicito i quattro “ludemi” di Caillois: l’agon (sia “mu- scolare” che “cerebrale”); l’alea, nella forma della (peraltro fitti- zia) uguaglianza di partenza o del sorteggio (C 34);

7

la mimicry, il “farsi altro” (C 36), nella forma dell’imitazione del maestro ma anche della gregarietà metamorfica o dell’assunzione di ruoli isti- tuzionali (tra cui appunto quello del maestro e dell’alunno, spes- so abilmente “recitati” o al contrario vissuti come unica possibi- le identità); infine l’ilinx, la vertigine, ottenuta non attraverso le giostre, i girotondi o i luna park, ma proprio attraverso la pratica scolastica dei primi tre ludemi, ovvero in virtù di un talvolta so- litario, talaltra socievole smarrimento “metamorfico” nel gorgo del sapere, o anche mediante un ripiegamento riflessivo del sog- getto fatalmente “decentrato” dal gioco scolastico in cui è preso – da cui è in-luso.

8

7. In tal senso uno dei compiti “impossibili” della scuola consiste nel mitigare l’agon con l’alea, la cui funzione è quella di abolire ogni superiorità naturale o acquisita (poiché davanti alla sorte, come davanti alla legge, siamo tutti uguali) – salvo poi negare quest’u- guaglianza nella valutazione, che è un meccanismo differenziante. Su ciò mi permetto di rinviare al mio Che cosa significa insegnare?, Cronopio, Napoli 2014.

8. In quanto capacità di “provare piacere di fronte al panico, esporvisi spontaneamen-

te per tentare di non soccombervi” (C 14), l’ilinx rappresenta il limite interno dei primi tre

(20)

101

aut aut, 375, 2017, 101-112

“Bambino, vuoi giocare con me?”

ANTONELLO SCIACCHITANO

Una definizione limitante

La contrapposizione tra gioco e agonismo, di cui tratta questo numero della rivista, in un certo senso mi obbliga a riferirmi e a limitarmi alla versione matematica della teoria dei giochi, basata sulla netta dicotomia tra giochi agonistici o competitivi o a somma zero o nulli, da una parte, e giochi non agonistici o cooperativi o a somma diversa da zero o positivi, dall’altra. La somma è zero se nella competizione quel che guadagno io lo perdi tu; è positiva in valore assoluto se entrambi ci guadagniamo o ci perdiamo.

Preciso che il mio riferimento alla teoria dei giochi non rien- tra nella problematica della scelta razionale e intelligente in si- tuazioni conflittuali,

1

come si usa nei corsi di economia, ma attie- ne al tema dell’intersoggettività più vasto e più vago.

Un gioco individuale?

Il gioco è la forma originaria di interazione con il “fuori”, grazie alla quale il soggetto fa esperienza dell’altro, a cominciare dall’e- sperienza autoerotica del proprio corpo. L’affermazione non è evidente. Nel gioco solitario l’altro c’è sempre: è il caso. Ma quale guadagno e quale perdita nel gioco corporeo? La domanda è im- barazzante per chi ha familiarità con l’algoritmo di von Neumann, che rappresenta il gioco con la matrice delle vincite e delle perdite

1. La razionalità è un concetto sintattico, prossimo a quello di coerenza, mentre l’intel-

ligenza, intesa come capacità di intuire, ha una connotazione semantica. Non sviluppo la

distinzione ma rimando al Nobel R. Myerson, Game Theory. Analysis of Conflict, Harvard

University Press, Cambridge (Mass.) 1991.

(21)

102

all’incrocio delle strategie elementari dei due contendenti e calcola il valore del gioco nel punto di sella della superficie di tali valori (punto di minimax o punto di equilibrio o soluzione del gioco).

Nel gioco con il corpo chi vince e chi perde cosa? A prima vista non si vede neppure chi sono i giocatori in gioco. Forse c’è un abbozzo di ego, ma poi? Del corpo si può dire che è un alter ego?

