Capitolo 6 – MOPSA THE FAIRY: COMMENTO TRADUTTOLOGICO
6.1 Tradurre una fiaba
Per leggere una fiaba o un romanzo fantasy è necessario spogliarsi dei propri
preconcetti, aprendoci nei confronti di un universo ignoto che non ha niente a che
vedere con quello che conosciamo, in altre parole, dobbiamo essere pronti ad
accogliere “l’alterità”.
Tradurre un testo di questo genere è una sfida ancora più ardua perché ogni
parola, potenzialmente, può nascondere molte più accezioni dal momento che il
contesto in cui le azioni di una storia fantastica prendono vita ci è sconosciuto e
teoricamente ammette una gamma molto più ampia di possibilità. Per rendergli
giustizia, è quindi necessario comprendere e accettare l’imprevedibilità di questo
nuovo universo.
Mopsa the Fairy
è un romanzo fantasy scritto nel 1869 da una poetessa e mai
tradotto in lingua italiana. I tratti dominanti dei testi poetici, di cui l’autrice era
prolifica scrittrice, si riflettono anche sul suo stile prosastico. Le descrizioni dei
luoghi e dei personaggi, molto vivide e particolareggiate, e la ricorrenza di
strutture sintattiche iterative e ridondanti, conferiscono al testo un ritmo e un
incalzare caratteristico.
Una delle prime domande che mi sono posta prima di iniziare la traduzione ha
riguardato il destinatario di questo testo, l’ipotetico lettore. Come detto nei
capitoli precedenti, questo romanzo, come la grande maggioranza delle fiabe
vittoriane, è stato scritto per i bambini, ma con l’intento non così latente di
rivolgersi anche al lettore adulto che ne avrebbe percepito i sottotesti.
Accingendomi alla traduzione, mi sono tornate in mente le parole di C.S. Lewis “a
children’s story that can only be enjoyed by children is not a good children’s story
in the slightest.”
216Applicando questa lezione al processo traduttivo di una fiaba,
ho ritenuto giusto rispettare le caratteristiche fondamentali del testo di partenza
che tesse una storia dalle maglie intricate sotto vari punti di vista, quello tematico,
quello dell’intreccio e, in alcuni passi, anche quello stilistico. Cercando in questo
modo di rimanere vicina alla redazione originale, così da lasciare il più possibile
inalterato il sapore del testo ottocentesco, non ho ceduto alla tentazione di
semplificare, facilitare o attualizzare la lettura del testo soltanto perché si trattava
di una fiaba; per questa serie di motivi posso affermare che la mia traduzione di
Mopsa the Fairy
è stata essenzialmente source-oriented. Ho ritenuto che fosse
necessario per il lettore del metatesto percepire, per quanto possibile, le stesse
sensazioni di estraneità, quella fascinazione per l’ignoto, lontano nel tempo e
nello spazio, talvolta anche quel senso di smarrimento che producono le storie di
fantasia, dove non sempre tutto viene spiegato, perché è proprio in quella voluta e
a tratti fastidiosa indeterminazione che risiede la loro forza narrativa. Ho
immaginato che il lettore di questa fiaba dal doppio destinatario, che si tratti di
bambino o adulto, nel leggerla avrebbe trasportato la propria disponibilità ricettiva
in un altro universo logico (o forse sarebbe meglio dire illogico), e temporale.
Tendenzialmente ho cercato di conservare le differenze culturali inserendole
in quanto tali nella cultura ricevente, e riconoscendo e mantenendo quanto più
possibile intatto l’elemento storico e l’elemento altrui (quelle che James Holmes
definisce, diacronicamente, storicizzazione, e, sincronicamente, esotizzazione),
fatta eccezione per quei casi la cui non conoscenza avrebbe creato delle lacune
incolmabili nella comprensione del testo.
