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Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata - Judicium

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MARCO DE CRISTOFARO E GINA GIOIA

Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità per una tutela sostanziale dimidiata

SOMMARIO: 1. Lo “scambio” tra sostanza e processo. – 2. L’ambito applicativo ratione materiae. – 3. L’ambito di applicazione del nuovo rito ratione temporis. – 4. La disciplina processuale nel dettaglio. Il coordinamento con il rito del lavoro. – 5. (Segue): l’iter processuale scandito tra fase sommaria e giudizio d’opposizione in potenziali tre gradi. – 6. Valutazione di sistema. – 7. La natura di accertamento o costitutiva della tutela contro il licenziamento illegittimo. – 8. Incidenza sul riparto dell’onere della prova del requisito dimensionale?

1. – Lo “scambio” tra sostanza e processo

Il senso dell’intervento disseminato nei co. da 48 a 68 dell’art. 1 della L. 28 giugno 2012, n. 92, si colloca – all’evidenza ed inoppugnabilmente – nella permuta, in thesi sinallagmatica, tra la riduzione delle tutele sostanziali per i licenziamenti illegittimi ed il potenziamento del percorso processuale entro il quale tali pur dimidiate tutele possono trovare riconoscimento ed attuazione1.

Il legislatore si è così deciso per il conio di un nuovo rito dei licenziamenti confezionato sul modello del procedimento per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Statuto (una prima fase sommaria, seguita da un’eventuale giudizio di opposizione disciplinato con occasionali deviazioni dall’ordinario processo laburistico): un rito che, in eclatante controtendenza rispetto alla politica di razionalizzazione e concentrazione delle discipline processuali “speciali” emergente dal D.Lgs. n. 150/20112, si aggiunge dunque al rito codiscitico, mimandone in larga parte il contenuto con occasionali ed incomprensibili differenze che inducono un malcelato effetto di straniamento.

I par. 1, 2 b), 5, 6, 7 e 8 sono opera di Marco De Cristofaro; i par. 2 a), 3 e 4 di Gina Gioia.

1 Cfr. C. Consolo e D. Rizzardo, Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr.

Giur. 2012, 6, 737; F. Carinci, Finalità, monitoraggio, oneri finanziari, in Commentario alla Riforma Fornero, a cura di F. Carinci e M. Miscione, Milano 2012, 5-6; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Torino 2012, 14 e 77. In tal senso del resto, in modo trasparente, si esprime la lett. c) dell’art. 1 della cd. legge Fornero, che individua – quale specifico intervento inteso a «realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione» – la «previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie».

2 Cfr. l’esordio della Relazione accompagnatoria al D.Lgs. n. 150/2011, ove univoco è l’auspicio che il legislatore rifugga dal conio di ulteriori nuovi modelli processuali inseriti in leggi speciali: «Nell’esercizio della delega si è inteso realizzare una chiara inversione di tendenza rispetto al passato, razionalizzando e semplificando le disposizioni processuali contenute nella legislazione speciale, mediante un unico testo normativo che si pone in rapporto di complementarità rispetto al c.p.c., in sostanziale prosecuzione del Libro IV del medesimo codice. Alla tecnica della novella legislativa si è, dunque, preferita la compilazione di un unico testo legislativo, che contiene tutte le disposizioni processuali applicabili alla tipologia di controversie oggetto dell’intervento normativo. Tale scelta […] intende, inoltre, segnare un radicale cambio di passo rispetto alla tendenza evidenziata dalla legislazione precedente, manifestando in modo chiaro al legislatore, anche per l’avvenire, l’esigenza di far confluire in un unico testo tutte le norme processuali speciali che si dovessero rendere necessarie, in modo tale da garantire la coerenza del sistema processuale e ridurre le diseconomie che l’eccessiva parcellizzazione dei modelli processuali ha fino ad oggi dimostrato di provocare».

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Quello dei licenziamenti diviene così un contenzioso che, pur sempre dislocato presso le Sezioni lavoro dei Tribunali ordinari, verrà d’ora in avanti a strutturarsi in una fase sommaria, che si auspicherebbe a definizione celerrima, seguita dall’eventuale opposizione del soccombente, volta a dare ingresso al dispiegarsi differito del contraddittorio pieno in base a disposizioni pressoché inutilmente duplicative di quelle codicistiche3. Il giudizio a cognizione piena, se instaurato, si dipanerà poi nei tre ordinari gradi (il secondo dei quali peraltro – affidato alle Corti d’appello – viene inintelligibilmente chiamato “reclamo”).

Il differimento del contraddittorio dispiegato e della cognizione piena4 rappresenta così il medium per conseguire quell’immediatezza nella risposta alle istanze dei lavoratori, che si assumano illegittimamente licenziati, che costituisce l’obiettivo primario del legislatore:

un’immediatezza che dovrebbe essere garantita dalle sommarie modalità dell’accertamento che avrà luogo nella fase iniziale, secondo un modello ispirato alla cognizione cautelare e la cui disciplina è ripresa pressoché testualmente dall’art. 669 sexies, co. 1, c.p.c.

Il legislatore si mostra così intento a ricavare a qualunque costo un binario privilegiato per siffatta tipologia di controversie, “preferite” agli altri ambiti del contenzioso laburistico non certo in vista di una particolare efficacia deflattiva o deterrente sistemica, ma semplicemente quale elemento di una tutela giurisdizionale differenziata che si impone, oggi, proprio e solo quale strumento

“compensativo” rispetto alla contestualmente introdotta e scientemente perseguita riduzione delle garanzie sostanziali.

3 Tra le tante duplicazioni e “riscritture” delle previsioni del codice, ve n’è una che merita menzione per la sua meritoria valenza chiarificatrice. Il co. 52, con riferimento al decreto di fissazione d’udienza nell’ambito del procedimento di opposizione avverso il provvedimento “urgente” (come pure il co. 48 con riferimento al procedimento urgente), non contempla più un termine specifico di sua notifica decorrente dal deposito del decreto medesimo (come invece fa l’art.

415, co. 4, c.p.c.), ma unicamente un termine ad quem calcolato a ritroso con decorrenza dal giorno di costituzione del convenuto-opposto (anziché con decorrenza dell’udienza, come nel rito del lavoro ordinario: conseguendone ovviamente un più lungo termine a difesa per il convenuto). Si può in ciò trovare conferma del fatto che il mancato rispetto del termine dell’art. 415, co. 4, c.p.c. concreti mera irregolarità, secondo la soluzione da ult. precisata dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass., 15 ottobre 2010, n. 21358, in Corr. Giur., 2011, 5, 653, con nota di M. Pilloni, La fase introduttiva dell’appello nel rito del lavoro: tra silenzi normativi ed esigenze di ragionevole durata del processo), e diversamente da quanto invece ritenuto con riguardo al vizio di assoluta mancata notifica al convenuto del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto di fissazione d’udienza, che determina l’improcedibilità del ricorso (ed eventualmente il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo opposto o della sentenza di primo grado impugnata):

Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, tra le altre in Corr. Giur., 2009, 2, 199 ss., con nota di M. Pilloni, Le S.U. ed il divieto di rinnovazione della notifica inesistente nella prospettiva del giusto processo. È tuttavia da chiedersi anche a questo riguardo se il legislatore non dovesse piuttosto fare un rinvio generale alle norme codicistiche, cogliendo l’occasione per una “ripulitura” volta a sciogliere alcune questioni interpretative, anziché creare un “mini-rito”

settoriale, in relazione al quale sempre latente è il rischio di legittimare un argomento limitatore a contrario: un argomento che cioè sottolinei come la norma speciale, lungi dall’illuminare l’interpretazione di quella codicistica, si applichi unicamente al contesto settoriale in cui è stata inserita, risultandone avvalorata – per eterogenesi dei fini – proprio quell’assai più rigorosa interpretazione che si mirava invece a smentire.

