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CAPITOLO 1 ASPETTI STORICO-CULTURALI DEL TEATRO EURIPIDEO E CREZIONE DI UNA NUOVA DIMENSIONE DELLA TRAGEDIA

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CAPITOLO 1

ASPETTI STORICO-CULTURALI DEL TEATRO EURIPIDEO

E CREZIONE DI UNA NUOVA DIMENSIONE DELLA

TRAGEDIA

A partire dal 430 a.C. una crisi scuote il mondo ellenico: essa si manifesta tanto nei cambiamenti che subisce la vita quotidiana, quanto nell’evoluzione del teatro, della scultura, della ceramica, o nelle trasformazioni delle credenze religiose. Le creazioni dello spirito non sono meno brillanti di quelle della generazione precedente, dell’età classica propriamente detta, ma l’inquietudine succede alla serenità, il dubbio alla certezza, la ricerca all’equilibrio.1

Due cause indipendenti spiegano quest’evoluzione generale. La più appariscente è la guerra del Peloponneso, lo scontro in cui la potenza di Atene vacilla lungamente prima dello sfacelo e in cui si assiste al declino del suo equilibrio politico, sociale ed economico, ben prima della disfatta di Egospotami del 404. In molti campi, tuttavia, la trasformazione è anteriore al conflitto stesso. Un gruppo di pensatori, infatti, rompendo con una tradizione vecchia di quasi due secoli, distoglie l’attenzione dai problemi cosmologici ed ontologici per trasferirla sull’uomo: la loro critica corrosiva contribuirà ad infrangere le vecchie strutture della paidei/a ellenica. Si tratta della Sofistica, il cui insegnamento innovativo risponde ad un’esigenza profonda di rinnovamento: nessun nuovo sistema di educazione aveva fino ad allora sostituito quello antico, aristocratico, fondato sulla lettura e sul commento dei vecchi poeti.2

Una breve digressione preliminare sulla situazione dell’Atene di fine V secolo, ed in particolare sul movimento sofistico, appare quanto mai indispensabile per la trattazione della personalità di Euripide. Lévêque, non a caso, definisce il

1

Lévêque, P. , La civiltà greca, Torino, 1970, p. 300. 2

Lanza, D. , Sofi/a e swfrosu/nh alla fin dell’età periclea, in “Studi Italiani di Filologia

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poeta senza mezzi termini “un sofista inquieto”.3 Euripide difatti si pone come un pensatore orgoglioso che, per quanto imbevuto del nuovo pensiero, ottiene solo cinque volte il primo posto con le 78 opere che presenta e preferisce, ormai alla fine della sua vita, lasciare l’ingrata Atene per la corte di Pella.4

Nessuno più di lui porta il segno di questa epoca, non soltanto perché la sua opera pullula di allusioni precise che spesso fanno la gioia dei commentatori moderni, ma anche e soprattutto perché ne esprime tutte le inquietudini. Egli, in realtà, non possiede alcuna dottrina, alcun sistema paragonabile a quelli dei suoi predecessori, ed inoltre sembra divertirsi a ritrattare in un’opera quello che aveva enunciato in un’altra. Si interessa alla ricerca e all’analisi, non all’ elaborazione di una metafisica o di una morale di cui fissare le norme di volta in volta. Tale atteggiamento gli è imposto non solo dalla sua natura, dalla sua intelligenza sottile ed eccessivamente fluida, incapace di fissarsi, ma anche dall’educazione ricevuta dai Sofisti, che gli hanno insegnato a discernere in tutto il pro e il contro.5

Euripide abbandona i grandi temi eschilei e sofoclei, il rapporto tra dei ed uomini, il ruolo dell’uomo nel mondo ed il senso della sua esistenza, per interrogarsi sui rapporti tra gli uomini, sul ruolo della ragione umana nelle scelte. La sua opera appartiene ancora per molti aspetti all’età classica, ma la grandiosa compattezza del V secolo a.C. inizia a dissolversi: il pathos della passione ardente è accostato ad una contemplatività razionalistica, l’intensità del dubbio supera la certezza della risposta. L’irrequietezza spirituale è la caratteristica principale dei personaggi che Euripide mette in scena, tratteggiati con un’efficacia che ha fatto pensare all’indagine psicologica. Le norme e le strutture del vivere sociale sono il principale oggetto del suo interesse: gli dei non sono più la metafora delle forze irrazionali che determinano il destino umano, bensì

3

Lévêque, P. , La civiltà greca, p.308, Op.cit.

4

Lesky, A. , Storia della letteratura greca, vol. 2, p.479, Milano, 1980.

5

Sulla questione importanti annotazioni provengono da Dodds, E.R. , Euripides the

Irrationalist, “Classical Review”, 43, 1929 e da Petruzzellis, N. , Euripide e la sofistica,

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rappresentano per lo più delle convenzioni insite nel corpo sociale; in tal senso la divinità viene costantemente esposta al dubbio ed alla confutazione. In generale Euripide tratta in teatro soggetti che scavano nella profonda intimità dell’animo umano, esplorando i contrasti tra il trascendente e l’immanente, l’apparire e l’essere, la dissimulazione e la verità.

La tragedia greca, pertanto, nata dal culto e vissuta in un’atmosfera divina, legata alla po/lij e da essa dipendente, comincia con Euripide inesorabilmente a declinare, perché si avvicina troppo alla vita quotidiana, cosa di cui si accorgono già i contemporanei ed in particolare Aristofane, che nel suo “rimpianto del passato”6 vede in Euripide il funesto corruttore della mentalità pubblica contemporanea. Essa si spegnerà lentamente nel corso del IV secolo, e Aristotele nella Poetica, cercherà invano di illustrarne la vera natura partendo da un punto di vista filosofico.7

1.1 La tragedia greca come genere politico per eccellenza

Proprio Aristotele, col suo trattato di Poetica, si rende conto che ormai, nel IV sec. a. C. , la tragedia greca, nata dal culto dionisiaco e dalla coralità della po/lij, ha perso ineluttabilmente il suo carattere peculiare di “politicità”, sul quale si erano fondati i drammi dei tre grandi tragediografi, Eschilo, Sofocle ed Euripide. La tragedia ateniese del V sec. a. C. , infatti, si può definire teatro politico, anche se in un’accezione del tutto opposta alla definizione di teatro politico in senso moderno.8 Il teatro di Atene è costituzionalmente politico, appartiene integralmente al tessuto della po/lij , ne mutua l’ordinamento, le modalità organizzative, i contenuti e perfino il linguaggio stesso.9

6

Lévêque, P. , Aristofane o il rimpianto del passato, in La civiltà greca, pp. 305-7, Op.cit.

7

Gallavotti, C. , (a cura di), Aristotele, Dell’Arte Poetica, 6, 2, Milano, 1990.

8

Lanza, D. , Il tiranno e il suo pubblico, pp. 15-32, Einaudi, Torino, 1977.

9

Opera imprescindibile in proposito resta Baldry, H.C. , I Greci a teatro, spettacolo e forme

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È all’interno della po/lij, al di sopra del disordine dei conflitti tra le diverse componenti sociali, che si afferma la logica di un comportamento politico che sana il conflitto e unifica le fazioni: la decisione politica investe e vincola tutti, essa permette e garantisce l’unità della città; il singolo uomo, pertanto, è assimilato alla comunità e il risultato è che l’individuo diventa “analogia della città”. Platone, definendo con chiarezza nella Repubblica questo rapporto analogico (a0nh\r o9moi=oj po/lei) e Aristotele, nell’ Etica Nicomachea, ponendo la decisione (proai/resij) come l’elemento caratterizzante il comportamento morale, e la capacità di decidere (to\ proairetiko/v) come la discriminante per la definizione dell’uomo, non faranno che rendere esplicita, filosoficamente coerente e motivata, una concezione che è già viva nel poeta tragico.10

Lo stesso schema di rappresentazione drammaturgica del V secolo, col particolare allestimento tecnico e scenografico, con lo stesso ambito strutturale, oltre che politico-culturale, presuppone un rapporto particolarmente diretto e a contatto col pubblico, con i poli=tai e solo con quelli in quanto tali, giacché dall’ambiente teatrale erano quasi del tutto esclusi, o quantomeno reputati di secondo grado, tutti coloro che si collocavano nell’ inestricabile coacervo di meteci, prosseni, barbari.11

Le manifestazioni di approvazione e di eventuale dissenso dei cittadini, pertanto, riguardano le sentenze teatrali in sé e per sé, la loro adesione al modello standard canonizzato dalla po/lij , la sua attualità, la conformità agli schemi agonali, cristallizzati dalla cultura corrente: esulano da qualsiasi tentativo di valutazione estetica la congruità di tali sentenze col carattere complessivo del personaggio. La gnw/mh, in altri termini, se si avvale di una propria fruizione diretta e non meramente estetica, non è per questo mai isolabile dall’intreccio che la lega alla

10

Importante in proposito Cantarella, R. , Atene. La polis e il teatro, “Dioniso” 39, pp. 39-55, 1965. Per la Repubblica di Platone si veda l’introduzione a cura di Adorno, F. , pp. V-LXVI, in Platone, La Repubblica, vol. I, Milano, 1981. Per l’Etica Nicomachea di Aristotele cfr. l’Introduzione a cura di Zanatta, M. , pp. 5-74, vol.I, Milano, 1986.