Ci tengo a precisare che non ho uniformato rigidamente tutte le mie scelte a
questa metodologia, ma ho tentato di trovare un giusto equilibrio tra il rispetto di
quello che Eugene A. Nida chiama “spirito del testo”
217e lo sfruttamento delle
capacità espressive della lingua d’arrivo. Gli interventi e gli slittamenti che ho
effettuato sul testo tradotto rispetto al testo originale si sono resi necessari, ad
esempio, laddove l’aderenza al prototesto cadeva nel calco, mentre le potenzialità
della lingua italiana miglioravano il grado di accettazione di strutture insolite.
6.2 Le poesie
Quasi ogni capitolo del romanzo presenta una strofa o un brano poetico, della
Ingelow stessa o di altri autori, che anticipano l’argomento o gli eventi narrati nel
capitolo. Non sempre è stato possibile rendere le rime anche in traduzione,
tuttavia ho cercato di compensare questa perdita facendo rimare altre parole
oppure creando effetti di musicalità con inversioni, assonanze, allitterazioni o
ripetizioni.
Si veda, ad esempio, la poesia in apertura del primo capitolo:
“And can this be my own world? ’Tis all gold and snow, Save where scarlet waves are hurled
Down yon gulf below.” “’Tis thy world, ’tis my world,
City, mead, and shore, For he that hath his own world
Hath many worlds more.”218
“E questo può essere il mio mondo? È tutto oro e neve
Eccetto dove si scagliano scarlatte onde Laggiù in quell’abisso in fondo.” “È il tuo mondo, è il mio mondo,
Città, prato, e costa,
Poiché lui che possiede il proprio mondo Possiede molti altri mondi.”
Lo schema rimatico dell’originale è diverso da quello della traduzione, ma la
musicalità viene almeno in parte riprodotta attraverso interventi compensativi.
Quando invece le parti poetiche riproducono le canzoni incantatrici dei
venditori o le narrazioni dall’intento volutamente ammaliatore, si è resa necessaria
una traduzione che rispettasse le rime poiché la loro forza risiede nell’effetto
incantatorio che esercitano sugli ascoltatori. Nel caso della canzone della zingara
del terzo capitolo, quindi, ho optato per scelte “di suono” cercando di limitare al
minimo le alterazioni dell’originale:
My good man–he’s an old, old man– And my good man got a fall, To buy me a bargain so fast he ran
When he heard the gypsies call: “Buy, buy brushes, Baskets wrought o’ rushes; Buy them, buy them, take them, try them,
Buy, dames all.”
My old man, he has money and land And a young, young wife am I. Let him put the penny in my white hand
When he hears the gypsies cry: “Buy, buy laces, Veils to screen your faces; Buy them, buy them, take and try them,
Buy, maids, buy.”219
Il mio buon consorte è un vecchio, vecchio consorte E il mio buon consorte cadde in rovina, Per comprarmi un buon affare corse così forte Al richiamo degli zingari tutt’altro che in sordina:
“Comprate, comprate uno spazzolino, Cesti lavorati in midollino;
Comprateli, comprateli, prendeteli, provateli, Comprate tutte, signore.”
Il mio vecchio consorte, di denaro e terra non manca E la giovane, giovane moglie mi trovo a fare. Lasciamogli mettere il penny nella mia mano bianca
Quando sente gli zingari gridare: “Comprate, comprate merletti,
Veli per proteggervi i visetti; Comprateli, comprateli, prendete e provateli,
Comprate, fanciulle, comprate.”
Alcune di queste poesie presentano parole appartenenti all’Old English e al
Middle English
come thy, ’tis, hath, quoth, ye, che tuttavia erano in uso anche in
alcuni dialetti regionali scozzesi, nonché in certe varietà dell’inglese della Scozia.
Il fatto che la madre della Ingelow avesse origini scozzesi mi ha dato ragione di
pensare che la scrittrice abbia usato queste parole arcaiche non tanto per conferire
un tono più solenne, ma semplicemente perché esse erano di uso abbastanza
comune nel suo linguaggio familiare. Per questo, ho tradotto questi termini con i
corrispettivi significanti di uso comune, rinunciando a evidenziare il pur presente
senso di arcaicità.
