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Capitolo VI Venere e Cupido mingente

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Academic year: 2021

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Fig.1 Venere e Cupido mingente, 1526-40 circa, olio su tela, 92,4 x 111,4 cm, New York, Metropolitan Museum of Art

6.1 - La Venere e Cupido mingente

Reinach (Repertoire de peintures du Moyen Age et de la Renaissance, 1280-1580, 6 voll., Parigi, 1918) documentava la tela in esame (fig.1) come parte della collezione parigina Granet e ne pubblicava un’incisione in cui era evidente che all’epoca la nudità della Venere era in parte occultata da uno dei lembi del velo nuziale da lei indossato, come conferma fra l’altro la riproduzione dell’opera pubblicata da Francesca Cortesi Bosco1 (fig.2). Mentre è a Bernard Berenson2 che si deve l’attribuzione della tela a Lorenzo Lotto, alla studiosa italiana deve, invece, essere riconosciuto il merito di averne accertato l’autografia. La firma dell’artista3

1

F. Cortesi Bosco, 1980, p. 145, nota 69, fig. 155; 1987, p. 139.

2

B. Berenson, 1955, pp. 112, 117: «Al 1532 potremmo assegnare ancora due tele di soggetto allegorico profano. La prima è una “Venere” donata al Museo del Louvre, Parigi per lascito di Mr. Grasset e non esposta. Nuda fuorché per un leggerissimo velo che le incornicia il capo e le spalle e si perde fra le gambe, ella giace appoggiata al gomito sinistro e tiene graziosamente sospesa nella destra una ghirlanda d’alloro».

3

Al proposito K. Christiansen (1986, p. 168) affermava: «La forma della firma, con il nome in italiano latinizzato e il cognome senza un t, è comune nelle lettere di Lotto ma senza paralleli nei suoi dipinti. Il suo analogo più vicino è la firma del “Commiato di Cristo dalla Madre” di Berlino del 1521». F. Rigon (op. cit., 57-61) sembra non essere a conoscenza della scoperta della firma del pittore e imputa la sua assenza alla destinazione “familiare”, quindi privata, del dipinto. Al suo posto Lotto avrebbe optato per una firma “metaforica”, inserendovi la “lunga, insinuante biscia d’acqua.

(2)

Fig.2 l’opera prima della rimozione del velo che copriva Venere

Fig.3 B. Luini, Venere, olio su tavola, 102 x 148 cm, Milano, raccolta del Conte Gerli di Villa Gaeta

(3)

alterare la fisionomia della dea e a occultarne le parti intime - è oggi ben visibile sotto il tronco di quercia, riportata in superficie grazie al restauro condotto sull’opera nel 1984, che ha ripristinato l’aspetto originale della figura femminile. La studiosa ne faceva risalire l’esecuzione al periodo compreso tra 1525 e 1526, alla fine del soggiorno bergamasco del Lotto, sia in virtù dei legami che ravvisava con la Venere

e Cupido di Luini (fig.3), che per le forti affinità del putto “mingente” con quello

presente nel doppio ritratto dei coniugi Cassotti (fig. 4)5; la proposta della studiosa veniva accolta da Christiansen6, Matthew (voce Lotto, Lorenzo, in The Dictionary of

Art, Willard, 1996, pp. 710-716) e Colalucci (Bergamo negli anni di Lotto. Pittura, guerra e società, Bergamo, 1998, p. 115). Goffen7 e recentemente Massi (Lorenzo

Lotto’s New York “Venus”, in Watching Art: Writings in honor of James Beck, a

cura di L. Catterson, M. Zucker Todi, Perugia, 2006, pp. 191-218) datavano il dipinto addirittura al 1520, mentre Berenson8, Mariani Canova9 Béguin10 e Bonnet11 preferivano ricondurla agli inizi degli anni ’30. Humfrey12 identificava, invece, il dipinto con quella “Venere” che Lotto, nel suo libro dei conti13 , sosteneva di aver realizzato su commissione del nipote Mario D’Armano e rilevava notevoli somiglianze con opere come la Pala dell’alabarda, l’ Elemosina di Sant’Antonino e il Ritratto di Laura Pola, propendendo per una datazione agli anni ’30 e ’40 del secolo:

4

M. Binotto, in Lorenzo Lotto, a cura di G. C. F. Villa, catalogo della mostra ( Roma, Scuderie del Quirinale, 2 marzo – 12 giugno 2011), Milano, 2011, p. 252-259. La studiosa ricorda: […] la ridipintura, rimossa nel 1984, aveva banalizzato la fisionomia della giovane donna, i cui lineamenti sono così caratterizzati da farla apparire un ritratto […].

5

F. Cortesi Bosco affermava a proposito del dipinto: «L’immagine del bambino che fa pipì è presente in un altro dipinto del Lotto, la Venere e Cupido» […] «assegnata dal Berenson al 1530 ca., ma forse più prossima al periodo bergamasco, sia per i rapporti che si ravvisano con la Venere del Luini» […] «sia perché il Cupido è gemello di quello che aggioga gli sposi del Prado».

6

Op. cit..

7

R. Goffen, in The expanding discourse: feminism and art history, New York, 1992, p. 119; in Titian 500: proceedings of the symposium, Hannover, 1993, pp. 131-132; New Haven-Londra, 1997, p. 43;

8

op. cit., pp. 112-113.

9

G. Mariani Canova, 1975, p. 125, n. 379.

10

S. Béguin, in Le siècle de Titien, 1993, pp. 494-495, n. 154.

11

J. Bonnet, Parigi, 1996, pp. 139-140.

12

P. Humfrey, 1997, ed. 1998, pp. 139-140.

13

P. Zampetti, Il Libro di Spese diverse con aggiunta di lettere e altri documenti, 1969, p. 212-213, 235.

(4)

Fig.4 Ritratto dei coniugi Cassotti, 1523, olio su tela, Madrid, Museo del Prado

«rimane un raro soggetto mitologico, una Venere commissionata da Mario d’Armano nel settembre del 1540, originariamente munita di una cornice in noce dorata e di un panno nero che recava un’iscrizione. Essa può discutibilmente essere identificata con la Venere e Cupido, oggi al Metropolitan Museum, New York. Questo quadro, di recente ritrovamento, è stato datato ad un periodo precedente, collocandolo alla fine del periodo bergamasco o agli inizi di quello veneziano; dal punto di vista dello stile, tuttavia, sembra più vicino alla pala di Sant’Antonino e ad altre opere sul finire degli anni ’30 e agli albori degli anni ’40, come la pala di Ancona o la Laura da Pola».14 Il critico, del resto, ravvisava nell’opera affinità stilistiche con il manierismo e in particolare con la pittura di Francesco Salviati, stabilitosi a Venezia negli stessi anni in cui vi si trovava Lotto, ovvero fra 1539 e 1541: «la complicata artificialità della posa di Venere e l’allungamento degli arti

armoniosi e marmorei, suggerisce un certo interesse per l’attività del manierista fiorentino Francesco Salviati che lavorò a Venezia per due anni dall’estate del 1539». La proposta sarebbe stata accolta anche da Anderson15 e Fontana16. Se da una parte lo studioso sottolineava la vicinanza dello stile di Venere e Cupido

14

P. Humfrey, op. cit., p. 139.

15

J. Anderson, Parigi, 1996, p. 228.

16

(5)

parte incongruente, tuttavia, il nudo astratto e ornamentale è accompagnato da fattezze gentilmente divertite e casalinghe tipiche dei volti della ritrattistica» […] «la divertente posa disinibita del Cupido colto nell’atto di urinare non ha niente a che vedere con la maniera dell’Italia centrale».