11

Sull’argomento cfr. Arruga, F.L. , Considerazioni sul rapporto fra regia e pubblico nelle

rappresentazioni della tragedia greca, “Dioniso”, 41, pp.319-25, 1967 ; di rilievo anche: Atti del III congresso internazionale di studi sul dramma antico. Sfondo sociale e politico della tragedia e della commedia antica, “Dioniso”, 43, 1969.

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pra/cij e al pa/qoj . Il gioco scenico amplifica l’incisività della gnw/mh , la sua forza suasoria, il suo intento conativo, parenetico-protreptico, non solo perché la esprime dal palcoscenico, cogliendo il pubblico in una condizione di maggiore ricettività, ma soprattutto perché coglie questo pubblico già emotivamente predisposto.

All’interno di questo formulario civile e culturale solidamente codificato, si inseriscono le varie personalità dei tragediografi, anch’essi rigidamente sottoposti al verticismo gerarchico della po/lij, anch’essi più o meno investiti o destituiti di poteri e di prestigio dalla città stessa, in quanto depositari della sua etichetta canonizzata.12

La scelta degli autori (di cui l’occasione religiosa dionisiaca permane ora solo come labile fossile arcaico-tribale), spettava all’arconte eponimo, membro dell’alta aristocrazia.13

Si ignorano in gran parte i meccanismi di questa selezione preliminare: giocavano indubbiamente fattori di prestigio poetico, ma non dovevano essere estranei motivi di affinità ideologica e di clientelismo politico. Sostiene in proposito Hauser14 che nei ludi scenici la po/lij possiede il più prezioso strumento di propaganda, e non è certo disposta ad abbandonarlo all’arbitrio dei poeti. I tragici sono degli stipendiati dello Stato e suoi fornitori: questo li remunera per le opere realizzate, ma naturalmente fa rappresentare solo quelle che corrispondono alla sua politica e agli interessi dei ceti dominanti. Questo discorso già lascia intravedere i prodromi del brusco distacco del tardo Euripide dalla incompresa società del suo tempo, con ampie ripercussioni sul suo apparato più strettamente stilistico-formale.15

12

Sui problemi di organizzazione degli agoni tetrali cfr. Pickard - Cambridge, A.W. , The

Dramatic Festivals of Athens, Oxford (II ed.), 1968 e Blume, A.D. , Einführung in das antike Theaterwesen, Darmstadt, 1978.

13

Thomson, G. , Aeschylus and Athens. A study in the social origins of drama, “RPh”, XLIII, pp. 126 sgg. , 1969.

14

Hauser, H. , Storia sociale dell’arte, pp.137-66, Torino, 1955.

15

Cfr. Savino, E. , Politicità della tragedia, Introduzione a Sofocle, Aiace, Elettra, Trachinie,

Filottete, Milano, 1981 . Più radicali e di avanguardia le posizioni di Citti, V. , Tragedia e lotta di classe in Grecia, Napoli, 1978.

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Anche le giurie preposte alla graduatoria dei poeti, nonostante complicati congegni di sorteggio idonei ad assicurare una teorica equità di verdetto, avranno subíto certamente le pressioni di autorità ed organizzatori. Non sorprende in proposito che nell’albo d’oro degli agoni spicchi nettamente Sofocle con 24 trionfi contro le 13 affermazioni di Eschilo e le solo 4 (secondo altri 6) di Euripide: il poeta dell’Aiace e dell’Antigone calava nei suoi drammi l’ideale di moderazione conservatrice del ceto privilegiato.

Anche il qewriko/n, ovvero il biglietto gratuito per i nullatenenti, istituito forse da Pericle, appare una provvidenza di democrazia autentica solo a un romanticismo ingenuo: in realtà, solo un teatro che dipenda interamente dai propri introiti può essere veramente popolare. Ogni sussidio elargito dal regime esige infatti una contropartita: l’aderenza alle linee dell’ideologia.

Collocata entro questo quadro storico-culturale, l’opera euripidea non poteva che esserne inevitabilmente lesa e censurata, al punto da accettare da parte del suo autore il volontario esilio macedone su un piano meramente storico, ed una fuga verso l’astrazione poetica ideale su quello più strettamente estetico letterario.16 Le sue tragedie, lungi dall’adeguarsi ai prototipi canonizzati dalla classe dirigente, imbevute di razionalismo sofistico, agiscono sulla tradizione e la smantellano, poiché investono le credenze fondamentali, lungamente elaborate nel corso dei secoli precedenti, su cui poggiavano la città, la morale, la religione.17 Esse incarnano integralmente lo scetticismo e il dubbio sistematico che Euripide nutriva sulla realtà della sua epoca.

Molto prima della crisi del secolo seguente, la nozione di po/lij, fondata sul rispetto della legge, sulla sottomissione dell’individuo alla collettività, sulle distinzioni arbitrarie tra cittadino e straniero, si sgretola. Si è inequivocabilmente di fronte al trionfo dell’individuo che ha come sola arma la ragione contro gli imperativi dello Stato e della tradizione.

16

Su questo argomento fondamentale è il capitolo La fuga verso la poesia bella, in Di Benedetto, Euripide, teatro e società, Torino, 1975.

17

Sull’argomento restano opere fondamentali Zuntz, G. , The Political Plays of Euripides, Manchester, 1955.

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14

Di questo vivificante terremoto culturale che investe nella seconda metà del V secolo il mondo greco ed Atene in particolare, l’opera euripidea costituisce uno specchio fedele, anche se talora l’elemento culturale e ideologico appare renitente e refrattario dietro il decor della veste poetica che lo adombra. Questo umanesimo sofistico, col suo radicale relativismo e la conseguente intolleranza dell’universo canonico dei valori immutabili, esterni all’individuo ed anche all’uomo, su cui riposava il patrimonio delle credenze etico-religiose, offre tuttavia un terreno quanto mai fertile ai “reazionari”, tra i quali Aristofane occupa una posizione di tutto prestigio, ed in cui naturale sarà coinvolgere nella sofistica, e tanto più nei suoi aspetti discutibili, tutto il pensiero critico nei confronti della tradizione, in primis Socrate, Anassagora, ed inevitabilmente Euripide.

1.2 Aspetti di pensiero sofistico euripideo nella critica di Aristofane

Proprio da una delle più compiute commedie di Aristofane, le Rane, ci è pervenuto, al di là delle eventuali cautele delle deformazioni comiche e delle idiosincrasie ideologiche circa la loro veridicità storico-culturale, uno tra i più decisivi documenti sul pensiero prevalente negli strati alti dei ceti dominanti nell’ormai agonizzante Atene di fine V secolo: le Rane, infatti, vengono rappresentate alle Lenee del 405, proprio un anno prima della decisiva sconfitta navale ateniese ad Egospotami.18

Il serrato confronto letterario tra Eschilo ed Euripide, i due tragici rappresentanti di due mondi alternativi, che Aristofane pone sulla scena, chiarisce pienamente la sua poetica come funzione della politica culturale. Per quanto le forme dell’arte tragica, la drammaturgia e anche la dizione vengano ampiamente discusse nel dibattito, in cui si rimprovera ad Eschilo la staticità e l’uso di un linguaggio troppo paludato e ad Euripide i difetti contrari, la sostanza dell’opposizione

18

In proposito cfr. Hooker, J.T. , The composition of the Frogs (influenza di Euripide), “Hermes” CVIII, pp. 169-82, 1980.

