• Non ci sono risultati.

INTRODUZIONE Le

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "INTRODUZIONE Le"

Copied!
134
0
0

Testo completo

(1)

1

INTRODUZIONE

Le infezioni “ospedaliere” o “nosocomiali” o “infezioni correlate all’assistenza” (IO o IN o ICA o “health care-associated infection” - HAI) sono costituite da un insieme piuttosto eterogeneo di condizioni diverse – dal punto di vista microbiologico, fisiologico ed epidemiologico - che rappresentano un indicatore della qualità del servizio erogato ai pazienti e hanno notevoli ripercussioni sui costi sanitari. 1

Le infezioni ospedaliere vedono coinvolti, a vario titolo, gli operatori, medici e non, gli amministratori delle aziende ospedaliere e soprattutto la persona assistita, assumendo sempre più spesso l’infezione stessa il potenziale aspetto del danno ingiusto, da cui il crescente interesse medico-legale per le implicazioni di tipo civilistico e penalistico che ne conseguono.

Pertanto rappresentano una grande sfida sia per la comunità scientifica che per il Sistema Sanitario Nazionale, comportando plurime implicazioni di tipo terapeutico, economico, etico-deontologico oltre che di responsabilità, dato che l’insorgenza della patologia infettiva è causa non solo di ulteriori sofferenze per i pazienti ma anche del prolungamento dei tempi di degenza (con conseguenti costi per il Sistema Sanitario Nazionale) e di negative ricadute sulla collettività, con complicazioni economico/sociali sostenute anche dalla invalidità permanente e dall’incremento dell’inabilità al lavoro che può eventualmente conseguire ad essa. 2

L’organizzazione sanitaria si deve confrontare quotidianamente con problematiche sempre più pressanti: il cambiamento dei tipi di patologia, i progressi e le innovazioni nel campo biomedico, i pesanti carichi derivanti dalla gestione dei processi, l’incremento dei costi, le attese dei pazienti.

In questo scenario teso al continuo miglioramento della qualità, il problema del rischio infettivo assume un significato sempre più rilevante. Il rischio per i pazienti di contrarre una complicanza infettiva durante la degenza in ospedale è infatti influenzato oltre che dalle pratiche e dai comportamenti assistenziali, anche dalle condizioni strutturali e organizzative.

(2)

2 Le IO colpiscono in media il 5-10% della popolazione ospedaliera, in particolar modo pazienti con difetti dei meccanismi di difesa, e rappresentano una elevata causa di morbosità e morbilità.

Nonostante l’elevato impatto, sia sociale che economico, dovuto alle IO i sistemi di sorveglianza e di controllo e le azioni per ridurne gli effetti sono invece ancora piuttosto disomogenei da paese a paese e a livello nazionale, anche se negli ultimi anni sono stati messi a punto ed implementati numerosi programmi. Gli studi effettuati indicano che efficaci programmi di sorveglianza e controllo consentono di prevenire circa il 30% 1 delle IO insorte con conseguente abbassamento dei costi e

miglioramento del servizio sanitario.

In generale al concetto di prevenzione si associa la messa in atto di un complesso di interventi – i cui costi risultano decisamente elevati - che includono misure atte a migliorare l’organizzazione, la valutazione dei pazienti in base al rischio infettivo, la formazione continua del personale, l’adozione di strumenti e presidi idonei, la stesura di linee guida e protocolli per le pratiche assistenziali, nonché l’attivazione di programmi di sorveglianza. Le aree di maggior interesse, nel contesto di un razionale programma di prevenzione e controllo, sono essenzialmente quelle che riguardano la qualità della diagnosi microbiologica, le indicazioni per il trattamento dei quadri infettivi e l’uso corretto degli antibiotici, lo studio delle epidemie e la sorveglianza degli interventi assistenziali che ne rappresentano la causa principale, lo studio di fattibilità degli interventi strutturali sull’ambiente, oltre, naturalmente, la stesura e applicazione di norme comportamentali idonee e corrette.

Coerentemente con la razionalizzazione dei programmi di prevenzione i maggiori sforzi organizzativi devono essere rivolti ai gruppi di pazienti a maggior rischio ed alle infezioni che per frequenza e gravità costituiscono il maggior onere assistenziale.

A fronte di persistenti sforzi economico-organizzativi, nonostante i numerosi studi epidemiologici, condotti a livello nazionale ed internazionale, e lo sviluppo di protocolli per la sorveglianza, il controllo e la prevenzione di tali forme morbose, le

(3)

3 infezioni ospedaliere costituiscono, a tutt’oggi, un problema costante che si connota ormai di frequenti implicazioni medico-legali, con riferimento ai comportamenti antigiuridici perseguibili in ambito sanitario.

(4)

4

CAPITOLO 1

CENNI STORICI E SVILUPPO DELLE ATTIVITÁ DI PREVENZIONE

Il primo autore ad intuire l’esistenza delle malattie infettive fu Terenzio Marrone (116-27 a.C.) che nel “Rerum rusticarum de agricoltura” descrisse l’esistenza di piccoli animali, invisibili agli occhi, in grado di giungere all’organismo attraverso l’aria, penetrando attraverso la bocca o le narici, e di provocare importanti malattie (“Animalia quaedam minuta, quae non possunt oculi consegui, et per aera intus in corpus per os ac nares perveniunt, atque efficiunt difficiles morbos”). 3

Purtroppo questa intuizione non fu presa in considerazione e solo nel XVI secolo fu riproposta ad opera di un medico e poeta veronese, Girolamo Fracastoro (1478-1553) che nel suo “De contagione et contagionis morbis et eorum cautione” descrisse il contagio come una “corruzione che esala dal corpo del malato, si espande nell’aria e si attacca a certi corpi (fomites) capaci di conservarli anche per decine di anni e quindi di infettare città intere e di trasmettere l’infezione a distanze illimitate”. Gli agenti eziologici delle malattie erano sostanze vive, che Fracastoro chiamava “seminaria” o “virus”, che avevano per l’organismo contagiato una particolare “antipatia” materiale e spirituale.