La prospettiva darwiniana può forse chiarire la questione. Il piccolo uomo nasce immaturo. È una lunga storia che risale al bi- pedismo degli ominidi. Che non fu un’invenzione né recente né originale di Homo. Prima di noi nel Giurassico l’inventarono gli uccelli, dedicando gli arti superiori allo sviluppo delle ali, exadat- tando per il volo le penne, già dispositivi di termoregolazione dei dinosauri piumati. Ma c’è una differenza qualitativa non da po- co: il bipedismo aviario è orizzontale o obliquo, l’ominide rigo- rosamente verticale. Ciò ha portato al profondo rimaneggiamen- to di tutto lo scheletro ominide. Gli arti superiori degli omini- di non hanno sviluppato ali ma mani, che hanno imparato a fare tante cose, tranne volare; gli arti inferiori e il rachide, che sostie- ne in equilibrio un cranio, destinato a un incremento volumetrico senza pari, hanno fatto pagare all’umanità il prezzo del restringi- mento del bacino e del canale del parto. L’esito fu che il prodotto del concepimento doveva essere espulso anzi tempo. Tuttora l’uo- mo nasce immaturo prima che sapiens; neotenico, si dice in gergo.

Uno svantaggio? Non del tutto a ben vedere. La selezione na- turale non è finalista ma opportunista: sa sfruttare il minimo van- taggio contingente. Nel lungo tempo della maturazione extrau- terina – da due a tre lustri – il piccolo uomo che gioca con il proprio corpo (anche autoeroticamente) fa tesoro di una dop- pia esperienza accumulata nel tempo: biologica e culturale, insie- me alla loro interazione. Il gioco con il corpo fa interferire l’ere- dità biologica, mediata dalla genetica, con il patrimonio cultura- le, mediato dal linguaggio e dalla tradizione collettiva.

2

Nella ma-

2. Lascio ovviamente impregiudicata la questione “se sia stata più necessaria una so-

cietà già costituita perché si formassero le lingue, o le lingue già inventate per la formazio-

ne delle società” (J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e sui fondamenti dell’ineguaglianza

tra gli uomini [1755], trad. di V. Giarratana, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 119).

(22)

103

turazione interagiscono due corpi: il corpo fisico – o somatico – dell’individuo, e il corpo spirituale – o sociale – del collettivo. Il gioco è interattivo ma non a somma zero (quel che guadagna l’u- no non lo perde l’altro); a parte incidenti di percorso, che porta- no o all’autismo o alla nevrosi, il soggetto individuale ci guada- gna sempre qualcosa: la capacità di stare al mondo, una volta as- similato il doppio retaggio biologico e culturale.

Nell’allevamento del piccolo ci guadagna anche il soggetto col- lettivo che rinforza la propria coesione interna, cioè la propria to- pologia. Perciò Darwin poté a ragion veduta parlare di prolunga- mento dell’affettività collettiva degli animali nei sentimenti morali dell’uomo, che rendono il gruppo coeso. Nella transizione dall’ani- male all’uomo si producono strutture epistemiche inconsce. Come effetto del gioco corporeo, nel soggetto si deposita per via lingui- stica, giochi di parole compresi, un sapere che il soggetto non sa di sapere.

3

Fu messo in evidenza da Freud e allievi con la psicoanalisi, dove – come si sa – non vale il principio del terzo escluso, per cui o si sa o non si sa. Si può sapere che non si sa (Socrate) o non sapere che si sa (Freud). E sono entrambi guadagni epistemici.

4

Insomma, il gioco con il corpo individuale non è né solipsisti- co né nullo. Crea qualcosa ex nihilo, il soggetto collettivo, o me- glio, integra il soggetto individuale nel collettivo. Crea legame sociale all’interno di un corpo sovraindividuale, nonostante ine- vitabili sbavature. Realizza, secondo Rousseau, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile,

5

passando dal gioco individuale al gioco collettivo.

Il gioco collettivo

Il gioco nullo è il gioco di puro divertimento. Non crea nulla; nelle varie versioni a informazione perfetta (gli scacchi) o imperfetta (il

3. La tesi lacaniana secondo cui l’inconscio è organizzato come un linguaggio è plausi- bile solo nel senso che il sapere inconscio è organizzato dal linguaggio.

4. Freud è più vicino all’intuizionismo di Brouwer che al binarismo classico. Nel Tee- teto Socrate si chiedeva, anticipando Freud: “Come è possibile che quella stessa cosa che uno sa, lo stesso che la sa non la sappia?” (165b).

5. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale (1762), trad. di V. Gerratana, Einaudi, Torino

1994, p. 29.

