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DEONTOLOGIA E RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE

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Academic year: 2022

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DEONTOLOGIA E RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE

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Prof. Cosimo Loré*

Il dovere di informare il paziente costituisce per il medico fondamento essenziale e ragione esistenziale ancor prima (e più) che l’obbligo a bene operare (e attestare): in effetti, senza conoscere il proprio stato di malattia (e l’ipotetica terapia) l’avente diritto non potrebbe acconsentire (o meno) alla disposizione del corpo da parte del professionista con cui sta instaurando un rapporto fiduciario (e operativo), che l’eccezionale deroga (e delega) rende giuridicamente possibile.

Tale dovere si inquadra all’interno del rapporto medico/paziente (art. 32 della Costituzione se il paziente può disporre di un valido consenso, art. 54 del c.p. in caso contrario, trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge 180 del 1978 e degli artt.

33-34 della Legge 833 del 1978, se lo stato del paziente mette in pericolo la salute pubblica), che si traduce nei seguenti “atti”: anamnesi, visita, diagnosi, informazione, consenso, terapia, attestazione degli atti clinici compiuti da consegnare agli interessati (certificato, ricetta), attestazione dei fatti esaminati criticamente da inoltrare alle autorità (denuncia, referto). Altro dovere per tutti i professionisti della sanità (“categoria” cui esplicitamente si rivolge l’art. 365 del c.p.) è quello, come si è già detto, di bene operare.

**L’articolo è tratto dal volume di C. Loré, Medicina Diritto Comunicazione, Milano, Giuffrè, 2005.

* Titolare Cattedra Medicina Legale − Università di Siena, Responsabile Gruppo di Ricerca Scienze Medico-Legali, www.scienzemedicolegali.it

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Si deve, in tema di disponibilità del corpo, con la più autorevole dottrina ricordare che «parzialmente disponibile è l’integrità personale» dovendosi distinguere tra:

1) atti dispositivi che possono essere, al più, svantaggiosi per la propria salute, i quali, ai sensi dell’art. 5 del c.c., non debbono cagionare una diminuzione permanente dell’integrità fisica;

2) atti dispositivi offensivi anche di interessi estranei, i quali sono vietati quando siano contrari alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume, anche se non menomano permanentemente l’integrità fisica […];

3) atti dispositivi vantaggiosi per la salute del soggetto, quale la sottoposizione a trattamento terapeutico o terapeutico-sperimentale […];

4) atti dispositivi a esclusivo vantaggio di interessi estranei, quali il dono di parti del proprio corpo a scopo di trapianto o la sottoposizione a sperimentazione puramente scientifica […] onde è ammissibile il prelievo di tessuti e di sangue, ma non di organo doppio […] con l’unica eccezione per il rene prevista dalla Legge 458 del 26 giugno 1967, che si pone al limite della tollerabilità costituzionale (art. 32 Cost.) […]» (1).

In termini espliciti si esprime in dottrina chi sostiene la rilevanza giuridica in ambito sanitario di informazione e consenso (informed consent) quali elementi necessari e sufficienti a rendere possibile l’atto medico, inderogabili presupposti di ogni attività terapeutica sì da potersi «confermare che la giustificazione del trattamento medico di una persona capace e cosciente può essere trovata solo nel consenso dell’avente diritto, salvo il caso in cui una prescrizione di legge non imponga al medico un determinato intervento che, di conseguenza, non ha bisogno di essere altrimenti giustificato», fattispecie sintetizzata come «il consenso del paziente quale causa di giustificazione del fatto» (2).

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Se si considerano i contenuti e le modalità (“cosa” e “come”) della “notificazione della diagnosi”, bisogna riflettere sul fatto che tale comunicazione di notizie inerisce a natura, entità, gravità di un quadro morboso, e innanzi tutto la decisione sul “se”

informare il paziente (che in dottrina ha visto anche contrapporsi teorie e opinioni diverse).

Si deve preliminarmente definire l’identità (sub specie iuris) del responsabile dell’informazione oltre che del destinatario della stessa, anche al fine di chiarire il “chi”

tra coloro che comunque compaiono nella vicenda di una persona nella malattia (meglio che di una malattia della persona), là dove spesso non è per tutti chiaro “a chi”

si deve dare l’informazione.

Sul “chi” debba essere tenuto all’informazione non possono esistere dubbi, sia alla luce del dispositivo penalistico contemplante l’obbligo di referto per «chiunque avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera […]» (to cure and to care), sia in base a quanto consegue (e si configura anche attraverso precisi limiti) alla cosiddetta “abilitazione” all’esercizio della professione sanitaria: medici chirurghi, medici veterinari, odontoiatri, farmacisti e figure professionali previste dai vari diplomi universitari dell’area sanitaria, quali dietista, fisioterapista, igienista dentale, infermiere, logopedista, ortottista-assistente in oftalmologia, ostetrico, podologo, tecnico audiometrista, tecnico audioprotesista, tecnico sanitario di laboratorio biomedico, tecnico di neurofisiopatologia, tecnico ortopedico, tecnico sanitario di radiologia medica; tali figure, ai sensi del comma 1.1 dell’art. 1 del Decreto Ministeriale 24 luglio 1996, risultano “abilitate” al momento del superamento dell’«esame finale (esame di stato con valore abilitante)» e del «rilascio del relativo titolo professionale» (3).