Circa un secolo dopo Antoni van Leeuwenhek (1632-1723), un mercante appassionato di ricerca scientifica, indirizzò alcune lettere alla Royal Society di Londra, nelle quali per la prima volta vennero descritte delle osservazioni di microrganismi per mezzo del microscopio.

Tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, la scoperta dei microrganismi permise di indirizzare gli studi sui germi e di puntualizzare misure di prevenzione volte a ridurre la trasmissione dei germi ai pazienti. In epoca antecedente alla scoperta dei microrganismi da parte di Koch e Pasteur, le osservazioni e le intuizioni di alcuni sanitari portarono ad identificare le strutture ospedaliere, e le cure in esse effettuate, come importanti fonti di contagio per i pazienti.

Nel lavoro “On the Contagiousness of Puerperal Fever” del 1843, l'americano Oliver

(5)

5 nella propria pratica medica “... non è un infortunio, bensì un crimine …". 4

Ma Holmes non si limitò, tuttavia, ad appellarsi al senso di responsabilità del medico, che egli individuava come il responsabile della trasmissione della malattia da paziente a paziente, e suggerì, infatti, regole di comportamento per prevenire il diffondersi di questa patologia: la partecipazione ad autopsie di casi di febbre puerperale non era compatibile con l'attività di assistenza al parto, a meno che non fosse trascorso un giorno dall'autopsia e non si fosse proceduto a lavaggi accurati della propria persona e al cambio completo del vestiario.

Queste norme, come pure l'invito a interrompere pro tempore l'attività assistenziale qualora si verificassero due casi di febbre puerperale ravvicinati nel tempo, indicano chiaramente come l'antica teoria del contagium vivum di G.Fracastoro fosse tenuta da Holmes in grande considerazione, suggerendogli l'urgenza di mettere in opera efficaci misure di controllo.

Non fu tuttavia Holmes, ma il medico ungherese Ignác Fülöp Semmelweis 5 a

essere considerato il pioniere del controllo delle IO.

Nel 1846 Semmelweis, specialista in ostetricia e ginecologia, divenne assistente ostetrico all’Ospedale Allgemeines Krankenhaus di Vienna in cui vi erano due reparti di ostetricia: uno deputato all'insegnamento per gli studenti, che prendevano anche parte agli esami autoptici delle pazienti decedute di febbre puerperale, e l'altro deputato all’addestramento di infermiere e levatrici. Ciò che richiamò l'attenzione di Semmelweis era il divario tra il tasso di mortalità delle puerpere nei due reparti, molto più alto nel primo che nel secondo; inoltre, la mortalità del primo reparto si riduceva, uguagliandosi a quella del secondo, quando gli studenti erano in vacanza. Da ciò Semmelweis dedusse che la febbre puerperale veniva trasmessa attraverso le mani degli studenti che, dopo aver effettuato le autopsie, visitavano le partorienti.

L’intuizione arrivò quando un suo collega anatomo-patologo (Kolletschka) morì in seguito all'infezione di una ferita accidentale prodottasi durante l'autopsia di un caso di febbre puerperale.

(6)

6 Semmelweis ravvisò una analogia tra questo evento e quanto osservato nelle pazienti e concluse che in entrambi i casi si trattava di “un'infezione generale del sangue” provocata da un quid che dalla sala autoptica, ma anche possibilmente da soggetti “malati”, contagiava i sani penetrando in essi “attraverso le ferite”. Pertanto, trent'anni prima delle scoperte di Kock e Pasteur, padri della moderna batteriologia, il Dottor Semmelweis capì che la febbre puerperale era di origine contagiosa. Questo sospetto lo portò ad introdurre, nel reparto frequentato dagli studenti, la prassi del lavaggio delle mani con soluzioni di cloruro di calcio, da effettuarsi non solo al momento del passaggio dalla sala autoptica alla sala parto, ma anche prima della visita di ciascuna paziente. Da tale procedura derivò un marcato calo dei tassi di mortalità, dal 12,24% al 3,04%.

È da qui che, storicamente, ebbe origine il controllo delle infezioni ospedaliere mediante tecniche di antisepsi.

L’opera di Semmelweiss purtroppo non fu ben accolta in campo medico e gli provocò addirittura il licenziamento; la sua brillante intuizione venne riconosciuta solo dopo la sua morte, perdendo dei preziosi anni in cui il semplice lavaggio delle mani avrebbe potuto salvare molte vite.

Anche il chirurgo Simpson e l’infermiera Nightingale nel 1860 ipotizzarono il ruolo dell’ospedale e del sovraffollamento nel generare l’aumento della mortalità di alcune categorie di pazienti (“l’uomo sdraiato sulla tavola operatoria di uno dei nostri ospedali corre pericolo di morte più dei soldati inglesi sul campo di Waterloo”).

Un importante contributo fu quello apportato nel 1864 dal chirurgo Joseph Lister, considerato il padre dell’antisepsi. Lister notò come la gangrena fosse molto diffusa in ambiente ospedaliero, a differenza di quanto si verificava all’esterno. Tale osservazione lo indusse a ritenere che la malattia, caratterizzata dalla putrefazione dei tessuti, fosse dovuta non tanto a ipotetici "gas venefici" contenuti nell'aria (teoria del miasma), quanto al fatto che "qualcosa la trasmetteva" da un paziente all'altro. Leggendo l’opera di Pasteur, in cui veniva dimostrato come la fermentazione di alcuni liquidi fosse legata a batteri in essi presenti e come la

(7)

7 bollitura fosse capace di bloccarla, ipotizzò che nelle ferite potesse avvenire qualcosa di simile. Pertanto iniziò ad utilizzare l’acido fenico - sostanza utilizzata come deodorante e disinfettante nelle fogne -diluito in soluzione oleosa (poiché puro era irritante per i tessuti) sulle fratture esposte, riuscendo ad ottenere la conservazione degli arti. Pertanto in seguito estese l’uso dell’acido fenico agli interventi chirurgici, utilizzandolo sia per sterilizzare i ferri, sia per disinfettare la cute prima e dopo l’incisione, ottenendo risultati sorprendenti in termini di sopravvivenza post-operatoria.

Il XX secolo fu quello che portò all’adozione dei principali sistemi di prevenzione delle infezioni soprattutto in campo chirurgico; in sala operatoria furono introdotti guanti, mascherine e camici e si arrivò addirittura alla prassi del silenzio durante gli interventi, sì da limitare la contaminazione batterica.