(23)

113

aut aut, 375, 2017, 113-128

Per un’archeologia

del combattimento sportivo

ALESSANDRO DAL LAGO

Holly Holm ha messo a segno un brutale ko con un calcio alla testa di Bethe Correia nell’incontro principale di Ufc Fignt 111 a Singapore. […]

Holm ha sferrato il suo colpo dopo che Correia l’aveva provocata con un gesto di scherno all’inizio del terzo round. Uno splendido calcio alla testa con il piede sinistro ha mandato al tappeto Correia. Un pugno a seguire ha chiuso l’incontro, ma questo era già stato deciso.

1

1. Quello descritto in epigrafe è un incontro di Mma (Mixed martial arts, Arti marzia- li miste) tenutosi a Singapore il 16 giugno 2017 e valido per il campionato mondiale femminile dei pesi gallo.

Questo tipo di combattimento gode da una ventina d’anni a oggi di un successo mediale travolgente, fino a conquistare uno dei pri- mi posti nella classifica mondiale degli eventi trasmessi dalle tele- visioni a pagamento. Ecco alcune informazioni indispensabili su questa pratica agonistica che si fa fatica a definire sport.

2

Le Mma combinano svariati tipi di arti marziali: pugilato, ka- rate, savate, boxe thailandese o kickboxing, judo, jujjitsu, nelle due versioni, giapponese e brasiliana, ecc. Qualsiasi tecnica mar- ziale è ammessa nelle Mma, purché si conformi al regolamento adottato dalle commissioni sportive di alcuni Stati americani (pri- mi fra tutti, New Jersey e Nevada) e recepito dalla Ufc, la più im- portante organizzazione professionistica. Il regolamento proibi- sce alcune mosse, che potrebbero risultare letali o procurare le- sioni permanenti ai fighter: colpi alla gola, alla nuca o alla spina

1. <sbnation.com/2017/6/17/15822254/ufc-fight-night-111-live-results-winners- updates> (consultato il 20 giugno 2017).

2. Le considerazioni che seguono si rifanno a un volume, Sangue nell’ottagono. Antro- pologia del combattimento sportivo, in preparazione per le edizioni del Mulino, Bologna.

Ho dedicato recentemente alcuni saggi al significato culturale delle Mma: A. Dal Lago. Pu-

gni, professori e pregiudizi. Una nota su genere e cultura nelle arti marziali miste, “Etnogra-

fia e ricerca qualitativa”, 2, 2016 e Id., Il senso della brutalità. Per un’antropologia delle arti

marziali miste professionistiche, “Etnografia e ricerca qualitativa”, 3, 2016.

(24)

114

dorsale, tentato accecamento (eye gouging), morsi e pochi altri.

Per il resto, tutto è permesso o vale tudo, come si dice in Brasile (una delle patrie originarie di questo sport), con un gioco di paro- le tra il termine latino valetudo, forza fisica, e l’espressione brasi- liana che significa, appunto, “vale tutto”. Per intendersi, è possi- bile colpire l’avversario sull’intera figura con pugni, ginocchiate, calci e gomitate, nonché bloccargli e torcergli gli arti, strangolarlo e così via. Inoltre, le Mma prevedono una fase di lotta sconosciu- ta a quasi tutte le singole arti marziali, il cosiddetto ground and pound, “atterra e picchia”. Quando un fighter finisce al tappe- to per un pugno, un calcio, uno sgambetto ecc., l’avversario può continuare a picchiarlo sino alla resa o all’intervento dell’arbitro.

Un incontro è deciso quando un atleta è ridotto all’incoscien- za, quando si arrende, battendo un paio di colpetti con le dita sul tappeto o sul corpo dell’avversario (tap out), e per decisione arbitrale. Data la pericolosità dei colpi e delle mosse, gli incontri finiscono dopo il primo KO e comunque se un fighter perde co- noscenza, diversamente dalla boxe, in cui i pugili possono essere contati più volte, se sono in grado di rialzarsi entro dieci secon- di. Ma la possibilità della morte aleggia sugli incontri professio- nistici di Mma. Il grappling (“intrappolamento”) è una tecnica di combattimento a terra che prevede tra le numerose mosse il rear naked choke (o “strangolamento alle spalle”), con cui si blocca il collo dell’avversario e si esercita con l’avambraccio una pressio- ne sulla sua carotide sino a fargli perdere conoscenza. Se l’arbi- tro non fermasse subito il combattimento, gli atleti potrebbero subire lesioni cerebrali gravissime e anche mortali. Ma non sem- pre gli arbitri sono così attenti o abili da intervenire prima che l’incontro divenga veramente pericoloso. Al di là dei tredici de- cessi avvenuti negli ultimi trent’anni in incontri di Mma ufficiali e non (di cui però dieci dal 2007 a oggi), sono numerosi i casi di interruzioni tardive, controverse e che hanno suscitato vivaci di- battiti nell’ambiente. Mi basta citare un caso.