Oltre alle parole precedentemente citate, che fanno parte di un vocabolario più
conosciuto, ho incontrato termini che hanno richiesto una ricerca più approfondita
come muir, merk, een, fra, jo. A questo proposito si veda la seguente poesia:
“Master,” quoth the auld hound, “Where will ye go?” “Over moss, over muir,
To court my new jo.” “Master, though the night be merk,
I'se follow through the snow. “Court her, master, court her,
So shall ye do weel; But and ben she’ll guide the house,
I'se get milk and meal. Ye'se get lilting while she sits
With her rock and reel.” “For, oh! She had a sweet tongue,
And een that look down, A gold girdle for her waist,
And a purple gown. She has a good word forbye Fra a’ folk in the town.”220
“Padrone,” disse il vecchio segugio, “Dove andrai?”
“Oltre il muschio, oltre la brughiera, Per corteggiare la mia nuova amata” “Padrone, sebbene la notte sia buia,
Ti seguirò nella neve. “Corteggiala, padrone, corteggiala,
Così farai bene;
Dentro e fuori lei governerà la casa, Io avrò latte e farina.
Avrai canzoni mentre se ne sta seduta Con il suo dondolare e turbinare.” “Poiché, oh! Aveva una lingua dolce,
E abbassava lo sguardo, Una fascia dorata alla vita,
E un abito viola. Ha anche una buona parola
Per la gente in città.”
Vista l’arcaicità di molti termini, per questo tipo di traduzione mi sono servita
anche del Webster’s Revised Unabridged Dictionary (1913+1828) e di ricerche
terminologiche in rete.
6.3 Soluzioni stilistiche e lessicali
Il testo presenta una grande ricchezza lessicale, registrabile nelle descrizioni
dettagliate dei luoghi e dei personaggi, che fornisce un ritratto vivido
dell’universo magico della fiaba. Tale ricchezza è conferita dalla scelta di un
lessico specifico appartenente a campi semantici che spaziano da quello dei colori,
delle specie animali, delle imbarcazioni, fino a quello dell’abbigliamento. La
specificità di alcuni termini talvolta rasenta il lessico tecnico come nel secondo
capitolo in cui vengono citate alcune imbarcazioni rimaste in panne da secoli:
three-decker
, seventy-gun ship e brig. In questo caso la scrittrice usa
deliberatamente una terminologia specifica, quindi, nonostante il lettore comune
ignori come siano fatte queste imbarcazioni, non ho ritenuto di semplificare la
traduzione di questi termini con altri meno specifici per non appiattire la
specificità referenziale del passo.
Ho applicato lo stesso ragionamento alle specie animali di cui si fa ampia
menzione nel testo, gannet, nautilus, sun-fish, che ho tradotto letteralmente come
“sula”, “nautilo”, “pesce luna”, lasciando intatto l’esotismo suscitato
dall’evocazione di queste particolarissime specie.
Come ci si può aspettare in una storia ambientata nel mondo delle fate è la
parola fairy a farla da padrona. Tuttavia, in fase di traduzione essa è stata spesso
oggetto di riflessione. Il fatto stesso che, grammaticalmente, essa funzioni sia da
aggettivo che da nome ha richiesto una traduzione diversificata in italiano. Così
mentre Fairyland è diventato “Paese delle Fate” oppure fairy breakfast, fairy
bread
o fairy rings sono stati tradotti con l’aggettivo “fatato”, il discorso si è fatto
più complicato nei casi di alcuni personaggi quali il fairy boy e la fairy woman.
Non esistendo un termine maschile per “fata”, sono stata costretta a tradurre con
“folletto”, nel primo caso, e “signora fata”, nel secondo, per poi semplificare, a
seconda dei casi, semplicemente con “fata”, “donna” o “donnina” nel verificarsi di
ripetizioni ravvicinate.
Trattandosi di una fiaba, quindi un testo che ammette la presenza di
connotazioni accattivanti, ho tentato di dare una coloritura maggiore per
compensare la scarsità di fenomeni di alterazione nella lingua inglese. Per tradurre
old woman
, little woman e little things, ad esempio, mi sono servita di
vezzeggiativi o diminutivi come “vecchietta”, “donnina”, “esserini” e
“creaturine”.