Nel 1940 l’introduzione sul mercato degli antibiotici contribuì a diffondere l’idea che tali farmaci potessero eradicare qualsiasi tipo di microrganismo e di infezione. Negli anni ‘50 questa falsa illusione si infranse quando gli ospedali statunitensi e inglesi furono colpiti da una pandemia di infezioni da stafilococchi meticillino resistenti. Si decise, quindi, di adottare strumenti innovativi e di creare gruppi multidisciplinari in ciascun ospedale, al fine di monitorare il fenomeno, sia a livello locale che internazionale.

Da queste esperienze nacquero, sempre intorno a quegli anni, i Comitati per il controllo delle Infezioni ospedaliere (CIO) e, in Gran Bretagna, fu istituita la figura dell’Infection Control Nurse, infermiere addetto al controllo di tali infezioni, con mansioni di igiene ospedaliera.

Tuttavia è negli Stati Uniti d’America che le azioni si sono nel tempo maggiormente strutturate; negli anni 70 fu avviato il sistema di sorveglianza denominato NNIS

(National Nosocomial Infection Study), coordinato dai Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta. Tale studio consentì una prima quantificazione

(8)

8 sistematica del fenomeno IO e fu la base di varie altre indagini epidemiologiche, mirate a studiare i fattori di rischio più importanti. Furono così ipotizzati anche i meccanismi di trasmissione delle principali infezioni e furono avviate campagne di sensibilizzazione tese ad introdurre misure di controllo.

Negli anni che seguirono lo sforzo si incentrò prevalentemente sulla valutazione dell’efficacia delle misure di prevenzione; a tal proposito, lo studio SENIC (Study on

Efficacy of Nosocomial Infection Control) si pose l’obiettivo di verificare quanto

fatto negli Stati Uniti d’America in tema di diffusione delle misure preventive e di valutare i risultati delle misure stesse. Ne scaturì il primo elenco di raccomandazioni per la prevenzione delle infezioni ospedaliere.

A parte l'esperienza inglese, in qualche maniera anticipatrice di altre come la statunitense, ma pur ricca di ombre (limitazione degli interventi, scarse attività di sorveglianza, ridotta operatività dei Comitati per il controllo delle infezioni ospedaliere, come evidenziato da indagini svolte all'inizio degli anni '90), nel resto d'Europa le attività strutturate di prevenzione delle IO non sono state comuni anche se, in alcuni paesi, il quadro è in via di forte cambiamento. In Gran Bretagna documenti successivi, particolarmente negli anni '90, hanno prodotto Linee Guida e raccomandazioni per l'organizzazione delle attività. In Belgio, Olanda e Francia sono stati condotti sia studi di frequenza delle infezioni che prodotte e diffuse Linee Guida per gli operatori, talora come semplice raccomandazione, in altri casi come indicazione più stringente. Reti di sorveglianza che hanno interessato più paesi sono state attuate nel campo delle infezioni chirurgiche ed in quello delle Terapie Intensive, anche sulla base di specifici mandati della Comunità Europea (progetto

HELICS – “Hospitals in Europe Link for Infection Control through Surveillance”). 6

Sul piano organizzativo in molti paesi sempre maggior personale (in particolare infermieristico) è stato dedicato alle attività. Il coordinamento è usualmente affidato a gruppi multidisciplinari presieduti da microbiologi, esperti di malattie infettive, di epidemiologia o igiene. Sostanzialmente sembra di poter dire che, a

(9)

9 fronte della necessità da tutti riconosciuta di ottimizzare l'uso delle limitate risorse, la prevenzione delle infezioni ospedaliere sta assumendo un ruolo rilevante come indicatore della qualità dell'assistenza fornita.

La situazione italiana si caratterizza per la presenza di due circolari del Ministero della Sanità con le quali si cercarono di recepire le raccomandazioni che, nel 1971, il Consiglio di Europa aveva emanato ai vari governi.

La prima (n. 52 del 1985 “Lotta alle infezioni ospedaliere”) 7, proponeva per

tutti gli ospedali italiani la costituzione di un Comitato per il Controllo delle Infezioni Ospedaliere (CIO) coadiuvato dal Direttore Sanitario. Detto Comitato doveva includere personale infermieristico, rappresentanti delle varie aree funzionali, esperti in igiene e microbiologia, con compiti di definire le strategie di intervento, verificare l'effettiva applicazione dei programmi di sorveglianza e di controllo e curare la formazione specifica del personale.

Il Comitato doveva designare un ristretto gruppo operativo con infermieri, igienisti, microbiologi e Dirigenti dei Servizi Infermieristici. Veniva identificata come essenziale la figura dell'ICI (Infermiere addetto al Controllo delle Infezioni), cui erano assegnati compiti di sorveglianza, educazione, collegamento tra CIO e reparti, modificazione dei comportamenti. Si invitavano le Regioni a dotarsi di strutture di coordinamento delle attività senza però precisare percorsi formativi per gli ICI né standard quantitativi.

La seconda circolare (n.8 del 1988, “Lotta contro le infezioni ospedaliere: la

sorveglianza”) 8 delineava alcuni aspetti chiave per l’avvio di un sistema di

sorveglianza fornendo indicazioni di tipo tecnico.

Maggiori dettagli circa il ruolo che doveva esercitare l'ICI, anche sulla base di esperienze straniere e di raccomandazioni del Consiglio di Europa, erano fissate in successive elaborazioni, sia delle organizzazioni professionali (ad esempio dall' ANIPIO, Associazione Nazionale Infermieri Prevenzione Infezioni Ospedaliere) sia a livello locale (come ad es. nella circolare del 5/07/1991 della Regione Piemonte). La tematica delle IO veniva ulteriormente affrontata in un Decreto Ministeriale

(10)

10 del 1988 (“Determinazione degli standards del personale ospedaliero”) 9 in

cui veniva fatto esplicito riferimento alla presenza del CIO per ogni ospedale e in un ulteriore Decreto Ministeriale del 1995 (“Contenuti e modalità di utilizzo

degli indicatori di efficienza e di qualità del Servizio Sanitario Nazionale”) 10

relativo agli indicatori di qualità del SSN, tra i quali veniva inserita la frequenza delle infezioni ospedaliere.