Un terribile errore di giudizio dell’arbitro stava quasi costando

la vita a Kim Couture.

(25)

115

In una fase di lotta a terra, Couture è stata bloccata da una mossa di strangolamento con le gambe a forbice [leg scissors choke]

da Sheila Bird, un asso del grappling. Dopo un paio di tentativi disperati di liberarsi, Couture ha ceduto senza resistenza al soffocamento e ha perso conoscenza. […]

È vero che molti incontri di Mma potrebbero essere sospesi un istante prima o dopo, ma il comportamento dell’arbitro in questo caso costituisce un notevole passo indietro per uno sport già soggetto ad aspre critiche.

Il video dell’incontro mostra una scena orribile. Couture giace a terra chiaramente priva di sensi per diversi secondi prima che l’arbitro decida di intervenire e interrompere l’incontro. […]

Fortunatamente, Couture non ha subìto gravi danni e ha potuto lasciare il luogo dell’incontro con le sue gambe.

3

In pochi anni, le Mma hanno attirato l’attenzione di antropologi, sociologi dello sport, filosofi, esponenti dei movimenti femministi e così via,

4

proprio come qualche decina d’anni fa era successo con sociologi e filosofi nel caso della boxe.

5

Una prima differenza tra boxe e Mma, tuttavia, sta nel fatto che queste ultime sono molto più spettacolari e non mancano di gore, cioè di effusione di sangue (figura 1). Termini come bloodbath o bloodshed, “bagno di sangue”, sono comuni nei resoconti degli incontri, non solo nei siti specializ- zati, ma anche in quotidiani seri e autorevoli come “The Guardian”

3. J. McElroy,

MMA

: Awful Refereeing Nearly Kills Kim Couture, “Bleacher Report”, 11 luglio 2011, <bleacherreport.com/articles/763587-awful-refereeing-nearly-kills-kim-cou- ture> (consultato il 21 giugno 2017).

4. Per una sintesi degli studi, si veda D.C. Spencer, Ultimate Fighting and Embodi- ment. Violence, Gender and Mixed Martial Arts, Routledge, London 2013. Includendo an- che le autobiografie dei fighter, la bibliografia è ormai molto vasta.

5. Si veda, per esempio, A. Philonenko, Storia della boxe, Il melangolo, Genova 1992.

Si veda anche Id., Du sport et des hommes, Michalon, Paris 1999 e Mohamed Alì. Un destin americain, Bartillat, Paris 2007. Philonenko, noto e stimato storico della filosofia, ha pub- blicato numerosi volumi su Kant, Nietzsche, Bergson, la filosofia della guerra e così via. In realtà, l’interesse della filosofia per gli sport, e in particolare per quelli di combattimento, è antico. Si dice che Pitagora frequentasse gli atleti e che il celebre Milone fosse suo allievo.

Ma si veda qui anche il secondo testo in allegato.

(26)

Mal d’archivio

Nel 1994 Élisabeth Roudinesco e Réné Major organizzarono un convegno al Freud Museum di Londra sul tema degli archivi della psicoanalisi e degli archivi in generale. Con il suo intervento, Derrida tenne impegnati gli ascoltatori per più di tre ore sulle problematiche di quello che diventò, l’anno seguente, Mal d’archivio.

Un’impressione freudiana, una riflessione estremamente densa e articolata in un lungo confronto con Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile dello storico Y.H.

Yerushalmi (che sebbene fosse tra gli invitati e fosse arrivato a Londra, non poté assistere alla conferenza a causa di una bronchite).