6.2 - Un quadro “per nozze”: il soggetto e la sua destinazione Binotto17, sulla scorta del critico statunitense Keith Christiansen18, ha introdotto l’analisi dell’opera rammentandoci che le origini del genere a cui il dipinto appartiene – la pittura epitalamica (diffusasi nel cinquecento e ispirata all’omonimo genere letterario di epoca classica ed ellenistica) - sarebbero da ricondurre allo svincolarsi di certi soggetti mitologici19 dalla loro funzione di arredo domestico, in modo particolare nuziale, al fine di acquisire una propria autonomia: «Alcuni soggetti

mitologici, scelti per decorare nel XV secolo i cassoni nuziali che contenevano la dote della sposa, per adornare le spalliere dei letti o per decorare i deschi da parto, si svincolano nel corso del secolo successivo dalla particolare funzione sociale loro assegnata e, rendendosi indipendenti dall’arredo cui erano applicati, acquisiscono, come dipinti da cavalletto, lo status di tipologia espressiva autonoma. In particolare, quando le Veneri si emancipano dai ruoli interpretati nelle narrazioni mitologiche disposte sugli arredi domestici, divengono, con le loro magnifiche nudità, le esclusive protagoniste dei dipinti di Giorgione, Tiziano, Palma il Vecchio».

Era dunque Christiansen il primo a riconoscere la destinazione nuziale del dipinto in esame e a ricondurne il tema al genere letterario epitalamico - in auge nell’antichità – rappresentato dalle liriche di Stazio, Claudiano e Catullo. Sulla scorta di Anderson (1976) e Rosand20, informava che in questi componimenti, generalmente, Venere era sollecitata da Cupido ad adornarsi al fine di patrocinare le nozze di una coppia di

17 Op. cit. 18 Op. cit. 19

Tra questi i più frequenti ritraevano Venere e Marte, Venere adornata dalle Grazie (vedi Zampetti, 1957, in “Arte Veneta”, XI, pp. 75-81), Venere circondata dagli amorini ma soprattutto Venere e Cupido.

20

D. Rosand, Titian’s “Venus of Urbino”, Cambridge, 1997, p. 105: «Nell’antica tradizione degli epitalami, Venere è scoperta in riposo nel suo paesaggio sacro; incitata da Cupido, si prepara per il matrimonio mortale, dove presterà aiuto in qualità di pronuba, la patrona delle nozze».

(6)

sposi ed auspicarne la fertilità21. A suo dire, dunque, la tela di New York era da collocare nell’ambito dei cosiddetti “sensual paintings”, cioè quei dipinti che avrebbero dovuto celebrare l’amore in quanto atto sessuale volto alla procreazione.

22

Se era giusto ritenere la Venere con Cupido mingente un quadro per nozze non restava che individuare l’occasione specifica che esso avrebbe inteso celebrare: Cortesi Bosco23 suggeriva in più occasioni che si trattasse delle nozze di Girolamo Brembate – figlio del cavalier Leonino e Lucina Brembati - con Caterina Suardi, avvenute il 10 giugno 1525.

6.3 - “Istruzioni” sugli addobbi del talamo nuziale in Claudiano e Catullo

Sempre Christiansen24 faceva notare che l’epitalamio composto da Claudiano e dedicato alle nozze dell’imperatore Onorio poteva aver offerto a Lotto spunti relativi ad alcuni attributi che caratterizzano la tela di New York: ad esempio la corona di mirto sorretta dal dio alato e il bruciaprofumo che da questa pende cospargendo nell’aria il fumo dell’incenso. Ai vv. 202-226 del componimento – dove sono descritti i preparativi per la cerimonia nuziale, diretti da Venere in persona - leggiamo: «Tu, Imeneo, prepara le fiaccole nuziali, tu, Grazia, scegli i fiori, e tu,

Concordia, intreccia ghirlande» […] «altri adornino gli stipiti delle splendenti porte con il mirto a me sacro; altri ancora aspergano di nettare la casa e brucino sulla fiamma gli incensi Sabei».25 Era ancora lo studioso ad accorgersi che nel carme LXI – un’ode sulle nozze di Giulia e Manlio - del Carmina Liber di Catullo26 il poeta aveva indugiato su alcuni particolari relativi alla decorazione del talamo nuziale. Il mirto, ad esempio, secondo l’usanza veniva intrecciato a formare una corona che poi veniva posta sugli stipiti della porta che conduceva alla camera degli sposi. Si legge

21

K. Christiansen (op. cit., p. 169) rimandando a J. Anderson (op. cit., p. 228) , spiegava: «Ha, per di più, collegato il tema dell’immagine all’antico genere letterario dei poemi nuziali, o epitalami, nei quali Venere – qualche volta descritte come dormiente – è incitata da Cupido ad ornarsi e a presiedere alle festività nuziali di una coppia lodevole. Questi poemi terminano immancabilmente con un’espressione di speranza che il matrimonio sarà fruttuoso» .

22

C. Pirovano (Milano, 2002, p. 120) definiva il quadro “un vero e proprio epitalamio dalle esplicite allusioni sessuali, allegro e beneaugurante”.

23

F. Cortesi Bosco, 1992, p. 16 nota 4; 1994, p. 38; 1987, p. 25; 2006, p. 205;

24

Op., cit.

25

R. B. Conidi, Fescennini e epitalamio per le nozze di Onorio e Maria (a cura di), Roma, 1988, pp. 58-59.

26

(7)

all’edera - altro attributo presente nel dipinto di New York - quale metafora della fedeltà e dell’inscindibilità del legame d’amore (vv. 31-35): «Ac domum dominam

voca / coniugis cupidam novi, / mentem amore revinciens, / ut tenax hedera huc et huc / arborem implicat errans» (“Chiama a casa la padrona, cupida del suo sposo,

avvincile il cuore d’amore come tenacemente l’edera errante si avvinghia di qua e di là all’albero”).

6.4 - L’augurio di fertilità rivolto agli sposi nell’epitalamio di Stazio

Ipotizzando che la tela di New York fosse stata commissionata al pittore in occasione di un matrimonio, lo studioso americano interpretava il gesto del Cupido che orina sul ventre della dea come atto propiziatorio e augurio di fertilità e ricordava che questo motivo era stato precedentemente utilizzato per illustrare i deschi da parto. In uno di questi27, vedremo, l’immagine è accompagnata da un’iscrizione ispirata ad un passo dell’Epithalamium in Stellam et Violentillam di Stazio28, componimento che, secondo Pederzani29, all’epoca in cui visse il poeta dovette determinare una vera e propria svolta nella tradizione del genere epitalamico. Esso è dedicato a Lucius Arruntius Stella, uomo politico nonché poeta elegiaco padovano, in occasione delle sue nozze con Violentilla, celebrate probabilmente intorno all’ 89-90 d.C. Qui l’autore elogia gli sposi non direttamente ma per il tramite di Venere e Amore. La Dea - in qualità di pronuba - si occupa in prima persona della preparazione della sposa la cui descrizione, che rientra in quella più generale relativa alla cerimonia, è ai versi 11-15: «Ipsa manu nuptam genetrix Aeneia duxit / lumina demissam et dulci

probitate rubentem, / ipsa toros et sacra parat coetuque Latino / dissimulata deam crinem vultusque genasque / temperat atque nova gestit minor ire marita», (“La

stessa madre di Enea ha guidato per mano la sposa, che ha gli occhi abbassati e un rossore di dolce pudore sul viso; ella stessa prepara il talamo e il rito e, dissimulato il suo aspetto divino tra le donne latine, attenua lo splendore dei capelli, del volto, delle guance, cercando di essere meno appariscente della novella sposa”). In chiusura (vv.

