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2.2. LE TEMPORALITÀ PLURALI DEL SERTÃO

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2.2. LE TEMPORALITÀ PLURALI DEL SERTÃO

Nel capitolo precedente ci siamo focalizzati sullo spazio del sertão. Abbiamo visto come parlare di questo spazio porti naturalmente a eccedere i confini della semplice descrizione di un territorio, poiché tutto il romanzo suggerisce di interpretare il sertão come qualcosa di più di un luogo fisico: un luogo mentale, appunto. Inoltre, abbiamo sperimentato come, nel parlare di questioni spaziali, sia impossibile tenere da parte la dimensione temporale. Descrivendo Currralinho come uno dei luoghi emblematici del sertão, infatti, siamo già venuti sfiorando la questione che sarà il focus di questo capitolo: la compresenza di temporalità differenti all’interno del sertão: in particolare quella ciclica e ricorsiva, che è più tipicamente sertaneja, e quella lineare e progressiva, connessa all’idea di ‘modernizzazione’.

Va ricordato, in questa sede, che nel momento in cui Guimarães Rosa scrive il suo romanzo, il Brasile sta attraversando la fase del cosiddetto

Nacional-desenvolvimentismo, la cui politica si può riassumere in due parole chiave:

‘democrazia’1

e ‘sviluppo’. Secondo Jucelino Kubitscheck (presidente della repubblica brasiliana tra il 1956 e il 1961), bisognava trasformare il Brasile in uno stato “moderno” e bisognava farlo subito. A tal fine, egli varò il Plano das metas2, il cui motto era il famoso “50 anos em 5”, e che progettava una serie massiccia di interventi volti a impiantare in Brasile un’economia liberista di stampo occidentale. Il piano prevedeva 31 mete, distribuite in 5 macrogruppi: Energia, Trasporti, Alimentazione, Industria di base, Educazione, e la meta-sintesi era la costruzione di Brasilia. Tramite un enorme incremento dei prestiti stranieri e una politica di liberalizzazione degli investimenti di capitali finanziari esteri, il Paese si dotò del denaro sufficiente alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali (Brasilia stessa, ma anche, per esempio, la monumentale Rodovia

Belém-Brasília). Inoltre, l’eliminazione delle imposte sulle importazioni di macchinari

industriali dette il via a un processo di industrializzazione forzata della regione

1 Per democrazia si intende ovviamente la democrazia liberale di stampo europeo. 2 La denominazione è particolarmente evocativa.

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Sud-Est, coinvolgendo principalmente le aree delle metropoli di São Paulo e Rio de Janeiro.

È naturale che a subire più violentemente il contraccolpo delle politiche di Kubitschek fu quel Nord-Est essenzialmente rurale, destinato a trasformarsi in una riserva di materie prime e di mano d’opera a basso costo, a disposizione dei più ricchi stati del Sud, nonché a vedersi spopolato da migrazioni massicce verso i nuovi centri urbani industrializzati. Ciò avvenne con il concorso dei ricchi proprietari nordestini, di cui il governo cercava il favore, sottolineando i guadagni che questi avrebbero ottenuto trasformandosi nei fornitori ufficiali di materie prime per la grande industria. In questo modo si chiudeva la strada a qualsiasi possibilità di risoluzione reale dei problemi dell’area (che non poteva che passare da una politica di redistribuzione delle terre), rafforzando ulteriormente il predominio dei latifondi. Si produceva però un circolo vizioso: il Nord-Est, sempre più povero e arretrato, veniva a costituire uno dei maggiori ostacoli all’ampliamento del mercato interno, indispensabile per creare in Brasile una vera e propria società dei consumi3. Il che porterà, nel 1959, alla costituzione di una

Superintendência de Desenvolvimento do Nordeste (SUDENE); ma porterà prima

di tutto, all’inizio dei lavori per la costruzione di Brasilia (nel 1956), l’atto ufficiale con cui il Brasile del desenvolvimentismo lanciava la sua sfida al sertão, che doveva prepararsi a “essere messo in squadra”. In pratica, per entrare finalmente nelle “magnifiche sorti” della modernità, il Paese doveva essere “normalizzato”, eliminando tutti quegli aspetti che cozzavano con la concezione di uno sviluppo lineare, di un percorso trionfale e ineluttabile dalle tenebre dell’arretratezza ai lumi del progresso.

Questo è il contesto in cui Grande Sertão vede la luce, ma, come si accennava, esso è ambientato anni più indietro, ai tempi della fine delle República Velha (1930), o per meglio dire, ai tempi della fine della República Velha è ambientato il dialogo tra Riobaldo e l’uomo di città. Infatti, a causa della sua struttura a cornice, il romanzo risulta fin da subito temporalmente divaricato: la sua temporalità è

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doppia, poiché vi è un tempo dell’enunciazione (corrispondente alla fine della

República Velha) e un tempo dell’enunciato, situato circa all’inizio della storia

repubblicana del Brasile, ovvero in un periodo che corrisponde press’a poco ai tempi del coronelismo e della cosiddetta política dos governadores, su cui ci soffermeremo nel capitolo seguente.