Ma, esattamente, qual è l’oggetto di Mal

d’archivio? Derrida, nella Preghiera da

inserire posta all’inizio del testo, ci indica

che il suo saggio si muove attorno a una

domanda: “Perché rielaborare oggi un

concetto dell’archivio? In una sola e stessa

configurazione, nello stesso tempo tecnica e

politica, etica e giuridica?”. Nonostante questa

dichiarazione che definisce un’esigenza precisa,

Mal d’archivio resta un testo che concettualizza

con difficoltà proprio l’archivio, il quale al

(27)

massimo si iscrive nell’orizzonte del nostro sapere come un’impressione. Un’impressione sviscerata, utilizzando tutta la forza euristica della psicoanalisi e attingendo al suo archivio (ancora da ereditare, come dimostra il suo

“corpo a corpo” con Yerushalmi), convocando la storiografia in primo luogo, ma anche l’etica, la politica, la moltiplicazione degli strumenti di “impressione” e quindi di archiviazione che abbiamo a disposizione e soprattutto la dimensione del potere che si configura (anche solo in quanto potere ermeneutico) come l’elemento centrale della riflessione: “I disastri che segnano questa fine di millennio sono anche degli archivi del male: dissimulati o distrutti, interdetti, deviati, ‘rimossi’. […] Ma a chi spetta in ultima istanza l’autorità sull’istituzione dell’archivio?”.

Il testo di Derrida non si conclude con una risposta, ma con una tesi che apre differenti piste interpretative. Questa breve sezione vuole essere solo uno spunto di riflessione per mostrare cosa si può dire oggi dell’archivio a partire da Mal d’archivio. I quattro contributi che seguono si limitano a far emergere alcune delle problematiche che l’analisi derridiana, in maniera a volte estremamente esplicita, a volte meno, permette di indagare: la verità storica e il male radicale secondo quella scienza dell’archivio che è la psicoanalisi (Réné Major), come archiviare l’inarchiviabile (Silvano

Facioni), le possibilità di decostruzione del

sapere di cui l’archivio è metafora (Giovanni

Leghissa) e il modo in cui è possibile (ma è

possibile?) ereditare l’archivio della Shoah

(Diana Napoli). [D.N.]

(28)

131

aut aut, 375, 2017, 131-138

Il turbamento dell’archivio a partire da Freud

RÉNÉ MAJOR

“Archivia”, mi dice una voce in tono imperativo, “o altrimenti finirai per dimenticare.” “Anarchivia”, mi dice un’altra voce, in maniera ugualmente perentoria, “perché è meglio dimenticare quello che non ricordi.” Poi, entrambe le voci tacciono e ciascuna fa il suo lavoro in silenzio.

1. Dalla protesi interna a quella esterna

Nulla è incerto come il significato della parola archivio ogni vol- ta che la utilizziamo. Sicuramente il termine evoca un luogo in cui viene custodito un insieme di documenti, l’accesso ai quali potrebbe avere dei limiti superabili o insuperabili, che si tratti di limiti imposti dal diritto di uno Stato, dai diritti che esso si arroga o che gli sono riconosciuti, dai diritti delle famiglie e degli eredi, dai diritti sulla corrispondenza, e in considerazione del potere che comporta detenere tali diritti, conservarli, dei segreti che potreb- bero essere rivelati o anche solo immaginati, in considerazione di tutto quello che ha a che vedere con la sfera pubblica o privata, sfere la cui separazione si può considerare più o meno importante in base all’oggetto di indagine o al regime politico.

Alcuni biografi si trovano in un mal d’archivio

1

più o meno se- greto o privato per soddisfare la curiosità dei loro lettori a pro- posito di un autore conosciuto principalmente per la sua opera.

Gli storici che conducono le loro ricerche sui genocidi del secolo scorso (o che si verificano ancora oggi) possono trovarsi di fron- te al divieto, alla distruzione o alla dissimulazione degli archivi del male. E anche nelle nostre democrazie, documenti custodi- ti come “segreti di Stato”, “segreti militari”, o appartenenti ai

“servizi segreti”, restano a lungo, se non per sempre, inaccessibi-

Il testo è apparso per la prima volta in L’archive – O arquivo, “

SIGILA

”, 36, 2015.

1. Come recita il titolo dell’importante libro di Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’im-

pressione freudiana (1995), trad. di G. Scibilia, Filema, Napoli 2005.