27 Vedi paragrafo 6.6. 28 Stazio, Sylvae, I, 2, vv. 10-15. 29

(8)

270-276) il poeta rivolge una preghiera a Cynthia30 e Lucina31, che possiamo osservare in due incisioni di Cartari (figg.5-6) affinché garantiscano alla coppia una prole degna: «Acceleret partu decimum bona Cynthia mensem, / sed parcat Lucina

precor; tuque ipse parenti / parce, puer, ne mollem uterum, ne stantia laedas. / pectora; cumque tuos tacito natura recessu / formarit vultus, multum de patre decoris, plus de matre feras» (“Benigna Cinzia acceleri il nono mese per il parto, ma

prego che Lucina ti risparmi, e anche tu, bambino, risparmia la madre, non offendere il delicato grembo o il petto turgido, e, quando la natura avrà dato forma al tuo volto ancora in tacito recesso, mostra molto della bellezza paterna, ma ancor più quella della madre”).32

Fig.5 Cynthia, Imagini delli dei de gl’antichi, Vincenzo Cartari, ed. 1647

30

O. Pederzani (op. cit., pp. 143-144) ci spiega: «è appellativo di Diana, nata sul monte Cynthus a Delo» […] «La dea è invocata perché acceleri benevola» […] «i termini del parto» […] «alla nuova sposa Violentilla».

31

La studiosa (ivi) affermava: «Con questo nome si intendeva solitamente Giunone o Diana» […] «la dea che presiedeva al parto» […] «dovrebbe risparmiare a Violentilla le sofferenze».

32

(9)

Fig.6 Lucina, Imagini delli dei de gl’antichi, Vincenzo Cartari, ed. 1647

6.5 - Venere: un nudo femminile “reclinato”

Secondo Christiansen33 l’esemplare lottesco in esame doveva essere una delle molteplici rappresentazioni della “Venere reclinata”, uno dei generi preferiti dai maggiori esponenti della pittura veneziana cinquecentesca. Inoltre, l’esistenza di un pannello dipinto di scuola toscana raffigurante una donna nuda sdraiata - il pannello adorna un esemplare di cassone nuziale conservato a Yale (fig.7) - a suo dire avrebbe confermato il fatto che questo antico tipo doveva aver trovato campo d’espressione già nel Quattrocento. In uno studio dedicato agli Andrii di Tiziano, Cavalli- Bjorkman34 affermava che il motivo non sarebbe stato esclusivamente adottato per

33

K. Christiansen, The tradition of…, cit.

34

(10)

Fig.7 Cassone nuziale dipinto, XV secolo

Fig.8 Tiziano Vecellio, Menade o Arianna, Baccanali degli Andrii, 1522-24, Madrid, Museo del Prado

(11)

Fig.9 Rilievo di Sarcofago romano con soggetto bacchico, Salerno

alludere alla dea ciprigna, ma in alcuni casi anche per raffigurare l’ “Arianna addormentata” o ninfe alla fonte scoperte dai satiri. In quell’opera egli prestava particolare attenzione alla discinta figura femminile collocata nell’angolo inferiore destro, che dorme sdraiata sul prato (fig.8); erroneamente identificata come Arianna abbandonata da Teseo essa avrebbe dovuto essere interpretata invece come ninfa. Convinto che quella fanciulla richiamasse la figura scolpita su un sarcofago del II secolo d.C. in cui è raffigurato un soggetto bacchico (fig.9), lo studioso ricordava che il motivo della ninfa dormiente reclinata sarebbe stato ricorrente anche nella letteratura classica; un esempio era offerto da Ovidio nella descrizione di Rea Silvia:

«giovane in riposo presso una fonte e addormentata dal movimento delle onde».35 L’immagine sarebbe in seguito diventata popolare presso gli artisti veneti e adottata nella rappresentazione della Venere. Sulla scorta di Meiss36, il critico sottolineava che, nel caso specifico delle Veneri di Giorgione (fig.10) e Tiziano (fig.12), così come in quella lottesca (fig. 1), la fonte di ispirazione sarebbe stata una delle xilografie che illustrano l’ Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna37, pubblicata a Venezia nel 1499, raffigurante una ninfa addormentata presso una fonte e svelata da un satiro.

35

G. Cavalli-Bjorkman, op. cit, p. 97.

36

M. Meiss, in “Proceedings of the American Philophical Society”, CX, 5, 1966.

37

(12)

Fig.10 Giorgione, Venere dormiente, 1508 circa, Dresda, Pinacoteca

Anni dopo Rosand38 citava la Venere con Cupido mingente in uno studio sulla

Venere di Urbino di Tiziano ritenendo l’opera, sia per il formato che per il soggetto

ritratto, una variazione sul tema della Venere dormiente di Dresda dipinta da Giorgione. Indagini ai raggi x avrebbero del resto appurato che in origine quest’ultima era accompagnata da un Cupido, situato ai suoi piedi nell’estremità destra del dipinto e con un uccello fra le mani (fig.11)39. Il critico, sulla scorta di Anderson40, riteneva che l’immagine giorgionesca avesse una natura epitalamica e si rifacesse al motivo della Venere “addormentata”, le cui origini dovevano risalire alla letteratura classica e nello specifico a Claudiano41.

38

D. Rosand, op. cit.

39

D. Rosand, oltre a sottolineare come secoli prima lo storico Marcantonio Michiel avesse provato la presenza della mano di Tiziano nella realizzazione sia del Cupido che del paesaggio sullo sfondo – portando così a compimento l’opera del maestro – rammentava che Anderson aveva interpretato il volatile fra le mani del dio come simbolo “fallico”.

40

J. Anderson, op. cit.

41

C. Claudiano, Epithalamium de nuptis Honori et Mariae (“Epitalamio per le nozze di Onorio e Maria”).

(13)

Fig.11 Ricostruzione della figura del Cupido ai piedi della Venere dormiente di Giorgione

(14)

6.6 - Cupido come “puer mingens”

Nello studio condotto sull’opera lottesca Christiansen42 riconosceva nella figura di Cupido il motivo del “puer mingens”, diffusissimo già nell’antichità quando veniva impiegato nella decorazione di sarcofagi e vasi, nell’ambito di scene dionisiache e di vendemmia (come del resto dimostra un’altra xilografia tratta dal Sogno di Polifilo, fig.14) ed era simbolo di fecondità, vitalità e felicità. Concorde con il critico statunitense, Cavalli-Bjorkman43: «Nella pittura dei vasi antichi, vediamo piccoli

ragazzi praticare una sorta di rituale della fertilità nel quale il liquido fruttifero era versato in un’ampia brocca - il bacino femminile».

Il putto mingente deriverebbe, dunque, da un motivo frequente nei rilievi scultorei ad ornamento dei sarcofagi classici. Mentre Murutes44 lo ha interpretato come allusione allo “spirito del riso” narrato da Filostrato, da un punto di vista alchemico esso è stato invece letto come metafora sessuale, fallica; la sua urina era considerata magica e l’atto stesso di orinare avrebbe alluso ad un rituale di fertilità che deve le sue origini ai miti sviluppatisi durante l’epoca ellenistica45. Esso sarebbe stato in seguito accolto dall’arte cristiana in relazione all’immagine del “vino-sangue di Cristo” per poi entrare a far parte del repertorio umanistico degli artisti. Secondo il parere di Bjorkman e Christiansen, il Cupido raffigurato da Lotto richiamerebbe il “puer mingens” che compare in due xilografie dell’Hypnerotomachia Poliphili (fig.13-14) e si rapporterebbe con quello che nei già citati Andrii di Tiziano orina sulla donna nuda addormentata.