Inoltre, nel D. Lgs. 502 del 30/12/1992 recante “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”11

venne introdotto il concetto dell’accreditamento delle istituzioni, delle modalità di pagamento a prestazioni e dell’adozione del sistema di verifica e revisione della qualità e quantità delle prestazioni erogate. Questo concetto verrà sviluppato nella legislatura successiva e nella stesura dei piani sanitari nazionali a partire dal triennio 1994-1996 e in esso assumono sempre più importanza tutte le misure che devono essere prese ai fini della prevenzione della trasmissione delle IO.

Nel D.P.R. del 14/01/1997 12 vennero definite linee guida in materia di “requisiti

strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private” e all’art. 5 venne stabilito che “.... In tutte le articolazioni organizzativo-funzionali è favorito l’utilizzo delle Linee Guida predisposte dalle Società scientifiche o da gruppi di esperti per una buona pratica clinica nelle varie branche specialistiche. Inoltre devono essere predisposte con gli operatori Linee guida, regolamenti interni, che indichino il processo assistenziale con cui devono essere gestite le evenienze cliniche più frequenti e di maggiore gravità. Ogni struttura organizzativa predispone una raccolta di regolamenti interni, Linee guida, aggiornati per lo svolgimento delle procedure tecniche più rilevanti (selezionate per rischio, frequenza, costo). Devono essere predisposti documenti ... per lo svolgimento delle principali attività di supporto tecnico-amministrativo, in particolare: …; modalità di prelievo, conservazione, trasporto dei materiali organici da sottoporre ad accertamento; modalità di pulizia, lavaggio, disinfezione e sterilizzazione di tutti gli strumenti ed accessori; pulizia e sanificazione degli

(11)

11 ambienti; modalità di compilazione, conservazione, archiviazione dei documenti comprovanti un’attività sanitaria. …”.

Con il Decreto del 13/09/1998 13 “al fine di accertare la qualità dell’assistenza

sanitaria” il Ministero della Sanità confermò la necessità dell’istituzione della commissione di controllo all’interno di ogni Azienda Ospedaliera e definì i compiti gravanti sul Direttore Sanitario, quale responsabile del governo clinico aziendale, in cui sono comprese le linee guida ed i percorsi diagnostico-terapeutici. 2

Nel Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 venne confermata l’importanza delle IO come indicatore della qualità dell’assistenza prestata ai pazienti ricoverati ponendo, fra gli obiettivi per il triennio di riferimento, la riduzione di almeno il 25% dell’incidenza delle infezioni e l’attivazione di un programma per la sorveglianza. L’importanza del controllo della diffusione delle infezioni in ambito ospedaliero, come importante indicatore di qualità e come priorità di salute per la sicurezza del paziente, venne indicata anche nei successivi piani 2003-2005 (che prevedeva, tra gli obiettivi mirati a controllare le malattie trasmissibili prevenibili con la vaccinazione, la sorveglianza delle IO e di quelle a trasmissione iatrogena) e 2006-2008 (che prevedeva, tra gli obiettivi mirati a controllare le malattie infettive, la sorveglianza e il controllo delle complicanze infettive legate all’assistenza sanitaria). Nel piano 2008-2010 venne proposto l’uso di protocolli per garantire l’appropriatezza della terapia antibiotica e una campagna di diffusione dell’importanza dell’igiene delle mani.

In Italia, attualmente è in atto sia da parte del Ministero della Salute che delle varie Regioni, una notevole attività di sensibilizzazione del personale ospedaliero al problema delle IO.

Va tuttavia sottolineato che le esperienze e gli studi scientifici pubblicati, in tema di frequenza delle infezioni ospedaliere e valutazione delle misure di prevenzione, sono limitati e che la strada da percorrere nella lotta contro le IO è ancora lunga.

(12)

12

CAPITOLO 2

ASPETTI EPIDEMIOLOGICI DELLE INFEZIONI OSPEDALIERE

2.1 DEFINIZIONE

I Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta hanno fornito nel 1980 le definizioni di infezione ospedaliera e di infezione comunitaria (CAI, Community Acquired Infection), dalle quali appare evidente come il criterio in base al quale una infezione è definibile come “ospedaliera” sia sostanzialmente di natura epidemiologica.

Con il termine infezione ospedaliera o nosocomiale si intendono varie entità

nosologiche e nello specifico infezioni insorte nel corso di un ricovero ospedaliero, non manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ingresso e che si rendono evidenti dopo 48 ore o più dal ricovero nonchè infezioni successive alla dimissione, ma causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione, al ricovero medesimo.

Si considerano infezioni comunitarie tutte quelle infezioni contratte prima dell’ospedalizzazione, presenti al momento della ammissione o che si manifestano successivamente, compatibilmente con il tempo di incubazione della malattia.

Il tempo di incubazione ed il rapporto temporale tra infezione-ospedalizzazione-dimissione sono, quindi, gli elementi essenziali per definire una infezione come contratta in ospedale o di carattere comunitario.

La maggior parte delle IO è facilmente riconoscibile poiché colpisce pazienti ospedalizzati, privi di sintomi al momento del ricovero o perché di esse è noto con buona precisione il tempo di incubazione; vengono considerate ospedaliere anche tutte quelle infezioni che insorgono durante il ricovero e di cui non è noto uno specifico periodo di incubazione.

(13)

13 Per alcuni casi particolari i Centers for Disease Control hanno elaborato criteri che suggeriscono di considerare come ospedaliere:

- le infezioni che si manifestano dopo la dimissione, anche dopo lungo tempo dal ricovero, quando sussista evidenza clinica (infezione della ferita chirurgica) o epidemiologica (epatite B o C iatrogena);

- le infezioni acquisite al momento del parto e/o da madre infetta (HBV, Herpes virus).

Non sono, invece, da considerare ospedaliere le infezioni che rappresentano complicazioni o estensioni di una infezione in atto al momento del ricovero (peritonite a seguito di appendicite perforata sottoposta ad appendicectomia) o le infezioni acquisite per via transplacentare (toxoplasmosi, rosolia, malattia da Cytomegalovirus, varicella).

