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IN DIFESA DEL CHIRURGO PLASTICO

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Academic year: 2022

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IN DIFESA DEL CHIRURGO PLASTICO Dr. Luigi Mastroroberto*

Affrontiamo il caso che riguarda un intervento di chirurgia plastica e finalità estetica che, pur in assenza di errori tecnici del chirurgo, ha ugualmente portato ad un risultato sfavorevole.

Dovendo discutere se questo cattivo risultato della prestazione sanitaria sia da considerare un

“danno ingiusto”, in rapporto causale cioè con un comportamento antigiuridico del sanitario, mi sembra opportuno, prima di esaminare in maniera specifica il caso in questione, esprimere alcune considerazioni di carattere generale.

La prima osservazione che scaturisce dall’esperienza del medico-legale riguardante casi di responsabilità professionale del Chirurgo Plastico è che in questo ambito la mancanza di uniformità sul modo di intendere la colpa giuridicamente censurabile, che già di per sé caratterizza più in generale il concetto di Responsabilità Professionale Medica, è ancora maggiore.

A parte infatti il margine di incertezza che ancora sussiste nel definire i limiti dei tradizionali parametri di valutazione della colpa professionale medica (imperizia, imprudenza, negligenza ed inosservanza di leggi e regolamenti) e quelli che attendono la rilevanza causale degli stessi nel meccanismo di produzione del danno, per quanto riguarda questa specifica branca specialistica vi è un ulteriore aspetto che la distingue dalle altre e che tuttora è oggetto di discussione.

Fino a molti anni fa era diffusa la convinzione che la Chirurgia Plastica a finalità estetiche (non parliamo quindi della chirurgia plastica a scopo ricostruttivo) avesse un rilievo “sociale” diverso (ritenuto per lo più inferiore) rispetto agli altri interventi con scopo riabilitativo o curativo, giungendo da più parti addirittura ad affermare il principio che in tali casi fosse implicita giuridicamente non soltanto una obbligazione di mezzi, ma anche una obbligazione di risultato.

Ma cosa si intende esattamente per “obbligazione di mezzi” ed “obbligazione di risultati”?

I due concetti giuridici hanno origine in Germania nel secolo scorso, si “affinano” nella Francia di inizio secolo e vengono poi recepiti ed ulteriormente sviluppati nel nostro Paese.

In estrema sintesi la differenza fra un concetto d’opera che prevede esclusivamente una

“obbligazione di mezzi” e quello invece che completa anche una “obbligazione di risultati” sta nel fatto che nel primo caso il debitore (ossia chi effettua la prestazione professionale) pone ad oggetto del suo impegno solo il corretto espletamento di una determinata attività senza garantire a quale risultato la stessa porterà; nel secondo caso invece il rapporto è determinato e condizionato dal conseguimento di un preciso risultato, della cui mancata realizzazione il debitore, salvo alcune ipotesi di caso fortuito, risponde sempre.

Per quanto riguarda l’esercizio della professione medica, Dottrina e Giurisprudenza sono concordi nell’affermare che la “obbligazione” nei confronti del paziente debba essere solo di “mezzi” laddove evidentemente il medico è obbligato ad effettuare correttamente le sue prestazioni diagnostiche e terapeutiche, ma non garantisce la guarigione (anche perché questa, evidentemente, non dipende esclusivamente dalla sua condotta).

Agli interventi ad esclusiva finalità estetica è stato invece attribuito un carattere quasi

“voluttuario”, ed in funzione di ciò non pochi Autori hanno sottolineato (ed alcuni continuano a farlo ancora oggi) l’esistenza, nell’ambito del rapporto fra paziente e chirurgo in caso di intervento a finalità estetiche, di una sostanziale “obbligazione di risultati”, nel senso cioè che il professionista deve in qualche modo garantire che l’intervento porti al “risultato”.

Ma è su questo termine “risultato” che, credo, sia necessario soffermare in modo particolare l’attenzione, atteso che proprio su di esso si è, a mio avviso, ingenerata una certa confusione che, troppo spesso, porta, anche a far fronte di fattispecie del tutto similari (mi riferisco ovviamente a casi

* Medico Legale, Consulente Centrale Unipol, Bologna

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ed. Acomep, 1998

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di vertenze giudiziarie in cui è implicato un Chirurgo Plastico) a conclusioni diametralmente opposte, a seconda del modo di intendere, vuoi del Magistrato, vuoi del CTU, questa particolare circostanza giuridica.

Quando dunque ed in che misura è ravvisabile un comportamento antigiuridico del Chirurgo Plastico nel caso in cui, pur non essendo individuabili errori tecnici veri e propri, viene messa in discussione la “bontà” del risultato finale? E’ solo quando, come nel caso in esame, si verifica una complicanza che inficia grossolanamente l’esito o anche se l’addome, il seno, il naso sottoposti a trattamento assumono alla fine una “forma” diversa da quella che il paziente o la paziente si attendevano? In che modo dunque e secondo quali parametri va stabilito se il risultato è “congruo”?