Un altro interessante confronto proposto dai due critici riguardava un’immagine riprodotta sul verso di un desco da parto del 1428, attribuito a Bartolomeo da Fruosino, conservato al Metropolitan46 (fig.15). Esso conferm erebbe il legame esistente fra arredi nuziali, pittura e letteratura epitalamica di cui si è già parlato a

42 Op. cit. 43 Op. cit. 44

Lo studioso ( Ph.D. diss., 1983) spiegava che nel Rinascimento e specialmente a Venezia il motivo del bambino che urina era usato per suscitare ilarità.

45

G. Cavalli-Bjorkman scriveva: «Nel linguaggio dell’alchimia, l’urina è considerata magica. Era considerata avere una potenza mana, come tutto ciò che esce dal corpo – non solo lo sperma, ma anche l’urine come la spittle» […] «tali simboli alchemici emanano dagli antichi miti della creazione praticati nei misteri Ellenici».

46

Per l’attribuzione del desco da parto vedi R. Goffen, (Titian’s sacred and profane love and marriage, in Titian 500: proceedings of the symposium, 1993, p.131).

(15)

Fig.13 Scena di vendemmia, xilografia dell’Hypnerotomachia Poliphili, F. Colonna

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proposito della Venere. Oltre a rilevare tra le due raffigurazioni evidenti affinità di carattere iconografico Christiansen notava che il bimbo “che fa pipì” del desco è accompagnato da un’iscrizione47 il cui contenuto richiama i versi finali del già citato epitalamio di Stazio48: si trattava in entrambi i casi di un augurio di buona fortuna e fertilità, lo stesso trasmesso dall’allegoria lottesca49. Ma i confronti non finivano qui: il critico infatti ricordava un quadro di genere, attribuito a Pieter de Hooch, (Los Angeles County Museum), un interno di un’abitazione sulla cui parete di fondo si trova un camino su cui è appeso un dipinto raffigurante Cupido che orina su di una Venere reclinata (fig.16). Il soggetto, per il quale Pozzi-Ciapponi50 riteneva di individuare dei precedenti anche anteriori a quello del Polifilo di Colonna in alcuni disegni di Jacopo Bellini, nel fregio delle Arti Liberali del Tempio Malatestiano (fig.17) nonché in alcune incisioni del 1470-80 circa, per Deonna51 andava connesso alla rappresentazione delle fontane e avrebbe avuto origine romana. Lotto, ricordava Cortesi Bosco52, vi sarebbe stato così affezionato da raffigurarlo addirittura sul soffitto dell’oratorio Suardi di Trescore, ovvero nell’ambito di un ciclo pittorico religioso. Qui un “giocoso bimbetto” “bagna” l’autoritratto del pittore, posto proprio al di sotto del getto di urina. Il motivo della “minzione” ricorrerebbe, infine, nello sfondo del Ritratto di Andrea Odoni (fig.18) dove una delle statuette classiche che

47

K. Christiansen, op. cit., p. 170. L’iscrizione recita “Possa Dio garantire salute ad ogni donna che dia la vita e al loro padre…possa (il bambino) nascere senza fatica o pericolo. Io sono un bambino che vive su una [roccia (?)] e orino sull’argento e l’oro”.

48

Vedi paragrafo 6.4.

49

Anche Catullo (Gai Valeri Catulli Liber, LXI, vv. 31-35) si sarebbe servito in un suo componimento della medesima immagine come metafora dell’unione sessuale.

50

G. Pozzi, A. L. Ciapponi, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, Milano, 1963, pp. 331-332 e nota 63. Lo studioso rimandava a Ricci (Il tempio Malatestiano in Rimini, Milano-Roma s.d., 34 e 554-555).

51

W. Deonna, in “Genava”, 1958, pp. 258-263: «Secondo De Tervarent, sarebbe “nell’Italia del Nord e nella seconda metà del XV secolo che il fanciullo-fontana acquista quel rinnovato favore che avrebbe conservato per due secoli”. Se ne conoscono, tuttavia, di più antichi» […] «è all’antichità che bisogna risalire, se si vogliono trovare numerose testimonianze del soggetto. La loro influenza sull’arte del Rinascimento è manifesta» […] «la scultura antica suggerisce attraverso l’attitudine del bambino la funzione che egli svolge; l’incisione e la pittura del Rinascimento la rappresentano; le fontane dell’epoca la materializzano. L’albero genealogico del bambino-fontana […] risale all’antichità» […] «L’arte romana orna volentieri la fontana di una statua di bambino. Egli tiene un delfino, un’oca» […] «e l’acqua ingiallisce da questi accessori, quando si prestano al ruolo […] è più audace suggerire che essa esce o farla uscire dal corpo del bambino» […] «Sui rilievi dei sarcofagi di bambini, questi sono i soli figuranti del corteo, della vendemmia dionisiaca, simbolo funerario» […] «Si trova questo Cupido-mingens sulle anse di vasi romani in bronzo» […] «Il bambino alato, “mingens”, è ripreso nel Rinascimento».

52

(17)

di Venere53, dipinto scoperto da Zampetti54.

Fig.15 Bartolomeo da Fruosino, desco da parto, 1428, New York, Metropolitan Museum of Art

53

Vedi capitolo 7, fig.1.

54

(18)

Fig.16 Venenre e Cupido mingente, dettaglio di del quadro di genere di Pieter de Hooch, Donna che porge denaro alla sua serva, 1670 circa, Los Angeles, Los Angeles County Museum

(19)

Fig.18 Ritratto di Andrea Odoni, dettaglio della statuetta dell’Hercules mingens

6.7 - Gli attributi di Cupido e Venere

Nel saggio dedicato al dipinto del Metropolitan Museum Christiansen conduceva un’accurata indagine sugli attributi simbolici dei due protagonisti, nonché sugli altri elementi disseminati nella scena. Nel farlo egli metteva in risalto “l’abilità manipolatoria” dell’artista che, a suo dire, sarebbe stato un maestro nell’elaborare le proprie invenzioni fondendo motivi tratti da immagini antiche con citazioni da opere coeve. Innanzitutto egli si soffermava su quella corona di mirto che le due divinità sostengono a mezz’aria e attraverso la quale avviene l’atto della minzione da parte di Cupido. Già Levi d’Ancona55 aveva ricordato l’antica credenza in base alla quale la pianta sarebbe stata sacra alla dea, diventando emblema dell’amore e del desiderio sessuale. Lo avrebbe confermato, a suo dire, la leggenda ovidiana56 secondo cui la Ciprigna, nata dalla spuma del mare, si sarebbe servita proprio del mirto per coprire le sue nudità. E, del resto, anche Plinio57 e Claudiano58 si sarebbero espressi sul significato del mirto: il primo, spiegando che a Roma ne veniva utilizzata una particolare qualità - il “mirtus coniugalis” - in occasione di cerimonie nuziali, il

55

M. Levi d’Ancona, Firenze, 1977, p. 238.

56

Ovidio, Fasti.