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15

concerne i contenuti e la loro capacità di influenzare il pubblico, individuato come società civile.19

Su questo piano, mentre ad Eschilo non vengono contestati che punti particolari, come la funzionalizzazione etico-politica di singole tragedie, si sviluppa la grande polemica aristofanea contro Euripide, riassumendo a livello di ideologia e di concezioni estetiche, tutti gli strali già scagliati nelle Tesmoforiazuse e negli

Acarnesi. Il problema in questione è ancora in sostanza la polarità tra vecchia a e

nuova cultura, attorno all’uso della parola e di quella particolarmente efficace e risentita che è la parola poetica, ingigantita dall’eco della dimensione teatrale. L’onnipotenza del lo/goj è connotata da Aristofane con il carattere di indegnità morale che compete evidentemente ai suoi possibili abusi, per cui il vanto che Euripide si attribuisce di avere insegnato a ragionare a tutti, anche ai diseredati, diventa una colpa se vi si vedono i germi dell’insubordinazione e del disordine che è fin troppo facile attribuire a ogni pensiero critico.20

In questi termini, nella commedia aristofanesca, la sottigliezza e l’articolazione del pensiero, sono le matrici della condanna del poeta più giovane, assieme alla sua presunta capacità di stabilire modelli di comportamento in due specifici campi: l’etica sessuale, per cui si dice che le sue eroine, ammalate d’amore, e spesso di amore illecito, spingono le oneste donne ateniesi sulla strada del vizio, e il dovere del decor fisico come contropartita della nobiltà genetica e spirituale. Questo discorso, la cui inaccettabilità è evidente non solo a chi si preoccupi dell’autonomia dell’arte, ma anche a chi ne intraveda la natura profondamente oscurantista, arrivava in ritardo rispetto ad un’evoluzione della cultura ormai inarrestabile, ma sembrava anche tragicamente intempestivo rispetto al crollo della società che era stata nutrita di valori arcaici. Conclude in proposito, pessimisticamente, Paduano: «Dioniso che riporta Eschilo sulla terra è l’ultimo grido di attaccamento al passato della città a cui è stato tolto il futuro.»21

19

Fondamentale sull’argomento il capitolo Aristofane e l’estetica, in Snell, B. , La cultura greca

e le origini del pensiero europeo, pp. 166-189, Torino, 1963. 20

Paduano, G. , La formazione del mondo ideologico e poetico di Euripide, Pisa, 1968.

21

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16

La cecità storicistica di Aristofane, ferrea nella sua abnegazione, rigetta senza mezzi termini i personaggi euripidei pezzenti e straccioni: di fronte al mastodontico armamentario scenico eschileo animato talora da scenografie esotiche in cui agiscono figure di sovrani solenni e dignitosi e coreografie austere e sentenziose, di fronte alla titanica imponenza degli eroi sofoclei, custodi di un’incrollabile libertà morale ed umana, prima ancora che fisica e sociale, egli irride sarcasticamente le inedite figure euripidee di dei, grotteschi e cinici burattini, di eroi corrosi ed immiseriti, controfigure in negativo della sublimità tragica tradizionale.22

Un esempio esplicativo a riguardo si trova in Acarnesi ai vv.420-34, dove viene beffardamente elencata una tristissima sequenza di eroi euripidei connotati delle più negative peculiarità sia fisiche che morali; analogamente nel finale delle

Nuvole, del 423, quindi di poco posteriori agli Acarnesi, la polemica

antieuripidea si colora negativamente incentrandosi ancora una volta nella polarizzazione Eschilo-Euripide come scontro generazionale: provocatoriamente viene chiamato in causa il momento forse più scottante della tematica euripidea ovvero l’ammissione dell’incesto nella perduta tragedia Eolo, tra i due fratelli Canace e Macareo, come epilogo del diverbio padre-figlio, ossia tra Strepsiade e Fidippide.23

22

Sui personaggi aristofanei ed in particolare sulle loro caricature comico-parodistiche, spunti interessanti in Ehremberg, V. , The People of Aristophanes, ed. II, Oxford, 1951.

23

Aristofane, Nuvole, vv.1361-1376, (r9h=sij di Strepsiade): «Queste cose le ha dette prima, in casa; ed ha detto che Simonide è un cattivo poeta. Io dapprima ho sopportato: a fatica, ma ho sopportato. Poi l’ho invitato a prendere un ramo di mirto e a recitarmi almeno qualche verso di Eschilo. E lui subito: “A mio parere, Eschilo supera tutti i poeti:… è pieno di rumore, incoerente, ampolloso, crea parole alte come montagne”. A questo punto, potete immaginare come mi sconvolse il cuore! E tuttavia, mordendomi l’anima, dico: “Recitami almeno un pezzo di questi moderni: non importa quale, ma ben fatto”. E lui subito attacca una tirata di Euripide, quella del fratello che, dio ci scampi, si sbatte la sorella uterina. Allora non mi sono più tenuto e l’ho preso a male parole, ingiurie; e poi – è naturale – una parola tira l’altra, e veniamo alle mani: lui mi salta addosso, mi gonfia di botte, mi riduce in cenere, mi strangola, mi pesta». (Traduzione da Aristofane, Commedie, a cura di Mastromarco, G. , vol.I, p.433, Torino, 1997). In proposito dalla fonte si riporta la nota 163, particolarmente significativa per la perduta tragedia euripidea: «La specificazione non è superflua: la legge ateniese permetteva patrimoni tra figli dello stesso padre e di madri differenti; ma considerava incestuoso il rapporto tra figli della stessa madre e di padri differenti. Qui si allude probabilmente all’Eolo di Euripide, in cui

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E’ palese dalla lettura di questo passo che la cristallizzata tergiversazione di Aristofane, attardata anacronisticamente su pregiudiziali tradizionalistiche, riveli il rifiuto deliberato di una dialettica storica incontenibile di cui Euripide simboleggiava il prototipo paradigmatico destinato peraltro a trionfare di lì a poco in età ellenistica.

1.3 Nuovi ceti sociali sulla scena euripidea

Aristofane e buona parte degli Ateniesi contemporanei si mostrano incapaci di afferrare i numerosi precorrimenti euripidei di tematiche che anticipano moderne posizioni sia sociali sia esistenziali.24 Si ritiene sufficiente citare solo alcune di esse: ad esempio il contadino dell’Elettra, di umile condizione sociale, svolge un ruolo di primo piano, impensabile e improponibile nei drammi più arcaici di Eschilo o contemporanei di Sofocle. Il povero contadino, che non tocca Elettra e che, con profonda comprensione cerca di alleviarne il dolore, è una di quelle figure di cui il poeta si serve per rappresentare l’irrompere di valori nuovi. Antiche barriere sono state abbattute e in Euripide si incontra spesso lo schiavo che nel corpo non libero cela un’anima nobile.25

Su questa scia, il senso dell’humanitas euripidea segna il punto culminante del processo iniziato dalla sofistica agli inizi del V secolo, nel particolare atteggiamento di benevolenza e simpatia che egli assume con una barbara-meteca come Medea nell’omonima tragedia e, particolarmente riguardo agli schiavi, come attesta in Ione (vv. 854-6): «Una sola cosa è motivo di vergogna per gli schiavi: il nome; in tutto il resto nessuno schiavo è inferiore a chi è libero, se è onesto», ed in Elena (vv. 728-31): «io, benchè nato schiavo, tuttavia vorrei essere

era trattato l’amore incestuoso tra Macareo e la sorella Canace, conclusosi tragicamente con la morte dei due amanti (cfr. Platone, Leggi, 838c).»

24

Cfr. sull’argomento Della Valle, E. , Tragedia e commedia antica. Senso e limiti della loro

attualità, “Dioniso” 39, pp.95-109, 1965. 25

Cfr. Lesky, A. , Storia della letteratura greca, vol.II, pp.504-5, Op.cit. e di Benedetto, V. , La

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annoverato tra i servi di nobili sentimenti avendo così di libero non il nome, ma l’anima.»26

Questi principi sia pure sporadici e sparsi all’interno della summa dell’opera euripidea, sconvolgono i fondamenti della vita antica, in particolare dell’etica omerico-aristocratica, ancora alla base della precettistica didattica greca nel V sec. a.C. : continuando attraverso la commedia di Filemone e Menandro, essi assorbiranno gli insegnamenti delle filosofie ellenistiche e, col tramite del cosmopolitismo stoico dell’Impero Romano, si rinsalderanno e rinvigoriranno grazie all’apporto della nuova linfa cristiana: sarà proprio allora che verrà scardinata definitivamente l’angusta ottica di una società campanilistica e precostituita che, ancora nel IV sec. a.C. , col suo maggiore pensatore, Aristotele, reputava lo schiavo come dou=loj, cioè servo per natura (fu/sei), atto ad obbedire, così come obbediscono le bestie.27

Un esempio significativo di rivoluzionamento in chiave sociale viene offerto anche dalle Fenicie, quando la corifea, intercalandosi alla r9h=sij di Polinice nel I episodio, così recita: «La Fenicia è la patria che mi allevato, e i figli dei figli di Agenore mi hanno mandato qui come primizia per Febo da un bottino di guerra.»28 Sulla questione Medda sostiene che con l’espressione ai vv. 281-2 doro\j … a0kroqi/nion, nel suo senso più naturale, bisogna intendere “primizia del bottino di guerra”, e conclude che le donne del coro sono prigioniere di guerra: ciò suffragherebbe ancora una volta la predilezione dell’ultimo Euripide di trovare spunti costanti in ambiti sociali meno elevati e borghesi, o addirittura, come in questo caso, di condizione servile per la costituzione dei suoi protagonisti tragici.29

26

Cfr. sull’argomento Westermann, W.L. , The Slave Systems of Greek and Roman Antiquity, pp. 22 sgg. , Philadelphia, 1955.