La Dottrina, al riguardo, è oggi in piena evoluzione e non ha ancora raggiunto un orientamento univoco.

Contrariamente infatti alla schiera dei sostenitori dell’esistenza nella chirurgia estetica di una effettiva obbligazione del risultato, diversi altri Autori sostengono invece che in ogni attività medica, compressa quindi anche la Chirurgia Plastica a scopo estetico, il vincolo contrattuale debba riguardare sempre esclusivamente l’impegno dei mezzi, quanto, in ogni caso di prestazione medica, va sempre tenuto conto che essa è caratterizzata da un lato da una finalità comunque terapeutica e dall’altro dalla aleatorietà che sempre permea l’esito di un intervento chirurgico.

Accanto a queste due tesi, se n’è affiancata una terza, che si basa su questo convincimento (Lomi, 1993):

“Se il soggetto che si rivolge al chirurgo estetico fosse un “cliente”, cioè un soggetto su cui effettuare una mera operazione di natura strettamente tecnica priva di finalità terapeutiche, l’atto del chirurgo potrebbe essere definito medico soltanto per l’obbligo dell’operatore di essere fornito della laurea in Medicina; avendo poi affermato che si tratta di un atto operativo di natura certamente più complessa e globale che interviene a modificare una parte somatica di un essere umano onde agire sulla psiche attraverso l’ottenuto miglior rapporto con il corpo, sosteniamo certamente che il rapporto tra il chirurgo estetico ed il soggetto che a lui si rivolge rientri a buon diritto nell’ambito del rapporto medico-paziente”

Ecco dunque che, connotando l’intervento del chirurgo plastico a scopo estetico comunque come un vero atto medico in quanto si individua la componente terapeutica nel tentativo di migliorare il rapporto che ha il paziente con il proprio corpo, effettivamente allora anche questo tipo di prestazione chirurgica è equiparata, in senso giuridico, alle altre attività mediche e comporterebbe, ai fini giuridici soltanto una “obbligazione di mezzi” e non anche di risultato.

Ma questo evidentemente non può e non deve rimanere un puro esercizio dialettico, essendo necessario, affinché un intervento di chirurgia estetica possa realmente essere considerato un atto medico a finalità terapeutiche, che esso parta da presupposti formali e sostanziali ineludibili.

Se partiamo infatti dal presupposto che un determinato difetto fisico viene vissuto come tale solo da alcuni soggetti e non da altri, appare evidente la necessità di verificare attentamente se e fino a che punto la correzione di quel difetto possa alla fine portare ad un “miglioramento” del disagio esistenziale del paziente.

Non a caso, citando di nuovo il Lomi ed ancora Robertson e Keavy (1990), si ritiene che uno studio preliminare della psicologia del paziente e delle motivazioni che lo hanno introdotto a ritenere necessario l’intervento, deve portare anche ad escludere le opportunità dell’intervento stesso laddove emerga chiaro che il difetto fisico che il paziente vuole eliminare o correggere è solo un “pretesto”

per mascherare altri motivi di malessere esistenziale. Sono questi peraltro, secondo i “defensive legal medical commandaments”, i casi in cui il paziente, anche a fronte di un esito tecnicamente ineccepibile dell’intervento, non si sentirà comunque mai “soddisfatto” (nel senso che non vedrà risolto il suo malessere), e con alta probabilità intenterà causa al chirurgo.

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ed. Acomep, 1998

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La vera “arte medica” dunque è quella di mettere il paziente nella condizione di prendere una decisione ponderata, in considerazione delle condizioni concrete in cui esso si trova, tenuto conto della sentenza della Cassazione, 8/8/8, n. 4349 e quella della Corte d ‘Appello di Milano del 30/4/91.

E se quindi la chirurgia plastica ha finalità estetiche deve comunque mantenere, rispetto alle altre branche della Medicina, una sua diversa caratterizzazione sotto il profilo dell’inquadramento della colpa, questa in particolare connotazione si articola tutta non già, come detto sopra, in un più o meno tassativo obbligo di risultato, bensì sul requisito, a questo punto fondamentale, che deve avere il rapporto pre-chirurgico, ossia quel rapporto medico approfondito che poi sfocia, come atto finale, nella informazione e nel consenso, non solo informato, ma davvero “consapevole” del paziente.

In questa complessa e discussa (nell’ambito della Dottrina medico-legale) interpretazione della problematica, a completamento di essa e forse anche come momento chiarificatore (sia pur per motivazioni del tutto pragmatiche), si inserisce una recente pronuncia della III Sezione Civile della Corte di Cassazione (la n. 10014 del novembre ’94) che così esprime :

“...nel contratto avente oggetto una prestazione di chirurgia plastica estetica, il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest’ultimo non come un dato assoluto, ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie.

Incombe sul paziente, che agisca in giudizio per ottenere l’affermazione di responsabilità del chirurgo estetico, l’onere delle prove del mancato assolvimento del dovere di informazione da parte del professionista, ovvero che oggetto del contatto sia un determinato risultato...”