(29)

132

li. Altri, forse meno carichi di conseguenze (e dico forse), ma non meno significativi, spariscono quando cambia un governo. Que- sti elementi ci ricordano quello che Derrida sottolinea fin dalle prime pagine del suo testo, cioè che arché indica allo stesso tem- po sia l’inizio, là dove le cose cominciano, l’origine cui si rivolge il desiderio di sapere o di memoria, sia il comando, il luogo in cui si esercita l’autorità, dove gli arconti dell’archeion greco erano i depositari e i guardiani dei documenti ufficiali. Essi disponeva- no, per gli archivi che custodivano, del potere di interpretarli.

Cosa accade oggi? Da qualche decennio assistiamo a un’evolu- zione velocissima della tecno-scienza dell’archivio e a uno scon- volgimento senza limiti delle tecniche di archiviazione.

La rivoluzione psicoanalitica non può essere considerata estranea a questa profonda trasformazione del concetto di ar- chivio. Volendo presentare e rappresentare un modello ester- no all’apparato psichico, un modello protetico di registrazione e memorizzazione che integrasse la rimozione, la censura, la con- servazione delle tracce, Freud ha utilizzato il “Notes magico” il cui funzionamento era per lui determinato dalle questioni emer- se in Al di là del principio di piacere, ovvero la coazione a ripetere e l’intreccio tra le pulsioni di vita e quelle di morte.

Prima di arrivare al disordine introdotto da questo dualismo pulsionale, vorrei solo ricordare che un’economia politica, essa stessa libidinale, costituendo un archivio tendente a capitalizza- re ogni cosa, compreso ciò che ne contesta radicalmente il potere e ne mette in discussione l’immunità, è capace di utilizzare tutti gli strumenti tecno-scientifici disponibili per esercitare una sorve- glianza quasi senza limiti, a partire dal nostro pc, nel quale si può

“entrare”, e il cui disco rigido conserva qualunque traccia avessi-

mo voluto cancellare, fino alle mail immagazzinate in archivi vir-

tuali e addirittura le nostre conversazioni telefoniche o le impron-

te digitali. D’altro canto però, queste nuove tecniche di archivia-

zione hanno permesso, in campo medico per esempio, di racco-

gliere informazioni provenienti da iscrizioni corporee altrimen-

ti invisibili, proprio come la posta elettronica o i social network

hanno permesso ad alcuni movimenti rivoluzionari una mobili-

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tazione la cui rapidità è stata in grado di mettere in difficoltà la forza del potere costituito. Ma in queste tecniche, il male radica- le trova anche i mezzi per reinvestirsi in una teodicea che un altro male, potendo contare sui propri valori particolari ritenuti tutta- via universali, ha in gran parte contribuito a far emergere.

Bisogna tenere in considerazione le conseguenze socio-giuri- dico-politiche, statal-nazionali e mondiali di tali trasformazioni delle tecniche di archiviazione, di iscrizione, di riproduzione, di decifrazione delle tracce e della loro cancellazione. Ma poiché l’archivio è una questione che riguarda l’avvenire, e anche l’avve- nire della psicoanalisi, vorrei portare l’attenzione su due tesi im- plicite del pensiero freudiano, tesi a cui ho già fatto allusione e che stanno alla base di ulteriori riflessioni: la prima, quella della psicoanalisi come progetto di una scienza dell’archivio; la secon- da, quella del segreto del male radicale legato alla pulsione archi- vistica e alla pulsione di potere che gli è associata.

2. Il progetto di una scienza dell’archivio

Elaborando la prima topica dell’apparato psichico, Freud, attra- verso il sistema inconscio e preconscio, ha definito luoghi tra di loro differenti per la registrazione (Niederschrift) delle percezioni uditive, visuali e cinestetiche, e ha articolato questo punto di vista topico con uno dinamico ed economico per regolare gli scambi, gli spostamenti, le condensazioni, ma anche la censura e la rimozione.