27

Aristotele, Politica, I, (a cura di) Viano, C.A. , Milano, 2002.

28

Medda, E. , (a cura di) Euripide, Fenicie, vv. 280-3, p. 149, Milano, 2010

29

Hermann, G. ( in Euripidis Tragoedias, II, p. IV, “Phoenissae”, pp. XI sgg, Lipsia, 1840) osserva come le donne si identifichino con la comunità dei Tirii al punto da dichiarare di essere state prescelte “nella loro città” (cfr. v. 214 po/leoj e0kprokriqei=s’ e0ma=j). Secondo lui, al contrario di ciò che sostiene Medda, dovrebbe trattarsi di libere cittadine di Tiro; in questo caso, però, diventa necessario intendere doro\j … a0kroqi/nion in senso generico come “offerta per

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19

Sempre all’interno delle Fenicie, nel I episodio, un ulteriore spunto di riflessione sulla condizione servile ci viene offerto, all’interno di un’ampia sticomitia tra Polinice e Giocasta, da un trimetro di quest’ultima dal chiaro andamento gnomico-aforistico; si tratta del v. 392: «E’ tipico degli schiavi: tacere quel che si pensa», in cui Euripide ribadisce la nobiltà d’animo del servo, costretto però da angusti ceppi sociali secolarizzati a relegarsi in una condizione di coatta emarginazione.30

Nonostante questi frequenti rimandi a spunti di metabolismo sociale, si tratta in realtà di conquiste dello spirito che nascono più per involontaria ed in qualche modo inconscia intuizione euripidea che non per intenzionalità ideologica deliberatamente perseguita dal poeta. Sulla questione interviene infatti Di Benedetto:31 egli ridimensiona storicisticamente i facili entusiasmi della critica classicistica sostenendo che l’egualitarismo di cui Euripide sembra essere, ed in un certo senso è, portavoce nelle tragedie più tarde, si colloca entro confini piuttosto angusti che non vanno oltre l’ordinamento sociale tradizionale e gli interessi contingenti di Atene. In effetti il rinnovamento apparentemente rivoluzionario di Euripide circa l’apertura a personaggi di strati più umili della società è circoscritto in limiti ben determinati: esso non rispecchia in realtà un discorso filosofico di grandi aperture e si presenta piuttosto come l’espressione di un atteggiamento teso, di volta in volta, alla ricerca di una posizione politica

una guerra”. A questa interpretazione si oppone tuttavia Medda (ne Il coro straniato:

considerazioni sulla voce corale nelle “Fenicie” di Euripide, “Prometheus” 31, pp. 119-31,

2005). Egli sostiene infatti che l’argomento di Hermann è tutt’altro che cogente, dal momento che non mancano nella tragedia greca esempi di cori di schiave che si identificano con la prospettiva dei padroni, come ad esempio nelle Coefore di Eschilo. In riferimento ad Euripide, peraltro, nello Ione, le serve di Creusa si sentono Ateniesi al punto che al v. 719 definiscono Atene e0ma\n po/lin , come anche nelle Fenicie al v. 214, nella variante sintattica al genitivo singolare po/leoj…e0ma=j, e sempre nello Ione euripideo, al v.236, esse si riferiscono a Xuto e Creusa con le stesse parole tw=n e0mw=n tura/nnwn , “i miei re”, con cui il coro delle Fenicie designa gli Agenoridi al v. 292. Sulla base di queste argomentazioni, Medda dichiara apertamente di preferire l’idea di un coro di condizione servile.

30

Musso, O. , (a cura di), Euripide, Tragedie, vol.III, p.331, Torino, 2001.

31

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intermedia nell’ambito del controllo che opponeva i moderati con tendenze oligarchiche ai democratici radicali.32

Si rileva perciò facilmente che si tratta più che altro di un tentativo nella sostanza velleitario, che non trova una reale corrispondenza nella realtà oggettiva. L’apertura verso il popolo che caratterizza per certi aspetti l’ultimo teatro di Euripide, sembra confinarsi entro spazi di corto respiro: egli stesso avverte l’inevitabile sfasatura tra il suo teatro degli ultimi anni e l’effettiva realtà dei ceti più umili, soprattutto nell’affermazione all’interno della politica ateniese di pericolose figure di demagoghi.33

In questo atteggiamento di scetticismo e di pessimismo storico, che tendono a dilatarsi su una sfera più cosmica e universale in seno ad una marcata evasione dalla realtà politica, l’autore stesso appare ignaro, almeno quanto i suoi contemporanei, delle tematiche di più ampio respiro che egli cala involontariamente nei suoi drammi.34

Di questa non professata trasposizione onirico-inconscia sulla scena della brutale realtà contemporanea, sarà più che altro la posterità a recepire il messaggio, che per il momento appare ancora informe e solo in embrione in Euripide: saranno proprio le successive generazioni a rielaborarlo nell’ottica di un più ampio e fecondo programma di riforma umana e sociale.

1.4 Euripide e la ricerca di una nuova pietas

Il messaggio rivoluzionario, o quantomeno innovatore, del teatro euripideo non si limita solo all’ambito sociale: esso, ancor più si rivela per certi aspetti radicale nella grande irrequietezza spirituale che caratterizza i suoi drammi in un arco di

32

Sul pensiero politico Euripideo, soprattutto negli ultimi anni della guerra del Peloponneso, si veda Lanza, D. , No/moj et i!son in Euripide, “RFIC”, XLI, pp. 416-39, 1963; più in generale

anche l’ampia introduzione di Zuntz, G. , The Political Plays of Euripides, Op.cit.

33

Illuminanti notizie in proposito in Finley, M.I. , Athenian Demagogues, “Past and Present”, 21, pp.3-24, 1962 .

34

Sostiene infatti Bowra, C.M. , ne L’esperienza greca, Milano, 1973, p. 139: «Euripide usa il suo mito per assicurare un particolare stato di conflitto psicologico nel pubblico, e quasi certamente era quello che sentiva egli stesso.»

(14)

21

oltre 40 anni, dal più antico da noi posseduto, ossia l’Alcesti del 438, fino alle

Baccanti, rappresentata postuma nel 401, con la quale si chiude non solo la

parabola della drammaturgia euripidea, ma ancor più dell’intera esperienza tragica attica.

L’anelito tendente alle metabolai/ si estende infatti anche al campo ben più scottante del trascendente, dell’escatologico, sintetizzandosi nell’immagine parodiata da Aristofane di Bellerofonte che, su Pegaso, vuole dare l’assalto al cielo per indagare i segreti degli dei.35

Tutte le epoche di turbamento sono in realtà caratterizzate al tempo stesso dallo sviluppo dello scetticismo e dell’esasperazione dello spirito religioso: in questo senso il paradigma di Euripide che nega la tradizionale eu0se/beia ormai inveterata, pur essendo un’anima molto più devota di quanto si sia preteso, sta a dimostrare paradossalmente quali siano le nuove esigenze in materia di religione. Egli ci rivela un nuovo tipo di pietas, per cui il dio stringe rapporti più intimi con l’uomo, quasi di cameratismo o di amicizia.

In questa ottica, ad esempio, nell’Ippolito, il protagonista si rivolge in questi termini ad Artemide: «Io solo, fra i mortali, ho il privilegio di stare con te, di parlarti e di udire la tua voce, anche se non ti vedo», e indirizza alla sua dea prediletta una preghiera, celebre fin dall’antichità che, in una singolare atmosfera di purezza, esprime sentimenti di fiducia e di affetto per una divinità, la quale è, più ancora che un’amica, una confidente.36

Qualcosa di analogo si verifica anche nel prologo delle Fenicie, in alcuni versi recitati da Giocasta, in cui, nonostante il periodo storico particolarmente drammatico, la religiosità di Euripide tenta ancora un approccio fiducioso, ma ben presto vanificato, con la divinità: «Ma tu, Zeus, che abiti le profondità luminose del cielo, salvaci, concedi ai miei figli di riconciliarsi: se davvero sei

35

Sui frammenti pervenutici di questa tragedia perduta, corredata da ampie note esplicative e da un ricco commento, si veda Curnis, M. , Il Bellerofonte di Euripide, Edizione e commento dei

frammenti, Alessandria, 2003. 36

Musso, O. ,( a cura di) Euripide, Ippolito, vol.I, vv.84-86, Torino, 1987. Notizie esplicative sul passo in Lusching, C.A.E. , Men and gods in Euripides’ Hippolytus, “Ramus” IX, pp. 89-100, 1980.