È stata poi la resa descrittiva di un gruppo di personaggi a darmi particolari
motivi di riflessione. Mi riferisco a coloro che il testo definisce brown people.
Ovviamente se avessi tradotto con “persone di colore” avrei trasmesso un
concetto sbagliato, poiché nella nostra cultura le persone di colore normalmente
corrispondono alle black people. Sono stata molto combattuta riguardo alla scelta
dell’aggettivo “mulatto”; tuttavia, esso si riferisce ad un’etnia di persone nate da
un genitore bianco e da uno nero, e ci sono opinioni discordanti sull’accezione
offensiva o meno di tale aggettivo. Inoltre, l’autrice stessa avrebbe potuto
scegliere questo aggettivo in inglese ma non l’ha fatto, molto probabilmente
perché questi personaggi non sono esseri umani ma creature fatate. Per questo
motivo sono giunta alla scelta più semplice, traducendo con l’aggettivo
“marrone”, che non fa pensare a coloro che solitamente chiamiamo “neri” o “di
colore” e, nella sua singolarità, mantiene il carattere esotico dell’originale.
All’inizio di ciascun capitolo, come già detto, si trova una poesia, oppure
alcuni versi che anticipano l’argomento che verrà affrontato. Il capitolo dal titolo
“Mopsa learns her letters” inizia proprio con le prime due lettere dell’alfabeto a
cui vengono fatte corrispondere due parole; inoltre queste due parole sono legate
tra di loro semanticamente: “A–apple-pie. B–bit it.”
221Ovviamente, in questo
caso la traduzione letterale non sarebbe stata funzionale perché avremmo perso il
legame tra le parole. Pertanto, cercando di conservare sia il carattere sequenziale
dei due lemmi che il tema in essi contenuto sono giunta a questa soluzione: “A–
aspic di mele. B–banchettare.”
In tutto il romanzo si registra la ripetizione costante di una frase giocata sulle
varie accezioni del verbo “potere”: “whatever you can do in Fairyland
you may do.”
222La frase indica una specie di legge vigente nel paese delle fate,
che io ho interpretato come la possibilità di fare tutto ciò che si vuole a patto di
essere in grado di farla. Ho quindi diversificato la traduzione dei due verbi poiché
anche il testo inglese evidenziava questa distinzione con l’uso del corsivo.
Naturalmente, trattandosi di una storia in cui non sussistono le normali leggi
logiche, resta il dubbio sulla corretta interpretazione della frase, ma ho supposto
che in un universo fantastico tutto sia possibile e, quindi, ho optato per questa
soluzione: “qualsiasi cosa tu riesca a fare nel Paese delle Fate puoi farla.”
Trattandosi di una fiaba ambientata in un tempo remoto, è capitato di
imbattersi in descrizioni di mestieri diffusi in passato ma in disuso nella società
contemporanea. Nel dodicesimo capitolo si fa menzione di “girls with distaffs;”
223la traduzione letterale di distaff sarebbe “conocchia” o “pennecchio”, cioè lana,
canapa, lino o altro, avvolti alla rocca per filare. Era senza dubbio un termine che
faceva parte del vocabolario comune di un lettore vittoriano, ma, credo che
entrambi i termini italiani, per il lettore contemporaneo, specie se molto giovane,
siano abbastanza sconosciuti. Ho valutato perciò questi lemmi come troppo
specialistici per poterli utilizzare in questa sede, e ho deciso di semplificare
traducendo con la perifrasi “ragazze intente a filare”.
221
Ibidem, p. 133. 222 Ibidem, p. 115. 223 Ibidem, p. 172.
Un’altra caratteristica del prototesto è la presenza di un lessico e di uno stile
piuttosto formale anche nei discorsi diretti. Oltre all’abbondanza di avverbi e di
formule di cortesia, anche in questo caso si ripropone l’uso di for come
congiunzione e di why come esclamazione. Laddove la resa letterale sembrava
forzata, ho cercato di trasmettere gli stessi atteggiamenti di rispetto e cortesia,
propri soprattutto del piccolo protagonista vittoriano e della regina della fate,
attraverso formule idonee ma meno desuete, cercando di avvicinarmi al registro
stilistico del testo inglese.