Va detto che il romanzo è piuttosto avaro di informazioni storicamente rintracciabili, come se alla topografia incerta del sertão corrispondesse una sua collocazione ai margini della storia; dove ‘ai margini’ non significa fuori dalla storia, ma anzi al centro delle sue contraddizioni. Coordinate temporali precise sono l’invasione di Januaria e Carinhanha da parte del jagunço Manoel Tavares de Sá, detto Neco (1879) e la marcia della Coluna Prestes (1925-27)4. Entrambi gli avvenimenti sono nominati di sfuggita e non hanno rilievo maggiore della miriade di storie secondarie, aneddoti e leggende popolari di cui Riobaldo fa menzione nel suo racconto, come a dire che non vi è differenza sostanziale tra fatti storici e mitologie collettive5. Ad ogni modo, considerando queste due date come terminus

ante e post quem troviamo un arco di tempo abbastanza preciso, dentro cui si

situano i primi tentativi di modernizzazione e di adeguamento del Paese agli ideali positivisti importati dal nord Europa, nonché le relative resistenze, sempre represse nel sangue.

4 La Coluna Prestes fu un movimento di capitani e tenenti di estrazione media, che, tra il 1925 e il

1927, organizzò una marcia partita dal municipio di Santo Ângelo (Rio Grande do Sul) e che percorse 25 chilometri nell’interior del Brasile, fino alla frontiera boliviana. I marcianti denunciavano la povertà della maggioranza della popolazione e lo sfruttamento degli strati sociali più deboli da parte dei leader politici. Sotto il comando di Luís Carlos Prestes, da cui prese il nome, la Coluna affrontò più volte l’esercito ufficiale, forze poliziesche di vario ordine e truppe di

jagunços assoldate dal Governo con promesse ufficiali di amnistia.

5 Dell’attacco a Januaria e Carinhanha apprendiamo da Selorico Mendes, il quale si vanta di essere

stato, in quell’occasione, a tavola col Neco e di possedere ancora una lettera scritta di pugno di quest’ultimo (Grande sertão, cit., 153-154). Della Coluna Riobaldo racconta, en passant, per dire che «Guerras e batalhas? Isto é come jogo de baralhas, verte, reverte» (Ivi, p. 131).

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Il passaggio dalla monarchia alla repubblica, in Brasile, fu essenzialmente un’imposizione dall’alto, ad opera delle oligarchie militari, senza nessun apporto della stragrande maggioranza della popolazione, che viveva in condizioni di povertà ed era del tutto estranea all’ideologia liberale importata da oltre oceano. Il motto Ordem e progresso, che Deodoro Fonseca fece stampare a chiare lettere sulla nuova bandiera nazionale (nel 1889) era espressione di una forma mentis che non aveva niente a che vedere con la realtà sociale dei brasiliani, che perlopiù conobbero il progresso solo nel suo volto repressivo: quello delle vaccinazioni forzate, della demolizione dei casarões6 (come tappa dei progetti di

riqualificazione del tessuto urbano di Rio de Janeiro e del suo porto), degli espropri delle terre di migliaia di piccoli proprietari del Paraná e Santa Catarina7 in vista della costruzione della Estrada de Ferro São Paulo-Rio Grande, dello

sterminio dei Canudos. Su quest’ultimo è bene soffermarci un attimo dal momento che teatro dello scontro fu proprio il sertão bahiano e che la campagna contro i Canudos – raccontanta da Euclides da Cunha nel suo Os sertões (1902) – fu un atto simbolico fondamentale nella creazione di immaginario intorno alla necessità di “normalizzare” il Nord-Est.

Canudos era una cittadina del sertão di Bahia, in cui si era formata una comunità autonoma di circa 25000 persone. Questa era organizzata intorno alla

6 Casermoni del XIX secolo, in cui centinaia di persone (principalmente ex schiavi inurbati)

vivevano in condizioni pecarie di spazio e igiene.

7 Quest’ultima fu uno dei fattori scatenanti della Guerra do Contestado, un conflitto armato tra la

popolazione cabocla e lo Stato centrale protrattasi tra il 1912 e il 1916 nella regione di Paraná e Santa Catarina. La regione fu denominata Contestado, in quanto gli agricoltori lì residenti contestarono la donazione delle proprie terre da parte del Governo alla compagnia di produzione legnifera Southern Brazil Lumber & Colonization Company. Proprietario della compagnia era lo statunitense Percival Farquha, il quale, attraverso la sua holding Brazil Railway Company, aveva ricevuto in appalto i lavori per la costruzione della Estrada de Ferro São Paulo-Rio Grande. La ferrovia era stata voluta dallo stesso imprenditore, per facilitare l’esportazione di legna estratta dalla centenarie foreste di araucária presenti nella regione. Con i combattenti di Canudos, i

caboclos del Contestado condividevano credenze messianiche e la percezione di stare