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22

saggio, non dovresti permettere che tra gli uomini sia sempre lo stesso ad essere fortunato.»37 In proposito significativa è l’opinione di Medda, il quale sostiene che la formulazione della preghiera di Giocasta non intende mettere in dubbio la saggezza della divinità, cosa che pure Euripide aveva già fatto altrove con decisione (cfr. Elena vv. 971-2, Eracle vv. 655-6), ma semplicemente attribuisce al dio con effetto patetico una caratteristica umana che permetta di sperare in un suo comportamento razionale.

L’anelito verso una più moderna concezione della divinità, diventa addirittura mistica investigazione nelle Troiane, rappresentate sulla scena ateniese proprio all’alba del decisivo periodo di guerra del 415, che sarebbe sfociata nella disastrosa spedizione in Sicilia. Prima di intervenire nel duello oratorio situato al centro del terzo episodio, Ecuba recita una preghiera che contiene una delle testimonianze più suggestive della lotta che Euripide ingaggia alla ricerca di un nuovo concetto di divinità: «O tu che sei sostegno della terra e che sulla terra hai sede, chiunque mai tu sia, impenetrabile al pensiero, Zeus, forse legge fatale di natura, forse intelligenza degli uomini, io te invoco: ché, giungendo per silenziosa via tutte le vicende umane secondo giustizia tu guidi.» (vv. 884-88).38 È ancora l’antica forma di u9/mnoj klhtiko/j con i suoi tratti essenziali, e vi si ritrova la stessa formula dell’incertezza indagatrice che era nell’Inno a Zeus dell’Agamennone eschileo.39

Si confronta in proposito la parodo dell’Agamennone: «Zeus, chiunque mai sia, se con questo nome a lui è caro essere invocato, con questo lo invoco. Non ho nulla da paragonargli, pur ponderando ogni cosa, al di fuori di Zeus, se veramente il vano peso dell’angoscia voglio scacciare.» (vv.160-6).40

37

Medda, E. , ( a cura di) Euripide, Le Fenicie vv. 84-87, Op. cit.

38

Traduzione da Euripide, Le Troadi, p. 107, a cura di Scarcella, A.M. , Palumbo, Palermo, 1980.

39

Cfr. Clinton, K. , The Hymn to Zeus.pa/qei ma/qoj and the end of the parodos of Agamemnon,

“Traditio” XXXV, pp.1-19, 1979.

40

Traduzione da Eschilo, Tragedie e frammenti, a cura di Morani, G. e M. , Torino, 1991, p.403, di cui si riporta la nota: «L’invocazione che interrompe il racconto di dieci anni prima, esprime il fondamento dell’augurio ripetuto come ritornello. Zeus non è qui solo il re degli dei, ma il dio in assoluto, incommensurabile con qualunque altro essere: pregarlo significa, non

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23

Ciò non può che inquadrarsi in quel processo di razionalizzazione euripideo che si rivela agli antipodi della fervida preghiera eschilea. In Euripide, la preghiera sembra collocarsi come interludio parentetico e fuori posto; in Eschilo, al contrario, si qualifica come prologo al successivo canto del tw??= pa/qei ma/qoj questi superiori messaggi trascendenti che in Eschilo erano veicoli della gnw/mh dell’elemento corale e che solo ad esso poteva essere affidato, in Euripide si collocano, per giunta incongruamente sotto l’aspetto strutturale, dietro probabile influsso del dubbio filosofico di cui la preghiera è impregnata, che ne attenua e ne banalizza l’altezza della concezione ideale e formale.41

L’ansia e l’irrequietudine religiosa euripidea è segnata generalmente, in termini convenzionali, da un preciso terminus ante quem, una sorta di iato diacritico e cronologico discriminante sul piano umano-religioso e suscettibile di sempre ulteriori approfondimenti: quel fatidico anno 415 che coincide storicamente con i drammatici eventi della spedizione siciliana e che spingono Euripide sempre più verso quella che Di Benedetto definisce “poetica del dolore”. Da questa data fino alla sua morte, difatti, la personalità del poeta tende verso una sempre più approfondita indagine mistico-teonomica. Questa si traduce talvolta in un’aperta critica alle forme religiose tradizionali, come nel caso della validità teologica espressa riguardo le forme oracolari, di cui un esempio significativo è fornito dalle Fenicie, che non a caso datano in questa fase finale della sua drammaturgia.

ottenere la liberazione dal dolore, ma avere in dono la capacità di comprenderne il senso, di accettarlo e di crescere attraverso di esso in saggezza e in equilibrio interiore. Ma anche chi lo rifiuta riceve ugualmente, seppure a forza, questo dono.»

41

Sulla sublimità del linguaggio eschileo, in particolare di quello lirico-corale, resta preziosa la definizione che ne fornisce Lesky, A. , in Storia della letteratura greca, vol.I, pp. 351-2, Op.cit. qui riportata contestualmente: «Al contenuto grandioso della tragedia eschilea corrisponde la sontuosa forma linguistica. La giudicò bene, perché gli era congeniale, un altro grande maestro della parola, Aristofane, che nell’agone poetico delle Rane (1059) fa dire a Eschilo che i grandi pensieri devono trovare un’espressione linguistica adeguata. Questo passo contiene la più suggestiva caratterizzazione della lingua eschilea, e anche quando lo sforzo aristofaneo sfocia nel grottesco si sente il rispetto per il signore bacchico (bakxei=oj a!nac), secondo la definizione che il coro d del poeta (1259). … Il suo stile è sempre espressione di quella grandiosità (megalopre/peia) che vi ammiravano i critici antichi non sempre però sentirsi oppressi o respinti dalla singolarità di questa grandezza.»

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Fondamentali in proposito sono i vv. 954-59 contenuti nel III episodio, messi sarcasticamente in bocca proprio all’indovino Tiresia: «Chi pratica l’arte sacrificale è uno sconsiderato. Se riferisce funesti presagi riesce odioso a quelli per i quali interroga gli uccelli. Se dice bugie per pietà di coloro che chiedono un responso, commette un torto nei confronti della religione. Soltanto Apollo dovrebbe dare responsi agli uomini, dato che non teme nessuno.»42

Significativa è in proposito è l’opinione di Medda, il quale focalizza l’attenzione proprio sull’imbarazzante figura di Tiresia, il vate stesso che esprime disagio nei confronti della propria condizione di interprete dei segni divini.43 Secondo Medda traspare da queste parole uno spunto critico nei confronti del divino, dei cui disegni gli uomini avvertono il peso spesso crudele: sarebbe meglio, conclude Tiresia, che Apollo stesso si prendesse la responsabilità di comunicare ai mortali i suoi responsi, lui che non ha ragione di temere il risentimento di nessuno. D’altra parte, Euripide, mostra costantemente all’interno delle Fenicie una profonda sfiducia nella possibilità che l’organizzazione politica della città sia in grado di affrontare, grazie a un sistema di valori condivisi e consolidati, le difficoltà poste dal manifestarsi della volontà divina: non a caso Creonte, messo di fronte alla prospettiva di un tremendo dolore familiare, cioè il responso oracolare del sacrificio del figlio Meneceo, anziché configurarsi come un’alternativa all’inadeguatezza di Eteocle in quanto capo della città, crolla senza ritegno.

42

Musso, O. , (a cura di) Euripide, Tragedie, vol.III, p.367, Op.cit.

