SETTEMBRE 2020 | SEMESTRALE |DISTRIBUZIONE GRATUITA
D i r e t t o d a :
S U S A N N A F I O R L E T TA V i c e - d i r e t t o r e : S A R A PA L E R M O C a p o r e d a t t o r i : G i u s e p p e Q u a d r a r o l i , A n d r e a G r a n a t a , L a v i n i a Va l z e c c h i , A n a s t a s i a L a u r e l l i P r o g e t t a z i o n e g r a f i c a a c u r a d i : C A R M E N N I C O L E T T I R e d a t t o r i :
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L E D è u n p r o g e t t o d e g l i s t u d e n t i d e l l a L U I S S G u i d o C a r l i f i n a n z i a t o d a l l a
C o . D i . S u . E d i z i o n e c o m p i l a t a a a g o s t o
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L E D © 2 0 2 0
T u t t i i d i r i t t i d i r i p r o d u z i o n e s o n o r i s e r v a t i .
13|16
Digitalizzazione dell’arte la fase due della
cultura
28|32
Tutto quello che non avremmo mai immaginato
5G, trattative
9|12
sul filo del rasoio
17|19
La rivoluzione passa per i social networs
20|23
Smart working e pubblica amministrazione
24|27
Il digitale che invade il campo dello sport
33|35
Italia cashless verso una società senza contante
Ringraziamenti
Il periodo vissuto è stato fonte di stravolgimenti e di ripensamenti. A essere stato stravolto è stato il modo di condurre la nostra vita, di rendere produttiva la nostra quotidianità i cui regolari processi sono stati traslati su di una dimensione finora parallela e sussidiaria quella digitale. Oggetto di ripensamento è stata la stessa dimensione tecnologica e in contemporanea quella fisica, viste come l’una l’opposto dell’altra e sono state rivalutate e riqualificate: una rivelatasi il completamento dell’altra, ma non la sostituzione, che ha permesso di continuare a mantenere vivi progetti che altrimenti sarebbero stati depauperati dalla lontananza. Uno di questi progetti è proprio questa versione cartacea “non cartacea” che noi di LED abbiamo il piacere di pubblicare. Frutto di un periodo di sconvolgimenti e di paure, rappresenta speranza, voglia di fare e soprattutto voglia di condividere. Ringrazio tutti i redattori per aver contribuito a non frenare quel fiume di idee che da sempre LED rappresenta e che non ha ceduto alle avversità. Ringrazio il direttore di LED Susanna Fiorletta per avermi concesso l’opportunità di essere la sua spalla per quest’anno che, più di ogni altro, dovrà svilupparsi sulla voglia di fare, sulla voglia di migliorare. Ringrazio tutti i nostri lettori che ci spronano a produrre sempre qualcosa di nuovo e di migliore. La nostra redazione affronterà questo nuovo anno proprio con il proposito di non fermarsi mai e di progredire sempre.
Sara Palermo
L’imperativo di settembre è ricominciare. Sì, in maniera un po’ diversa dal solito. Anche noi di LED abbiamo subito un cambiamento dovuto a circostanze più grandi di noi, ma al quale abbiamo voluto trovare risposte, e di cavalcare quello che la tecnologia oggi ci offre. Per questo, riproponiamo l’edizione cartacea “non cartacea”: una versione digitale del nostro semestrale scaricabile in pdf.
Vorrei quindi ringraziare ciascun redattore per l’impegno nonostante la distanza forzata, i caporedattori per il contributo indispensabile per l’uscita del semestrale e per le attività future in programma per quest’anno. Un ringraziamento dovuto a Sara Palermo, nuovo vicedirettore che già dai primi giorni non ha esitato a mettersi in gioco per LED. Infine, vorrei ringraziare voi lettori del nostro giornale, perché il vostro supporto è un contributo indispensabile per noi.
Non sarà un anno facile. Anzi, la salita è lunga. Ma sono sicura che tutti insieme riusciremo a superare la distanza, e che con la dinamicità che caratterizza la nostra redazione, saremo in grado di adattarci al meglio alle nuove condizioni di un lavoro sempre più “smart”.
Susanna Fiorletta
Di
Susanna Fiorletta M A N I F E S T OI L
D I G I T A L E
Come ci insegnano a scuola, e come ormai siamo abituati a ripetere, ogni secolo è caratterizza- to da una rivoluzione. Ci sono rivoluzioni silenti, progressive nel tempo, delle quali solamente col senno di poi ci si accorge del cambiamento. Poi ci sono quelle rivoluzioni repentine, scandite dalla gioia di una scoperta che chi la fa già sa di aver cambiato il mondo. Ed è così che siamo finiti nel bel mezzo di una quarta rivolu- zione. Una rivoluzione, questa, non più dettata dai ritmi un po’
farraginosi dei grandi macchinari nelle fabbriche, ma silenziosa, e più invasiva che mai. La rivoluzio- ne digitale.
“Sembra ieri”, direbbero i miei genitori, quando nel 1976 venne presentato il primo iconico computer Apple. E in meno di un secolo, siamo passati da telefoni fissi, alla fibra ultraveloce di quinta generazione (anche e ampiamente nota come 5G), che
permette, addirittura, la comuni- cazione tra macchinari. E, anche se “quelli degli anni ’90” sono da considerarsi i primi nativi digitali, è difficile che un cambiamento così irruente passi inosservato.
Eppure, la capacità di adattamento dell’essere umano sembra averci aiutato nel raggiungere uno stato di abitudine e di convivenza con la tecnologia. Ma non è un male, nonostante le critiche dei nostalgi- ci dell’analogico si facciano senti- re, seppur in lontananza e con parole un po’ distorte, consideran- do l’abuso del “telefono senza fili”, con inni al ritorno a un mondo fatto di interazioni fisiche, e magari di incontrarsi sotto casa attaccandosi al citofono, in assen- za di un telefono – vero, per inten- derci.