4 Come noto, a differenza del procedimento monitorio, la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 Statuto contempla il contraddittorio sin dalla fase iniziale, che tuttavia ha una struttura sommaria e perciò contempla un atto d’opposizione volto ad instaurare – come accade avverso il decreto ingiuntivo – un giudizio a cognizione ordinaria e piena.

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2. – L’ambito applicativo ratione materiae.

a) Già con il cd. Collegato lavoro (L. 4 novembre 2010, n. 183) si era inteso estendere il regime dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento a (praticamente) tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro dipendenti dal recesso datoriale.

Il Collegato lavoro elenca all’art. 32, co. 2, 3 e 4, una serie di (del tutto nuovi) casi che vengono trattati a mo’ di licenziamento. Vale a dire che si applica l’art. 6 L. n. 604/1966 e l’ivi previsto onere di contestazione nei 60 gg., oltre che in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto ex art. 409, n. 3, c.p.c.; al trasferimento del lavoratore ex art. 2103 c.c. (con termine decorrente dal ricevimento della comunicazione di trasferimento); all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro (ex artt. 1, 2 e 4, D.Lgs. n. 368/2001)5; alla cessione di contratto di lavoro nell’ambito di un trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c.6; alla somministrazione irregolare (art. 27 D.Lgs. n.

276/2003) e in tutti gli altri casi in cui si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto; ai contratti di lavoro a termine. Per questi ultimi solamente il legislatore ha stabilito una norma transitoria (art. 32, co. 4, del Collegato) che ne estende l’ambito di applicabilità anche ai contratti in corso, oltre che a quelli stipulati prima del D.Lgs. n. 368/2001, il cui termine non fosse ancora scaduto all’entrata in vigore del Collegato lavoro, e persino a quelli già scaduti all’entrata in vigore della legge7.

Il legislatore del 2012 ha tenuto sostanzialmente ferme queste disposizioni, estendendole altresì ai licenziamenti collettivi (co. 46), ma ha attuato una piccola opera di ingegneria normativa (art. 1, co. 11) riguardo ai contratti a termine, con sostituzione della locuzione legittimità del termine con nullità del termine8. Laddove si discuta di nullità del termine, a differenza che in tutti gli altri casi, i due termini per l’impugnazione sono rispettivamente di 120 giorni (stragiudiziale) e 180 giorni (giudiziale). Il termine decorrerebbe dalla data di cessazione del contratto, che per ovvi motivi

5 In tal caso il termine per impugnare il licenziamento decorre dalla scadenza del termine stabilito nel contratto (ex art.

32, co. 3, del Collegato).

6 Con termine decorrente dalla data del trasferimento.

7 Il termine decadenziale, per queste ipotesi, decorre dall’entrata in vigore della legge, cioè il 24 novembre 2010.

Nonostante le forti perplessità mostrate nei confronti di questa norma, che imporrebbe di impugnare il contratto ogni volta che viene rinnovato, con evidente compromissione del rapporto di lavoro in corso, essa è stata tenuta ferma. Cfr.

V. De Michele, La riforma del processo del lavoro nel Collegato lavoro 2010, in Lavoro nella giur. 2011, 107; M.

Miscione, Il collegato lavoro 2010 proiettato al futuro, ivi 2011, 5; S. Centofanti, Le nuove norme, non promulgate, di limitazione della tutela giurisdizionale dei lavoratori, in Giur. lav. 2010, 329.

8 Con questa modifica il legislatore ha corretto se stesso e eliminato l’incongruenza tra la lettera a) e la lettera d) dell’art. 32, co. 3, Collegato lavoro. La prima si riferiva, infatti, alla legittimità del termine e la seconda – che è stata abrogata dall’ultima riforma – alla nullità di esso. Naturalmente tra le due locuzioni, nella sostanza, non poteva trovarsi distinzione. La seconda, però, è quella corretta ed è rimasta nel testo dell’attuale norma.

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tassonomici va intesa come scadenza del termine apposto nel contratto. Tuttavia (co. 12), e qui sta l’opus magnum della norma transitoria, sia le questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro sia quelle relative alla nullità del termine apposto al contratto saranno sottoposte alla nuova disciplina della cd. legge Fornero se la scadenza del termine apposto nel contratto (che va così inteso sempre per gli stessi motivi detti prima) si verifichi a decorrere dal 1° gennaio 2013.

Senz’altro l’indicazione dei casi specifici, senza una generalizzazione che avrebbe potuto essere di chiusura per indicare le ipotesi di ripristino del rapporto di lavoro cessato per recesso datoriale, porrà una serie di questioni sulle zone di confine che possono presentarsi all’interprete relativamente all’estinzione di quei rapporti di lavoro che non sono stati specificamente enumerati.

In questi casi, la specialità del procedimento di impugnazione del licenziamento e del successivo (appena introdotto) rito speciale, cui sono collegate decadenze piuttosto onerose, devono far propendere per l’applicazione in bonam partem: vale a dire che nei casi dubbi, che pure potranno presentarsi, la nuova normativa si applicherà solo a condizione che essa non pregiudichi il diritto sostanziale del ricorrente, primo tra tutti quello di tornare a svolgere la propria attività lavorativa nell’azienda, nonostante sia incorso involontariamente in qualche decadenza. Potrà succedere, cioè, che il lavoratore ritenga (in casi oggettivamente incerti) di non trovarsi in presenza di un’ipotesi in cui necessita l’impugnazione stragiudiziale. Sebbene, poi, dovesse risultare che il rito da seguire sia quello previsto dalla Riforma Fornero, il giudice dovrà far fronte a questa situazione con un’interpretazione il più possibile favorevole al lavoratore. Del resto, sono note le gravi conseguenze che la giurisprudenza di legittimità collega alla mancanza d’impugnazione stragiudiziale: il lavoratore perde perfino il diritto ad ottenere l’indennità-risarcimento stabilita dalla legge9.

b) L’art. 1, co., 47, recita: «Le disposizioni dei co. da 48 a 68 si applicano alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18 L. 20 maggio

9 Cass., sez. lav., 14 maggio 2007 n. 11035, in Lavoro nella giur. 2007, 879, con nota di A. Muratorio, e Cass., sez. lav., 9 marzo 2007, n. 5545, hanno stabilito che la mancata impugnazione del licenziamento nel termine di legge comporta la preclusione del diritto di far accertare giudizialmente l'illegittimità del recesso e di conseguire la tutela risarcitoria comune, non solo quella prevista da leggi speciali. Residua il diritto al risarcimento del danno solo allorché il fatto ingiusto posto alla base della pretesa risarcitoria extracontrattuale integri un comportamento illecito ulteriore del datore di lavoro ex art. 2043 c.c., che deve essere provato dal lavoratore richiedente. Sul punto vedi anche Cass., 12 ottobre 2006 n. 21833, in Riv. it. dir. lav. 2007, 958, con nota di R. Diamanti, Impugnazione intempestiva del licenziamento e azione di risarcimento danni, in motivazione, dove si afferma che l’azione risarcitoria da fatto illecito richiede il fatto ingiusto che si sia accompagnato al recesso: tale ad es. il licenziamento ingiurioso, il licenziamento come atto finale di un mobbing, il licenziamento pubblicizzato al di fuori dell'azienda con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore. Al licenziamento intrinsecamente ingiustificato, quindi, deve accompagnarsi un fatto ingiusto ulteriore secondo i princìpi generali.