43

Si riporta in proposito la nota 168, pp.226-7, delle Fenicie a cura di Medda: «Le parole con cui Tiresia si congeda dalla scena dopo aver posto il tremendo aut aut del v.952 (“salva tuo figlio oppure la citta”) introducono un’ulteriore nota di inquietudine e sintetizzano il problematico rapporto che intercorre sulla scena tragica fra la mantica e la politica. Il vecchio manifesta un profondo disagio nei confronti del suo ruolo, schiacciato tra la necessità di rivelare la volontà divina e il rischio di reazioni ostili da parte di chi è oggetto di responsi crudeli e poco comprensibili. Il ma/ntij non può neppure cercare di evitare quelle reazioni addolcendo con una menzogna i vaticini, perché questo costituirebbe un grave torto nei confronti degli dei. Ne deriva una considerazione che sfiora la critica aperta al divino. Solo il dio, che grazie al suo strapotere non teme le reazioni dei mortali, dovrebbe farsi carico di comunicare il proprio volere. … L’idea di una realtà dominata da forze divine distanti e non controllabili, che gettano spesso gli uomini in situazioni di sofferenza terribile, sarà centrale in altre tragedie dell’ultimo Euripide, come l’Oreste e le Baccanti.»

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25

Qualche anno dopo la rappresentazione delle Fenicie, tutti i fermenti interiori e metafisici di Euripide confluiscono, quasi a sublimarsi in forma di sintesi eloquente, nel suo ultimo dramma: le Baccanti. Esso dipinge la vittoria di Dioniso, dio dell’estasi e della possessione magica che riempie l’animo dei suoi fedeli di un sacro entusiasmo e trionfa su tutto, anche sulla ragione e sui suoi dubbi.44

Tuttavia, al di là del sospetto sostenuto da buona parte della critica odierna, cioè che le Baccanti traducano un’autentica conversione di Euripide, un’ estrema palingenesi, in questo atteggiamento di fede mistica piuttosto inatteso da parte di uno scrittore che si era mostrato fino ad allora “fedele” discepolo dei sofisti, si riassume il più sostenuto atteggiamento di ricerca di valori spirituali alternativi agli dei olimpici tradizionali e, sotto l’aspetto formale, di esigenza di forme nuove, quelle che Di Benedetto individua nella fuga ideale verso la “poesia bella”.45 Non bisogna per altro dimenticare che questa tragedia è stata scritta per essere rappresentata non ad Atene, ma alla corte di Macedonia, in un ambiente dove i culti dionisiaci dovevano assumere una furia orgiastica tutta particolare, ben lontano dalla pura fede nella ragione olimpica tipicamente ellenica.

Non di meno è stata troppo sottovalutata, in passato, l’importanza dell’atmosfera spirituale, dipinta con un realismo stupefacente: il menadismo, o furore collettivo delle Baccanti, inebriate dalla presenza in loro dell’e0nqusiasmo/j del dio che travolge tutti gli ostacoli in un delirio selvaggio, è l’espressione più marcata in Euripide dello stato d’animo nascente dal bisogno di totale abbandono dello spirito alla divinità, mai soddisfatto prima da alcun culto ufficiale.46

44

Fondamentali sulla questione alcune opere tra cui: Dodds, E.R. , Euripides the Irrationalist, “Classical Review” 43, 1929; Winnington, R.P. , Euripides and Dionysos, Cambridge, 1948; Leaford, R. , Dionysiac Drama and the Dionysiac mysteries, “CQ” XXXi, pp.257-65, 1981.

45

Questa esigenza euripidea verso forme liriche più pure nella sua ultima tragedia, è confermata da Di Benedetto, V. , Euripide: Teatro e società, Op.cit. , p.291: «La strofe del I stasimo (delle Baccanti) contiene una invocazione alla 9Osi/a, alla ‘Santità’, definita con una arcaica formula religiosa po/tnia Qew=n. Non si tratta di una divinità che avesse un suo culto, ma qui Euripide, come spesso altre volte, personalizza e divinizza un concetto astratto.»

46

Sul concetto di e0nqusiasmo/j delle Baccanti di Euripide tornerà qualche decennio dopo Platone che nel dialogo Ione, che lo rivisiterà in chiave estetico-letteraria, parlando esplicitamente di e0nqusiasmo/j quale “divina ispirazione” che li rende simili a «coribanti che

(19)

26

1.5 La nuova figura femminile nel teatro euripideo

Nelle opere databili ai primi anni della guerra del Peloponneso, quando la linfa esistenziale del poeta esulava ancora da radicali ed estremistiche posizioni innovatrici, le sue principali istanze si incentravano ancora su problematiche di natura più strettamente sociale e storica: tra queste si inserisce la questione riguardante la condizione femminile, dalla quale praticamente nessuna tragedia euripidea rimase del tutto estranea.

Tutta la cultura ateniese del V sec. a.C. è profondamente imbevuta di uno spietato antifemminismo incentrato sulla convinzione dell’elemento femminile elevato a vessillo di fattori negativi condizionanti, quali sesso, istinto e sentimentalismo che non trovano posto nell’universo politico ateniese, così come nell’organizzazione della città non trova collocazione la donna, che di queste oscure potenze viene rappresentata nella letteratura del tempo come esclusiva portatrice.47 Non ci si limita nell’Atene periclea come in Esiodo, ad indicare la natura passiva di bene sociale della donna, ma si mostra di temerla come elemento estraneo, di disturbo della razionalità politica. La donna è potenzialmente l’elemento corruttore, contaminante, il prototipo del mi/asma e della vita istintuale: l’ideologia della po/lij, mentre avvia e offre sicuro fondamento alla riflessione e all’arte retorica, alla psicologia della volontà, esclude dalla sua ottica l’oscuro mondo dell’istinto e del sesso, cerca di ignorarne l’esistenza e di scongiurarne il potere: in tal modo, la donna, simbolo di ogni

danzano fuori di senno, così come, fuori di senno i poeti melici compongono i loro bei carmi, e quando entrano nell’armonia e nel ritmo, sono invasati e squassati da furore bacchico.» Subito dopo rifacendosi ancor più esplicitamente all’immagine delle Baccanti euripidee, continua … «come le Baccanti, allorché sono invasate, attingono ai fiumi miele e latte e invece allorché sono in senno non lo sanno fare, così si comporta anche l’animo dei poeti melici, come essi stessi dicono. Infatti, proprio i poeti ci dicono che attingono i loro canti da fonti che versano miele e da giardini e da boschetti che sono sacri alle Muse, e che a noi li portano come fanno le api, anch’essi volando come le api.» (Traduzione da Platone, Tutti gli scritti, a cura di Reale, G. Milano, 1991, Ione, 534 A-B, p.1027.)

47

Burian, P. , Voce di donna: Le Troiane nella guerra del Peloponneso, in Evento, racconto,

scrittura nell’antichità classica. Atti del convegno internazionale di studi, Firenze, 25-26 novembre 2002, a cura di Casanova, A. e Desideri, P. , pp.35-53, Firenze 2003.

(20)

27

devianza dalla norma sociale, è esclusa da quanto di organico e costituzionale la po/lij offre.48

La demonicità femminile percorre tutta la tragedia ateniese, dalle Eumenidi alle

Baccanti, e trova nell’oscenità aristofanesca solo l’apparente eccezione

dell’allentarsi di una tensione repressa. Lo spietato logicismo euripideo, analizzando in chiave di compassato e intellettualistico rigore scientifico il quadro dell’Atene bellica del V sec. a.C. , relega la donna all’esclusiva “positiva” funzione di continua garante della perpetuazione della stirpe, in prospettiva della crescente richiesta di personale umano atto agli scopi militari.49

Sovente nella letteratura greca, alcune affermazioni, di solito proverbiali, sottolineano che il posto giusto per la donna è la casa ed il suo più nobile atteggiamento il silenzio, come si legge in Eschilo: Sette contro Tebe, v.232; Sofocle: Aiace, v.293; Euripide: Eraclidi, vv.476-7; Aristotele: Politica, 1260a 30; Democrito: Fr. 274 D-K.

In questo cinico quadro di idiosincrasia verso l’elemento femminile si legge nel primo episodio della Medea di Euripide la più amara requisitoria di denuncia scritta dal poeta sull’argomento: «Di tutti gli esseri dotati di anima e di intelletto, noi donne siamo la razza più disgraziata. Prima di tutto, dobbiamo comperare un marito a suon di denaro, che sarà il nostro padrone: e questo è l’aspetto più doloroso del male. Per di più non è certo se il marito che si prende è buono o cattivo. Il divorzio non è onorevole per le donne, che non possono ripudiare il marito.”(vv.230-237).50

La costrizione sociale che viola quello che, come momento della scelta fondamentale, dovrebbe essere il più alto momento di libertà, è nel contesto della Medea euripidea vista nella più grossolana e

48

Nancy, C. , Euripide et le parti des femmes, in La femme dans les sociétés antiques, Actes des

collocques de Strasbourg (mai 1980 et mai 1981), pp. 73-92, Strasbourg, 1983. 49

Notizie in merito si trovano in Cesa, M. , Le ragioni della forza: Tucidide e la teoria delle

relazioni internazionali, Bologna, 1994 ed anche in Price, J. , Thucydides and Internal War,

Cambridge, 2001.