57

Plinio, 15.37.122

58

(20)

secondo facendo esplicito riferimento all’usanza di appendere corone di mirto alla porta della camera nuziale come allusione alle gioie matrimoniali. Contrariamente a quest’interpretazione, accolta dalla maggior parte della critica successiva, Rigon59 ha recentemente proposto una lettura diversa dell’attributo. Forte di un “riscontro prima botanico e poi iconografico” egli ha, infatti, individuato sia nella corona che cinge il capo del putto, che nel serto sorretto da entrambe le divinità una pianta di maggiorana60. “Attributo vegetale precipuo” di Imeneo61 (fig.19) – il dio “prediletto da Giunone pronuba”, protettore degli sposi -, la maggiorana era un’essenza usata nell’antichità nella preparazione di effluvi e fumigazioni62. Proprio questa sua funzione, secondo lo studioso, avrebbe giustificato Lotto nell’appendere alla corona un incensiere. Christiansen, che sulla scorta di Claudiano specificava l’utilizzo nell’antichità di questo “brucia-profumo” in qualità di accessorio ornamentale della camera nuziale, riteneva che nell’accostare i due oggetti l’artista si fosse ispirato alla descrizione dell’ “altare di Priapo” contenuta in una xilografia dell’Hypnerotomachia (fig.20)63. Oltre a portare una corona sul capo, Cupido è

59

F. Rigon, in Arte Documento, XXVII, 2011, p. 59.

60

F. Rigon, op. cit., p. 61: «pianta perenne con la porzione basale lignificata e quella superiore erbacea». Cattabiani (Florario, Milano, 1996, pp. 614-616) ricordava che i fiori della pianta - che, con la sua “cascata di foglioline simili a una lunga chioma”, era “intimamente legata al mondo femminile” - erano serviti in passato per ornare la sposa. Cartari (Immagini degli dei antichi, ed.1598, a cura di M. Pastore Stocchi, 1996, p. 439 e p. 440, tav.81) associava la “verde persa” al dio dell’Amore nelle sue tre diversificazioni iconografiche: Eros (amore carnale), Anteros (amore spirituale) e Letéo (che, spegnendo le “ardenti faci” nel fiume, estingue gli amori trascorsi).

61

Cattabiani, op. cit, p. 614: «Un mito greco raccontava che Imeneo, figlio di Magnete e valente musico, era morto all’improvviso mentre stava cantando alle nozze di Dioniso e Altea. Per perpetuare la sua memoria fu deciso d’invocarlo in occasione di tutti i matrimoni e d’intitolargli il canto in onore degli sposi: il canto d’Imeneo. Lo si raffigurava con la fiaccola, un flauto e una corona di fiori di maggiorana, l’amaracus dei latini, come testimonia fra gli altri Catullo: “Tu che dal tuo monte Elicona / conduci all’uomo la rapita vergine, / cingi le tempie dei fiori / di soave maggiorana odorosa”». La citazione è tratta dal Carme LXI di Catullo.

62

Ibid., p. 615, cit.: «Il suo infuso giova contro i dolori isterici delle donne».

63

Essa mostra Venere in un’attitudine simile a quella che assume nella Venere con Cupido mingente. Lo sosteneva K. Christiansen (op. cit., p. 72): «C’è anche la possibilità che la giustapposizione della corona di mirto e del brucia-profumo fosse ispirata dalla descrizione nell’Hypnerotomachia Poliphili dell’altare di Priapo, la cui parte anteriore mostrava Venere che regge nella sua mano sinistra un ramo di mirto mentre con la destra spargeva petali di rosa su di un antico braciere o “chytophus”».

(21)

da Rigon come allusione al “giogo nuziale” che il Cupido del Ritratto dei coniugi

Cassotti (fig.4), con fare ironico, pone sulle spalle della coppia65 e con cui Ripa, nell’Iconologia66, avrebbe successivamente contraddistinto la raffigurazione allegorica del Matrimonio (fig.21). Veniamo ora a Venere. La dea, che come ha sottolineato lo studioso si staglia in posizione “semisupina” sullo sfondo di un

Fig.19 Imeneo, incisione tratta dalle Immagini degli dei antichi, Vincenzo Cartari, ed. 1647

64

Rigon, op. cit., p. 59.

65

Ivi.: «Quel “ cupidineto” dalle ali d’iride, ha sostituito, nel contesto di un “matrimonio virtuoso”, l’abituale arco con un ugualmente ricurvo giogo, in legno d’alloro» […] «sacro alla casta e pudica Dafne (ma anche ai poeti e i vittoriosi in generale) come sembra esserlo la sposa Cassotti, qui ritratta con aria consapevole dell’impegnativo peso che si appresta a sostenere insieme al coniuge».

66

(22)

Fig.20 Venere e Cupido, incisione dell’Hypnerotomachia Poliphili, Venezia, 1499

(23)

porta una mano al ventre. Secondo l’Arte de’ Cenni di Giovanni Bonifacio71, il gesto sarebbe dichiarazione di fertilità. La donna indossa un velo fermato da un diadema (che le copre l’acconciatura raccolta), un orecchino a pendente con perla e una fascia stretta sotto il seno. Proprio la presenza di questi accessori aveva indotto Christiansen ad ipotizzare che Lotto avesse inteso raffigurare non semplicemente la dea dell’amore, bensì una sposa, forse la dedicataria del dipinto. A conferma di ciò, egli rimandava ad un passo tratto da Cesare Vecellio72, corredato da una serie di incisioni (fig.22), in cui era descritto l’abbigliamento delle spose veneziane antiche e moderne. Rigon ha fatto notare che lo “splendente diadema” usato per fermare il “candido, pudico fazzuolo” della dea/sposa è tempestato da una serie di pietre preziose connesse al concetto di amore e pudicizia: le perle “lunari” di Diana (allusione alla purezza e verginità), rubini rossi, topazi azzurri e smeraldi verdi (capaci rispettivamente di temperare le passioni, proteggere dalle infezioni e mitigare “l’assillo della libidine”) e un’agata nera incastonata al centro ( che oltre a propiziare la fecondità difende dal veleno dei rettili). L’orecchino “schiavonesco” a pendente, esibito al lobo sinistro, sarebbe invece costituito da una “perla sponsale”73 e da uno zaffiro del colore del cielo, la “gemma delle gemme” a protezione del corpo, per dirla con Marbodo74. Per quanto concerne il velo lo studioso ha rimandato a

67

Lo studioso, rimandando a Cucchiarelli (Pervigillum Veneris, Milano, 2003), ricorda che di questo “color fiamma” erano anche i manti indossati dalle spose romane antiche.

68

Anch’esso era un colore matrimoniale.

69

A. Cattabiani (op. cit., p. 49-60) la descriveva come pianta sacra a Giove.

70

Lo indicherebbe il motto “Salgo, ma con le sole mie forze”. A. Cattabiani (op. cit., pp. 108-112) scriveva: «L’edera era un altro dei simboli di Dioniso; tant’è vero che egli veniva chiamato Kissos, nome greco della pianta» […] «divenne nel vocabolario popolare dell’amore un simbolo della Passione che spinge a unirsi strettamente, in un abbraccio che si vorrebbe eterno, con l’amato o con l’amata: un abbraccio simile appunto a quello dell’edera intorno al tronco di un albero. Per questo motivo in India» […] «è considerata anche l’emblema della Concupiscenza».

71

P. Casella, in Studi Secenteschi, XXXIV, 1993, p. 406: «Mani in seno: vezzo fatto dalla donna amata al suo amante».

72

C. Vecellio, Habiti delle Spose venettiane, p. 143, cit.: «vi si veggono dunque molte spose con una corona in testa à modo di Regina, carica di perle e di gioie» [...] «Sotto questa corona s'attacca e scende su le spalle un velo sottile, e trasparente» [...] «All'orecchie» [...] «pendenti di tre perle l'uno, congegnate insieme e legate in oro».