Ma se (quasi) per legge “tutto scorre e niente rimane uguale”, difficile immaginare che nella vita si possa rimanere incastrati in
un’epoca soltanto. L’evoluzione è intrinseca nel genere umano. La nostra voglia di scoprire è antiteti- ca alla nostalgia di un mondo che ormai non ci rappresenta più.
Cozza con la realtà di ieri. È vero, Ulisse, almeno secondo quanto riportato da Dante, è andato all’inferno per aver oltrepassato i limiti della conoscenza, o meglio, per essersi spinto dove nessuno aveva avuto il coraggio di farlo.
Ma d’altro canto, Ulisse è forse l’incarnazione del genere umano:
la nostra sete di conoscenza ci spinge oltre, in terre (o mari) inesplorate. E poco importa se quelle colonne d’Ercole prendono varie forme, la sostanza rimane la stessa. Proprio oggi (29 agosto 2020, ndr) Elon Musk, esplorato- re del nostro tempo, ha presentato il suo ambito progetto Neuralink:
il microchip da inserire all’interno del cervello umano in grado di resettare connessioni neuronali per curare patologie che vanno dall’epilessia alla cecità. C’è da spaventarsi? Forse sì. Ma, in un secondo momento, forse, bisogna avere una prospettiva più ampia.
E magari ragionare col senno di poi. Pensiamoci. Se oggi Elon Musk non avesse presentato Neuralink, tra dieci anni come sarebbero curate le persone?
È inevitabile che ogni campo lavorativo, dall’istruzione alla medicina, sia investito, seppur
cambiamento digitale. Ma è altrettanto difficile immaginare di rimanere vittime di un immobili- smo prima di tutto sociale. E forse, è proprio questa la piaga del nostro Bel Paese. Come se fossimo ancora in un film in bianco e nero, rifiutiamo quello che la tecnologia ha da offrirci. È vero, è difficile pensare all’idea di essere contor- nati da apparecchi digitali di cui non ne abbiamo completa consa- pevolezza. In effetti, sono ancora in pochi ad avere le capacità di creare o far funzionare apparecchi digitali più o meno sofisticati. Il dover delegare (e forse questo è un colpo basso per i piccoli mana- ger con manie di controllo) a qualcun altro quello che noi siamo inevitabilmente limitati nelle nostre abilità, ci spaventa.
Ma il progresso non si può ferma- re. Ci sarà sempre il vicino con l’erba più verde che avrà avuto un’idea rivoluzionaria, nel vero senso della parola, e che non può, come istinto intrinseco dell’essere umano, non condividerla con il resto del mondo. Ci sarà sempre
“quello che ci è arrivato prima”, e noi gliene dovremmo essere grati.
Perché se non ci fossero persone così, oggi andremmo in giro ancora con le ruote di pietra.
Credo quindi in un’Italia che può e che deve aprirsi al cambiamen- to, a partire dall’istruzione, dalle scuole, dove i bimbi giocano a fare
inventori di robot.
E allora, dobbiamo essere in grado di dare loro l’opportunità che sognano, concedendo loro nuovi metodi e mezzi per un percorso di studio innovativo, e in un ambiente che non sia restio alla tecnologia. Perché nel bene o nel male, la rivoluzione è iniziata.
E da tanto ormai, inutile negarlo.
La domanda è quindi, come vogliamo accoglierla?
Di
Damiano Tomassetti T R A T T A T I V E
S U L F I L O D E L R A S O I O [ 5 t h - g e n e r a t i o n ]
La tecnologia 5G (5th Generation) è un insieme di standard e capacità operative di dispositivi mobili e cellulari atte a migliorare la connessione di questi e a permet- tere una maggiore velocità per le operazioni in rete. Nello specifico, fornirà ai lavoratori fino ad 1 gigabit (un miliardo di bit, ndr) al secondo, e per i semplici utenti offrirà una velocità di dati di decine di megabit al secondo.
Permetterà inoltre una connessio- ne con latenza minore rispetto alla generazione precedente, e di conseguenza una copertura espo- nenzialmente più capillare con possibilità di raggiungere ogni luogo terrestre, permettendo potenzialmente la connessione di ogni cittadino dotato di uno smartphone.
C’è da aggiungere che la tecnologia 5G implementerà notevolmente lo sviluppo e l’utilizzo de “l’Internet delle cose”, ossia la possibilità degli oggetti di poter comunicare tra di loro raccogliendo dati e accedendo a informazioni aggre- gate. Questo è il punto sul quale si gioca tutto: la nuova generazione mobile sarà in grado come nessun’altra prima d’ora di racco- gliere dati, conservarli ed utilizzar- li per ogni tipologia di scopo.
Consapevoli di questa potenza, ogni paese sta sviluppando tutele legali e tecnologiche al fine di ridurre le possibili ingerenze degli altri paesi nella raccolta dei dati
dei cittadini. Attualmente i produttori più avanzati in questo ambito sono Huawei e ZTE, entrambe società cinesi che fin da giugno 2019 hanno deciso di sospendere le forniture americane a seguito della guerra commerciale con gli Stati Uniti. In seguito, Trump ha inserito Huawei nella Entry List, una lista ufficiale che preclude la collaborazione di società statunitensi con le società estere inserite nella lista senza il consenso governativo. Google è stata una delle prime a rescindere con il gigante cinese, che dovrà fare quindi a meno di numerosi servizi Android.
Seguendo le orme del collega, dall’altra riva dell’Atlantico Boris Johnson ha bannato, con l’approva- zione del Parlamento e di alcuni comitati tecnici, Huawei dal territorio nazionale. Le motivazio- ni sono le medesime: la forte presenza del governo cinese all’interno della società preoccupa il governo britannico, che teme un’ingerenza governativa nei dati raccolti e un loro utilizzo impro- prio.
L’ Unione Europea, non ha ancora adottato una posizione condivisa.
Ogni Stato sta analizzando con un proprio comitato di sicurezza i possibili rischi del 5G targato Huawei o ZTE, ed entro la fine dell’anno si arriverà ad una rispo- sta definitiva.