Con l’ipotesi di spazi, interni alla psyché, di registrazione, di consegna, di impressione, ci si ritrova in un archivio psichico, una protesi potremmo dire interna, distinta dalla memoria spon- tanea. In questo senso, Derrida ha evidentemente ragione nel di- re che la teoria psicoanalitica non è solo una teoria della memo- ria, ma anche dell’archivio

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che tiene conto sia delle tracce in- consce che restano tali in virtù del rimosso, sia della repressione che opera a sua volta una seconda cesura tra il conscio e il pre- conscio, sposta un affetto, sostituendolo con un altro. Partendo da questo cambiamento fondamentale introdotto da Freud, ci si

2. Citato in J. Derrida, Mal d’archivio, cit., p. 30.

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aut aut, 375, 2017, 139-152

L’iperbole dell’archivio

SILVANO FACIONI

U na riflessione che assuma l’“archivio”

quale motivo o dorsale (più e prima an- cora che “oggetto”) del percorso teori- co derridiano, instancabilmente impegnato nell’indagine sul senso della registrazione, della traccia, delle derive o degli inganni del- la “presenza”, rischia sempre di rimanere prigioniera di una sorta di contraddizione performativa in cui, per discutere dell’idea stes- sa di archivio (statuto di legittimazione, storicità, istituzionalità ecc.), si deve necessariamente ricorrere a un indiscusso “archivio- Derrida” costituito anche solo dalle opere pubblicate. Occorre, dunque, un sovrappiù di attenzione critica che impone al pensie- ro un movimento, una cadenza, un tono in cui la singolarità del- l’“archivio-Derrida” viene, per così dire, proiettata nell’insieme di domande che l’idea stessa di archivio pone, e senza tralasciare che sarà proprio la singolarità dell’archivio (ogni archivio è singolare, è il punto di emergenza della singolarità) e, in questo caso, la sin- golarità dell’“archivio-Derrida”, a mettere in discussione, a rilan- ciare, a decostruire l’idea e anche la pratica dell’archivio e dell’ar- chiviazione così come si è venuta costruendo nella nostra storia.

Si tratterà allora di parlare dell’archivio “in generale” tenen- do presente l’“archivio-Derrida”, e dell’“archivio-Derrida” te- nendo presente le domande che esso pone all’archivio “in gene- rale”, alla sua idea, alla sua storia, alla sua istituzione.

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1. Nella vasta bibliografia sul tema, cfr. lo studio di S. Margel, Les archives fantômes.

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Creatura bizzarra, l’archivio, sempre singolare e dunque sem- pre al plurale, sprovvista di statuto ontologico e portatrice di uno statuto geologico (o, forse, di uno statuto onto-geo-logico).

Geologico, lo statuto dell’archivio incista la scrittura di doman- de che ne delimitano i contorni e che istituiscono un dentro e un fuori dell’archivio stesso: l’archivio istituisce i suoi confini da se stesso, ma tali confini, inevitabilmente porosi, permeabili, mobi- li, lo frastagliano come un’isola su una carta geografica e ne im- pediscono una presa, una letterale “de-finizione” (dove finisce la terra emersa e dove comincia il mare?). Ma lo statuto dell’archi- vio è geologico anche perché tiene uniti – inestricabilmente uni- ti – il tempo e lo spazio: l’archivio istituisce lo spazio, uno spazio fisico, spazialmente determinato (sia che si tratti di scaffali, car- telle, casellari, sia che si tratti, oggi, di chiavi USB o memorie elet- troniche offerte in diversi supporti), che custodisce il tempo (di un’opera, di una scrittura, di una documentazione, forse di un’e- sistenza) e gli permette di ordinarsi spazialmente, come le epo- che che si sovrappongono negli strati di roccia sedimentaria.

Un’indagine archivistica, infatti, è massimamente stratigrafica e, da ultimo, ha a che fare con pietre, rocce, materiali non sem- pre scalfibili o penetrabili: penetrarli, o aprirli, significa mette- re a repentaglio i loro assetti, e dunque la durezza della roccia, in questo senso, non è svincolabile dalla sua estrema fragilità. Un archivio (termine qui utilizzato nell’accezione corrente, senza ul- teriori specificazioni), allora, è un monumento (monumentum da mone¯re che significa “ammonire, ricordare”, ma anche, è fonda- mentale ricordarlo, “sepolcro”) e – insieme – un luogo fragile, sempre prossimo alla sua scomparsa quanto più se ne penetrano, per così dire, le viscere o l’interno.

Altro tratto o carattere paradossale: l’interno, l’interiorità di un archivio è, in un certo senso, il suo “più proprio”, mentre il “fuo- ri”, l’esterno che pure ne legittima l’esistenza, si direbbe non in- taccarne l’essenza, nonostante l’istituzione “archivio”, il suo isti-

Recherches anthropologiques sur les institutions de la culture, Lignes, Fécamp 2013.

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