73

Come è stato ribadito da M. Binotto (op. cit., p. 252) la perla – divenuta in seguito uno dei doni nuziali più diffusi - era connessa all’idea di purezza e verginità già nel Cantico dei Cantici.

74

(24)

Beigbeder75 che, ricordando l’usanza medievale - di origine orientale - per cui le donne (soprattutto le vergini) erano tenute a indossarlo quando si recavano in chiesa allo scopo di nascondere il capo76, ne aveva messo in evidenza la connessione con i

Fig.22 Spose antiche, Habiti delle Spose Venettiane, Cesare Vecellio

75

O. Beigbeder, Lessico dei simboli medievali, Milano 1989, pp. 293-295.

76

Questa consuetudine si sarebbe riflessa nell’iconografia della donna. Lo studioso (Ibid., pp. 293-294) spiegava: «il velo serve nell’iconografia romanica per distinguere le donne in chiesa, particolarmente le vergini. L’usanza risale alle tradizioni rituali orientali, specialmente ebraiche, mantenute in vita da San Paolo» […] «La donna, lei, è la gloria dell’uomo. Se una donna porta i capelli lunghi, è una gloria per sé stessa. La testa coperta è per essa il segno liturgico della sua dipendenza nei confronti dell’uomo e al tempo stesso della sua padronanza su se medesima. Con esso la donna afferma di essere altra cosa che un semplice oggetto di concupiscenza per lo sguardo» […] «Senza dubbio, questo velo che la protegge e la trattiene sul retto cammino si ricollega all’episodio del peccato originale che la rende più incline all’errore allorché si lascia andare ai propri impulsi e alla propria civetteria» […] «essa “si salverà grazie alla maternità, a condizione di perseverare nella fede, nella carità, nella santità, accompagnate dalla prudenza”. Nella maternità, l’amore raggiunge la sua espressione più grande e perfetta».

(25)

Fig.23 Spose sposate, Habiti delle spose venettiane, Cesare Vecellio

concetti di cielo77 e nozze. Proprio in relazione a questo tema nel dipinto sono stati riscontrati altri interessanti riferimenti, come dimostra ad esempio la grossa conchiglia – un buccine78 – che, secondo Christiansen, avrebbe alluso alla “vulva”. Essa incombe sulla scena grazie a Venere che, come un’impresa, la tiene sollevata per mezzo di un laccio; questo nastro ci introduce alla spiegazione del motivo del “nodo d’Ercole”, ripetuto più volte nel dipinto. Lo si riconosce, ad esempio, in quella “fascia di tessuto trasparente” che Binotto79 ha identificato come “stropolo”, o “stropheion” - indumento che le spose romane indossavano stringendolo sotto i seni

77

Ibid., p. 293: «Era un giuoco di parole corrente nel medioevo quello che accostava “coelum”, il cielo, a “celare”, nascondere. Il Cielo in effetti sfugge alla nostra conoscenza; è per noi l’aldilà». Lo studioso ricordava che, secondo Thierry di Chartres, nella Genesi Dio avesse chiamato “cielo” tutti gli elementi sottili e leggeri per la loro particolare natura di sottrarsi allo sguardo umano. Inoltre, nelle arti figurative del passato il cielo sarebbe stato rappresentato spesso come un velo, attributo ben presto associato alla donna.

78

F. Rigon, op. cit., p. 60: «“Triton variegatum”» […] «usato per il richiamo marino di tritoni, nereidi, sirene».

79

Come K. Christiansen, anche la studiosa ricorda quegli attributi che qualificano la donna distesa nel dipinto di Lotto come Venere: «la conchiglia, simbolo erotico femminile per antonomasia, le rose, il mirto, il bruciaprofumo fumigante d'incenso, l'amorino alato con una coroncina di mirto posata di sghimbescio sul capo ricciutosono gli attributi tipici della dea ciprigna».

(26)

e annodandolo dietro la schiena80 - e individuato, peraltro, nella cintura indossata da Psiche nell’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te, le Nozze di Amore e Psiche (fig.24). Nella prima notte di nozze i mariti, sciogliendo il nodo, avrebbero messo in atto il rito di passaggio che avrebbe condotto le mogli dalla condizione di vergini a quella di donne sposate. Il motivo torna nei “vezzosi lacci d’amore” – i cosiddetti “polsetti” o “smanigli” – legati intorno ai polsi della donna, “nel nastro da cui pende la conchiglia, nella fettuccia con cui la dea sostiene il serto di mirto e nella tracolla reggi-faretra che attraversa il busto di Cupido”.81

Fig.24 Giulio Romano, particolare delle Nozze di Amore e Psiche, Mantova, Palazzo Te, Sala di Amore e Psiche

80

A. Vitali, Venezia, 1992, p. 360: «“Stropolo”» […] «- nel corso del XVI secolo – secondo taluni, come per esempio il Cecchetti» […] «“era una sciarpa da testa o da collo, usata dalle donne quale copertura od ornamento del capo”» […] «“ve n’erano di veluto, molti erano d’oro, di perle, con cordelline d’oro o di seta”» […] «Secondo altri invece - come il Monticolo - lo stropolo corrispondeva allo “strophiolum” o “strophiu”’ che “era una sciarpa usata al tempo dei romani dalle donzelle, le quali la portavano attorno al busto sotto il petto”».

81

A. Vitali, ibid., p. 314: «Così il Boerio descrive i “polséti”: “Quei fermagli che ornati di gioie e legati con nastri si portano ai polsi delle donne» […] «Ed il Morazzoni, parlando del largo uso che nel Settecento si faceva di tali “polsetti” a sua volta scrive: “Al ben tornito braccio dava risalto il polsetto costituito da una placca ovale d’oro applicata ad una fettuccia nera legata ai polsi. I polsetti, sono chiamati anche smaniglie e quasi sempre sono dolce pegno d’amore» […] «La serica strisciolina nera reca spesso perle, granate ed altre perle più preziose» […] «Si è visto, nella citazione sopra riportata, che i “polsetti” erano detti anche “smaniglie” e così era infatti; ma non sono da confondere con gli “smanigli” intesi quale sinonimo di “manini”».

(27)

Claudiano, avrebbero avuto la funzione di decorare la camera nuziale. Evidentemente essi provengono dalla rosa sfiorita abbandonata ai piedi della dea, per il cui significato Christiansen rimandava a Boccaccio82. Per l’autore questo fiore era metafora del desiderio: così come esso si manifesta e scompare rapidamente, allo stesso modo la rosa, pur dilettando, ha breve vita. Il critico, quindi, ricordava Ausonio83, secondo cui sarebbe stato il sangue di Venere a “macchiare” i petali della rosa, tingendoli di rosso; nel dipinto lottesco, dunque, essi avrebbero dovuto far riflettere sulla brevità del piacere84. Tra gli altri oggetti che caratterizzano l’ambientazione della scena – la quale Lotto ha collocato in un esterno, benché il mirto e il brucia-profumo, come è stato appurato, siano elementi connessi all’arredo della camera nuziale – troviamo una serpe, una verga e una quercia sul cui tronco è saldamente avvinghiata una pianta d’edera. Levi d’Ancona85 ricordava che in passato questo attributo era stato utilizzato variamente dagli autori classici per alludere di volta in volta a concetti diversi. Ovidio, nelle Metamorfosi, aveva considerato la pianta sacra a Dioniso, dio del vino (proprio come il buon vino essa più invecchia più si fortifica) ma anche allusione al sonno. Per Plinio86 essa era simbolo di morte (crescendo essa “strangola” le piante che avvolge). Data la sua natura di arrampicarsi sulle altre piante, Catullo se ne era, invece, servito per alludere ai concetti di attaccamento, fedeltà, affetto e amore immortale87. Dunque, la studiosa concludeva che l’edera fosse metafora della sposa fedele, una metafora che Christiansen riteneva adeguata per spiegare il dipinto di Lotto: come la pianta si aggrappa saldamente alla quercia, albero simbolo di forza fisica e morale, allo stesso modo la sposa si dedica al marito. Per quanto concerne il “serpentello”88 che silenzioso fa capolino nella scena,

82

G. Boccaccio, Genealogia deorum, Venezia, 1494, III, cap.XXIII, p. 28.

83

Ausonio, Cupido cruciatur.