“A chi” si debba comunicare risulta univocamente desumibile da motivazione di rispetto della persona umana e di disponibilità del bene tutelato oltre che di chiarezza della disciplina penale, come ben si attesta in dottrina: “[…] Non solo il rispetto formale dovuto al disposto dell’art. 32 della Costituzione, ma anche ed essenzialmente il

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principio che lo ha ispirato, e cioè il rispetto dovuto alla persona umana in sé, e non da ultimo il principio di certezza del diritto penale, impongono che solo il paziente possa validamente disporre con il suo consenso del bene giuridico, che nell’ipotesi del trattamento medico inerisce alla sua libertà personale, alla sua integrità fisica, a volte anche alla sua stessa vita […]» (4).

Emerge pertanto con chiarezza la necessità, prima che l’opportunità, di un atto di partecipazione della “visione” del quadro morboso da parte dell’operatore (fondato sulle sue conoscenze scientifiche e capacità tecniche) al soggetto malato (cui va espresso e trasmesso tenendo conto delle sue doti culturali e caratteriali), dovuta conclusione del colloquio anamnestico e della visita clinica e doverosa premessa di ogni successivo atto (“astensione” da ogni azione resa possibile dalla libertà caratteristica della professione, “terapia”, se permessa dal paziente per la potestà conferita al medico,

“prosecuzione” del dialogo con altri soggetti quali i genitori o coloro che hanno la patria potestà o la rappresentanza legale o la tutela, “denuncia” all’autorità sanitaria di fattispecie di pericolo per la salute pubblica, “referto” all’autorità giudiziaria di ipotesi di delitto per il quale si procede di ufficio).

Tale “atto” dovrebbe essere ispirato quindi da una logica elementare, da un rispetto naturale che ogni essere umano nutre per definizione nei confronti di un suo simile, a maggior ragione se sofferente, incapace o minore e con requisiti di “sacralità”

là dove l’intervento non sia derivato da generica solidarietà, da occasionale soccorso, bensì dalle finalità professionali, dalla stessa identità del soggetto operante che nel caso del medico e degli altri professionisti sanitari si sostanzia e si esalta nella eccezionale potestà della cura. Proprio davanti a pazienti minori e incapaci, rappresentati o tutelati da terzi o divenuti loro malgrado pericolosi per l’altrui vita e salute, prima ancora che

“consapevole”, è “naturale” l’atto di rispettosa sincerità piuttosto che di pietosa bugia compiuto da colui cui è affidato l’unico prezioso compito di “assistere” e “curare”.

In questo senso è agevole definire i limiti dell’informazione anche in caso di malattia a esito infausto (sul piano statistico) e di paziente che rifiuti espressamente di

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essere documentato (in genere sul trattamento terapeutico) o, come di frequente accade, nell’embricarsi delle due evenienze prospettate: di fronte a malattia la cui prognosi risulta certamente infausta (neoplasia metastatizzata inoperabile), pur dopo discordanti pareri formulati in passato dagli studiosi del diritto e della medicina, la più moderna e consolidata dottrina considera inderogabile l’obbligo di informare, sia per l’indisponibilità del bene da parte dell’esercente la professione sanitaria sia per il diritto del titolare a ridefinire la propria vita, oltre che i correlati rapporti con i terzi. Per la chiara difesa di una concezione che si sarebbe poi definitivamente affermata, oltre che per la costante e ormai cinquantennale opera di ricerca e divulgazione, spicca su tutti l’Introna (5).

Sempre con Riz si può ritenere che «non sembra fondato statuire una regola (rilevanza della conoscenza della diagnosi per la validità del consenso) e creare un’eccezione per i casi pietosi o per quelli gravi in cui la giustificazione andrebbe ricercata nel consenso presunto. Si tenga conto che quando si sostiene, come regola, la rilevanza dell’informazione sulla diagnosi, si ammette che il motivo del trattamento, cioè la malattia che il paziente immagina di avere, è un elemento essenziale per la validità del consenso. C’è da chiedersi allora come si possa far ricorso al consenso presunto contrario al consenso effettivamente prestato dal paziente» (6).

Eppure vi era chi sosteneva: «Il medico, secondo chi scrive, ha il dovere di comportarsi, caso per caso, innanzi tutto in modo da non allarmare il paziente e quindi di non aggravare le sue condizioni, e poi, con molto tatto, consigliarlo alla terapia più idonea, ricorrendo, se necessario, per ottenere il consenso a questa, alle pietose bugie sulla vera diagnosi. Ad esse si aggrappano tanto volentieri questi malati, anche se persone colte e intelligenti. L’esperienza ci ha insegnato che persino insigni maestri della medicina – in quelle condizioni – si sono lasciati docilmente ingannare. L’illusione è l’ultima difesa umana» (7).