Inoltre i CDC per ogni tipo di infezione hanno definito anche i vari criteri diagnostici.14

Sono, altresì, da ricomprendere nel contesto nosocomiale anche le infezioni contratte dal personale sanitario nell’assistenza ai malati.

Un aspetto particolare nella definizione dell’infezione ospedaliera è rappresentato dalla “colonizzazione”. Mentre nell’infezione i microrganismi sono presenti nei tessuti dell’ospite, con comparsa di segni clinici e/o di risposta immune, nella colonizzazione i microrganismi sono presenti sulla cute e/o sulle mucose del paziente, senza che vi sia replicazione nei tessuti nè presenza di segni clinici. Si assume che le IO non comprendano la colonizzazione, anche se ad esempio un batteriuria asintomatica è, secondo i CDC, da considerare infezione ospedaliera in un paziente cateterizzato, in presenza di urinocoltura con ≥105 CFU/ml con test negativo all’ingresso, con non più di due specie microbiche e senza segni clinici.

(14)

14

2.2 EPIDEMIOLOGIA

In generale, la frequenza di IO varia molto in rapporto al tipo di reparto e/o ai pazienti studiati, anche quando si utilizzano indicatori clinici specifici.

Attualmente in letteratura l’unico studio che abbia stimato su un campione casuale l’incidenza di IO a livello nazionale è lo Study on the Efficacy of Nosocomial

Infection Control (SENIC) 15, condotto in un gruppo di ospedali statunitensi tra il

1975 e il 1976, da cui emerse una incidenza di pazienti infetti del 5,2% e di infezioni del 6,6%.

La maggior parte dei Paesi europei, compresa l’Italia, ha effettuato invece studi di prevalenza, in cui è emerso che la prevalenza di pazienti infetti varia dal 6,8% al 9,3% e quella di infezioni dal 7,6% al 10,3%. In media, quindi, il 5% dei pazienti ospedalizzati contrae un’infezione durante il ricovero, mentre risulta infetto in un dato momento dal 7% al 9% dei pazienti ricoverati. Si tratta comunque di stime medie, che non si applicano quindi a contesti specifici: l’incidenza di IO, infatti, varia molto a seconda delle dimensioni dell’ospedale, del tipo di reparto, della durata della degenza e delle misure di controllo adottate.

Negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei esistono sistemi di sorveglianza su una rete di ospedali sentinella a livello nazionale, che però sottostimano in parte la reale frequenza di infezioni ospedaliere. I più famosi, e già ricordati, sono il National

Nosocomial Infections Surveillance System (NNIS) statunitense e il Progetto Europeo Helics (Hospitals in Europe Link for Infection Control through Surveillance).

Di seguito vengono riportate due immagini che raffigurano le percentuali di prevalenza delle IO nelle varie Nazioni (nel periodo 1995-2010), divise per Paesi ad alto, medio e basso reddito. 16

(15)

15

Fig. 1Prevalenza di ICA nei paesi industrializzati tra il 1995 ed il 2010

Fig. 2 Prevalenza di ICA nei paesi a medio e basso reddito tra il 1995 ed il 2010

L'importanza relativa, dal punto di vista clinico, di ciascuna localizzazione di infezione varia nei diversi reparti e in diversi sottogruppi di pazienti.

(16)

16 Uniti (NNIS), che descrive la frequenza di infezioni nel tempo e per specifici gruppi di pazienti, ha rilevato nel corso degli anni un cambiamento nella frequenza relativa delle localizzazioni di infezioni e della loro incidenza. Infatti, all'inizio degli anni ‘80 le infezioni urinarie rappresentavano il 40% delle IO rilevate, le infezioni della ferita chirurgica il 20%, le polmoniti il 16% e le batteriemie il 6%. Nel 1990 la distribuzione di queste infezioni era la seguente: infezioni urinarie 35%, infezioni della ferita chirurgica 18%, polmoniti 16%, batteriemie 11%. 17

Come si può osservare, particolare attenzione va rivolta alle infezioni sistemiche che stanno diventando via via più frequenti, come conseguenza di un graduale aumento dei fattori di rischio responsabili di queste infezioni, quali le condizioni di rischio intrinseco del paziente, l'uso di antibiotici e di cateterismi intravascolari. Secondo un report dell’European Centre for Disease and Control (ECDC) del 2008 le IO più frequenti sono le infezioni del tratto urinario, che rappresentano il 27% del totale delle infezioni ospedaliere, seguite dalle infezioni dell’apparato respiratorio (24%), da quelle del sito chirurgico (17%) e da quelle del sangue (10.5%). 18

Lo stesso documento riporta, inoltre, la distribuzione dei microrganismi più frequentemente isolati nei vari siti di infezione che emerge da sondaggi di prevalenza di sei nazioni europee.

(17)

17

Fig. 3 Percentuale di microrganismi isolati più frequentemente negli ospedali di sei nazioni europee

Tuttavia i microrganismi più frequentemente responsabili di epidemie ospedaliere sono quelli che causano infezioni endemiche: Staphylococcus aureus (14%), Pseudomonas aeruginosa (8%), Klebsiella pneumoniae (7%), Acinetobacter spp. (7%), Serratia spp. (6%), Salmonella spp. (4%), Legionella pneumophila (3%), Aspergillus spp. (2%), hepatitis virus (10% del totale, di cui HBV 48%, HCV 34%, HAV 18%), influenza/parainfluenza (2%), rotavirus (2%), adenovirus (1%). 19-21

La situazione italiana

In Italia, dai primi anni Ottanta sono stati condotti numerosi studi per valutare la frequenza di IO; in particolare, nel 1983, fu effettuato lo “Studio Italiano

Prevalenza Infezioni Ospedaliere” (SIPIO) che coinvolse 142 ospedali (36.000

posti letto) ed evidenziò una prevalenza di IO del 6,8% e il fatto che il 12,3% dei pazienti era già infetto all’ingresso in ospedale (pertanto non si trattava di un’infezione ospedaliera ma di una possibile sorgente di infezione ospedaliera).