84

F. Rigon, op. cit., p. 60: «Rose centifoglie dallo stelo spinoso, tinte del sangue di una ferita della dea, hanno effuso o stanno per farlo, petali sparsi, in allusione alla brevità e caducità di ogni bellezza, qui comprese quelle dell’amore e della passione».

85

M. Levi d’Ancona, op. cit., p. 189.

86

Plinio, 16.62.

87

Gai Valeri Catulli Liber, LXI, vv. 31-35. Vedi paragrafo 7.4.

88

Sulla scorta di M. Binotto che – rispetto a K. Christiansen, il quale parlava di “serpentello” - ha identificato l’animale con una “biscia”, F. Rigon (op. cit., p. 60) ha escluso si possa trattare di una vipera: «Collocare una vipera, divoratrice del marito e attributo iconografico frequente di Imeneo, sarebbe stata sfrontatezza eccessiva per un dono “iniziatico” a una sposa novella, se pur nipote del

(28)

Fig.25 serpente, incisione tratta dal Delle Imprese, G. C. Capaccio

dirigendosi verso Venere, lo studioso lo considerava simbolo di lascivia rimandando a Capaccio89, che aveva interpretato l’animale (fig.25) come metafora della moglie lussuriosa cacciata dal marito. In altre parole, l’artista avrebbe inteso avvertire i destinatari dell’opera - probabilmente una coppia di novelli sposi - di guardarsi dai pericoli insiti nell’amore. La lascivia simboleggiata dal serpente avrebbe costituito, per lo studioso, “un’insidia per l’amore coniugale” da punire con la forza: per questo Lotto avrebbe collocato accanto all’animale una verga. Abbandonata a terra in primo piano, essa rappresenterebbe il mezzo con cui Cupido sarebbe stato punito per aver abusato del suo arco e delle sue frecce. L’artista, ricordava Cortesi Bosco90, aveva tra l’altro già dedicato a questo oggetto ben due imprese nelle tarsie del coro di Santa Maria Maggiore relative alle storie di Mosè (fig.26). Sulla scorta di Binotto, che

dedicatario. Il rettile» […] «per quanto non velenoso, morde ugualmente e contro le sue ferite fa da revulsivo proprio la pietra nera al centro del diadema di Venere» […] «Quindi giustificava la sua collocazione accanto alla verga» […] «esso svolge le sue spire come un nodo sciolto in prossimità di una lunga, rigida verga, pronta per eventuali punizioni a distanza delle intemperanze di Amore». Lo studioso definiva il serpente “strisciante e avvolgente come l’edera sulla quercia” sulla base di quanto affermato da Cattabiani.

89 G. C. Capaccio, Delle imprese, Napoli, ed. 1592. 90

F. Cortesi Bosco, ibid., p. 37: «La verga è il simbolo per eccellenza delle trasmutazioni, basti ricordare le verghe dei maghi egizi che davanti a Faraone si trasformarono in serpenti: ma il potere dei maghi, fondato sulla sapienza del mondo, si dimostrò inferiore a quello di Mosè, fondato sulla sapienza divina: mutata in serpente la sua verga divorò gli altri serpenti» […] «Anche la mitica verga d’oro di Mercurio è una verga divina: colpiti dalla verga due serpenti in lotta fra loro le si avvolsero attorno riconciliati, e per l’alchimista simboleggiano il dualismo della materia, la sua fissità e volatilità».

(29)

pericoloso92 tant’è che lo studioso – rimandando a Cattabiani93 - lo ha definito “strisciante e avvolgente come l’edera sulla quercia”: a confermarlo sarebbe la già citata allegoria del Matrimonio, dove la vipera è raffigurata sotto i suoi piedi. Per quanto concerne la verga, egli ha condiviso l’ipotesi secondo cui essa sarebbe stata posizionata dall’artista lì vicino allo scopo di alludere alla punizione delle “intemperanze” di Cupido94. Rimangono da analizzare ancora il manto azzurro adagiato sull’erba su cui Venere è sdraiata e il drappo rosso che, celando la scena ad occhi indiscreti, rende l’ambientazione piuttosto “claustrofobica”95. Secondo Rigon96, mentre il manto “d’azzurro profondo” su cui la dea è stesa servirebbe a distinguerla da “Venere anadioméne”, nata dalla spuma del mare, la “coltrina” che isola “l’intimo interno nuziale” avrebbe rimandato alla funzione svolta da quei drappi che venivano utilizzati per celare i dipinti a fruizione privata svelati esclusivamente in “determinate, privatissime, circostanze”. “Avviluppato al ramo sporgente dal tronco di quercia” questo tendaggio ricorda a Binotto97 l’analoga soluzione compositiva adottata nella xilografia della “Ninfa alla fonte” (Hypnerotomachia

Poliphili): qui un satiro scosta un simile telo per scoprire la ninfa addormentata. Il

motivo del ramo (fig.27) a cui il tendone è aggrappato veniva invece interpretato da Massi98 come allusione all’organo maschile, che quindi gli attribuiva un significato

propiziatorio. Giulia Cosmo99 faceva, invece, notare che il dispositivo del tendaggio

91

F. Rigon, op. cit., p. 60: «Collocare una vipera, divoratrice del marito e attributo iconografico frequente di Imeneo, sarebbe stata sfrontatezza eccessiva per un dono “iniziatico” a una sposa novella, se pur nipote del dedicatario».

92

Ivi: «Il rettile» […] «per quanto non velenoso, morde ugualmente e contro le sue ferite fa da revulsivo proprio la pietra nera al centro del diadema di Venere».

93

Op. cit., p. 109: «L’edera» […] «la si è paragonata al serpente, e nella natura fredda attribuita ad entrambi si è trovato il motivo per cui essi appartengono a Dioniso».

94

Ivi: «esso svolge le sue spire come un nodo sciolto in prossimità di una lunga, rigida verga, pronta per eventuali punizioni a distanza delle intemperanze di Amore».

95

M. Binotto, op. cit., p. 254: «Lotto ambienta la scena in uno spazio angusto delimitato nello sfondo da un tessuto drappeggiato».

96

Ivi: «un drappo increspato, d’un azzurro profondo, quindi del colore del mare» […] «sotto il corpo di una Venere non più anadioméne, spiegato in un prato fiorito di primavera, perciò nella “rus”, “luogo in cui meglio Venere esprime i suoi doni”».