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figura carismatica di Antônio Conselheiro, capo politico e religioso che predicava la necessità di vivere al di fuori delle leggi della Repubblica, considerata la materializzazione dell’Anti-Cristo in Terra. Conselheiro e i suoi non riconoscevano il governo nazionale (in quanto non legittimato dalla Chiesa cattolica) e consideravano la riscossione delle imposte, il matrimonio civile e la separazione tra Stato e Chiesa come indizi della prossima fine del mondo. Tra il 1896 e il 1897, contro questa cittadina furono condotte ben quattro spedizioni (le prime organizzate dallo stato di Bahia, le seconde dal governo federale), per un totale di 12000 soldati impegnati, che non si fermarono se non dopo aver sterminato tutti i 25000 abitanti. Un dispiegamento di forze spropositato, che si deve al fatto che la campagna di Canudos fu assunta come simbolo di un mutamento totale di segno della politica del governo centrale, che aveva bisogno di un’attestazione di forza attraverso cui proclamarsi finalmente come il solo detentore legittimo della sovranità sul territorio brasiliano. Siamo nella fase che è passata alla storia come República da Espada, in cui la centralizzazione del potere era il primo obiettivo di una repubblica ancora giovane e perdipiù sprovvista di una base di sostegno popolare.

Ma la campagna di Canudos era anche e soprattutto la guerra che il Brasile dell’Ordem e Progresso dichiarava al sertão selvaggio e arretrato8

. La violenza della guerra era una violenza inevitabile, perché fondativa: l’atto doloroso di automutilazione con cui il Paese si sbarazzava dei suoi aspetti ritardatari ed entrava finalmente nella Storia. Per il Brasile repubblicano, insomma, il conflitto all’ultimo sangue con un esercito di “fanatici” religiosi era il modo cruento ma necessario di uscire dall’ “anticamera della Storia” e iniziare un cammino lineare

8 Durante la terza spedizione governativa, comandante in carica eraAntônio Moreira César,

conosciuto popolarmente come Corta-cabeças, per aver mandato a morte più di cento persone durante la rivolta federalista a Santa Catarina (1893-1895). Se a questo si aggiunge che per la gente del sertão lo Stato federale era giunto solo nella forma della riscossione di imposte, non desta meraviglia quello che avvenne: l’arrivo a Canudos di un gran numero di persone provenienti da varie aree del Nord-Est che, alla notizia dell’arrivo delle truppe militari, era accorsa in difesa dell’homem santo. La guerra di Canudos veniva così a coinvolgere l’intero territorio nordestino.

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che aveva per meta l’ingresso trionfale nella Modernità. Era lo Storicismo europeo che prestava i suoi occhi a una nazione che con esso non aveva niente a che spartire, e lo costringeva a guardarsi allo specchio e a sentirsi inadeguato. Al colonialismo vero e proprio succedeva il colonialismo interno, portato avanti dalle classi dominanti, nutrite di cultura europea e impazienti di presentarsi “coi compiti fatti” al cospetto delle grandi potenze mondiali. Questo conflitto tra temporalità è, in realtà, un conflitto tra spazi (o meglio, tra strati sociali), che la pedagogia nazionalista trasferisce su un piano temporale per occultare la propria violenza fondativa dietro le spoglie di una marcia comune in direzione del “Futuro”. Grande sertão ne fornisce un affresco vivissimo.

Emblematico, a tal proposito, è il personaggio di Zé Bebelo. Il primo incontro tra Riobaldo e quest’ultimo avviene nella fazenda di lui, la Nhanva (sulle sponde del Jequitaí) dove il protagonista è stato inviato dal maestro Lucas come professore incaricato «para ensino de todas as matérias»9. Come vedremo, lo studio rappresenta, per Zé Bebelo, una fase preliminare del suo vero progetto, che è di farla finita coi jagunços e, successivamente, candidarsi come deputato. Analizziamo il brano in cui questi confessa a Riobaldo i suoi alti obiettivi:

“Siô Baldo, já tomei os altos de tudo! Mas carece de você não ir s’embora, não, mas antes prosseguir sendo o secretário meu...Aponto que vamos por esse Norte, por grandes fatos, que você não se arrependerá...” – me disse – “...Norte, más bandas.” Soprou, só; enche que ventava.

Porque ele tinha me estatutado os todos os projetos. Como estava reunindo e pervalendo aquela gente, para sair pelo Estado acima, em comando de grande guerra. O fim de tudo, que seria: romper em peito de bando e bando, acabar com eles, liquidar com os jagunços, até o último, relimpar o mundo da jagunçada braba. – “Somente que eu tiver feito, Siô Baldo, estou todo: entro direito na política!”. Antes me confessou essa única sina que ambicionava, de muito coração: e era de ser deputado10.

Si notino i campi semantici del relimpar e del braba (riferito alla jagunçada). Zé Bebelo vuole compiere un’opera di pulizia, di messa in ordine del Nord selvaggio

9 Ivi, p. 173. 10 Ivi, p. 177.

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e così facendo guadagnarsi un posto nel Brasile ufficiale: quello incarnato dagli organi di rappresentanza della Repubblica. Per fare questo egli sceglie le due vie disponibili al tempo: il bacharelismo e, paradossalmente, il jaguncismo stesso. Sul jaguncismo tornermo più compiutamente nel prossimo capitolo. Sul

bacharelismo, invece, sarà utile dire due parole.