Ago della bilancia per le decisioni di tutti questi paesi è lo stato dei concorrenti ai colossi cinesi, primi fra tutti Nokia e Ericsson. Entram- be le società stanno facendo nume- rosi passi in avanti al fine di rende- re la loro tecnologia 5G al pari di quella asiatica al medesimo costo, ma con discreta difficoltà e tempi necessariamente lunghi. US Mobile ha affidato la propria rete 5G a Nokia, ritenendola più affida- bile in termini di sicurezza dei dati, e molti paesi europei si stanno affidando alla rete Ericsson per i prossimi anni.
In Italia la situazione è controver- sa. Tim ha escluso, sia nel nostro paese che in Brasile, l’utilizzo di tecnologie Huawei per le strutture 5G, impedendogli di partecipare al bando di assegnazione per la propria rete, anche se la scelta definitiva su chi affidarsi ancora non è stata presa.
Abbiamo osservato come questa nuova generazione mobile andrà oltre i semplici interessi informati- ci o di prestazione, si sposterà su un piano di conflitto geopolitico dove ogni nazione vorrà impedire l’utilizzo dei dati dei cittadini e fornire a un paese estero questo tipo di informazioni al fine di salvaguardare la sicurezza nazio- nale.
I G I T A L I Z Z A Z I O N E E L L ’ A R T E :
l a f a s e d u e d e l l a c u l t u r a
Di Domenico Porcelli
“Se Maometto non va alla monta- gna, la montagna va da Maomet- to”. È questa la logica che ha carat- terizzato nel pieno dell’emergenza Coronavirus i rapporti tra gli amanti dell’arte e i musei, suoi custodi fedeli, d’un tratto svuotati dei loro appassionati visitatori.
Abbiamo imparato a ragionare non solo sull’impatto che il virus ha avuto su ogni aspetto della nostra quotidianità, ma anche su come essa abbia potuto adattarsi a una situazione tanto complessa quanto inaspettata.
Il mondo della cultura, come ogni altro, si è modificato, evolvendosi, adeguandosi a quel tipo di cambia- mento repentino che solo una drastica svolta storica poteva operare. L’arte, dal canto suo, ha reagito come sempre ha fatto nei momenti di crisi, riversandosi in ogni forma d’espressione consen- tita e ricordando ciò che più carat- terizza l’uomo: la sua abilità creatrice, la voglia, anzi, la necessi- tà di continuare a respirare trami- te l’arte anche nel periodo in cui, letteralmente, il respiro ci veniva a mancare. Centinaia di artisti, grafici, musicisti hanno contribui- to a rendere i social un rifugio dalle case che abbiamo forzata- mente abitato durante la quaran- tena. Reclusi, ci siamo accorti di ogni minino dettaglio, di ogni cigolio di porta, di ogni parete e ombra, anche di quelle che inelut- tabilmente ciascuno di noi nascon- de dentro di sé.
Non potendo uscire dalla gabbia, l’abbiamo riorganizzata, arredata, resa più conforme alle nostre nuove priorità: costretti tra quattro mura, intrappolati nel nostro microcosmo, la prospettiva cambia e l’unica finestra sul mondo di fuori è costituita dal web, il quale ci porta a ripensare non tanto a un concetto di “arte ai tempi del coronavirus”, essendo ormai stanchi di ripensare a ogni aspetto del nostro vivere alla luce della pandemia, ma, piuttosto, di
“arte ai tempi dei social”.
Ciò che viene profondamente messo in crisi non è certamente l’arte in sé, destinata, com’è ovvio, a essere imperitura, quanto piutto- sto il suo abituale modello di fruizione. Si mette in discussione il come, il modus operandi, non più compatibile con le nuove esigenze, principalmente di sopravvivenza, della società: il mondo museale è costretto a un drastico cambio di prospettiva, rivelando le potenzia- lità sopite, in Italia più che all’est- ero, di un pubblico che da sempre ama l’arte e la pretende nella propria vita, oggi, giocoforza, tramite l’impiego di nuovi strumenti in grado di garantirne la fruizione “a domicilio”, per così dire.
Negli ultimi quattro mesi, musei e istituzioni ci hanno prontamente fornito una quantità immensa di materiale virtuale tramite piatta- forme social e rispettivi siti, modi- ficando drasticamente tempi e
modalità di fruizione: da una miriade di persone, dilazionate nel tempo, a costituire gruppetti in un unico spazio espositivo, si passa al singolo spettatore che, nel proprio spazio quotidiano, senza mettere piede fuori dalla propria comfort zone, in pochi attimi ha accesso a contenuti prima più difficili da raggiungere. È un po’ come se, nel quotidiano passaggio dalla cucina al salotto, ci si imbattesse nel David di Michelangelo e, sul soffit- to della camera da letto, intrave- dessimo la volta della Cappella Sistina. Superato un comprensibi- le momento di disagio iniziale, si tocca quasi con mano, seppur solo virtualmente, qualcosa che prima poteva essere solo immaginato e percepito come quasi inaccessibi- le.
Molte sono state le sfere travolte dalla rivoluzione digitale: si pensi a ogni livello d’istruzione rielabo- rato su piattaforme digitali, indice di una tanto auspicata rivoluzione della didattica; all’utilizzo massic- cio dello smart working nel mondo del lavoro, a insegnare alle nostre aziende e alla Pubblica Ammini- strazione l’importanza e l’utilità del telelavoro; alla digitalizzazione nel mondo dell’arte, volta a rende- re il “bello” più fruibile a tutti.
Espressioni, queste, di un auspica- to adeguamento del paese a un modello europeo, già da tempo avviato e che ci vedeva tremenda- mente in ritardo. Peccato soltanto siano state tali terribili circostanze ad avvicinarvici.