97

M. Binotto, op. cit., p. 253.

98

N. Massi, Lorenzo Lotto’s New York “Venus”, in Watching Art: writings in honor of James Beck, 2006.

99

(30)

usato in funzione di fondale scenografico ricordava molto il “parapetasma”, motivo diffusissimo nell’antichità e utilizzato fondamentalmente nei rilievi marmorei dei sarcofagi classici. Il ricorso da parte di Lotto a questo antico espediente giustificava, a suo dire, il gusto del pittore per un certo sperimentalismo: l’artista lo avrebbe riproposto anche nella Sacra Famiglia100della Pinacoteca del Palazzo Apostolico di Loreto (fig.28). Seppur non fosse in grado di individuare con precisione l’esemplare a cui Lotto avrebbe attinto, la studiosa indicava come probabile fonte del motivo della tela newyorkese il sarcofago con la Morte di Adone (fig.29), che ora è conservato presso il Palazzo Ducale di Mantova, ma che agli inizi del ‘500 doveva trovarsi nella casa romana dello scultore Andrea Bregno. Se in scultura il parapetasma aveva lo scopo di ovviare alla difficoltà di rendere plasticamente lo sfondo paesistico, al contrario nell’opera di un notevole paesaggista quale, a suo dire, era Lotto esso costituiva un limite.

Fig.26 La verga nel coperto allegorico Le tavole della Legge, coro di Santa Maria Maggiore, Bergamo

100

Ibid.: «nascose quasi completamente il paesaggio dietro una specie di tenda fissata con dei nodi piuttosto grossolani ai lati, in modo da costituire un fondale scenografico».

(31)

Fig.27 Venere e Cupido mingente, particolare del ramo di quercia

(32)

Fig.29 Morte di Adone, particolare del rilievo del sarcofago

6.8 - Letture “alchemiche”

Secondo Cortesi Bosco101 Christiansen, pur avendo giustamente individuato nell’opera quegli elementi che ne denotavano la destinazione nuziale, avrebbe escluso “a priori la ricca simbologia alchemica” che, a suo dire, “innerva l’intreccio di mito e rito”. La studiosa insisteva nel rimarcare che all’epoca di Lotto102, a Bergamo – città dove la Venere con Cupido mingente era stata concepita – la classe aristocratica avesse avuto una certa familiarità col pensiero ermetico e rimandava a Erwin Panofsky103, il primo ad aver ricondotto all’ambiente colto del nord Italia - nello specifico a quello bergamasco - la nascita della pratica di adornare le dimore con dipinti “ermetici” allo scopo di “trascendere la comprensione del plebeo” . Proprio a Bergamo, come ha ribadito Binotto, il nostro pittore aveva effettivamente lasciato una prova inconfutabile di simili interessi, realizzando le tarsie del coro di

101

F. Cortesi Bosco, in “Art e Dossier”, IX, 1994, pp. 34-37;

102

L’artista avrebbe voluto indurre il fruitore a spingersi “oltre lo schermo dell’apparenza” nella lettura del soggetto, che altrimenti sarebbe stata estremamente banale.

103

E. Panofsky, L’iconografia della Camera di San Paolo del Correggio, in Correggio e la Camera di San Paolo, trad. it. a cura di F. Barocelli, Milano, 1988, p. 166.

(33)

intrattenne rapporti - bensì dai Reggenti della Misericordia. L’esecuzione della tela, perciò, dovrebbe collocarsi al termine della permanenza del pittore nella città lombarda. L’occasione sarebbe stata quella del matrimonio di Caterina Suardi e Girolamo Brembate, figlio di quei Leone e Lucina Brembate ritratti da Lotto nelle vesti di “Sole” e “Luna105. Per la studiosa, un aspetto dell’invenzione lottesca di cui Christiansen sembrava non essersi accorto riguardava il rapporto fra le due divinità raffigurate: l’unione divina evocata da Lotto sarebbe stata di fatto un’unione tra madre e figlio e di conseguenza incestuosa. Un simile tema - trasgressivo delle norme etiche, sociali e religiose - avrebbe destato scalpore se rivolto all’attenzione di un pubblico plebeo, ma tollerato se inserito, al contrario, in un dipinto a destinazione nuziale e volto alla fruizione da parte di un pubblico colto, educato al pensiero alchemico.

Binotto106 ha accolto l’interpretazione della studiosa affermando che quella fra Venere e Cupido dovrebbe essere intesa come “unione maritale in chiave alchemica”: la dea sarebbe “la femmina verso la quale il puer mingens dirige, con un tipico ludus puerorum, l’urina/Mercurio filosofico”, cioè “l’elemento maschile”, mentre il “mirtus coniugalis”, sorretto da entrambe le divinità, permetterebbe allo spirito di riunirsi al corpo. Alla fine degli anni ’90, in uno studio dedicato all’opera “ermetica” di Lorenzo Lotto, Zanchi107 prendeva in esame il dipinto del Metropolitan, spiegando la figura di Cupido/Eros sia - come nella simbologia cristiana - quale incarnazione di una realtà “divina e spirituale”, sia - riportandoci alle origini della mitologia greca - come “Salnitro celeste”. Come la lettura offerta da Cortesi Bosco – che vedeva nell’unione di Cupido e Venere un “processo di

104

Tra queste spicca quella raffigurante la “Nutrizione del Lapis”, visibile nella porta centrale del coro, dove il tema della purificazione e perfezione spirituale è espresso sotto forma di metafora alchemica.

105

Vedi F. Cortesi Bosco ( ibid., pp. 33-38).

106

Secondo la studiosa la curiosità dell’artista per la scienza alchemica e le sue tematiche risalgono ai primissimi anni della sua attività pittorica, quando è al servizio del vescovo Bernardo De’ Rossi, a Treviso. A quello stesso periodo sembra inoltre risalire anche la frequentazione di Giovanni Aurelio Augurelli, autore del poema alchemico Chrysopoeia (Venezia, 1515). Questo interesse sarebbe cresciuto in seguito a Bergamo, dove Lotto avrebbe avuto rapporti con Battista Suardi e Giovanni Maria Rota.

107

(34)

reintegrazione” “psichico e spirituale” “dell’uomo interiore attraverso la fusione armoniosa degli opposti grazie all’amore” - anche quella del critico, per quanto interessante, si rivela piuttosto cervellotica.

6.9 - Le “Veneri” in Lotto e Tiziano

Secondo Binotto, l’approccio di Lorenzo alla tematica profana sarebbe stato molto diverso da quello di Tiziano. Ne sarebbe evidente conferma la trattazione del soggetto della “Venere”: «Se le Veneri di Tiziano sono dee pagane dell'amore, che

indossano abiti alla moda, la Venere di Lotto ha l'aria di una donna vera, con il diadema e il velo di una sposa dell'epoca. L'accentuazione dell'aspetto più carnale dell'amore coniugale, attraverso la fitta trama di rimandi simbolici, rivela ancora una volta la carica gioiosa, ma quasi “dissacrante”, dell'invenzione lottesca» […] «Originale e significativa è inoltre la scelta di eliminare l'afflato sentimentale e rassicurante del paesaggio arcadico in cui giacciono le dee dei suoi colleghi. Lotto ambienta la scena in uno spazio angusto delimitato nello sfondo da un tessuto drappeggiato, quasi che la narrazione, compresa fra il tendaggio e il piano di superficie, imitasse l'andamento “a fregio” dei rilievi scultorei dei sarcofagi antichi». Se da un lato riunisce in sé Afrodite Pandemia e Afrodite Urania, la Venere

lottesca è innanzitutto una “donna” in carne ed ossa che indossa gli attributi propri di una sposa. Essa non è collocata in un paesaggio alla maniera di Tiziano: un drappo avvolge i protagonisti conferendo alla scena una sensazione claustrofobica e l’aspetto di un fregio scultoreo. In conclusione si può aggiungere che la novità della tela, come evidenziava Christiansen, avrebbe consistito nella capacità del Lotto di mascherarne la complessità e l’erudizione - utili a rielaborare iconografie e simboli attinti dagli ambiti più disparati (letterario, mitologico, filosofico e alchemico) - attraverso il suo sottile umorismo e un linguaggio espressivo dei più raffinati.

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