Il termine indica un fenomeno sociale caratterizzato dalla predominanza del

bacharel (letteralmente ‘laureato’, ma anche, più genericamente, ‘letterato’,

‘intellettuale’) nella vita sociale del Paese. Infatti dal 1827, anno di apertura delle prime due università brasiliane (São Paulo e Olinda), le facoltà – che allora erano per definizione facoltà di Giurisprudenza – divennero il luogo di formazione dei quadri dell’amministrazione statale: una vera e propria palestra politica11

. In queste facoltà, le conoscenze che venivano impartite riguardavano le Lettere in generale (filosofia, letteratura etc.); si trattava di una tipologia di insegnamento generico e approssimativo, che non forniva saperi specializzati, ma rudimenti di cultura europea e, soprattutto, di ideologia liberale. Questa ideologia liberale fu trapiantata dall’Europa e calata dall’alto su un contesto totalmente altro, dove non esisteva un ceto borghese, l’urbanizzazione non era mai iniziata e la nozione astratta di ‘individuo’ era quanto di più lontano si potesse immaginare dal ‘relazionalismo’ dell’homem cordial. Ne conseguì una cultura ufficiale formalista e retorica, ostentata alla stregua di un titolo nobiliare ma del tutto inservibile come mezzo di comprensione della realtà in cui era situata.

A questa cultura aspira Zé Bebelo nel momento in cui richiede al maestro Lucas un professore «para o ensino de todas as matérias», nonché, alla fine del romanzo, quando comunicherà finalmente a Riobaldo la sua intenzione di trasferirsi nella capitale, per «estudar para advogado»12. Una cultura aliena dalla realtà,

11

Raymundo Faoro ha suggerito di ricercare gli antecedenti del bacharel brasiliano nel Portogallo medievale, durante la dinastia degli Avis, il cui estamento era formato per la maggiorparte da specialisti del Diritto. Con il crescere dell’impresa coloniale, parte di questa alta burocrazia di

letrados, fu trapiantata in Brasile. Cfr. RAYMUNDO FAORO, Os donos do poder. Formação do

patronato político brasileiro, vol. I, São Paulo, Globo, 1997 (11a ed.), pp, 45-51.

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irriducibilmente estranea a quel sertão «de pessoas, de carne e sangue, de mil-e-tantas misérias», cui fa riferimento Riobaldo in un brano che illustra perfettamente il rapporto tra cultura ufficiale e il Paese reale. Lo riportiamo qui di seguito:

Olhe: o que devia de haver, era de se reunirem-se os sábios, políticos, constituições gradas, fecharem o definitvo a noção – proclamar por uma vez, artes, assembléias, que não tem diabo nenhum, não existe, não pode. Valor de lei! Só assim, davam tranqüilidade boa à gente. Por que o Governo não cuida?

Ah, eu sei que não é possível. Não me assente o senhor por beócio. Uma coisa é pôr idéias arranjadas, outra é lidar com país de pessoas, de carne e sangue, de mil-e-tantas misérias13.

Sul ruolo del diavolo all’interno di Grande sertão torneremo. Per ora soffermiamoci sul quadro ironico del consesso di tutti i simboli dell’establishment della Repubblica (saggi, politici, costituzioni importanti, arti, assemblee, il Governo) riuniti insieme per chiudere per sempre (con «valor de lei») una questione non chiudibile e soprattutto, sull’ambiguità del pensiero di Riobaldo, che dopo aver invocato questo stesso consesso, si corregge e chiude il discorso con il riconoscimento, ben più saggio, della differenza incolmabile tra le «idéias arranjadas» e un «país de pessoas, de carne e sangue, de mil-e-tantas misérias» Opinione simile esprime Joca Ramiro, quando, durante il Processo dei jagunços a Zé Bebelo (su cui torneremo nel prossimo capitolo) domanda retoricamente a quest’ultimo:

“Adianta querer saber muita coisa? O senhor sabia, lá para cima – me disseram. Mas, de repente, chegou nesse sertão, viu tudo diverso diferente, o que nunca tinha visto. Sabença aprendida não adiantou para nada...Serviu para algum?”14

La cultura di Zé Bebelo non ha niente a che vedere col sertão: essa è figlia del meccanismo coloniale per cui si applicano a una realtà specifica categorie interpretative spacciate per universali, ma che in realtà sono proprie di un contesto

13 Ivi, p. 14. 14 Ivi, p. 364.

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altrettanto specifico ma radicalmente altro (quello degli stati liberal-democratici europei). Questa cultura, o meglio Cultura15, va di pari passo con la Legge. Non a caso Zé Bebelo è colui che grida “Viva la legge!” e “Pace!”, col revolver in pugno. Si veda il brano seguente:

Acabando um combate, saía esgalopado, revólver ainda na mão, perseguir quem

achasse, só aos brados: – “Viva a lei! Viva a lei!”...e era o pipoco-paco. Ou: – “Paz! Paz!” – gritava também; e bala: se entregaram mais dois. – “Viva a lei! Viva a lei!...” Há-de-o, que quilate, que lei, alguém soubesse? Tanto aquilo, sucinto, a fama correu. Dou-lhe qual: que, uma vez, ele corria a cavalo, por excercício, e um veredeiro que isto viu se assustou, pulou de joelhos na estrada, requerendo: – “Não faz vivalei em mim não, môr de Deus, seu Zebebel’, por perdão...”16

La Legge di Zé Bebelo (quella della Repubblica) è qualcosa di totalmente estraneo agli abitanti del sertão (tanto che il contadino considera il grido «Viva a lei» come un’unica parola) e che essi conoscono solo in forma di violenze e repressioni (come lo steminio dei Canudos).