Non sembra che la riforma incida sui punti di riferimento che ispirano questa interpretazione. Tuttavia, va notato che l’indennità-risarcimento quantificata dalla legge, e che non abbisogna di prova specifica da parte del lavoratore, può essere chiesta nei termini stabiliti per l’impugnazione del licenziamento. Il risarcimento del danno tout court, invece, è sottoposto all’ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. Cass., sez. lav., 7 maggio 2004, n. 8720) e non segue il rito speciale, se non nel caso in cui sia chiesto a mo’ di domanda subordinata rispetto a quella di risarcimento-indennità.

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1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».

Il nuovo rito è dunque delineato specificamente per l’ambito applicativo dell’art. 18 Statuto10 ed ingloba al suo interno anzitutto, a prescindere da qualunque requisito dimensionale, il licenziamento discriminatorio, quello determinato da motivo illecito, quello irrogato in violazione di norme di protezione, fino a quello “veramente inefficace” per difetto di forma scritta11: il che comporta che – in presenza di siffatti vizi – il nuovo rito si applicherà a qualsivoglia ipotesi di recesso datoriale, quali che siano i caratteri del datore di lavoro. In aggiunta a ciò, ma questa volta nei limiti del requisito dimensionale definito dai co. 8-9, l’art. 18, ai co. 4-7, si riferisce al licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo ed oggettivo, nonché a quello “inefficace” per vizi di forma (altri rispetto alla carenza di forma scritta). La riforma ha riguardato anche i licenziamenti collettivi, ai quali si applicano gli artt. 18 Statuto e 6 L. n. 604/1966, per quanto previsto dall’art. 1, co. 46, della cd. legge Fornero: cosicché anche ad essi deve ritenersi applicabile il rito speciale.

Allorché la domanda abbia un obiettivo riconducibile al “quadro” dell’art. 18 Statuto, essa andrà trattata e decisa nelle forme del nuovo rito speciale anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Ne segue che l’accertamento sulla qualificazione del rapporto nelle forme del rito speciale potrà essere chiesto unicamente allorché sia strumentale all’impugnazione del licenziamento, che peraltro in questi casi sarà formalmente qualificato come esaurimento del rapporto di lavoro subordinato o per scadenza del termine o risoluzione del rapporto di lavoro autonomo o di somministrazione12: là dove è il sostanziale automatismo della prospettiva di reintegra (volta che il recesso datoriale risulterà il più delle volte illegittimo, perché intimato in forma orale o comunque del tutto immotivato, senza che tale carenza possa essere

“recuperata” in iure per il principio immanente dell’immodificabilità) che motiva la riconduzione al rito speciale di controversie pur radicalmente diverse da quelle relative ai licenziamenti

10 Ne risulta escluso, come noto, il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con buona pace dell’obiettivo, perseguito nell’ultimo ventennio, della parificazione di disciplina sostanziale e processuale – oltre che di unificazione della giurisdizione – tra impiego privato ed impiego pubblico. La scelta è deliberata e politica: l’art. 1, co.

7, della cd. legge Fornero stabilisce infatti che le nuove disposizioni «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», demandando a provvedimenti anche normativi del Ministro per la p.a. e la semplificazione, «sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche», il compito di individuare e definire «gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche» (non sembra peraltro che in questa frase possa ritenersi presente alcuna delegazione di poteri legiferanti, potendosi leggere – nel riferimento ai provvedimenti “anche normativi” del Ministro – solo un’allusione a normazione di rango secondario).

11 Esso è testualmente richiamato in chiusura del co. 1 del nuovo art. 18 Statuto. L’avverbio “veramente” è aggiunto per significare, all’interno dell’art. 2 L. n. 604/1966, la diversa intensità dell’inefficacia che colpisce il licenziamento orale (tale da dare luogo alla reintegra: co. 1 dell’art. 2) e di quella che invece (pur etichettata dalla legge in termini apparentemente unitari) consegue alla violazione del requisito di motivazione (co. 2 dell’art. 2 L. n. 604/1966) e delle procedure ex art. 7 Statuto: inefficacia, quest’ultima, che … lascia in piedi l’efficacia del recesso ed è sanzionata unicamente sul piano risarcitorio.

12 Cfr. D. Borghesi, I licenziamenti: tentativo di conciliazione e procedimento speciale, in Commentario alla Riforma Fornero, a cura di F. Carinci e M. Miscione, cit., 16.

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propriamente detti13.

Le domande proponibili al giudice con il nuovo rito non sono solo quelle attinenti al licenziamento, o quelle in cui è in discussione alla legittimità di un termine, il recesso, la qualificazione del rapporto, ma anche le domande «che siano fondate sugli identici fatti costitutivi»

(co. 48, secondo alinea). Quest’ultima locuzione si presta invero a letture marcatamente divergenti.

Se dovesse essere intesa in senso rigoroso, essa alluderebbe ad un “insieme vuoto”, essendo difficilmente concepibile una domanda, diversa da quelle paradigmaticamente destinate al rito speciale, davvero fondata solo ed esclusivamente su identici fatti costitutivi, e che non coinvolga segmenti di fattispecie ulteriori rispetto a quanto necessario per decidere di reintegra od indennizzo14. Più ragionevole ci pare peraltro l’altra lettura, che pretende bensì che i fatti costitutivi dell’impugnativa di licenziamento siano tutti ricompresi nella fattispecie della domanda eterodossa, ma ammette che la fattispecie del diritto oggetto di quest’ultima possa estendersi anche a fatti ulteriori: in tale prospettiva si potrà quindi ammettere che nel rito speciale, in via accessoria o gradata rispetto alla domanda d’impugnativa, possa richiedersi l’eventuale risarcimento del danno ulteriore, la cui entità andrà dimostrata dal lavoratore, o il pagamento di differenze retributive, e fors’anche del TFR, conseguenti alla diversa qualificazione del rapporto15.

Né vi è ragione per escludere, attesa la finalità del legislatore di convogliare nei canali del nuovo rito tutte le questioni relative alla “stabilità” del recesso datoriale, che anche l’azione di accertamento negativa della cessazione del rapporto proposta dal datore di lavoro debba essere trattata secondo le regole del rito semplificato, ovviamente là dove si riscontrino i presupposti di un idoneo interesse ad agire16.

Peraltro l’art. 6 L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 32 del Collegato, ha portata generale e si riferisce a tutti i tipi di licenziamento, che vanno, per questo, impugnati nei termini ivi stabiliti. E tuttavia, il legislatore, con marcata asintonia sistematica, non ha inteso introdurre il rito speciale e il prodromico procedimento di impugnazione per tutti i tipi di licenziamento, atteso che dall’art. 18 Statuto risulta ancora espunto il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, nonché

“inefficace” per ragioni formali, dei dipendenti di azienda con un numero di lavoratori inferiore a quindici unità lavorative, la cui disciplina rimane affidata all’art. 8 L. n. 604/1966, quale modificato già dalla L. n. 108/1990.

13 Nel senso che la riconduzione di queste ipotesi al rito speciale sia priva di giustificazione, se non addirittura inopportuna, v. invece C. Consolo e D. Rizzardo, Vere o presunte novità, cit., 735.

14 In tal senso, appunto, A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, cit., 73 s.

15 Cfr. D. Borghesi, I licenziamenti: tentativo di conciliazione e procedimento speciale, cit., 16 s.; C. Consolo e D.

Rizzardo, Vere o presunte novità, cit., 737.

16 Sull’ammissibilità dell’azione con esplicito riferimento al licenziamento, cfr., da ult., Cass., sez. lav., 9 maggio 2012, n. 7096.