50

Musso, O. , (a cura di), Euripide, Tragedie, vol.I, , p.225, Op.cit. , di cui si riporta contestualmente la seguente nota: «Secondo le usanze di allora, la moglie doveva portare la dote. Poteva divorziare per crudeltà o infedeltà del marito, ma questo accadeva raramente per via del disonore che comunque veniva alla donna.»

(21)

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imponente seduzione dell’idolo sociale, quello economico: costrizione che involve non solo la donna, ma riduce a mercato la vita in due.51

Di questa condizione è spia anche un altro passo di Euripide: nell’Ippolito il protagonista lamenta che la dote della donna costituisca una pesante schiavitù per l’uomo che la riceve. Si aggiunga che quest’ultimo concetto è ribadito con pesanti parole di disprezzo in un frammento euripideo del perduto Fetonte, il Fr.

775.52

L’infelice struttura sociale dell’Atene post periclea coinvolge infatti i due sessi, ma in modo tutt’altro che equo: per l’uomo ci si limita appunto a compiere una scelta condizionata, ma viene assicurata una condizione di privilegio che è confermata in modo schiacciante da ogni documento storico o letterario della civiltà greca dell’epoca; per la donna, al contrario, la mancanza di libertà iniziale si traduce in una sottomissione che sfocia in una condizione irrevocabile.

Ad avallare ulteriormente questa asserzione, così prosegue la dolorosa querelle di Medea nell’omonima tragedia: «Un uomo, quando si stanca della famiglia, va fuori a divertirsi, ma noi siamo costrette ad adorare una sola persona. Dicono che noi viviamo sicure in casa mentre loro combattono. Stupidi! Vorrei combattere mille battaglie prima di partorire una volta sola!» (vv.244-251).53 Nella r9h=sij di Medea non è presente, pertanto, una volontà di evasione sentimentale: a questo bisogno, com’è noto, la civiltà ateniese rispondeva imponendo, tranne poche eccezioni, una rigorosa segregazione; Euripide stesso è largamente testimone di

51

Cfr. Paduano, G. , L’ibsenismo di Euripide, “Angelus Novus”, pp. 95-9, 1968. 52

Cfr. anche Pap. Berol. 9772 del II sec. a.C. (Berl. Klass. Texte, V, 2, pp.123-8), Pack (II ed.), 1568: antologia centrata sul tema della donna con brani tratti da autori comici (Platone, Ferecrate, Antifane, etc.) e soprattutto da Euripide (Melanippe, Protesilao, Ippolito).

53

Musso, O. , (a cura di), Euripide, Tragedie, vol.I, p.225, Op.cit.

Passi dal significato pressoché analogo si trovano sempre in Euripide nel tardo Oreste, vv.602-4: «Gli uomini che hanno matrimoni riusciti vivono una vita beata (maka/rioj ai0w/n ). Quelli ai quali va male sono disgraziati dentro e fuori» (traduzione da Euripide, Tragedie, a cura di Musso, O. , vol. III, p.461, Op.cit.) . Sembra per altro che proprio lo stesso Euripide, secondo le notizie che si trovano nella Vita, sia stato tra questi ultimi. In proposito cfr Arrighetti, G. , Vita

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29

questa usanza e spesso sembra accettarla acriticamente, anche se in più punti trova modo di pronunciarsi contro di essa.54

Anche nelle Fenicie un accenno alla coatta condizione femminile si ritrova nel finale, nelle dolorose parole di Antigone che si vede ineluttabilmente costretta a rinunciare alla sua futura vocazione nuziale per accudire il cieco e futuro esule padre Edipo. Significativi in proposito alcuni versi contenuti in una pateticissima sticomitia con Creonte: «Credi forse ch’io, da viva, andrò mai sposa a tuo figlio?... Quella notte vedrà in me una Danaide.»(v. 1673 e v.1675), in cui viene rievocato, sia pure allusivamente un altro mito emblematico della frustrante condizione femminile nel mondo greco arcaico: quello delle Danaidi costrette ad un forzato matrimonio.55 E sempre nelle Fenicie, già nella prima sezione dell’ampio esodo finale, il secondo messaggero, irrompendo sulla scena dalla quale si è da poco congedato Creonte, riferisce dapprima le strazianti parole di Giocasta prostrata sui corpi dei figli, subito dopo quelle non meno dolorose di Antigone: la giovane figlia di Edipo anche in questo caso sente come frustrante la sua evirata futura condizione nuziale, imputando la colpa di tutto ciò ai due sventurati fratelli, rei di “aver tradito le sue nozze”: «O miei due fratelli amatissimi, che avete tradito le mie nozze!»(vv.1436-7).56

54

Cfr. Verdesca, A. , La misoginia di Euripide, “Studi Salentini”, XI-XII, pp.37-95, 1961: è ribaltata qui la concezione di Euripide misogino come viene presentato nelle commedie di Aristofane: si parla addirittura di filoguni/a euripidea.

55

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, p.297, Op.cit. , di cui si riporta la significativa nota n.277: «Antigone intende dire che ucciderà il marito la notte stessa delle nozze, come avevano fatto un tempo le Danaidi. Le cinquanta figlie di Danao, promesse in matrimonio ai loro cugini (figli di Egitto), aborrivano quelle nozze l punto che fuggirono in massa dall’Egitto sino ad Argo. Inseguite e raggiunte dai loro pretendenti, dovettero infine cedere alla necessità e sposarli. Per vendicarsi, esse si accordarono di uccidere i mariti durante la prima notte di nozze. Il piano fu messo in atto spietatamente: solo una delle Danaidi, Ipermestra, fu presa da pietà e risparmiò il proprio sposo, del quale si era innamorata. Il mito delle Danaidi fu portato sulla scena tragica da Eschilo, che negli anni ’60 del V secolo a.C. vi dedicò la trilogia comprendente le Supplici, le Danaidi e gli Egizi.»

56

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Fenicie, p.273, Op.cit. , di cui si riporta contestualmente la nota relativa: «… L’accusa di tradimento che Antigone rivolge ai fratelli si spiega tenendo conto che nel diritto attico, in caso di morte o impedimento del padre era il fratello maggiore che doveva prendersi cura di maritare le sorelle, provvedendole di dote (cfr. ad esempio Lys. XVI, 10). Nelle Fenicie Edipo, padre di Antigone è ancora vivo, ma per motivi evidenti non svolge più nei confronti delle figlie il suo ruolo di tutore (ku/rioj), che è stato assunto da Eteocle e Polinice. La loro morte priva dunque Antigone della possibilità di contrarre nozze all’altezza

(23)

30

In ogni caso, pur nella acquiescenza euripidea di fronte al problema femminile, pur nella mancanza di proposte ideologiche alternative come contropartita alla sistematica disgregazione degli pseudovalori della sua epoca, resta comunque la priorità di un’esposizione sulla condizione femminile da parte di Euripide, che, benché forse priva negli intenti originari di coscienza di denuncia polemica, pur tuttavia, forse involontariamente, si qualifica come notevole documento sulla condizione femminile del tempo: unico, in realtà, ad esporre, prima ancora che a denunciare la miseria di tale status, anche se nella consapevolezza della sua irreversibilità storica e sociale contemporanea.57

1.6 Euripide: anticipatore della moderna psicologia

Ad Euripide spetta ancora il merito di aver dato l’avvio ad un’indagine psicologica che sarebbe stata proseguita in specie da filosofi stoici ed epicurei, tramandandosi, pregna di fermenti vitali, al teatro profondamente introspettivo e psicologizzato di Roma arcaica e, ancor più, alle tragedie di Seneca, convulse sotto l’aspetto esistenzialistico.58

È Euripide, infatti, nell’Oreste, a concentrare per primo la sua attenzione sul problema del “rimorso”: ci rappresenta infatti Oreste, abbattuto, febbricitante, che alla domanda di Menelao: «Che cosa soffri? Quale malanno ti distrugge?», risponde: «La coscienza (su/nesij), perché so di aver commesso un’azione tremenda.»(vv.395-6).59

del suo stato, e nell’esasperazione del momento la giovane interpreta l’impossibilità per Eteocle e Polinice di far fronte al loro dovere come un “tradimento” verso di lei.»

57

Su come Euripide in modo più inconscio che razionale avesse intuito nell’Atene del V sec. a.C. aspetti etico-sociali che in qualche modo anticipavano elementi di posterità o, addirittura di contemporaneità, si veda un importante studio di de Romilly, J. , La modernié d’Euripide, Paris, 1986..