Ora, Zé Bebelo non fa effettivamente parte del mondo della Legge, in cui aspira a entrare, ma che ancora lo tiene a distanza. Egli, infatti, è figlio, suo malgrado, di quel sertão che tenta di ‘ricacciare indietro’, ma che torna continuamente a circondarlo da tutte le parti; tant’è che colui che vuole farla finita coi jagunços diventerà egli stesso capo di una banda di jagunços17. È per questo che,

diversamente da quei personaggi che nel romanzo rappresentano veramente il Potere (siô Abano, siô Ornelas, Selorico Mendes), egli è un personaggio essenzialmente comico. È la caricatura della Legge, l’incarnazione del suo formalismo più vuoto e ridicolo. In bocca a Zé Bebelo, i riferimenti alla legalità

15 La lettera maiuscola è d’obbligo, vista l’aspirazione alla totalità ad essa sottesa e il suo essere

considerata un valore in sé, indipendentemente dai suoi contenuti specifici.

16 Ivi, p. 101.

17 Alla morte di Medeiro Vaz, si unirà agli uomini di lui per assumere il comando della guerra a

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non mancano di suscitare il riso dei lettori, anche quando, come nel caso dell’episodio prima citato, risulta chiaro il loro risvolto violento. Incredibilmente comico è, ad esempio il suo richiamo al lessico giuridico nell’episodio del processo farsesco mosso da Zé Bebelo a due parricidi:

[Zé Bebelo] A papo: – “Co-ah! Porque foi que vocês enfeitaram premeditado as foices?” – ele interrogou. Os dois irmãos responderam que tinham executado aquilo em padroeiragem à Virgem, para a Nossa Senhora em adiantado remitir o pecado que iam obrar, e obraram dito e feito. Tudo que Zé Bebelo se entesou sério, em pufo, empolo, mas sem rugas em testa, eu prestes vi que ele estava se rindo por de dentro. Tal, tal, disse: – “Santíssima Virgem...” E o pessoal todo tirou os chapéus, em alto respeito. – “Pois, se ela perdoa ou não, eu não sei: Mas eu perdôo, em nome dela – a Puríssima, Nossa Mãe! – Zé Bebelo decretou. – O pai não queria matar? Pois então, morreu – dá na mesma. Absolvo! Tenho a honra de resumir circunstância desta decisão, sem admitir apelo nem revogo, legal e lealdado, conformemente!...”18

La mistura di religione e giurisprudenza (o meglio, la sua “scimmiottatura”) che si vede in questa sentenza è già di per sé un indizio della compresenza in Zé Bebelo di istanze proprie del sertão (intriso di credenze mistiche e di una religiosità immanente alle manifestazioni del vivere quotidiano) e di istanze proprie della Repubblica brasiliana (laica e impersonale). Poco dopo, Zé Bebelo, imporrà ai due fratelli la cessione della loro intera mandria, come «castigo». Al che Riobaldo si sente in dovere di aggiungere:

Mas deponho que Zé Bebelo somente determinou assim naquela ocasião, pelo exemplo pela decência. Normal, quando a gente encontrava alguma boiada tangida, ele cobrava só impostos de uma ou umas duas reses, para o nosso sustento nos dias. Autorizava que era preciso se respeitar o trabalho dos outros, e entusiasmar o afinco e a ordem, no meio do triste sertão19.

18 Ivi, pp. 98-99. 19 Ivi, p. 99.

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Ma farsesco è anche l’episodio del comizio politico di Petra-Branca, sebbene in esso emergano le capacità politiche non indifferenti di Zé Bebelo, che sembra ben conoscere i metodi per risultare gradito al “popolo”. Qui, a parlare è anche Riobaldo, che per la prima volta ha l’occasione di testare le sue abilità retoriche:

Zé Bebelo mandou dispor uma tábua por cima de um canto de cerca, conforme ele

ali subiu e muito falou. Referiu. Para lá do Rio Pacu, no município de Brasília, tinham volteado um bando de jagunços – o com o valentão Hermógenes à testa – e derrotado total. Mas de dez mortos, mais de dez cabras agarrados presos; infelizmente só, foi que aquele Hermógenes conseguira de fugir. Mas não podia ir a longe! Ao que Zé Bebelo elogiou a lei, deu viva ao governo, para perto futuro prometeu muita coisa republicana. Depois, enxeriu que eu falasse discurso também. Tive de. – “Você deve de citar mais é o meu nome, o que por meu recato não versei. E falar muito nacional...” – se me se soprou. Cumpri. O que um homem assim devia ser deputado – eu disse, encalquei. Acabei, ele me abraçou. O povo eu acho que apreciava20.