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Razionalità avrebbe voluto17 che, soprattutto in considerazione delle numerose “dispute” che si incentrano sul requisito dimensionale – le quali non saranno affatto sopite dal costrutto della nuova legge, e che, stante la ripartizione degli oneri probatori18, rischiano di emergere solo a seguito della costituzione in giudizio del datore di lavoro –, il procedimento da seguire fosse sempre il medesimo, non essendovi ragione per ritenere che coloro che saranno sottoposti al regime dell’art. 8 L. n. 604/1966 abbiano (non si sa bene in ossequio a quale astratta giustificazione) meno “fretta” di ottenere l’indennità-risarcimento rispetto a quell’ampio novero di ipotesi in cui, pur nell’ambito dell’art. 18 Statuto, oggi più non v’è un diritto indefettibile alla reintegrazione.

Al disegno legislativo di accomunare tutte le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro subordinato e parasubordinato, disegno che trova espressione nell’art. 6 L. n. 604/1966, sarebbe dovuta seguire dunque anche una tutela giurisdizionale articolata secondo identiche modalità. Del resto, i licenziamenti ingiustificati di cui all’art. 8 L. n. 604/1966 presuppongono del pari la verifica ex professo della “ingiustificatezza” del licenziamento al fine di determinare l’indennità.

Il dato normativo peraltro è troppo nitido per poter autorizzare soluzioni diverse da quelle dello splitting del rito, seconda che si rientri o meno nell’orbita applicativa dell’art. 18 Statuto. Ne seguono intricate questioni per l’ipotesi in cui – come sarà alquanto verosimile – il lavoratore articoli il proprio ricorso introduttivo formulando una serie di domande, in via gradatamente subordinata, alcune delle quali riconducibili alla tutela di reintegra od obbligatoria dimidiata, ovvero alla tutela obbligatoria “pura”, in ragione delle dimensioni dell’organico o della natura di organizzazione di tendenza del datore di lavoro19.

Per come è concepita la clausola di delimitazione dell’ambito applicativo del nuovo rito ratione materiae, infatti, la subordinata d’indennizzo per tutela obbligatoria “pura” dovrebbe essere separata dalle domande formulate ex art. 18 Statuto, vuoi promuovendo una conversione del rito, vuoi mediante mera declaratoria d’improcedibilità o, meglio ancora, d’infondatezza20: con sacrificio evidente delle ragioni di economia processuale che, per questa – come si è detto – assai frequente

17 Benché probabilmente non alle soglie di un’irragionevolezza che introduca al dubbio di costituzionalità prefigurato da C. Consolo e D. Rizzardo, Vere o presunte novità, cit., 735, nota 29. Certo, a parità di condizione di “minorità” del lavoratore (in thesi) illegittimamente licenziato, la celerità della tutela è d’interesse tanto nei casi di superamento del requisito dimensionale, quanto negli altri, tenuto conto che pure nei primi – oggi – si può avere una tutela meramente obbligatoria. Resta tuttavia il fatto che, ove il requisito dimensionale sia superato ovvero vi sia un’ipotesi di licenziamento nullo o inefficace, aleggia pur sempre la prospettiva della reintegra e dell’esigenza di addivenire quanto prima alla definizione dei rapporti, che è ciò che giustifica la delimitazione settoriale del rito speciale.

18 Cfr. infra, nota 96.

19 Ipotesi, questa della pluralità di domande formulate in via gradata, che troverà frequente riscontro nella realtà:

essendo facilmente immaginabile che, ove le circostanze avvalorino plausibilmente le corrispondenti deduzioni, il lavoratore punti in primis al “bersaglio grosso” (ossia alla reintegra per nullità/inefficacia ex art. 18, co. 1-3, Statuto), indi alla reintegra o indennità cospicua (allegando il superamento del requisito dimensionale), e solo in extremis all’indennità “povera” ex lege n. 108/1990.

20 In senso contrario A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, cit., 73. A parte altre considerazioni di ordine sistematico, che qui sarebbe troppo gravoso ripercorrere, non può ammettersi che la medesima domanda segua un rito quando sia proposta in via principale, e ne debba seguire un altro quando sia proposta in via subordinata.

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eventualità, suggerirebbero invece una trattazione congiunta delle questioni di fatto comuni, ed anzi in questo caso davvero identiche, che veicolano una diversa tipologia di tutela solamente in funzione delle caratteristiche soggettive della parte datoriale.

Tra le due possibili soluzioni (conversione del rito ed infondatezza) è tuttavia la seconda che si guadagna la nostra condivisione. Impedendo che la domanda di tutela obbligatoria “pura” mantenga la propria pendenza all’interno di un diverso procedimento21, diviene infatti praticabile l’opzione che ne consente la deduzione in giudizio, in via subordinata, all’interno dell’eventuale fase di opposizione avverso l’ordinanza che chiude la fase sommaria: opposizione promossa vuoi dal lavoratore, a fronte di un’ordinanza di rigetto per estraneità della situazione sostanziale accertata rispetto all’ambito applicativo dell’art. 18 Statuto; vuoi dal datore di lavoro che continui a contestare il requisito dimensionale, con riconvenzionale subordinata del lavoratore per il caso in cui l’eccezione, reietta in fase sommaria, dovesse avere successo in sede di cognizione ordinaria.

Non può essere seriamente discutibile che la subordinata di tutela obbligatoria “pura” sia – questa sì – basata sugli identici fatti costitutivi rispetto alla principale incentrata sull’art. 18 Statuto (ed così ammissibile ex art. 1, co. 51); né può contestarsi che “l’ambiente processuale” del giudizio d’opposizione a cognizione ordinaria e piena, pur per certi versi differente dal rito ordinario del lavoro22, sia idoneo alla definizione anche delle pretese di tutela obbligatoria “pura”; né, infine, può obiettarsi che una simile domanda subordinata sarebbe tale da determinare ritardi e complicazioni nello svolgimento del processo, atteso che la verifica di sua fondatezza richiede l’approfondimento delle medesime questioni – di legittimità per giusta causa o giustificato motivo – che sono in thesi rilevanti per la concorrente domanda principale ex art. 18 Statuto.

Nulla sembra allora opporsi ad una ricostruzione per cui, alla fase semplificata del processo, dovrebbero riservarsi in via esclusiva le questioni in qualche modo intrecciate alla possibilità di continuazione del rapporto di lavoro (che, come si è detto, continuano ad aleggiare sullo sfondo dell’art. 18 Statuto), mentre nella fase a cognizione ordinaria ben possa definirsi qualunque altra domanda “basata sugli stessi fatti costitutivi”, locuzione da intendersi come sbilanciata sulla parte a

21 Conseguente appunto alla declaratoria di sua infondatezza (così, ad es., la recentissima Trib. Venezia, 2 ottobre 2012, in Guida al lavoro, 26 ottobre 2012, 27 ss., con nota di E. Barraco e A. Sitzia, Riforma Fornero e rito speciale: la prima ordinanza di merito): ove invece si aderisse alla tesi della conversione del rito, la domanda di tutela obbligatoria

“pura” si incanalerebbe in un procedimento autonomo (ed irrazionalmente separato da quello promosso ex art. 18 Statuto, pur concernendo questioni identiche), senza che tra essi – assai verosimilmente – più sia possibile una riunione, ostacolata anche solo dal diverso grado di evoluzione dei giudizi medio tempore autonomamente proseguiti.

Resta fermo che, vuoi in caso di proposizione immediata già in seno alla fase sommaria, vuoi in caso di proposizione in via subordinata unicamente nel giudizio d’opposizione, il momento rilevante per la verifica dell’impedimento della – seconda – decadenza (quella dei 180 giorni successivi all’impugnativa stragiudiziale) andrà ricondotto al deposito del ricorso introduttivo della fase sommaria (cfr., per analogia, gli orientamenti di legittimità cit. in nota 30, che qui potrebbero trovare ben più pertinente applicazione rispetto ai rapporti tra procedimento cautelare e giudizio di merito).

22 Ed anzi addirittura più “garantista”, se si tiene conto che il termine a difesa per il convenuto è di 30 giorni, anziché di 20 come nella disciplina codicistica: v. infra, nota 54.