Suddetto processo ha immancabil- mente influenzato la nostra perce- zione dell’opera d’arte in sé: il tempo limitato che ci veniva concesso all’interno dei musei, mai bastevole, ora si dilata a dismisura, aprendoci a nuovi spazi di comprensione e riflessione. Nella nuova prospettiva, in cui gallerie e musei comprendono quanto il digitale possa fare da collante per il mondo dell’arte, quanto pubbli- cizzare le proprie opere online significa attrarre non soltanto i vecchi amanti del genere, ma anche un pubblico nuovo, che finora non si sentiva all’altezza di un universo percepito come elitario.
Ogni istituzione sembra farci segno da banner o pubblicità tra un post e un video del nostro feed:
da un lato il MAXXI di Roma, che ha postato assiduamente video approfonditivi, dall’altro i Musei Vaticani, i video delle visite guida- te per la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale o, ancora, i contenuti inediti del MOMA americano o del Louvre francese.
Tutte strutture che possono ormai vantare agguerritissime pagine Facebook. Non sono mancati richiami meno usuali, ma altret- tanto validi, come la piattaforma Milano Art Guide che, includendo centinaia di artisti nella realizza- zione di illustrazioni, caricate sulla piattaforma, ha dato la possibilità agli utenti a casa di stamparle e colorarle liberamente; o, ancora, il progetto messo su dall’Accademia
Tedesca di Villa Massimo, che sui social ha lanciato l’iniziativa Arte per i vicini, che ha visto le mura esterne della struttura montare maxischermi rivolti verso la strada, per far godere ogni giorno, ai pochi fortunati abitanti di viale XXI Aprile, del contenuto della mostra dell’artista Esra Ersen che, attuale residente, partorisce l’idea in risposta all’isolamento vissuto nel mese di aprile.
Vera svolta ha rappresentato, pur essendo ormai una garanzia, il colosso Google, che, sulla piatta- forma omonima, alla voce Arts&Culture, ha arricchito i database di diversi tour esplicativi e schede.
Possiamo dire, ormai, che nel 2020 i tour museali con prospetti- va a 360° sono sempre più comuni, il che apre però la porta anche a nuove preoccupazioni. Il boom social è stato enorme, ma per quanto affascinanti, tali nuove modalità restano spesso scarne di informazioni adeguate, col rischio di poter essere presto considerate alla stregua di un superficiale passatempo o di divenire occupa- zione di un pomeriggio soltanto.
Capire i modi e i tempi di consumo di una tale novità sembra allora essere obiettivo principale di social media manager e gestori delle varie gallerie, con sempre ben chiaro l’obiettivo fondamenta- le di non mercificare, e soprattutto svendere, la dignità di grandi opere, artisti e valori immensi di cui sono vivida espressione.
Cosa accadrà sul fronte della cultura, in questa complessa “fase due” dell’arte, è difficile dirlo.
Quando tutto ripartirà e il mondo verrà riportato a regime non con poche difficoltà, tanti modelli saranno già sorpassati, così come probabilmente lo sarà anche questo stesso che stiamo al momento vivendo. Il cambiamen- to in corso è un divenire imper- scrutabile che porta con sé, ora dopo ora, una revisione sostanzia- le dei modelli tradizionali e un assottigliamento costante del velo che separa la realtà dal virtuale.
Come il pubblico si innamora facilmente delle novità, altrettanto velocemente se ne stanca: siamo umani e, come tali, volubili ed incostanti. Servirà, pertanto, un’incessante opera di aggiorna- mento e rinnovamento per poter veramente fidelizzare un pubblico nuovo e variegato, mosso da dinamiche nuove e ancora non specificate.
Come non è sufficiente un solo dipinto per fare un museo, così non bastano dei semplici post per digitalizzare la visione che abbia- mo dell’arte, sia in Italia che nel mondo intero. Eppure, è un inizio, e dire, in questo tragico 2020, che il futuro è in mano nostra, è più concreto e realistico che mai.
RIVOLUZIONE LA
PASSA PER I
SOCIAL NETWORKS
Di Eleonora Germano
Osservando l’uomo, è possibile osservare l’evoluzione della sua capacità di comunicare. Ogni civiltà è sempre stata alla ricerca di mezzi e tecnologie adatte a gestire il processo comunicativo e a renderlo sempre più veloce e immediato. Questo ha trasformato profondamente la cultura e la società. Strumenti come la stampa, il telegrafo, il telefono, il cinema, la radio, la televisione
hanno cambiato in maniera irreversibile le abitudini quotidia- ne delle persone. Oggi infatti popolazioni di ogni parte del mondo ripone grande fiducia nei sistemi di comunicazione in tempo reale, quali Internet, social network e nuovi media, che metto- no in relazione persone di ogni dove e di diffondere notizie e infor- mazioni nell’immediato.
I social network svolgono anche un ruolo fondamentale nella mobi- litazione sociale in paesi dove il controllo delle autorità su altri mezzi di comunicazione più tradi- zionali è stringente. Un esempio è la Primavera Araba, durante la quale i social network sono stati utilizzati dai manifestanti per mettersi in contatto tra loro e per condividere contenuti, immagini e video che altrimenti sarebbero stati censurati dal regime. Durante le rivolte arabe si è assistito alla nascita delle ONG “virtuali”, ovvero comunità online che hanno portato alla nascita del cosiddetto Net-Activism. Si è quindi arrivati a parlare di “rivoluzione dei social network”, perché questi, giocando un ruolo fondamentale nella società moderna, sono sia i princi- pali mezzi di diffusione delle proteste, sia i punti di riferimento in Occidente per capire cosa accade nel resto del mondo.
Un esempio più recente è lo scon- tro fra Hong Kong e Pechino. In questo caso i social media sono diventati una vera e propria arma.
Le libertà concesse a Hong Kong, ex-colonia britannica, sono diven- tate fonte di preoccupazione per la Cina che ha tentato infatti di esercitare un controllo sempre maggiore che di conseguenza ha scatenato una reazione difensiva e di protesta da parte degli hong kongers. Nel corso degli ultimi due anni, le proteste sono passate da eventi pacifici a violenti scontri tra polizia e manifestanti, a dimostrazione
dell’elevata preoccupazione di Hong Kong per i propri diritti civili e politici. Preoccupazione che con l’approvazione cinese della legge sulla sicurezza nazionale è diven- tata realtà. Questa permetterà a Pechino di reprimere ogni atto considerato “minaccia alla sicurez- za nazionale”.