6.4 I realia
I realia presenti nel testo inglese sono principalmente etnografici. I casi più
semplici sono stati quelli del plumcake e del muffin che ho lasciato invariati in
italiano, essendo termini entrati a far parte della nostra cultura. Per la resa dei
nomi indicanti le monete in uso nell’Inghilterra nel diciannovesimo secolo come
nel seguente estratto, “I have got a half-crown, a shilling, a sixpence, and two
pence,”
224ho optato per la traduzione italiana rispettivamente in “mezza corona”,
“uno scellino”, “mezzo scellino” e “due penny”. Ho ritenuto che questi termini,
anche se non appartenenti alla nostra cultura, facessero parte di una terminologia
che non ci è totalmente estranea e, anche se non sappiamo quantificare d’acchito il
valore di queste monete, comprendiamo che ci stiamo riferendo a monete
anglosassoni quasi tutte non più in uso.
Un problema più complesso è stato creato dalle unità di misura anglosassoni.
Si è trattato, in primo luogo, di definire l’altezza delle fate, che rappresenta un
termine di paragone per gli altri personaggi e soprattutto per la fata Mopsa, per la
quale il concetto di crescita rispetto alle sue simili assume particolare rilievo. Ad
un certo punto, si narra come le tre fate che il bambino protagonista teneva in
tasca, escano fuori e divengano più grandi: “the instant these three fairies sprang
out of Jack’s pockets, they got very much larger; in fact, they became fully
grown,–that is to say, they measured exactly one foot one inch in height, which, as
most people know, is exactly the proper height for fairies of that tribe.”
225In questo caso ho deciso di trasformare l’unità di misura in centimetri perché
successivamente si sarebbero incontrati molti riferimenti a questa misura (la fata
Mopsa cresce inizialmente fino ad arrivare alle ginocchia del bambino, poi al
bottone del gilet e così via), quindi era importante potersi figurare fisicamente le
proporzioni. Dopo aver convertito i piedi e i pollici in centimetri e aver stabilito
che l’altezza normale per le fate di quella tribù è di trentatré centimetri, il
problema traduttivo è cambiato poiché da quel punto in poi le fate vengono
descritte sempre one-foot-one fairies per distinguerle da altri tipi di fate. A questo
punto ho ritenuto che tradurre sempre “le fate alte trentatré centimetri” sarebbe
stato molto ridondante a scapito della ritmicità di quel one-foot-one (per di più
tenuto insieme dai trattini) inglese. Purtroppo non esistendo un corrispettivo
italiano altrettanto musicale ho deciso di definire le one-foot-one fairies come
“piccole fate”, conscia di aver perso parte della loro connotazione ma quantomeno
di non aver appesantito il fluire del testo ripetendo un numero ogni volta.
Nel caso del Craken, il mostro leggendario che viene evocato ad un certo
punto del romanzo, in seguito a una ricerca in merito ho scelto di effettuare la
traslitterazione del nome poiché nella lingua italiana l’animale è conosciuto come
“Kraken”. Ho scelto di non aggiungere ulteriori spiegazioni perché è lo stesso
prototesto a esplicitare che il Kraken è una creatura marina di cui si vagheggiava
l’esistenza in antiche leggende.
6.5 Interventi sintattici
Le parti narrativo-descrittive di questo testo sono caratterizzate da periodi
piuttosto lunghi e complessi con prevalenza di ipotassi. L’italiano ha una
tolleranza minore di periodi di questo tipo, a maggior ragione se, visto il genere, si
prevedesse una lettura ad alta voce.