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cognizione piena: non ultimo onde perseguire davvero obiettivi di “semplificazione” della tutela ed impedire che il lavoratore si trovi costretto a proporre due (o più) domande separate, sebbene fondate sugli “stessi fatti costitutivi”, in altrettanti giudizi. Ovviamente, in seno all’opposizione, le due cause dovrebbero essere trattate con il rito speciale, che prevarrà su quello ordinario (sebbene speciale) del lavoro, atteso che, ex art. 40, co. 4, c.p.c., il valore della controversia (super)speciale sarà per regola superiore rispetto all’altra (essendo tuttora marcata la diversa consistenza delle indennità riconosciute dall’art. 18 Statuto rispetto a quelle di cui alla L. n. 108/1990).

3. L’ambito di applicazione del nuovo rito ratione temporis.

Come già premesso, il legislatore del 2010 ha lasciato fermo il termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, da sempre fissato in 60 giorni (art. 6, co. 1, L. n.

604/1966) dalla comunicazione in forma scritta del licenziamento o dei motivi, ove non contestuale

23. Il successivo termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale, o delle equipollenti comunicazioni alla controparte della richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione o di arbitrato, era stato fissato in 270 giorni24. In questa disposizione vi è una certa coerenza – nell’ottica della flessibilità – nell’assicurare al datore di lavoro, che per qualsiasi motivo abbia allontanato il lavoratore, di non vedersi invocare contro, anche dopo anni (fino a cinque, prima della riforma), la tutela in forma specifica, e a non essere costretto a risarcire il lavoratore per attività non prestata anche per lungo periodo.

Il legislatore del 2012 ha lasciato invariato il termine per l’impugnazione stragiudiziale25, mentre ha ridotto a 180 giorni quello per la proposizione del ricorso introduttivo, sia all’interno del rito speciale di impugnazione del licenziamento, per i casi riconducibili all’art. 18 Statuto (art. 1, co. 46 ss.); sia per i casi di tutela “puramente” obbligatoria nelle piccole imprese, ancora assoggettati al rito “ordinario” del lavoro26.

Il termine di 180 giorni decorre dallo specifico momento dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento27 e non già dall’ultimo giorno utile in cui questo poteva essere impugnato, né

23 L’impugnazione del licenziamento è tempestiva se la spedizione della lettera raccomandata avviene nel termine di decadenza: Cass., sez. un., 14 aprile 2010, n. 8830, in Riv. it. dir. lav. 2010, II, 919, con nota di D. Buoncristiani.

24 Il termine è di soli 60 giorni, che decorrono dal rifiuto o dal mancato accordo, qualora la conciliazione o l'arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento (art. 32, co. 1, ult. alinea, del Collegato). Per una specifica disamina del dies a quo in tutti i casi di conciliazione e arbitrato previsti dalla legge, si veda G.F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, in La nuova giustizia del lavoro, a cura di D. Dalfino, Bari 2012, 423 ss., in particolare, 426 ss.

25 Per i casi in cui si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto, il termine di decadenza è invece raddoppiato (centoventi giorni), ex art. 1, co. 11. Tale termine decorrerebbe dalla cessazione del medesimo contratto, scrive il legislatore. Tuttavia si sa che il contratto non cessa, al più cessa il rapporto (o gli effetti del contratto, ove il termine apposto non sia nullo). Sarebbe stato più opportuno perciò far riferimento al momento in cui il termine stabilito nel contratto sia scaduto.

26 Resta fermo il termine di 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo conciliativo o arbitrato. Cfr. nota 24.

27 In tal senso G. Ianniruberto, Le regole per l’impugnazione nel cd. “collegato lavoro”, in Mass. Giur. lav. 2010, 888.

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tantomeno dal giorno in cui il licenziamento è stato intimato. Sebbene questa ricostruzione privilegi il lavoratore che impugni all’ultimo istante, essa viene controbilanciata dalla considerazione che i 180 giorni effettivi intercorrenti tra l’impugnazione del licenziamento e la domanda giudiziale possono essere utilizzati per eventuali trattative informali tra le parti. Del resto, come si è rammentato, nulla impedisce al datore di lavoro che veda impugnato il licenziamento di proporre un’azione di accertamento negativo, così da chiedere immediatamente la verifica della legittimità o della validità del recesso.

In considerazione della recettizietà dell’atto d’impugnazione del licenziamento28, il termine per adire il giudice non può che decorrere dal momento in cui il datore di lavoro riceva l’atto e non da quello in cui è stato inviato29. Simile lettura ben si compenetra anche con la ratio della norma, che, come detto, intende tutelare il datore da richieste ripristinatorie del rapporto di lavoro troppo dilatate nel tempo. Al momento della ricezione il datore sarà edotto sul termine entro il quale può aspettarsi un’eventuale domanda giudiziale da parte del lavoratore.

Resta fermo che la peculiare natura dell’atto introduttivo del giudizio, che in caso di ricorso produce gli effetti processuali dal momento del deposito (cfr. anche l’art. 39, co. 3, c.p.c., quale novellato nel 2009), ha fatto determinare il legislatore a considerare quest’ultimo come dies ad quem (art. 6 L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 32, co. 1, del Collegato)30.

Per effetto della nuova disposizione che ulteriormente modifica l’art. 6 L. n. 604/1966, il termine di 180 giorni per adire il giudice si applica ai licenziamenti intimati dopo la data di entrata in vigore

28 Che non trova smentita nella regola pretoriamente acquisita (cfr. supra nota 23) per cui è sufficiente che il lavoratore, nel termine, invii l’impugnativa stragiudiziale (ovvero direttamente depositi il ricorso introduttivo).

29 In tal senso, invece, G. F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, cit., 426.

30 Ai fini della salvezza della decadenza può essere senz’altro sufficiente il deposito di un ricorso cautelare, in alternativa ad un ricorso ordinario ex art. 414 c.p.c.: in tal senso paiono indirizzare univocamente i principi accolti dalla giurisprudenza in materia di momento individuatore della litispendenza, in caso di successione tra procedimento cautelare e tempestivo giudizio di merito (cfr. Cass., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12895: «Nel caso di domanda cautelare accolta (e confermata in sede di reclamo), seguita da rituale instaurazione del giudizio di merito nel termine fissato ai sensi dell'art. 669 octies c.p.c., ai fini della individuazione del giudice preventivamente adito deve necessariamente tenersi conto della data di instaurazione del procedimento cautelare, atteso l'inequivocabile collegamento che la norma impone tra ordinanza di accoglimento e inizio della causa di merito»; nonché Cass., sez. I, 24 luglio 2007, n. 16328, in Riv. dir. proc. 2008, 849, con nota critica di U. Corea, L’esperimento del giudizio cautelare modifica la disciplina della competenza per il giudizio di merito (e cancella l’art. 39, ult. co., c.p.c.): una inaccettabile conclusione della Corte Suprema; ed ancora Cass., sez. lav., 9 febbraio 2009, n. 3119, in Riv. dir. proc. 2010, 236, con nota critica di E.F. Ricci, Il provvedimento cautelare ante causam come lampada di Aladino, che ha necessariamente – seppur fantasiosamente – ribadito tale principio pur nel contesto dell’attenuazione della strumentalità necessaria dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c., purché il merito venga coltivato nel termine di cui all’art. 669 octies, co. 1, c.p.c.).