Per tutti Barni: «Il paziente deve peraltro al medico tale confidenza non in base a una concezione paternalista o meramente contrattualistica del rapporto, ma solo nel

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senso stesso di una cooperazione all’impresa curativa, che passa attraverso una fase conoscitiva, essenziale per entrambi i protagonisti di quella antica e perenne vicenda umana che tende alla cosiddetta alleanza terapeutica» (8).

Sulla privacy si esprime Rodotà guardando alla rivoluzione digitale senza temere la “modernità”: «siamo al di là dello stesso diritto dell’autodeterminazione informativa, dal momento che proprio la possibilità continua e penetrante di mantenere il controllo delle proprie informazioni identifica una situazione caratterizzata da un diritto a una tutela globale della persona. Appare così chiaro che la Legge 675 del 1996 non si limita a dare pieno riconoscimento nell’ordinamento italiano a un diritto alla riservatezza già delineato da una cospicua elaborazione scientifica e giurisprudenziale, e da alcuni significativi interventi legislativi. Contribuisce a definire un nuovo quadro costituzionale:

il riferimento alla riservatezza è preceduto da quello alla dignità, in una prospettiva nella quale compare con forza il problema dell’eguaglianza. La specifica disciplina dei dati sensibili, infatti, rivela con chiarezza la finalità di assicurare tutela alla dignità, come quando mette con particolare intensità l’accento sulle informazioni riguardanti la salute e la vita sessuale […]. Le diverse definizioni della privacy – dal diritto ad essere lasciato solo fino al diritto di controllare l’uso che altri faccia delle informazioni che mi riguardano – tendono così ad essere ricomprese in formule più ampie, come quella che ci parla di un diritto a costruire liberamente la propria sfera privata, al riparo da ogni forma di controllo pubblico e di stigmatizzazioni sociali, in un contesto caratterizzato dalla libertà delle scelte esistenziali» (9).

Diritto di autodeterminarsi, secondo Rescigno, che si afferma proprio di fronte all’evento più drammatico, la fine dell’esistenza umana, momento da “vivere” in libertà, dignità e, se richiesto, in riservatezza e solitudine: «Appartiene al tema dell’amministrazione della morte la decisione circa la vita dell’uno o dell’altro soggetto;

ma anche il profilo dell’autodeterminazione, al quale generalmente viene riportato il diritto di morire, pur legato a un valore dell’ordinamento qual è l’autonomia e la libertà del volere individuale, rientra nel generale discorso della morte amministrata» (10).

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Una preziosa definizione dei “limiti” con speciale riguardo alla “frontiera” cui la medicina ufficiale si può spingere ci è fornita dal Palmieri che ben distingue tra “diritto alla vita” e “diritto alla speranza”, tra “presupposti etici” di quest’ultimo e oneri imposti dalle regole a tutela del primo, che non possono estendersi ai casi spes sine spe (11).

BIBLIOGRAFIA

(1) Mantovani F., Diritto Penale, Padova, Cedam, 1979.

(2) Riz R., Il consenso dell’avente diritto, Padova, Cedam, 1979.

(3) Elenco tratto dalla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 14 ottobre 1996 (Serie generale) contenente il Decreto Ministeriale 24 luglio 1996 “Approvazione della tabella XVIII-ter recante gli ordinamenti didattici universitari dei corsi di diploma universitari dei corsi di diploma universitario dell’area sanitaria, in adeguamento dell’art. 9 della Legge 341 del 19 novembre 1990”.

(4) Riz R., Il consenso cit. alla (2).

(5) Introna F., La responsabilità professionale nell’esercizio delle arti sanitarie, Padova, Cedam, 1955; Introna F., Relazione al XXII Congresso Nazionale della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Milano, Giuffré, 1973;

Santosuosso A., Il consenso informato: questioni di principio e regole specifiche, Milano, Raffaello Cortina, 1996; Santosuosso A., Tamburini M., Dire la verità al paziente. Alcuni motivi psicologici e giuridici, «Federazione Medica», 1990, 7, 503;

Barni M., Loré C., Le droit à la mort et l’euthanasie. Manuel sur Le Médecin et les Droits de l’Homme, Conseil de l’Europe, Division de l’Enseignement Superieur et de la Recherche, Strasbourg, 1982; Comporti M., Loré C., Decisione Medica e diritti del malato: l’informazione e il consenso, «Federazione Medica», 1984, 6, 606.

(6) Riz R., Il consenso cit. alla (2).

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(7) Guzzon C., Consenso e stato di necessità nell’atto medico, «Rivista Penale», 1967, p. 671 e ss.

(8) Barni M., Medici e pazienti di fronte alle cure, in Medicina e diritto: prospettive e responsabilità della professione medica oggi, a cura di Mauro Barni e Amedeo Santosuosso, Milano, Giuffré, 1995.

(9) Rodotà S., Sapere anche poco è già cambiare: legge sulla privacy e tutela dell’identità personale, Milano, Giuffré, 1998.

(10) Rescigno P., Autodeterminazione e testamento di vita, Una norma giuridica per la bioetica, Bologna, Il Mulino, 1998.

(11) Palmieri L., Spes sine spe e diritti. Riflessioni sulla sperimentazione oncologica,

«Professione Pubblica e Medicina Pratica», 2, 1998, 6.

Riferimenti

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