Ma qual è il ruolo dei social network in tutto ciò? Prima di tutto, vi è stata un’ondata di immagini con cui mostrare la brutalità della polizia e dei manife- stanti. Queste immagini sono state utilizzate da entrambi gli avversari per promuovere la propria causa. I manifestanti, per portare avanti le proteste in modo omogeneo e coerente, hanno iniziato a comunicare attraverso le mega-chat di Telegram per poi passare a LIHKG, un forum di notizie online usato dai cittadini di Hong Kong, ma il cui limite era l’utilizzo predominante della lingua cantonese che limitava la diffusione del loro messaggio di protesta al resto del mondo. Da qui è nata l’idea dell’hashtag #Fol- lowbackHongKong che è imme- diatamente diventato virale su Twitter. La scelta di Twitter non è del tutto casuale: in Cina alcuni social network, come Facebook e Instagram, sono bloccati dal governo, mentre su Twitter, trami- te la giusta scelta di hashtags, non si incorre nella censura cinese.
Anzi, Twitter ha smascherato una rete di account provenienti dalla Cina, e probabilmente controllati
dal governo, che effettuavano operazioni di disinformazione definendo i manifestanti di Kong Kong come terroristi. Anche Face- book ha poi rimosso alcune pagine di fake news collegate al governo pechinese.
In seguito alla ora all’approvazione della legge di Pechino (30 giungo 2020, ndr) sulla sicurezza nazio- nale, il mondo sta progressiva- mente assistendo alla diminuzione dell’autonomia dell’ex colonia britannica e al parallelo aumento della sfera di influenza cinese.
Che cosa resta della libertà di espressione a Hong Kong?
La nuova legge estende sino allo spazio cibernetico la capacità di azione delle forze di polizia di Hong Kong, permettendo al gover- no di chiedere alle piattaforme social di eliminare contenuti ritenuti illegali. La risposta dei grandi social network, tra cui Facebook, Google e Twitter, è stata quella di annunciare la sospensio- ne dell’accesso ai dati degli utenti da parte delle autorità di Hong Kong. Allo stesso modo, Telegram ha annunciato che non valuterà alcuna richiesta di condivisione dei dati finché non ci sarà un “con- senso internazionale sui cambia- menti in città”. Invece, il social network cinese TikTok, che sempre dichiaratosi indipendente dal governo cinese, ha annunciato che interromperà del tutto il servi- zio a Hong Kong, dimostrando un
certo allineamento filocinese. È ormai chiaro che i social network sono un’arma a doppio taglio: da una parte sono usati per portare avanti delle giuste cause e per favorire la circolazione di notizie attuali in tutto il mondo, e in quest’ottica bisogna guardare al tentativo degli attivisti di Hong Kong di far conoscere le loro ragio- ni e il movimento a tutto il mondo, ma d’altra parte possono anche essere usati per diffondere false informazioni, come è accaduto nel caso del governo cinese intento a screditare le proteste. I social network hanno cambiato il modo in cui le persone comunicano e interagiscono tra loro e hanno cambiato il modo in cui i governi autoritari perpetrano il loro potere. Quando parliamo di Inter- net, social media, o più in generale di tecnologia, bisogna essere consapevoli che la loro influenza, positiva o negativa che sia, dipen- de all’uso che ne facciamo.
Di
Alessandro Alaimo S M A R T W O R K I N G
E P U B B L I C A A M M I N I S T R A Z I O N E
Il Covid-19 è stato senza alcun dubbio l’acceleratore di alcuni processi endogeni ed esogeni sviluppatesi nel Paese. Pochi mesi che hanno obbligato un Paese impolverato, antirivoluzionario e pieno di contraddizioni a doversi reinventare e a dover trovare delle risposte a delle domande mai poste fino a ora.
D’altronde l’Italia è sempre stato un Paese restio al cambiamento e alla rivoluzione, forte delle proprie sicurezze e totalmente ignaro di quello che accade attorno a sé. È stato così nel 1974 con il referen- dum sul divorzio, ed è stato così nel 1981 con il referendum sull’aborto. Tematiche sociali in cui l’approccio è sempre stato di diffidenza, salvo poi rendersi conto della necessità di quel cambiamento e di quella riforma.
Il Covid-19, è stato invece l’accele- ratore di alcuni processi che potremmo definire in un certo senso rivoluzionari e di assoluta necessità. Il lockdown ha di fatto attivato una rivoluzione culturale e organizzativa antitetica allo stile italiano: lo smart working. Un cambiamento, però, che strana- mente alle abitudini italiane, era già stato discusso e trasformato in legge qualche anno fa. La legge 81/2017 (in vigore dal 22 maggio 2017, ndr), in tal senso, inserisce lo smart working (o lavoro agile) in un contesto complicato come quello delle Pubbliche Ammini- strazioni. In riferimento alla legge poc’anzi citata l’articolo 18 afferma come “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivan- ti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”, con l’obiettivo di incen- tivare lo smart working per
“incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Un cambiamento visto positiva- mente in termini teorici, ma non immediatamente attuabile in termini pratici, tanto da registrare già nel 2018 i primi ostacoli nel percorso verso lo smart working, visto che solo l’8% delle Pubbliche Amministrazioni ha utilizzato il lavoro agile (stando ai dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano). Una percentuale molto bassa dovuta principalmente ai meccanismi burocratici lenti e ai supporti obsoleti gestiti da dipendenti non del tutto capaci di svolgere le proprie mansioni – ove fosse possibile – direttamente dalla propria abitazione.