Allo stesso modo sarà sufficiente la proposizione del ricorso ex art. 1, co. 48, L. n. 92/2012 a un giudice che poi si dichiarerà incompetente. Certo la giurisprudenza collega anche alle domande che si concludano con una sentenza di rito tutti gli effetti della domanda validamente proposta, ivi compreso quello interruttivo-sospensivo della prescrizione (ex art. 2945 c.c.), e non necessariamente siffatto principio si estende all’effetto di impedimento della decadenza (cfr. per tutti C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. II. Le disposizioni generali, 2^ ed., Torino 2012, 126 ss.);

tuttavia – come noto – la declinatoria di competenza (ed oggi anche di giurisdizione) non colloca il processo su un binario morto, ma è premessa per la prosecuzione dell’identico rapporto processuale, in grazie della translatio iudicii ex art. 50 c.p.c. (e per la giurisdizione in grazia dell’art. 59 L. n. 69/2009, nonché dell’art. 9 del Codice del processo amministrativo), con pieno dispiegarsi dell’effetto impeditivo della decadenza, se il processo viene riassunto tempestivamente.

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della presente legge (art. 1, co. 39). Senz’altro alla nozione di ‘licenziamenti intimati’ – vista la onnicomprensività dei rapporti che seguono il rito (super)speciale del licenziamento – deve ricondursi in generale la “cessazione del rapporto”, o forse, ancora meglio, debbono ricondursi i

“rapporti nei quali il lavoratore ha cessato la sua attività lavorativa”.

All’indomani del varo del Collegato lavoro, la dottrina evidenziò come alla norma che aveva ridotto il termine per far valere le proprie ragioni davanti al giudice fosse da attribuire natura sostanziale e, come tale, il nuovo termine di decadenza dovesse applicarsi ai licenziamenti intimati e ai rapporti nei quali il lavoratore aveva cessato la sua attività lavorativa dopo l’entrata in vigore della legge 31. Questo ragionamento è così valido anche con riguardo al nuovo termine, ridotto da 270 a 180 giorni.

Quanto invece al nuovo rito speciale, esso è disciplinato senz’altro da disposizioni di tipo processuale. Il legislatore detta così opportunamente una precisa norma di diritto transitorio, il co.

67 dell’art. 132, secondo cui il nuovo rito si applica alle sole controversie instaurate successivamente all’entrata in vigore della legge che lo ha introdotto, né razionalmente questi avrebbe potuto determinarsi diversamente. Tutte le cause pendenti aventi ad oggetto la materia che, pro futuro, sarà trattata con il rito speciale, se instaurate prima dell’entrata in vigore della cd. legge Fornero, continueranno a seguire il rito (ormai divenuto “ordinario”) del lavoro fino alla loro naturale conclusione.

Come si diceva, nell’ambito del nuovo rito sono proponibili anche le domande “che siano fondate sugli identici fatti costitutivi” rispetto all’impugnativa del licenziamento (co. 48, secondo alinea): vi è quindi ricompreso, ad es., l’eventuale risarcimento del danno ulteriore, in tanto in quanto il lavoratore sia in grado di dimostrarne i presupposti. Per quanto riferito circa il regime di queste domande risarcitorie, il giudice investito della domanda oltre i termini non potrà dichiararne l’inammissibilità, ma – accertato il decorso inutile del termine di decadenza sostanziale – dovrà dichiararla infondata.

A questo punto si può tentare una semplificazione delle situazioni che si potranno presentare.

Coloro i quali avranno cessato l’attività lavorativa prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro (cioè prima del 24 novembre 2010), che abbiano regolarmente impugnato in via stragiudiziale il licenziamento, potranno adire il giudice entro cinque anni, ex art. 2948, n. 5, c.c.33,

31 Cfr. in tal senso, seppure apoditticamente, A Vallebona, L’estinzione del rapporto di lavoro, in Istituzioni di diritto del lavoro, vol. II, VII ed., Padova 2011, 521, e, con articolata argomentazione, G. F. Carbonara, L’impugnazione del licenziamento, cit., 423 ss.

32 Sulla opportunità delle norme transitorie spende innumerevoli argomentazioni B. Capponi, La legge processuale civile. Fonti interne e comunitarie, Torino 2001, 103 ss. e 117 ss., e ivi anche la distinzione tra diritto transitorio e diritto intertemporale.

33 La prescrizione breve si applica alle indennità spettanti per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, a prescindere dalla natura, retributiva o previdenziale, ovvero dal tipo di rapporto, subordinato o parasubordinato. Cass.,

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onde ottenere il risarcimento in forma specifica (la reintegrazione o la riassunzione) e per equivalente, ai sensi degli artt. 18 Statuto e 6 L. n. 604/1966 vecchia formulazione.

Coloro i quali abbiano cessato l’attività lavorativa in un momento che va dall’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro all’entrata in vigore dell’ultima riforma, per ottenere la medesima tutela dei primi, sono tenuti ad adire il giudice entro 270 giorni dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento.

Infine, i lavoratori che abbiano cessato la loro attività dopo l’entrata in vigore della L. n.

92/2012, al fine di ottenere la tutela in forma specifica e/o per equivalente ai sensi dei riformati artt.

18 Statuto e 6 L. n. 604/1966, dopo aver impugnato regolarmente il licenziamento con l’atto recettizio dovranno adire il giudice del lavoro nel termine di 180 giorni.

Le tre situazioni prospettate conviveranno per almeno dieci mesi dalla vigenza della cd. legge Fornero, mentre la prima e la terza continueranno a coesistere almeno fino alla fine del 2014, quando saranno trascorsi cinque anni dall’ultimo licenziamento intimato nel vigore del regime

“tradizionale” prima delle due riforme. Sarebbe stato forse opportuno che il legislatore avesse introdotto una norma per imporre anche a coloro che abbiano cessato la loro attività lavorativa prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro di attivare il processo entro un termine pur sempre breve, fissando un apposito dies a quo. Certo è che la tutela appresta ai lavoratori licenziati nelle tre fasi temporali descritte comunque continua a rimanere differenziata.

Anche dal punto di vista oggettivo vanno fatte delle distinzioni. Come già detto, al lavoratore licenziato prima dell’entrata in vigore del Collegato lavoro si applicano l’art. 18 Statuto e l’art. 6 L.

n. 604/1966 prima della riforma. Nella stessa fase il lavoratore le cui prestazioni lavorative siano cessate per altre cause non abbisogna di alcuna impugnativa stragiudiziale e può far valere la sua domanda nel termine di prescrizione ordinario, ma dovrà provare il danno eventualmente subito, senza usufruire della predeterminazione ex lege. A partire dall’entrata in vigore del Collegato lavoro nessuna distinzione può essere fatta (tranne per ciò che vedremo tra breve) circa la quantità e le modalità di tutela tra i lavoratori che abbiano in qualsiasi modo cessato di svolgere la loro attività, su richiesta (espressa o no) del datore.

4. La disciplina processuale nel dettaglio. Il coordinamento con il rito del lavoro

a) La struttura necessitata del rito speciale a cognizione semplificata, che ne impone alle parti e al giudice l’utilizzo nelle situazioni prescritte, intelaia un rapporto tra questo e il rito del lavoro di

sez. lav., 12 giugno 2008, n. 15798, giustifica la presa di posizione in tal senso in ragione dell'esigenza di evitare le difficoltà probatorie derivanti dall'eccessivamente prolungata “sopravvivenza” dei diritti sorti nel momento della chiusura del rapporto.

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cui agli artt. 414 ss. c.p.c. che sembra doversi ricondurre ad una questione di rito34: nel senso che, ove il lavoratore depositi un ricorso per contestare la legittimità del licenziamento ex art. 18 Statuto invocando l’art. 414 c.p.c., il giudice, salvo a richiamare lo snello antiformalismo dell’art. 4 D.Lgs.

n. 150/2011 (la cui pertinenza potrebbe essere avallata dalla considerazione che si tratta pur sempre di una normativa processuale extra codicem), dovrebbe procedere alla messa in opera dei paludati meccanismi di cui agli artt. 426-427 c.p.c.