Subito dopo Riobaldo vedrà venire il corteo dei prigionieri «pobres, cansados, azombados, quase todos sujos de sangues secos»21 e avrà la percezione di quella che è «a força feia do sofrimento»22, che si nasconde dietro la comica vuotezza della retorica giustizialista di Zé Bebelo. Si faccia caso all’uso dei lemmi

republicano e nacional, staccati dai propri referenti effettivi e che sembrano

alludere a una qualche entità astratta, a un Bene tanto indiscutibile quanto imprecisato.

Alla diade di Cultura e Legge dobbiamo aggiungere un altro termine, anch’esso caro a Zé Bebelo, ovvero ‘Progresso’. Di quest’ultimo Riobaldo ci dice, infatti, che «Considerava o progresso de todos – como se mais esse todo Brasil, territórios – e falava, horas, horas»23. Si noti l’associazione tra il desiderare il

20 Ivi, p. 182. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 100.

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progresso e l’idea di chiacchiera noiosa e sterile espressa dal «falava, horas, horas». E ancora, Zé Bebelo diceva che:

depois, estável que abolisse o jaguncismo, e deputado fosse, então reluzia perfeito o Norte, botando pontes, baseando fábricas, remediando a saúde de todos,

preenchendo a pobreza, estreando mil escolas. Começava por aí, durava um tempo,

crescendo voz na fraseação, o muito instruído no jornal24.

I proclami di Zé Bebelo sono quelli di un uomo «muito instruído no jornal», non derivano dall’esperienza reale. La reazione di Riobaldo a tali proclami è emblematica: «Ia me enjoando. Porque completava sempre a mesma coisa»25. Ma il nostro protagonista è destinato a un radicale mutamento di prospettiva. Sarà il contatto con il sertão più profondo (e più povero) a far rivalutare al Tatarana (soprannome di Riobaldo) il modo di procedere di Zé Bebelo. Il brano seguente è emblematico:

Mas em tanto, então levantei o meu entender para Zé Bebelo – dele emprestei uma esperança, apreciei uma luz. Dei tino. Zé Bebelo, em testa, chefe como chefe, como executava nossa ida. Da marca de um homem solidado assim, que era sempre alvissareiro. Por ele eu crescia admiração, e que era estima e fiança, respeito era. Da pessoa dele, da grande cabeça dele, era só que podia se repor nossa guarda de amparo e completa proteção, eu via. Porque Zé Bebelo previa de vir, cá embaixo, no escuro sertão, e, o que ele pensava, queria, e mandava: tal a guerra, por confrontação; e para o sertão retroceder, feito pusesse o sertão para trás! E era o que íamos realizar de fazer. Para mim, ele estava sendo feito o canoeiro mestre, com o remo na mão, no atravessar o rebelo dum rio cheio. – “Carece de ter

coragem... Carece de ter muita coragem...” – eu relembrei. Eu tinha. Diadorim vindo do meu lado, rosável mocinho antigo, sofrido de tudo mas firme, duro de temporal, naquelas constâncias. Sei que amava, não amava? Os outros, os

24 Ivi, pp. 179-180.

25 Ivi, p. 180. Simile atteggiamento è provato dal protagonista, adolescente, nei confronti del

padrino Selorico Mendes, che parla sempre delle imprese dei jagunços: «Meu padrinho era antipático. Ficava mais sendo. Eu achava. Num lugar parado, assim, na roça, carece de a gente de vez em quando ir alterando os assuntos». Ivi, p. 165.

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companheiros outros, semelhavam no rigor umas pobres infâncias na relega – que deles a gente precisasse de tomar conta26.

Il riferimento a Diadorim in questo brano è motivato dal fatto che fu quest’ultimo a far compiere al protagonista la sua prima traversata in barca (quella del Saõ Francisco). Tuttavia il ricordo delle parole dette in quel contesto da o

Menino («Carece de ter coragem»), appare ora in una circostanza opposta alla

prima, come opposto è il ruolo di Zé Bebelo e di Diadorim all’interno del romanzo e della vita di Riobaldo. Infatti, se Zé Bebelo è emblema di una razionalità che tenta di imporsi sulla realtà, Diadorim è – come vedremo – il simbolo dell’ambiguità irriducibile del vivere e, in quanto tale, il portavoce delle istanze del sertão più selvaggio e indomabile. Sul ruolo di Diadorim avremo modo di tornare più diffusamente nel corso del presente lavoro. Per ora limitiamoci ad osservare che Riobaldo, in questo contesto, fa suoi i progetti “civilizzatori” del Deputado (soprannome di Zé Bebelo). Si veda il paternalismo insito nella figura del «canoeiro mestre, com o remo na mão », che si porta dietro i «companheiros», che per Riobaldo non sono più dei veri compagni (dei pari), ma somigliano piuttosto a «pobres infâncias na relega– que deles a gente precisasse de tomar conta». Quella del protagonista è una visione che richiama da vicino l’ideologia colonialista: è il ‘fardello dell’uomo bianco’ (dove bianco sta per ‘civilizzato’) che, per sua bontà, si assume il compito di condurre i “sottosviluppati” verso un Bene che lui conosce e loro, nella loro arretratezza, ignorano. Ma soffermiamoci un momento sull’incontro dei jagunços con quello che abbiamo definito ‘il sertão più profondo.’ Si tratta nello specifico, della popolazione di un villaggio chiamato Pubo, in cui Riobaldo e i suoi si imbattono mentre vagano per terre a loro sconosciute (in mezzo ai Gerais). Questi uomini sbarrano loro il passo nel tentativo di dissuaderli dall’attraversare il villaggio di Sucruiú, in cui è in corso una terribile epidemia di vaiolo. Le espressioni che il narratore usa per descriverli sono significative: «chusmote»27, «molambos de