La rivoluzione tecnologica, che va di pari passo con una rivoluzione culturale, è ancora a uno stato embrionale e i risultati si sono visti durante il lockdown. Sia chiaro:
una pandemia e tutte le complica- zioni legate a essa non sono di certo una passeggiata per nessuno, tantomeno per un sistema artico- lato come quello italiano. Rimane però il dubbio sul fatto che ci si potesse far trovare più pronti e più capaci a gestire delle situazioni d’emergenza. La Pubblica Ammi- nistrazione è stata colpita forte- mente da questa pandemia e dalle sue complicazioni. Milioni di italiani hanno dovuto usufruire dei servizi dell’Amministrazione, ma
questa, nonostante uno sforzo importante, si è rivelata incapace di dare soluzioni ai problemi degli italiani.
Il Governo italiano, dal canto suo, conscio delle problematiche relati- ve alla pandemia e del sistema amministrativo italiano, ha varato a febbraio 2020 un decreto-legge (dl 23 febbraio 2020, n.6, ndr), in cui all’interno è stato stabilito come il lavoro agile sia applicabile in via automatica a ogni rapporto di lavoro in tutte quelle zone consi- derate a rischio nelle situazioni di emergenza, sia a livello statale che locale. Successivamente, attraver- so ulteriori decreti, direttive e circolari, sono stati integrati ulteriori elementi al fine di incen- tivare e completare la normativa.
Uno sforzo notevole non solo dello Stato, ma anche dei suoi dipen- denti, che sono stati chiamati a svolgere le proprie mansioni pur non avendo gli strumenti e le conoscenze adeguate.
Non è stato dello stesso parere il Presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci che nei giorni scorsi ha definito come “fannullo- ni” tutti i dipendenti della Regione Sicilia, rei di non essere riusciti a svolgere i loro compiti e pertanto non meritevoli del loro diritto costituzionalmente garantito delle ferie (Art. 36 Cost.). Dichiarazioni forti e probabilmente fuori luogo che non fanno altro che alzare i toni in un periodo storico in cui i toni andrebbero smorzati, soprattutto
in attesa di scoprire cosa il Covid ci riserverà nei prossimi mesi.
Dichiarazioni che hanno contribu- ito a sollevare un polverone all’interno dell’amministrazione pubblica siciliana, alimentando non solo la diffidenza già esistente nei confronti dei dipendenti pubblici, ma delegittimando tutti gli impiegati che hanno lavorato, soprattutto in periodo di lockdown, oltre il normale orario.
Il Covid, dunque, è stato un terrifi- cante incentivo a soprassedere alle abitudini italiane e a incentivare un processo come quello dello smart working, spingendo l’intera PA verso un futuro più smart, più semplice e più efficace. Lo smart working, per il Paese, non è più una questione di ieri, né una questione di oggi, ma una questio- ne di domani.
La rivoluzione digitale a cui il mondo sta assistendo ha sconvolto drasticamente le abitudini e le usanze delle persone. La ricerca e le innovazioni hanno portato l’umanità a dover collaborare con un ente tecnologico, al fine di ottimizzare l’efficienza e l’accuratezza in ogni campo lavorativo e non solo.
Questa rivoluzione ha senza dubbio influenzato anche il mondo dello sport. Tuttavia, l’impatto tra queste due realtà ha causato non poche controversie. Da un lato, l’implementazione di tecnologie all’avanguardia ha apportato indiscutibilmente un potenziamento delle attività sviluppate prima e dopo l’incontro sportivo. Per quanto riguarda, ad esempio, gli allenamenti degli atleti, nuovi sistemi digitali consentono una maggiore preparazione fisica, aggiunta a un più efficiente control- lo e sviluppo del singolo sportivo. Dall’altro lato, però, l’effettivo condizionamento della partita in sé, per mezzo della tecnologia, ha dato vita a varie correnti di pensiero. In particolare, si distinguono due principali
“IL DIGITALE CHE INVADE
IL CAMPO DELLO SPORT”
Di Andrea Granata
visioni, ramificatesi intorno al concetto dell’errore: la prima valuta quest’ultimo parte del gioco e, dunque, giustifica eventuali errori arbitrali mettendoli sullo stesso piano di quelli dei giocatori;
la seconda, invece, premia la giustizia effettiva a discapito della svista arbitrale, ritenendo scorret- to far condizionare l’esito di un match.
La questione si fa ancor più complessa quando si va ad analiz- zare il rapporto delle nuove tecno- logie con ogni singolo sport. Se nel 2004 la Serie A di basket introdu- ceva l’instant replay per chiarire determinati episodi, dando la possibilità agli arbitri di conferma- re o cambiare le proprie decisioni, nel 2006 è toccato al tennis, attra- verso però un metodo totalmente diverso: la Hopman Cup, infatti, è stata la prima competizione tenni- stica a usufruire dell’ormai noto
“occhio di falco”. Quest’ultimo può essere utilizzato, in maniera limitata, dallo sportivo stesso, per andare a controllare situazioni dubbie, ed eventualmente scagio- nare un’imprecisione degli arbitri.
In ogni caso, lo sport che più ha faticato ad introdurre un supporto tecnologico è stato senza dubbio il calcio. Dallo storico gol fantasma che condannò la Germania nella finale dei mondiali Inghilterra ’66 fino alla più recente rete non convalidata di Sulley Muntari in Milan-Juventus del 2012, passando
per la leggendaria “Mano de Dios”
di Maradona ai Mondiali di Messi- co ’86. La storia degli eventi calci- stici è spesso stata condizionata da eventi controversi e che, probabil- mente, seppur a volte epici, non sarebbero dovuti avvenire.
È dunque necessario ricorrere alla tecnologia, nonostante tutto, o si rischia di rovinare il gioco?
Questa è stata la domanda ricor- rente ai vertici delle società calci- stiche. La prima risposta si ebbe nel 2012 quando la Fifa approvò la Goal Line Technology, un sistema che attraverso varie telecamere, da diverse angolazioni, riesce a stabi- lire velocemente se la palla sia effettivamente entrata in porta o meno. Un grande passo avanti, che di certo Fabio Capello avrebbe gradito già due anni prima, quando alla sua Inghilterra, durante i Mondiali del 2010, fu clamorosamente negato un gol dopo che il pallone ebbe colpito la traversa e varcato nettamente la linea di porta.