In entrambi i casi, la conversione del rito comporterebbe una dilazione – connessa ai tempi di fissazione di una nuova prima udienza – incompatibile con il connotato d’urgenza che il legislatore ha voluto imprimere alla tutela de qua, oltre che del tutto irrazionale se si considera la sostanziale identità dell’iter processuale scandito dal co. 48 rispetto a quanto prescritto dall’art. 415 c.p.c., salva una limitata compressione dei termini per la fissazione dell’udienza.

Se allora si tiene conto che la fase introduttiva tra il rito ordinario ed il rito speciale nella sostanza non si differenzia, sembra più congruo e spedito – nonché rispondente a finalità di economia e di semplificazione processuale – ipotizzare che il giudice si possa limitare ad una mera opera di riqualificazione della domanda e, nell’esercizio dello iura novit curia, disattendere l’eventuale etichetta di domanda “proposta ex art. 414 c.p.c.” e ricondurre il ricorso ratione materiae ai co. 47-48 L. n. 92/2012, procedendo de plano alla fissazione dell’udienza secondo le cadenze più incalzanti del rito speciale. Si tratterebbe del resto di un mero fenomeno di conversione formale dell’atto, di cui la giurisprudenza di Cassazione offre preclari e consolidati esempi35 ed al quale non potrà per regola certo fornire ostacolo la carenza di requisiti di contenuto-forma: attesa la ben maggiore ricchezza formale richiesta dall’art. 414 c.p.c. rispetto alle più scarne prescrizioni dell’art. 125 c.p.c., richiamato dal legislatore quale modello dell’atto introduttivo nel rito dei licenziamenti. Il giudice del lavoro dovrà poi semplicemente approcciare la fase istruttoria secondo le nuove disposizioni contenute nell’art. 1, co. 49, onde seguire poi il rito descritto nei commi

34 Si vedano invece gli artt. 702 bis ss. c.p.c. (il cui commento di P.P. Lanni leggasi in Codice di procedura civile commentato, diretto da C. Consolo, IV ed., Milano 2010, vol. III, 840 ss.; vedasi anche M. De Cristofaro, in La

“semplificazione” dei riti e le altre riforme processuali 2010-2011, diretto da C. Consolo, Milano 2012, sub art. 3, 29 ss.) che hanno introdotto il rito semplificato di cognizione come rito alternativo a quello di cognizione ordinaria e, quindi, facoltativo. In questo caso il giudice svolge un giudizio discrezionale di compatibilità del rito rispetto alla causa e, a fronte del risultato negativo, dispone la conversione nel rito ordinario (art. 702 ter, co. 2, c.p.c.).

35 Per tutte, espressione di un orientamento monolitico, Cass., 5 marzo 2009, n. 5391: «La sentenza pronunciata in grado di appello che abbia deciso in via esclusiva su una questione di competenza è impugnabile solo con il regolamento necessario di competenza previsto dall'art. 42 c.p.c., con la conseguente inammissibilità del ricorso ordinario per cassazione, il quale, tuttavia, può convertirsi nel suddetto regolamento, a condizione che risulti proposto nel rispetto del termine prescritto dall'art. 47, co. 2, c.p.c. ovvero in quello c.d. lungo di cui all'art. 327 c.p.c., in mancanza della comunicazione da parte della cancelleria della decisione sulla competenza»; ma v. anche Cass., 11 settembre 2007, n. 19039: «La conversione in regolamento necessario di competenza del ricorso ordinario per cassazione proposto contro la sentenza di primo grado che abbia statuito esclusivamente sulla competenza in ragione di territorio può operare se il ricorso abbia i requisiti formali e sostanziali di quello nel quale dovrebbe convertirsi, non risulti la volontà della parte di avvalersi invece del solo ricorso ordinario e sia rispettato il termine di cui all'art. 47, co.

2, c.p.c.»; e già Cass., 20 marzo 2006, n. 6105; Cass., 5 dicembre 2001, n. 15366.

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seguenti della Riforma Fornero.

Molto verosimilmente con minor frequenza si presenterà al giudice una domanda con il rito del licenziamento, che invece avrebbe dovuto essere proposta con il rito del lavoro; anche in questo caso la conversione formale potrà essere agevole se ci si immagina, com’è plausibile, che nonostante l’antiformalismo del richiamo all’art. 125 c.p.c. l’atto introduttivo del lavoratore finirà indefettibilmente con il rispettare tutti i requisiti dell’art. 414 c.p.c., ivi compresa la deduzione dei mezzi istruttori36: l’indispensabilità della cui immediata enucleazione non risulta certo attenuata a fronte della celerità strutturale che connota la prima fase del rito dei licenziamenti (da cui nasce, maieuticamente, un onere implicito di “dire tutto e di dirlo subito”).

b) Anche se si auspica che il giudice si avveda immediatamente dell’errore sul rito, può accadere che esso sia invece rilevato, in un momento successivo anche all’istruzione della causa. Senz’altro le più ampie garanzie del contraddittorio previste nel rito del lavoro non devono far temere nulla per le parti che abbiano portato le loro prove secondo lo schema di quest’ultimo. Ritenere che il giudice in tal caso sia tenuto ad emettere un’ordinanza, ai sensi del co. 49, ultima parte, e che essa sia opponibile ai sensi del co. 51 (seguendo lo schema dell’art. 28 Statuto), per ripetere (i.e. duplicare) un grado di giudizio già svolto a cognizione piena e completa, sembra del tutto sovrabbondante, prima che pernicioso. Pertanto il giudice ben potrà completare il giudizio con l’emissione della sentenza di merito, disponendo in essa il mutamento del rito. L’impugnazione potrà avvenire così ai sensi del co. 58, con (l’ibrido) reclamo, che tiene luogo dell’appello37.

Qualche problema maggiore si pone nel caso contrario, di utilizzo del rito speciale per una

“ordinaria” causa laburistica, stante la minore tutela del contraddittorio che garantisce il procedimento semplificato. In quest’ipotesi, laddove una delle parti sia incorsa in decadenze a causa dei termini ridotti previsti dalla procedura speciale (e non per il mero fatto che i termini non siano stati concessi38), essa dovrà essere rimessa nei termini (ex art. 153, co. 2, c.p.c.), cosicché il giudice

36 La preclusione implicita per l’attore, ricollegata al ricorso introduttivo, per parità di trattamento con il convenuto, è regola acquisita sin da C. Cost., 14 gennaio 1977, n. 13; da ult., per la giurisprudenza ordinaria, Cass., sez. lav., 2 ottobre 2009, n. 21124).

37 La struttura di questa impugnazione, così come quella prevista per il rito (ordinario) del lavoro, incontrerà qualche problema di coordinamento con il nuovo appello-filtro introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, in vigore in parte qua dall’11 settembre. Sul punto v. infra, sub c). Sul neo-introdotto “filtro” in appello si rinvia ai commenti “a caldo”

pubblicati in www.judicium.it, e soprattutto a M. De Cristofaro, Appello e Cassazione alla prova dell’ennesima

“riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male; R. Caponi, La riforma dell’appello civile dopo la svolta nelle commissioni parlamentari; e C. Consolo, Lusso o necessità nelle impugnazioni delle sentenze?

38 In ossequio al principio consolidato per cui la denuncia di vizi di attività del giudice, che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all'astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma richiede una specifica incidenza causale del vizio stesso. In altri termini, la deduzione di un vizio procedimentale e/o di una lesione del diritto di difesa o al contraddittorio non può mai essere denunciata come tale, ma richiede – a pena d’inammissibilità – l’indicazione concreta delle attività che sarebbero rimaste precluse alla parte che lamenta il vizio procedimentale (cfr.