26 Ivi, pp. 554-555. 27 Ivi, p. 543.

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miséria»28, «quase que não possuiam o respeito de roba de vestir»29, «Nos tempos antigos, devia ter sido assim»30. E ancora:

Para o nosso juízo, eles eram doidos. Como é que, desvalimento de gente assim, podiam escolher ofício de salteador? Ah, mas não eram. Que o que acontecia era de serem só esses homens reperdidos sem salvação naquele recanto lontão de mundo, groteiros dum sertão, os catrumanos daquelas brenhas. O Acauã que explicou, o

Acauã sabia deles. Que viviam tapados de Deus, assim nos ocos. Nem não saíam

dos solapos, segundo refleti, dando cria feito bichos, em socavas31.

Alle domande di questi, che vogliono sapere chi siano e da dove vengano i

jagunços di Zé Bebelo, il capo risponde: «Ei do Brasil, amigo»32 e subito dopo: «“Vim departir alçada e foro: outra lei – em cada esconso, nas toesas deste sertão...”». Qui i jagunços non sono dei fuori legge, ma il Brasile ufficiale, che si presenta a quel «país de pessoas, de carne e sangue e mil-e-tantas misérias»33 nella forma di «alçada» e «foro». Alla vista di questi uomini «menos arredados dos bichos do que nós mesmos estamos»34, che ricoprono i nostri di domande e si eccitano alla vista della «lazarinha moderna»35, tanto da far dire al narratore che «viviam só por paciência de remendar coisas que nem conheciam», Riobaldo prova una certa paura. Si leggano i due brani seguenti:

Aqueles homens eram orelhudos, que a regra da lua tomava conta deles, e dormiam farejando. E para obra e malefícios tinham muito governo. Aprendi dos antigos. Capatazia de soprar quente qualquer ódio nas folhas, e secar a árvore; ou de rosnar palavras em buraco pequeno que abriam no chão, tapando depois: para o

28 Ibidem. 29 Ibidem. 30 Ivi, p, 544. 31 Ivi, pp. 545-546. 32

Ivi, p. 549. È interessante notare come quegli stessi jagunços che ora fanno parte dell’o Brasil siano gli stessi che Zé Bebelo aveva un tempo definito come la jagunçada braba, gente selvaggia, a loro volta.

33 Cfr. nota 16.

34 Grande sertão, cit, p. 551. 35 Ibidem.

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caminho esperar a passagem de alguém, e a ele fazer mal; ou guardavam um punhado de terra no fechado da mão, no prazo de três noites e três dias, sem abrir, sem largar: e quando jogavam fora aquela terra, em algum lugar, nele com data de três meses ficava sendo uma sepultura... De homem que não possui nenhum poder

nenhum, dinheiro nenhum, o senhor tenha todo medo!36

E por que era que há de haver no mundo tantas qualidades de pessoas – uns já finos de sentir e proceder, acomodados na vida, tão perto de outros, que nem sabem de seu querer, nem da razão bruta do que por necessidades fazem e desfazem. Por quê? Por sustos, para vigiação sem descanso, por castigos? E de repente aqueles homens podiam ser montão, montoeira, aos milhares mis e centos milhentos, vinham se desentocando e formando, do brenhal, enchiam os caminhos todos, tomavam conta das cidades. Como é que iam saber ter poder de serem bons, com

regra e conformidade, mesmo que quisessem ser? Nem achavam capacidade disso.

Haviam de querer usufruir depressa de todas as coisas boas que vissem, haviam de uivar e desatinar. Ah, e bebiam, seguro que bebiam as cachaças inteirinhas da Januária. E pegavam as mulheres, e puxavam para as ruas, com pouco nem se tinha mais ruas, nem roupinhas de meninos, nem casas. Era preciso de mandar tocar depressa os sinos das igrejas, urgência implorando de Deus o socorro37.

Le due descrizioni fanno a riferimento a steoreotipi tipici della rappresentazione dei popoli “sottosviluppati”: sono più vicini alle bestie di quanto lo siamo noi, vivono secondo l’istinto, praticano la stregoneria, sono astuti e mal intenzionati («E para obra e malefícios tinham muito governo»), non hanno rispetto di nulla, non sanno cosa vogliono, agiscono solo per necessità bruta, giunti in città essi non avrebbero potere di comportarsi bene, si ubriacherebbero di continuo, abuserebbero delle donne, distruggerebbero tutto ciò che c’è di più santo e inviolabile («com pouco nem se tinha mais ruas, nem roupinhas de meninos, nem casas»). Questi uomini-bestie sono da temere in quanto può essere solo malvagio chi non possiede «nenhum poder nenhum, dinheiro nenhum».