58

Pohlenz, M. , La creazione del dramma psicologico, ne La tragedia greca, pp. 124 sgg. , Brescia, 2011. Per l’influsso sul teatro romano arcaico cfr. Traina, A. , Pathos ed ethos nelle

traduzioni tragiche di Ennio (d’Euripide), Maia, XVI, pp.112-42 e 276-7, 1964. 59

Musso, O. , (a cura di) Euripide, Tragedie, p.449, Op.cit.

Sulla figura rivoluzionaria di Euripide quale creatore o intuitore della moderna ‘coscienza’ psicoanalitica, cfr. Ciani, M.G. , Su/nesij , un problema di coscienza, “AAPat”, LXXXVII, 3,

(24)

31

Ciò non si riscontra solo nelle ultime tragedie: nell’ambito di una lacerante analisi interiore, infatti, già più di vent’anni prima, alla viglia della catastrofe bellica del mondo ellenico, nella Medea rappresentata nel 431, Euripide fa pronunciare ad una donna, una meteca, una delle pagine più conflittuali che meglio sintetizzano, in chiave tragica, l’arduo problema fra natura ed intelletto, fra razionalità ed inconscio, fra ottimismo dei valori positivi del nou=j e pessimismo del temperamento, fra colpa e fato: «So quel che sto per fare, ma più forte della mia volontà è la passione, causa di mali grandissimi per gli uomini.» (vv.1078-80), tramandando alla posterità gli incunaboli delle moderne filosofie esistenzialistiche.60

L’attualità di questo conflitto spirituale riaffiora a pochi anni di distanza nell’Ippolito rappresentato alle Dionisie del 428. Bastino in proposito i seguenti versi: «Noi sappiamo quel che è bene e ce ne rendiamo conto, ma non ci diamo pena di farlo, gli uni per pigrizia, gli altri perché antepongono alla virtù qualcos’altro.»(vv.380-3).61

Si ricorda, a tal proposito, che, nello stesso periodo, Socrate, amico o quantomeno conoscente di Euripide, insegnava che nessuno è volontariamente malvagio ed identificava la virtù con la scienza, peccando così di intellettualismo.62

pp.37-43, 1974-5; ancora Lesky, A. , Psychologie bei Euripides, “Entretiens sur l’Antiquité Classique”, VI, pp. 137-8, Vandoeuvres-Genéve, 1958: qui da ciò che Oreste dice, risulta, secondo Lesky, che la propria “anima” viene sentita come “der genuine Ursprungsbereich” della propria azione.Ribadisce tuttavia, in proposito, Di Benedetto, V. , Euripide: teatro e società, p.79, Op.cit. , che, pur essendo vero ciò, va tenuto presente, naturalmente, che la consapevolezza di Oreste riguarda un fatto già compiuto; non si ha quindi sulla scena la rappresentazione di una “decisione personale”.

60

Musso, O. , (a cura di), Euripide, Tragedie, vol.I, p.271, Op.cit.

Sulla questione cfr. Rivier, A. , L’element demonique chez Euripide, “Entretiens sur l’Antiquites Classique”, VI, pp.64 sgg. , Vandoeuvres-Gèneve, 1958; Dodds, E.R. , I Greci e l’irrazionale, pp.223-4, Firenze, 2003; Diller, H. , qumo\j de\ krei/sswn tw=n e0mw=n bouleuma/twn , “Hermes”, 94, pp.267-75, 1966.

61

Musso, O. , (a cura di), Euripide, Tragedie, vol.I, pp.392-4, Op.cit. , di cui si riporta contestualmente la nota 45: « Si ricordi il celebre detto di Ovidio: video meliora proboque,

deteriora sequor , cfr. Euripide, Medea, 1078-80.» 62

Di Benedetto, V. , La polemica con Socrate e un nuovo modello di personaggio tragico, in

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Sulla base dell’evoluzione estetica e sociale del mondo ideologico-formale dei drammi euripidei, come ribadisce costantemente Di Benedetto, i suoi personaggi, inclinano sempre più, nel prosieguo della sua drammaturgia, ad inserirsi all’interno di uno schema tragico che tende ad atrofizzarsi.63

In tal modo il razionalismo euripideo risulta svuotato di un aspetto essenziale per la dimensione tragica del personaggio e lo schema di una successione di un “momento razionale” a un “momento passionale-emotivo” inclina verso la perdita di gran parte della sua tensione interna.

In questa accezione la differenziazione fra il mondo poetico-ideologico di Euripide rispetto agli altri tragici può essere esaustivamente chiarita da un ampio repertorio di paradigmi esemplificativi.

Un esempio probante è costituito dal comportamento di Creusa nello Ione, dopo che ella ha appreso che Xuto, a quanto sembra, ha trovato un figlio. La lunga monodia dei vv.859-922 è essenzialmente un lamento sulla sua infelicità, dove la ricerca del patetico è costante ed ingigantita, per altro, dall’approvazione del coro di fronte al cumulo delle disgrazie umane. Ma a questo punto l’azione ha una svolta radicale, che porterà all’elaborazione del progetto di uccidere Ione.64 Una lunghissima sticomitia assolve alla funzione di una preventiva informazione e dell’elaborazione del piano: e sin dall’inizio di questa sticomitia l’atteggiamento di Creusa non ha assolutamente nulla del pa/qoj che dominava la precedente monodia.

La considerazione di casi come questi offre la possibilità di valutare adeguatamente ciò che Euripide riesce a realizzare di un fatto formale: la scelta dell’utilizzo di metri diversi in personaggi come Alcesti, Medea, Fedra, Polissena, Cassandra ed ancor più l’Antigone delle Fenicie, sono conformi al mutato orizzonte patetico dei protagonisti dei suoi drammi. La giovane e sventurata figlia di Edipo, infatti, per buona parte della tragedia è vista come

63

Cfr. Di Benedetto, V. , Verso l’atrofizzazione del modello, in Euripide: teatro e società, pp.47-71, Op.cit.

64

Sulla questione notizie da Euripide, Elena-Ione, in particolare nell’introduzione curata da Albini, U. , pp. XXX-XXXVII, Milano, 1982.

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personaggio lirico, proprio perché legata ad un h0=qoj mimetico funzionale al pa/qoj, alla querelle, all’eco della sua violata dimensione femminile ed esistenziale. Non a caso, infatti, già dopo l’ampio prologo in trimetri giambici, Antigone irrompe sulla scena cantando in metri giambico-docmiaci, fatto questo che già gli antichi avevano notato, in particolare Aristotele.

Sulla questione Musso sostiene: «Qui inizia il canto della fanciulla (canto “dalla scena”, come lo definisce Aristotele, Poetica 1452b 18), che dura, tranne che nei vv.123-4, 141-5, 148, 168, sino alla fine della scena. Il Pedagogo, invece, non canta, ma parla ritmicamente.»65

Ancora più semanticamente pregante è la monodia di Antigone nel lungo esodo della tragedia, questa volta secondo una ascendenza iniziale kata\ da/ktulon, a proposito della quale fornisce un giudizio estremamente esaustivo Medda: «Con la disperata bellissima monodia dei vv.1485-1538 Antigone si impone come figura femminile eccezionale. Ella ha coscienza del fatto che il dolore che l’ha colpita è unico e non trova paragone in nessun’altra donna, né greca né barbara (vv.1509-24), e lucidamente comprende che le sue sventure si tradurranno in un futuro di pianto e di solitudine (vv.1519-21). Traumaticamente maturata come donna in seguito agli eventi luttuosi di questo giorno, Antigone si dimostra in grado di rilevare nella monodia e nel successivo dialogo lirico con Edipo, il ruolo di figura femminile sofferente della famiglia, che nella parte precedente del dramma era stata di Giocasta (e la stessa espressione lirica del lamento fa da contraltare alla monodia di Giocasta dei vv. 301-54).»66

Altro episodio di alternanza spesso brusca tra momento emotivo-passionale e momento più strettamente intellettualistico-razionale, sempre nelle Fenicie, nella parte finale dell’esodo, si assiste ad un’ulteriore improvvisa metabolh/ della giovane Antigone. Ella, dopo aver per decine di versi cantato in virtuosi metri lirici la sua condizione di vergine defraudata delle nozze e privata delle future

65

Cfr. Musso, O. , Euripide, Tragedie, vol.III, p.311, Op.cit.

66

Medda, E. , (a cura di), Euripide, Le Fenicie, p.70, Op.cit. Su questa monodia di Antigone si veda anche Cerbo, E. , Due scene ‘liriche’ dalle ‘Fenicie’ di Euripide (vv.1485-1538 e

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