E dunque, tornando al caso di specie, benché sia condivisibile tutto quanto sostenuto dal Dr.

Galizio circa il fallimento dell’intervento con peggioramento dello stato anteriore e sul fatto che il consenso che è stato acquisito risulti, sul piano “formale”, del tutto generico ed aspecifico, dal momento che nella fattispecie il cattivo esito dell’intervento non è imputabile ad un errore del chirurgo per imprudenza, imperizia, o negligenza e risultando quindi assolto “l’obbligo di mezzi”, non ricorrono a mio parere gli estremi per individuare un comportamento antigiuridico al quale ricondurre causalmente un “danno ingiusto”.

E’ vero ripeto che il consenso acquisito dal sanitario è “formalmente” carente, ma è anche vero che comunque la sottoscrizione dello stesso da parte di una persona di cultura media non può certo considerarsi un atto “estorto”, soprattutto se si tiene conto che, vuoi anche solo genericamente ed aspecificatamente, la paziente ha comunque sottoscritto di essere stata informata degli eventuali rischi (con il che vi è la implicita evidenza che gli stessi in qualche modo le sono stati rappresentati).

E di sollevare “...l’operatore da ogni responsabilità che non sia ad imperizia, imprudenza o negligenza...”.

Premettendo quindi che nel caso di specie non esistono a mio avviso i presupposti per ritenere impegnata la responsabilità, mi sembra tuttavia utile formulare, per completezza ovvero in subordine, alcune considerazioni anche sulla valutazione del danno che andrebbe riconosciuto nel caso si ritenesse “colposo” il comportamento del chirurgo.

Intanto, poiché assunto ineludibile è quello di individuare e quantificare solo quel danno che si pone in rapporto causale con il presunto comportamento antigiuridico del sanitario, nel caso in esame, venendo individuata dal C.T. dell’Attrice una responsabilità per vizio di consenso e non per errore tecnico nella esecuzione dell’intervento, ne consegue che “il fatto ingiusto” consisterebbe nel non aver messo la paziente nella condizione di decidere, in maniera informata e consapevole, se affrontare o meno i “rischi” accidentali dell’intervento. Ciò evidentemente porta a concludere che, al massimo, se vi fosse stata una più esauriente informazione, la paziente avrebbe potuto decidere di non operarsi. Ed a fronte di ciò le considerazioni da proporre sono due:

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a) innanzitutto ricadiamo nella più totale aleatorietà nello stabilire, peraltro con rigoroso criterio ex ante e non con quello ex post, se davvero la paziente, messa a conoscenza (ammesso e non concesso che non lo sia stata) della possibilità che l’intervento poteva fallire in una certa percentuale di casi, avrebbe deciso di non sottoporvisi (e ciò evidentemente già di per sé, oltre quanto già detto, contribuisce a rendere dubbio l’impegno della responsabilità);

b) in secondo luogo appare allora evidente che la valutazione del danno estetico determinato alla attuale condizione non può e non deve essere rapportato alla condizione che si sarebbe raggiunta a fronte di un esito chirurgico ben riuscito, bensì unicamente al maggior pregiudizio che le cicatrici hanno arrecato allo stato anteriore della paziente, a quella condizione cioè di disestetismo che vi era prima dell’intervento e che aveva indotto la paziente a richiedere la prestazione.

Ed anche per quanto attiene il danno psichico, valgono le stesse considerazioni: quanto meno una parte di esso deve essere ritenuta preesistente al fatto in discussione per due ordini di motivi: intanto perché nell’analisi causale è evidente la sproporzione fra la noxa ipotizzata (ossia il disestetismo arrecato dalle cicatrici) ed il quadro patologico che è stato rilevato; in secondo luogo appare evidente che l’analisi (ancorché solo induttiva) delle motivazioni che possono avere portato la paziente a richiedere la prestazione chirurgica, tenuto conto anche del tipo di problema che presentava e della sua età, ci porta a supporre ragionevolmente che già in precedenza era presente un forte disagio psichico e relazionale per quella stessa mancata accettazione di sé che oggi viene ritenuta secondaria alle cicatrici.

Ritenendo quindi ingiustificabile ed esuberante il valore di danno biologico proposto dal C.T.

dell’Attrice (più congruo sarebbe a mio avviso un tasso pari all’8-10%), da ultimo, relativamente alla richiesta di rimborso per le spese di un nuovo intervento atto a correggere la condizione attuale, nel condividere quanto detto dal Dr. Galizio (ossia che corrispondere tali spese deve necessariamente portare ad una riduzione del valore dell’attuale danno biologico essendo scopo del futuro intervento proprio quello di ridurlo), vorrei solo far notare la improponibilità di una siffatta richiesta nella fattispecie, dal momento che questo ulteriore atto chirurgico sarebbe gravato da una serie di rischi addirittura superiori al primo ed appare irragionevole ritenere che la paziente vi si sottoporrebbe, se a motivo della colpa che oggi viene ipotizzata sta il fatto di non averla messa nelle condizioni di non sottoporsi al primo, proprio per i possibili rischi.

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