(18)

18 Tali dati furono ulteriormente confermati da successivi studi d’incidenza condotti in alcuni ospedali italiani.

In Italia, tuttavia, non esiste un sistema di sorveglianza nazionale, ma sono stati condotti numerosi studi multicentrici di prevalenza. Sulla base di questi e delle indicazioni della letteratura, si può stimare che in Italia il 5-8% dei pazienti

ricoverati contrae un’infezione ospedaliera. Ogni anno, quindi, si verificano in

Italia 450.000-700.000 infezioni in pazienti ricoverati in ospedale (soprattutto infezioni urinarie, seguite da infezioni della ferita chirurgica, polmoniti e sepsi). Di queste, si stima che circa il 30% siano potenzialmente prevenibili (135.000-210.000) e che siano direttamente causa del decesso nell’1% dei casi (1350-2100 decessi prevenibili in un anno). In particolare da alcuni studi emerge che sia prevenibile addirittura il 65-70% di batteriemie catetere correlate e di infezioni delle vie urinarie catetere correlate ed il 55% delle polmoniti associate alla ventilazione meccanica e di infezioni del sito chirurgico. 22,23

Secondo una ricerca condotta dal Centro Studi “SIC” (Sanità in Cifre) di Federanziani, in Italia nel triennio 2008-2010 sono state contratte complessivamente 2.269.045 infezioni ospedaliere, per un totale di 22.691 decessi e per un costo a carico del SSN che oscilla tra 4,8 e 11,1 miliardi di euro. Le vittime delle infezioni ospedaliere in Italia sono molte di più di quelle degli incidenti stradali, che nel triennio considerato, secondo dati Istat, sono state 13.052. 24

Fig. 4 Stime del numero di infezioni registrate nel triennio 2008-2010 e relativi costi economici in giornate di degenza

(19)

19 Le seguenti tabelle riportano alcuni degli studi multicentrici effettuati in Italia25,

suddivisi per tipologia:

Studi multicentrici di prevalenza autore, anno luogo tipo di reparto e n° di

ospedali o reparti n° di pazienti frequenza (%)

Zotti, 2000 Piemonte tutto l'ospedale (60) 9467 7,8 Di Pietrantonj, 2000 Italia tutto l'ospedale (10) 1315 9 Lizioli, 2000 Lombardia tutto l'ospedale (113) 18867 4,9 Nicastri, 2001 Italia tutto l'ospedale (15) 2165 7,5 Mongardi, 2001-2002 Emilia

Romagna Rsa (15), CP (34) 1926 9,6 Studio Spin, 2004 Veneto tutto l'ospedale (21) 6352 6,9 Ippolito, 2002 Italia tutto l'ospedale (32) 3306 6,9 Ippolito, 2003 Italia tutto l'ospedale (40) 3402 6,2 Ippolito, 2004 Italia tutto l'ospedale (48) 3416 5,4 Ippolito, 2004 Italia tutto l'ospedale (44) 2901 6,7 Rodella, 2004 Toscana tutto l'ospedale (41) 6631 4,5

Tab. 1 Studi multicentrici di prevalenza

Studi multicentrici sulle infezioni del sito chirurgico autore, anno luogo tipo di reparto e n° di

ospedali o reparti pazienti n° di frequenza (%)

Greco, 1991 Abruzzo, Campania,

Sardegna

chirurgia generale (20) 7641 13,6

Moro, 1991 Roma,

Arezzo chirurgia generale (3), ortopedia (1) 1019 433 4,9 1,2 Asr Friuli Venezia

Giulia Venezia Friuli Giulia chirurgia gastrica, chirurgia colorettale, appendicectomia, colecistectomia, mastectomia 1402 7,4 protesi d’anca, riduzione aperta di frattura 1044 1,5

(20)

20 Moro, 2002 e 2005 Emilia

Romagna chirurgia colorettale, chirurgia gastrica, appendicectomia, colecistectomia, mastectomia 1298 6,2 protesi d’anca, riduzione aperta di frattura 405 1,2

Argentero, 2006 Piemonte interventi di ernia

4389 1 interventi sul colon 844 8,5

Tab. 2 Studi multicentrici sulle infezioni del sito chirurgico

Studi multicentrici sulle infezioni in terapia intensiva autore, anno luogo tipo di reparto e n° di

ospedali o reparti

n° di pazienti

frequenza (%)

Carrieri, 2003 Italia terapia intensiva

neonatale (21) 2160 sviluppano sepsi a 17% dei neonati 48 ore dal ricovero Malacarne,

2004 (progetto

Giviti)

Italia terapia intensiva (71) 9493, di cui 5903 eleggibili 25% dei pazienti infezione al ricovero 11% infezione durante il ricovero 7% al ricovero e durante Busetti, 2006 Friuli Venezia Giulia

tutte le unità di terapia

intensiva della Regione 3215 polmoniti su 1000 2003: 16,8 giornate di ventilazione 2004: 17,7 polmoniti su 1000 giornate di ventilazione

Tab. 3 Studi multicentrici sulle infezioni in terapia intensiva

In riferimento alle IO insorte nei reparti di Terapia Intensiva si sottolinea che sebbene questi non superino mediamente il 5% dei posti letto disponibili in ospedale ed i pazienti ivi ricoverati rappresentino solo il 10% dei ricoveri totali, le

(21)

21 infezioni acquisite in questi ambienti hanno una incidenza del 9,1% 26 e superano il

20% del globale delle infezioni nosocomiali. 27,28

Le più frequenti, come evidenziato nell’immagine di seguito riportata, sono rappresentate dalle polmoniti (40-45% di tutte le infezioni), seguite dalle sepsi da CVC (12-17%), dalle sepsi primitive (12-15%), dalle infezioni delle vie urinarie (10-12%) e, infine, da quelle gastroenteriche (10-(10-12%). 29

Fig. 5 Distribuzione percentuale media delle più frequenti ICA in Terapia Intensiva

Il Sistema Nazionale di Sorveglianza delle Infezioni in Terapia Intensiva (Sitin) – nato a seguito di due successivi progetti finanziati dal Ccm (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie) del Ministero della Salute e coordinati dall’Agenzia sanitaria e sociale regionale dell’Emilia-Romagna (Progetto Inf-Oss, “Prevenzione e controllo delle infezioni associate all’assistenza sanitaria e socio-sanitaria”, e Progetto “Sicurezza del paziente: il rischio infettivo”) – ha raccolto i dati relativi alle infezioni di una parte significativa delle Unità di Terapia Intensiva (Uti) italiane, circa un quarto delle Uti del Paese. Dal documento di raccolta dei dati relativi agli anni 2009 e 2010, è emerso quanto segue:

 In due anni sono stati raccolti dati di sorveglianza relativi a quasi 40.000 ricoveri.