36 Ivi, p. 552. 37 Ivi, pp. 553-554.

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Dopo aver spodestato Zé Bebelo e preso il suo posto come capo della sua banda di jagunços, Riobaldo (che ora si fa chiamare con il nome di Urutu Branco38, che Zé Bebelo stesso ha inventato per lui) comincerà a pensare a Zé Bebelo con sempre maggiore frequenza, fino a introiettarne le istanza progressiste, che si manifestano nel desiderio di far ‘retrocedere’ il sertão.

Per il pensiero storicista di Zé Bebelo (e poi di Riobaldo), per cui la Storia è un cammino progressivo dalle tenebre dell’irrazionale ai lumi della Ragione, popolazioni come quella del Pubo si collocano più indietro sulla linea del tempo («Nos tempos antigos, devia ter sido assim») e spetta all’uomo che si trova più avanti sulla stessa linea il compito di educarli; di guidarli affinché abbandonino la propria triste condizione e si assimilino il più possibile agli abitanti del “mondo civile”. Di questa missione coloniale Riobaldo si farà carico personalmente, quando tornerà a prelevare uomini dal Pubo e da Sucruiú, al fine di arruolarli nella sua banda. Nel brano seguente vediamo esplicitata l’ideologia colonialista che anima le azioni di Riobaldo:

Aquela gente depunha que tão aturada de todas as pobrezas e desgraças. Haviam de vir, junto, à mansa força. Isso era perversidades? Mais longe de mim-que eu pretendia era retirar aqueles, todos, destorcidos de suas misérias. Até que fiz. Ah, mas, mire e veja: a quantidade maior eram aqueles catrumanos – os do Pubo39.

Come se non bastesse, l’Urutu Branco sceglierà per cavalcargli al fianco un povero cieco (Borromeo) e un bambino nero dagli occhi spropositati per la troppa magrezza (Guirigó), cui porgerà continue domande paternalistiche del tipo: «“Tu está vendo o tamanho do mundo, Guirigó? Que é que tu acha de maior boniteza?”»40 e «“Seo Borromeu, está gostando destes Gerais, hem seo Borromeu?”»41

. Solo durante la battaglia finale contro Hermógenes, Riobaldo ammetterà: «Porque esse homem, sem visão carnal, de valia nenhuma, maldade

38 L’urutu bianco è un tipo di serpente velenoso. 39 Ivi, p. 634.

40 Ivi, p. 640. 41 Ivi, p. 641.

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minha era que tinha sido a trazida dele, de em desde o começo de lugar onde ele cumpria sua vida»42.

Le multiple ‘temporalità’ del sertão corrispondono a una pluralità di stili di vita presenti sul suo territorio, che l’ideologia nazionalista vuole tradurre in una polarizzazione sterile tra progresso e arretratezza, così da potere occultare la propria violenza colonialista, dietro le apparenze di una missione umanitaria. Si veda, in chiusura, il ritratto breve ma efficacissimo di un vecchio nostalgico del «tempo do Bom Imperador»:

Esse era o velho da paciência. Paciência de velho tem muito valor. Comigo conversou. Com tudo que, em tão dilatado viver, ele tinha aprendido. Deus pai, como aquele homem sabia todas as coisas práticas da labuta, da lavoura e do mato, de tanto tudo. Mas, agora, que tanto aforrava de saber, o derrengue da velhice tirava dele toda possança de trabalhar; e mesmo o que tinha aprendido ficava fora dos costumes de usos43.

È un sapere il suo che, sebbene sia rimasto «fora dos costumes de usos» (come le sue idee politiche),è compenetrato di esperienza reale e in questo si oppone nella maniera più assoluta al vuoto bacharelismo della cultura ufficiale. Alla domanda banalizzante e manichea di Riobaldo: «Acha mesmo assim que o sertão é bom?...»44, egli risponde: «Sertão não é malino nem caridoso, mano oh mano!: – ... ele tira ou dá, ou agrada ou amarga, ao senhor, conforme o senhor mesmo»45. In queste poche parole si consuma la rottura della pretesa coloniale di un universalismo astratto e disincarnato, nell’affermazione del legame strutturante tra ogni enunciato e il suo soggetto. È l’identità del soggetto (le sue strutture mentali, apprese all’interno di un contesto mai neutro e universale, ma sempre situato in una congiuntura storico-sociale precisa) a definire il campo di possibilità entro cui si costruisce un discorso su un oggetto, quindi la rete di significati che si

42 Ivi, p. 842. 43 Ivi, p. 744. 44 Ivi, p. 747. 45 Ibidem.

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sedimentano intorno al’oggetto stesso. Riobaldo rifletterà per qualche tempo su quelle parole, ma senza indugiarvi abbastanza, «porque o velho assoava o nariz com todos os dedos de uma mão, em modo que me deu nojo»46.

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