Questi periodi vedono l’utilizzo piuttosto ridondante delle congiunzioni and e
for
con il significato di “poiché, dal momento che, visto che”, per legare più
subordinate, e molto spesso anche dopo il punto e virgola. Data la reiterazione di
questo tipo di strutture costruite tramite accumulazioni di periodi e congiunzioni,
ho pensato che esse fossero funzionali, in molti casi, a creare una sorta di tensione
narrativa tendente alla percezione del climax, e quindi prodotto di un uso
personale e creativo della scrittrice. Tuttavia, la resa fedele di questo tipo di
strutture in taluni casi avrebbe ecceduto il grado di tolleranza della lingua
d’arrivo; di conseguenza, per ovviare a questa sorta di appesantimento del testo
ma perseguendo l’obiettivo di mantenere quanto più possibile le caratteristiche
peculiari dell’originale, ho cercato di rendere più fluidi i periodi ricorrendo all’uso
di congiunzioni più diversificate oppure aggiungendo ulteriori segni di
interpunzione per dare più fiato alla lettura. Talvolta, per esempio, ho eliminato le
congiunzioni for o and optando per un punto fermo come nel caso seguente:
So they got into the boat, and it floated into the middle of the river, and then made for the opposite bank, where the water was warm and very muddy, and the river became so very wide that it seemed to be afternoon when they got near enough to see it clearly; and what they saw was a boggy country, green, and full of little rills; but the water,–which, as I told you, was thick and muddy,–the water was full of small holes!226
Allora salirono in barca ed essa si diresse in mezzo al fiume e poi verso la riva opposta, dove l’acqua era calda e molto fangosa, e il fiume diventò così ampio che sembrava pomeriggio quando si avvicinarono abbastanza da vederla distintamente. Ciò che videro fu una terra paludosa, verde e piena di ruscelletti, ma l’acqua che, come vi ho detto, era densa e fangosa, era piena di buchetti!
Per quanto riguarda la punteggiatura, in alcuni casi ho ritenuto opportuno
sostituire ai numerosi punti e virgola, spesso seguiti da and, altri segni di
interpunzione, eliminando o sostituendo la congiunzione con altre di tipo causale
o consecutivo, valutando di volta in volta i singoli casi.
Nel rispetto degli effetti di ritmo e musicalità che l’autrice crea per
sottolineare o mettere in evidenza alcuni passi del testo, in traduzione ho
mantenuto figure sintattiche quali le ripetizioni, i parallelismi e, dove possibile, le
inversioni, ad eccezione di alcuni casi in cui la conservazione della forma del
prototesto indeboliva la funzione comunicativa nel metatesto.
Un altro tipo di intervento ha riguardato la trasformazione di alcune delle
numerose ing-forms in indicativi e l’esplicitazione dei nessi sintattici, come si può
osservare nell’esempio che segue: “Just then the sun went down, and Mopsa got
up on the apple-woman’s lap, and went to sleep; and Jack, being tired, went to his
boat and lay down under the purple canopy, his old hound lying at his feet to keep
guard over him,”
227e nella sua traduzione: “Proprio allora il sole tramontò e
Mopsa salì in grembo alla donna delle mele e si mise a dormire; Jack era stanco,
così andò alla barca e si sdraiò sotto il baldacchino viola con il segugio ai suoi
piedi a fargli la guardia.”
Un’altra peculiarità ricorrente del testo originale riguarda l’uso concomitante
dei verbi di percezione looked e saw; secondo la mia opinione tradurre
letteralmente entrambi i verbi non avrebbe aggiunto niente di più al contenuto
semantico, ma sarebbe stato percepito come un calco poiché in italiano è
abbastanza raro costruire frasi come “guardò e vide”. Per queste ragioni ho scelto
di effettuare scelte diverse a seconda dei casi, traducendo solo il verbo saw oppure
adattando la traduzione del verbo look alla descrizione spaziale della circostanza,
come nell’esempio: “They looked and saw a great dome overhead, filled with
windows of colored glass, and they cast down blue and golden rosy
reflections.”
228E questa è la traduzione: “Volsero lo sguardo e videro che sopra le
loro teste c’era una grande cupola, costellata di finestre di vetro colorato che
proiettavano riflessi blu e d’oro rosato.”
Per quanto riguarda la traduzione dei verbi al simple past ho fatto scelte
differenziate in italiano, alternando il passato remoto, il passato prossimo e
l’imperfetto, a seconda della necessità di esplicitazione della consecutio temporum
del prototesto.
227 Ibidem, pp. 131-132. 228 Ibidem, p. 191.