(22)

22  I tre quarti circa dei pazienti vengono intubati durante la degenza in UTI.  L’incidenza di infezioni correlate all’assistenza varia significativamente nel

corso dell’anno, ma senza uno specifico trend temporale.

 Il tasso di batteriemie associate a catetere venoso centrale varia mediamente fra 0 e 4,4/1.000 gg-dispositivo (10° e 90° percentile).

 Il tasso di polmonite associata all’intubazione varia mediamente fra 1,4 e 19,5/1.000 gg intubazione (10° e 90° percentile).

 Il tasso di infezione delle vie urinarie per i due anni è stato di circa 2/1.000 gg-pazienti.

 Si sono osservate notevoli variazioni sia fra i centri che fra i due principali sistemi di sorveglianza per tutte le ICA che possono essere imputabili probabilmente a differenze nelle caratteristiche dei pazienti, a differenti criteri diagnostici, in particolare per le polmoniti, e a differenti sistemi di prevenzione, in particolare per le batteriemie CVC correlate.

* * *

Le ICA si distribuiscono in quattro principali localizzazioni che rappresentano circa l’80% di tutte le infezioni osservate:

 il tratto urinario,  le ferite chirurgiche,  l'apparato respiratorio,

 le infezioni sistemiche (sepsi, batteriemie).

Tra queste le più frequenti sono le infezioni urinarie, che da sole rappresentano il 35-40% circa di tutte le infezioni osservate e che si verificano, nell’80% dei casi, nei pazienti cateterizzati, con aumento sia della morbidità che della mortalità 30,

tanto che negli Stati Uniti nel 2009 sono state stilate apposite Linee guida preventive. 31

Nei reparti di Terapia Intensiva i germi più frequentemente responsabili sono Escherichia coli, Enterococcus spp. e Candida. 32-34

(23)

23 Per quanto riguarda le infezioni del sito chirurgico la definizione è principalmente clinica e si basa sulla presenza di secrezione purulenta attorno alla ferita o a livello del sito di inserzione di un drenaggio o di una cellulite che diffonde dalla ferita. L’infezione viene generalmente acquisita durante l’intervento stesso e può avere origine esogena (dall’aria, dalla strumentazione sanitaria, dal/i chirurgo/i o altro personale) oppure endogena (dalla flora cutanea o del sito operatorio o, raramente, attraverso il sangue trasfuso durante l’intervento chirurgico). I microrganismi infettanti sono di vario tipo, in funzione della sede dell’intervento e della terapia antimicrobica somministrata al paziente; i germi più frequentemente responsabili dell’insorgenza di ICA sono lo Staphylococcus aureus, Escherichia coli ed altri Enterobatteri, Bacteroides, etc.. Il maggior fattore di rischio è rappresentato dal grado di contaminazione durante le procedure (pulito, pulito-contaminato, pulito-contaminato, sporco) che in gran parte dipende dalla durata dell’operazione e dalle condizioni generali del paziente. Altri fattori di rischio includono la qualità della tecnica chirurgica, la presenza di corpi estranei (inclusi i drenaggi), la virulenza dei microrganismi, infezioni concomitanti in altri siti, etc.. Le ICA delle vie respiratorie si manifestano in diversi gruppi di pazienti, il principale dei quali è rappresentato, come detto in precedenza, da quelli sottoposti a ventilazione assistita nei reparti di Terapia Intensiva. Si tratta generalmente di forme gravi, ad elevata mortalità, soprattutto in considerazione delle condizioni di base (compromesse) dei pazienti colpiti. L’intubazione oro-tracheale, la tracheotomia e la ventilazione meccanica sono i principali fattori di rischio e non solo per l’eventuale irritazione meccanica provocata alla mucosa, ma anche per la conseguente esclusione del sistema di difesa muco-ciliare; inoltre, lo stesso apparecchio per la respirazione assistita può essere fonte di microrganismi. I microrganismi coinvolti sono estremamente variabili; tra essi si ricordano Staphylococcus aureus meticillino resistente (MRSA), Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter spp., Escherichia coli, Legionella spp., etc.. 35

(24)

24 Inoltre, altre tipologie di invasione del tratto respiratorio inferiore sono rappresentate dalla aspirazione di batteri colonizzanti il tratto orofaringeo o gastrico (polmonite ab ingestis), inalazione di aerosol contenenti batteri, traslocazione batterica dal tratto gastrointestinale e, più raramente, diffusione ematogena di batteri da una localizzazione remota.

Le infezioni sistemiche, che sono caratterizzate da un elevato tasso di mortalità, sono frequentemente riconducibili al posizionamento di cateteri vascolari e gli agenti eziologici più comuni sono rappresentati da componenti della flora cutanea, come Staphylococcus aureus ed epidermidis. I maggiori fattori di rischio per questa tipologia di ICA sono rappresentati dalla durata della permanenza del catetere, dal livello di asepsi al momento dell’inserzione e dalla costanza del controllo.

Nel Luglio 2013 l’European Center for Disease Control (ECDC) 36 ha pubblicato i

risultati di uno studio di prevalenza europeo mirato a stimare la frequenza di infezioni correlate all’assistenza e del ricorso agli antibiotici negli ospedali per acuti. Hanno partecipato allo studio 29 Paesi e 947 ospedali, per un totale di 231.459 pazienti. Un punto qualificante dell’indagine è che tutti i Paesi hanno concordato di utilizzare per la rilevazione un unico protocollo di studio e che i rilevatori sono stati addestrati utilizzando un pacchetto formativo comune. Ciò rende possibile il confronto, anche se permangono differenze che possono avere influenza su quanto rilevato: non tutti i Paesi sono stati in grado di coinvolgere un numero di ospedali corrispondente a quanto indicato dall’ECDC (e in quasi tutti i Paesi gli ospedali sono stati selezionati in modo non casuale); il protocollo di studio, i criteri di definizione di caso e gli strumenti di rilevazione sono stati tradotti in molte lingue e ciò può aver comportato interpretazioni non sempre univoche; i metodi diagnostici e le modalità di organizzazione degli ospedali possono essere molto diversi e queste

(25)

25 differenze possono non essere state catturate sufficientemente dalle informazioni rilevate.