La vera rivoluzione, comunque, è avvenuta nella stagione 2017/2018 con l’introduzione del VAR in diversi campionati e, su tutti, nel Mondiale del 2018. Il Video Assistant Referee permette di rivedere degli episodi controversi e cambiare le decisioni arbitrali, con l’obiettivo di garantire la giustizia partita dopo partita.
Nonostante le critiche mosse al connubio tra tecnologia e sport richiamino la purezza originale dell’attività sportiva e l’umanità degli eventi atletici, è bene chiarire che esso è finalizzato a giovare a tutti, dagli arbitri agli atleti, fino ai tifosi. Perché, come diceva il genio inglese Henry Ford, “c’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia vengono condivisi da tutti”.
Di Lorenzo Giudice T U T T O Q U E L L O C H E N O N A V R E M M O
M A I
I M M A G I N A T O
Nei mesi appena trascorsi il mondo intero è stato travolto da un evento che nessuno avrebbe mai immaginato nell’epoca moderna del controllo totale: una pandemia. Inizialmente le notizie sul nuovo Coronavirus non erano dissimili da altre riguardanti nuovi patogeni: SARS, influenza aviaria, febbre suina, morbo “della mucca pazza”; casi destinati a rimanere confinati nei paesi d’origine, o a sconfinare sì, ma mai a livello globale (l’eccezione, forse, potreb- be essere l’influenza Suina, o H1N1, con cui ancora oggi convi- viamo, che, però, non è mai evolu- ta ai livelli di aggressività raggiunti dalla SARS-Cov-19).
Appena si è intuita la gravità della situazione, la prima reazione è stata, naturalmente, quella di
“interrogare il passato”: dalla devastante epidemia di peste bubbonica che sconvolse il mondo nel 1300, all’influenza spagnola dei primi del Novecento. Le libre- rie online sono state assalite alla ricerca di scritti e documentari a riguardo.
A quanto pare, infatti, il periodo del lockdown è servito alle persone anche alla ricerca di nessi con situazioni già avvenute ma ormai risolte, quasi a esorcizzare la paura della temporanea sospensione della realtà. I mantra del nostro tempo, quali “fatturare”, “evento”,
“conferenza”, “congresso” “cena” o
“caffè”, sono stati rapidamente sostituiti da altri del tipo “andrà tutto bene”, “smart-working”,
“webinar”, “ZOOM”, “Cisco Webex”, “videochiamata”, e relati- ve gaffe e storpiature.
Quanto siamo stati esposti al “con- tagio” (in termini di idee o di maligni microorganismi), ora possibile solo a distanza? Davvero tanto.
Una delle occasioni, forse la più importante per la costruzione dell’identità di un individuo, cibo per la sua conoscenza mentale e coscienza sociale, è l’istruzione. Il settore educativo, negli ultimi anni pesantemente declassato, ha profondamente risentito delle politiche di distanziamento sociale.
E non sempre la risposta che è stata data alle esigenze formative è stata qualitativamente valida, ai fini della didattica. Ove ciò si associ all’incertezza sul futuro, il risultato ha finito, inevitabilmen- te, per accrescere le ombre sul mondo della scuola e dell’universi- tà: verrà ripresa la didattica in presenza o dovremo abituarci allo
“smart learning”, in attesa dello smart working?
È difficile dare una risposta certa.
Per ora la didattica online verrà mantenuta, anche a crisi passata, per un certo ammontare di ore, corsi o contenuti. È vero, la scuola e l’università sono luoghi molto importanti per la socializzazione e questa nuova modalità di eroga- zione indebolisce la componente delle relazioni interpersonali. Ma quali sono gli aspetti positivi, e rilevanti, della situazione?
Parlando a titolo personale, durante un esame (online, chiara- mente), prima di iniziare l’interro- gazione, il professore ha voluto informarsi su come noi studenti avessimo percepito il repentino cambiamento. Le risposte sono state quasi tutte negative, con gli unici aspetti positivi legati alle indubbie condizioni di comodità (tra queste, seguire le lezioni diret- tamente dal letto o sorseggiando il cappuccino ancora in pigiama). Al che, il professore ha provato a far riflettere sul lato positivo nella negatività: “E se il vostro desiderio fosse stato quello di seguire un
corso di specializzazione in qualsi- voglia settore che tempo e distanza fisica avessero sinora impedito?
Lo smart working lo consente, restando comodamente seduti alla propria scrivania. Non rende necessario sottoporsi al trauma (perché di questo si tratta) di abbandonare amici, parenti ed affetti, sobbarcarsi a oneri finan- ziari non indifferenti per vivere in un’altra città, uscire di casa in una giornata invernale, magari fredda e piovosa, in una sede dove, magari, l’offerta si approssima soltanto al vostro interesse, ma alla fine non è nemmeno soddisfa- cente. Non se ne coglie un lato positivo?” Poche parole, ma di grande effetto. Non è da sottovalu- tare infatti, il meraviglioso potere dell’interconnessione. Anche questo è un pilastro che scandisce il nostro modo di agire in vari campi:
dallo studio alle relazioni, dalle amicizie al lavoro.
Questa pandemia ha portato via tante cose, tra cui importanti punti di riferimento. In silenzio, questi erano gli architetti della nostra quotidianità. Erano talmente integrati nel nostro modus operandi da non essere neanche più visibili. Lo stesso vale anche per il mondo digitale. Per molti di noi, i “nativi digitali”, l’Internet c’è sempre stato. L’abbiamo usato per cercare approfondimenti nelle nostre materie di studio, iscriverci a canali di informazione o, più banalmente, “farci i fatti degli altri”.
Ora, però, è arrivato il momento di attenuare questi significati del mondo online, pur validi e legitti- mi, per riverniciarlo con tinte nuove.