Cass., 13 novembre 2009, n. 24047: «l’art. 360, n. 4, c.p.c., nel consentire la denuncia di vizi di attività del Giudice che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, non tutela l’interesse all'astratta regolarità dell’attività

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concederà un termine congruo allo svolgimento di queste attività fissando l’udienza ex art. 420 c.p.c.

c) Relativamente all’ammissibilità delle prove costituende assunte con rito semplificato39, in un’ottica di economia processuale (nonché in considerazione della coincidenza anche personale tra giudice dell’uno e dell’altro rito 40) e, prima di tutto, con riferimento all’art. 427, co. 2, c.p.c.41, bisognerà valutare volta per volta se la loro assunzione sia compatibile con lo schema generale del processo del lavoro, ovvero esorbitante, perché assunte in maniera sommaria. Il giudice invero, nel procedimento semplificato, procede agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d'ufficio (co. 49); tuttavia è evidente che siffatta valutazione d’indispensabilità sottenda e premetta l’ordinario vaglio d’ammissibilità42. Piuttosto il giudice di arrivo dovrà farsi carico delle prove richieste e non ammesse perché “non indispensabili” (ancorché ammissibili e rilevanti), ed altresì sarà tenuto a verificare se, in seno al rito speciale, le prove siano state assunte seguendo le formalità sufficienti a onorare la struttura del rito del lavoro.

Sul piano dei poteri istruttori “speciali” attribuiti al giudice del lavoro non si coglie invece alcuna differenza. Il co. 49, infatti, perimetra i poteri del giudice della fase urgente pur sempre entro l’alveo dell’art. 421 c.p.c.

5. (Segue): l’iter processuale scandito tra fase sommaria e giudizio d’opposizione in potenziali tre gradi.

giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza del denunciato error in procedendo. Qualora, pertanto, si deduca un siffatto errore non è sufficiente che si affermi che non è stata osservata una determinata regola processuale, atteso che la parte che proponga ricorso per Cassazione, deducendone la nullità per tale motivo, ha l'onere di dedurre lo specifico pregiudizio al diritto di difesa che sarebbe derivato dall'inosservanza del precetto di legge»; sì che, «ove il ricorrente non indichi lo specifico e concreto pregiudizio subito, l'addotto error in procedendo non acquista rilievo idoneo a determinare l'annullamento della sentenza impugnata»: Cass., 30 dicembre 2011, n. 30652; nel senso che, nell’ipotesi in cui il Giudice abbia riservato la causa in decisione senza invitare preventivamente le parti a precisare le conclusioni, il vizio conseguente non può comportare la cassazione della sentenza impugnata qualora il ricorrente non indichi in concreto le istanze, le modifiche o le deduzioni che si sarebbero volute effettuare ed il conseguente pregiudizio a lui derivato, v. anche Cass., 27 luglio 2007, n. 16630; Cass., 28 agosto 2002, n. 12594; Cass., 30 giugno 1997 n. 5837. Siffatto limite, evidentemente, condiziona anche ammissibilità e fondatezza dell’istanza di rimessione in termini.

39 I documenti in entrambi i riti vanno depositati unitamente al ricorso.

40 La norma, infatti, richiede solo giorni di udienza dedicati (art. 1, co. 65), ma non giudici all’uopo specificamente incaricati.

41 A questo proposito si ricordi anche che la giurisprudenza di legittimità ritiene che gli ampi poteri istruttori conferiti al giudice del lavoro gli consentano di utilizzare validamente le prove ritualmente acquisite agli atti, se assunte in un precedente giudizio tra le stesse parti e inerenti allo stesso contenzioso sostanziale. Cfr. in tal senso Cass., 19 novembre 1999, n. 12884.

42 Nonostante l’art. 421 c.p.c. attribuisca al giudice del lavoro il potere di ammettere anche i mezzi di prova che esorbitano i limiti stabiliti dal codice civile, gli interpreti ne circoscrivono la portata alla prova testimoniale (ponendo peraltro anche al suo interno degli sbarramenti, come riguardo al divieto di prova testimoniale sull’esistenza del contratto la cui forma scritta sia richiesta ad substantiam) ed escludendo la confessione e il giuramento. Per qualche riferimento, cfr. E. Vullo, sub art. 421, in Codice di procedura civile commentato, diretto da C. Consolo, cit., 1508 ss.

(16)

Come accennato, il nuovo modello processuale è costruito sulla falsariga del procedimento di repressione della condotta antisindacale di cui all’art. 28 Statuto. Si prevede il passaggio necessario di una prima fase sommaria, destinata a concludersi con un’ordinanza suscettibile di opposizione dinanzi al Tribunale del lavoro, tale da dare adito all’avvio di un ordinario processo di cognizione destinato a dipanarsi nei consueti tre gradi di giudizio: per vero venati da alcune peculiarità, la ratio della cui stessa esistenza è tutt’altro che comprensibile.

a) La fase sommaria (riservata, come si diceva, alle impugnative dei licenziamenti nelle ipotesi contemplate nell’art. 18 Statuto) si apre con un ricorso, che dev’essere munito dei requisiti di cui all’art. 125 c.p.c. e va proposto al Tribunale in funzione di giudice del lavoro secondo le ordinarie regole di competenza. Al deposito del ricorso tiene seguito l’ordinaria scansione delle attività volte al radicamento del contraddittorio: con la pronuncia di un decreto di fissazione d’udienza, che dovrà essere notificato al resistente a cura del ricorrente, anche a mezzo PEC. Di peculiare vi è una piccola limatura dei termini di notifica-costituzione-comparizione, rispetto a quanto accade nel rito del lavoro ordinario, ed un minor assillo del legislatore nello scandire sul piano temporale le attività prodromi che ai suddetti snodi. Nella prima prospettiva, infatti, al co. 48 si prevede che l’udienza di comparizione debba aver luogo entro 40 (e non già 60) giorni dal deposito del ricorso, che ricorso e decreto vadano notificati almeno 25 (e non 30) giorni prima dell’udienza, e che il resistente debba costituirsi entro un termine non inferiore a 5 (anziché a 10) giorni prima dell’udienza medesima43. Nella seconda prospettiva, infatti, “spariscono” sia il termine per il giudice per emettere il decreto di fissazione d’udienza (incombente che dovrà tuttavia essere espletato in modo quanto mai sollecito, per rispettare i tempi contingentati di notificazione del ricorso e di svolgimento dell’udienza), sia il termine per la notifica di ricorso e decreto decorrente dal deposito di detto decreto in cancelleria (co. 2 e 4 dell’art. 415 c.p.c.), trovando in ciò conferma che l’unico termine che il ricorrente deve rispettare è quello di 25 giorni prima dell’udienza, prescritto onde consentire al convenuto un adeguato spatium temporis per l’articolazione delle proprie difese44.

Per questa fase sommaria non si prevedono preclusioni: ciò ovviamente non osta a quell’onere di completezza che nasce dall’interno il procedimento, ed è connesso alla sommarietà della cognizione che in esso si svolge e che impedisce che all’udienza di comparizione (ed eventualmente a quella successiva, nei casi di istruttoria costituenda) le parti possano ragionevolmente ambire ad introdurre ampi nova di merito ed istruttori rispetto alle posizioni delineate negli atti introduttivi45.

43 Rimanendo così inalterato il termine a difesa per il resistente, di 20 giorni come nel rito del lavoro “ordinario” (anche se, qui, frutto di un 30 meno 10, anziché di un 25 meno 5 con nel rito speciale dei licenziamenti).

44 Cfr. già supra, nota 3.

45 Lo conferma del resto, a contrario, il fatto che la chiamata di terzi sia possibile, ancora e solo, nel giudizio di opposizione, mentre è esclusa nella fase sommaria: v. anche C. Consolo e D. Rizzardo, Vere o presunte novità, cit., 736, testo e nota 33.

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