La parola chiave è “abitudine”. Lo scrittore americano Howard Phillips Lovecraft sosteneva che se l’uomo avesse potuto conoscere tutto lo scibile sarebbe o impazzito o l’avrebbe rifuggito, rifugiandosi nell’oscurità di un nuovo Medioe- vo.
La perdita del senno, a meno di un nuovo lockdown, è un’ipotesi che inviterei a considerare remota. Il modo giusto per affrontare il tutto è abituarsi alla nuova normalità, fatta della mescolanza di modalità diverse: mondo dell’etere digitale e del concreto asfalto sotto i piedi.
Un po’ come quando il computer, proprio nel momento urgente di connettersi per sostenere un esame o, magari, convalidare un sudatissimo trenta “in presenza”, decide di bloccarsi per installare un aggiornamento. Poi, dopo l’aggiornamento, l’interfaccia è totalmente cambiata e bisogna riprendere confidenza con qualco- sa che prima era “normale”. Supe- rato lo sconforto iniziale, però, la novità proposta non sarà poi così male. Piano piano inizia a sembra- re meglio del precedente e, infine, non ci sarà nient’altro se non l’attuale versione.
Ora, però, che le lezioni all’università vengono a mancare, ci si rende
conto di tutta la loro rumorosissi- ma utilità. Ci si sente persi a sapere che avverranno per la maggior parte attraverso uno schermo e non più in presenza.
Scorrendo le gallerie foto dei telefoni, mancanza e amarezza si materializzano nel rivedere foto personali in giacca e cravatta, a questo o quell’evento atteso da mesi, se non anni.
Chi scrive questo piccolo articolo, che appare più che altro un’ironica confessione o una cinematografica chiacchierata col muro durante una qualsiasi notte del lockdown, di questo periodo non conserva ricordi tanto belli, e non possiede alcuna sfera di cristallo. Quel che è certo, però, è che l’umanità e le persone che conosciamo sono abituate a reagire e non si abbatto- no. I momenti di sconforto capita- no, ma devono assorbire solo una minima parte delle nostre energie.
Il mondo non smette di girare intorno al Sole perché i suoi (scomodi) inquilini se la passano male: il tempo continua a scorrere, la vita può rallentare, ma non fermarsi.
Parlando con le persone si coglie, seppur condita di vago scettici- smo, la frase: “il sistema ripartirà”;
questa deve essere la nostra fede incrollabile. Magari tra qualche mese, forse mezzo anno, forse un anno intero o anche due, ma il sistema gradualmente ripartirà.
Riprenderà le sue attività con un rinnovato bisogno di operatori
esperti, qualificati, attivi, forti, vincitori, illuminati, pronti.
Dovremo esser quelli che ripren- deranno in mano le redini della situazione, quelli che avranno scacciato l’inedia del momento passato, quando sembrava l’unica chance. L’appello è rivolto a tutti: a chi si è allenato e chi no, chi ha cucinato la pizza e chi no, chi ha cantato dai balconi e chi no, chi ha avviato iniziative, studiato e chi non l’ha fatto. C’è bisogno di chiunque abbia vissuto la fine della realtà, perché solo loro hanno il potere di farla ripartire.
D’altronde, a chi altri bisogna rivolgersi per fare ripartire la Terra se non quelli che ci vivono?
Saremo noi i protagonisti, ancora una volta.
Di
Antonio Maria De Rosa
ITALIA
CASHLESS
VERSO UNA SOCIETA
SENZA CONTANTE
Si chiama “Italia Cashless” il piano approvato dal Governo nella manovra 2020, che si presenta come un vasto insieme di misure e iniziative con l’obiettivo di incenti- vare la legalità e contrastare l’eva- sione fiscale, cercando al contem- po di favorire la diffusione dei pagamenti elettronici sul territorio nazionale.
Una soluzione che trova grande riscontro per quanto riguarda il tema della lotta all’evasione fisca- le, una chimera per il nostro sistema paese se consideriamo gli ultimi dati riportati nel rapporto sull’economia e l’evasione fiscale e contributiva dall’Istituto Naziona- le di statistica: “211 miliardi di euro di evasione al fisco nazionale, corrispondenti al 12% del PIL della nazione”. Infatti, attraverso un sistema di pagamenti totalmente digitalizzato, risulterebbe molto più semplice monitorare e ridurre il lavoro in nero e i meccanismi di violazione della legge nel campo delle imposte.
Un ulteriore aspetto positivo che ha incentivato il Governo a varare la manovra, è la crescita esponen- ziale del Fintech negli ultimi anni, ovvero l’insieme di tecnologie sviluppate appositamente per le transazioni finanziarie attraverso sistemi e dispositivi elettronici di vario genere: si passa dalle comuni carte di credito fino ad arrivare a transazioni istantanee anche attra- verso il proprio smartphone o smartwatch.
Innovazione che sembra però non aver riscosso ancora grande successo all’interno dei nostri confini. L’Italia infatti si trova nelle retrovie del Desi (Digital Economy and Society Index), l’indice euro- peo che misura la competenza nella gestione di sistemi informati- ci. A questo va inoltre aggiunta la radicata abitudine di noi italiani nei confronti del contante. Non a caso da uno studio di Bankitalia (dati Bankitalia 2016) emerge che
“in Italia il contante è stato lo strumento più utilizzato nei punti vendita. L’85,9 per cento delle transazioni è stato regolato in contanti, per un valore pari al 68,4 per cento del totale”.
Nonostante sembrino esserci tutte le prerogative tecniche e telemati- che per avviare quella che a tutti gli effetti potrebbe essere l’inizio di una vera e propria “cashless society”, o società senza contante, il problema principale sembra essere una mentalità abitudinaria al circolante, che permane nelle transazioni nazionali, estrema- mente restia al cambiamento informatico, che, invece, avanza inesorabilmente e sempre più imperterrito nella nostra quotidia- nità e in qualsiasi ambito delle nostre vite.