Anche se è opportuno tenere presente queste giuste cautele nella lettura del quadro di insieme, i risultati dello studio consentono di tratteggiare un quadro comparativo tra l’Italia e gli altri Paesi europei: il quadro che emerge presenta alcune luci, ma anche molte ombre. In Italia, lo studio è stato condotto nella seconda finestra temporale proposta dall’ECDC, nel periodo settembre-ottobre 2011. Hanno partecipato 49 ospedali, selezionati in modo proporzionale rispetto alla distribuzione degli ospedali per acuti per Regione e per dimensioni. Solo due Regioni (Molise e Calabria) non sono riuscite a partecipare allo studio. I dati rilevati nel nostro Paese confermano, date le dimensioni del rischio, l’assoluta centralità del problema “infezioni correlate all’assistenza” per la sicurezza dei pazienti:

 su 100 pazienti ricoverati in un giorno, 6,3 presentavano una infezione

correlata all’assistenza (infezione comparsa dopo 48 ore dal ricovero in ospedale o presente al ricovero in un paziente trasferito da un altro ospedale per acuti);

 questo rischio arriva fino al 14,8% in terapia intensiva, a 13% nei pazienti

con patologia “rapidamente fatale” secondo il McCabe score, a 30,9% nei pazienti intubati, a 21,4% nei pazienti portatori di catetere venoso centrale, a 13,2% nei pazienti portatori di catetere urinario;

 su 100 infezioni, quelle più frequentemente riportate sono quelle respiratorie

(24,1%), urinarie (20,8%), le infezioni del sito chirurgico (16,2%) e le batteriemie (15,8%).

Per quanto concerne la prevalenza di infezioni, il confronto tra l’Italia e l’Europa colloca il nostro Paese in una posizione in linea con la media europea: 6,6% in Italia vs 6,0% in Europa (da 2,3% a 10,8% nei diversi Paesi), anche se la frequenza di alcune infezioni (ad esempio le infezioni correlate a catetere intravascolare) è più elevata rispetto alla media europea.

(26)

26 Tuttavia, il problema in Italia è reso più drammatico dalla diffusione di microrganismi multiresistenti: nello studio italiano il 34% di Escherichia coli e il 65,2% di Klebsiella pneumoniae è resistente alle cefalosporine di III generazione; il 48,9% di Klebsiella pneumoniae e il 39,1% di Pseudomonas aeruginosa è resistente ai carbapenemi; il 58,6% di Staphylococcus aureus è resistente alla meticillina. Ciò è attribuibile anche all’elevato ricorso agli antibiotici, tema particolarmente critico in Italia:

 la prevalenza di pazienti con almeno un trattamento antibiotico è 44% in Italia rispetto alla media europea del 35% (da 21,4% a 54,7% nei diversi paesi). Ad eccezione di Portogallo, Spagna, Grecia, Bulgaria e Finlandia, in tutti gli altri Paesi europei la prevalenza di utilizzo è più contenuta rispetto all’Italia, con Francia, Germania e Belgio che riportano una prevalenza di pazienti trattati inferiore a 30%. Queste differenze non sono spiegate dal mix di pazienti studiati;

 la prevalenza di pazienti in chemioprofilassi chirurgica per più di un giorno è più elevata rispetto a molti altri Paesi europei; quella di pazienti in profilassi medica è in assoluto la più elevata in Europa, come anche elevata è quella di pazienti per i quali le indicazioni al trattamento antibiotico non sono documentate in cartella.

È quindi necessario e urgente avviare programmi di governo dell’uso responsabile di antibiotici utili a promuovere l’uso solo ove indicato e con modalità (durata, scelta della molecola, dosaggio) appropriate.

Un’altra criticità che emerge dallo studio è relativa alla igiene delle mani. In Italia è stata condotta con successo alcuni anni fa una campagna mirata a promuovere l’igiene delle mani, basata sulle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha coinvolto molte Regioni e ospedali. A distanza di alcuni anni, questo studio documenta come l’igiene delle mani non sia divenuta una pratica corrente in tutti gli ospedali italiani: nei 49 ospedali partecipanti allo studio, il consumo di prodotti idroalcolici per l’igiene delle mani è inferiore a 10 litri per 1000 giornate di

(27)

27 degenza (la categoria più bassa in Europa), contro una media europea di 18,7 litri/1000 e di punte >40 nei Paesi scandinavi.

Questa rappresenta un’altra criticità sulla quale è opportuno concentrare l’attenzione: sono infatti disponibili sufficienti esperienze, strumenti validati e indicazioni per avviare interventi efficaci.

In conclusione, lo studio europeo fornisce indicazioni chiave per orientare meglio gli interventi: ci sono ancora molti passi in avanti da fare per allineare il nostro Paese agli altri Paesi europei, quali la Francia e la Gran Bretagna, che in questi anni hanno raggiunto importanti traguardi in questo ambito.

2.3 MICRORGANISMI PIU’ FREQUENTEMENTE COINVOLTI

Un gran numero di microrganismi è responsabile di ICA ed ogni germe può avere la capacità di causare una infezione in un paziente ospedalizzato. Globalmente intesa, la fonte delle IO è individuabile nella popolazione microbica ospedaliera, costituita di batteri, virus, miceti, protozoi, che sono presenti nell'ambiente, nei malati e nel personale sanitario, con ampie possibilità di interazioni tra questi diversi habitat. Circa il 90% delle ICA è determinata da batteri, mentre virus, miceti e protozoi svolgono un ruolo minore. 37

I batteri che più frequentemente determinano ICA sono: Staphylococcus aureus, Streptococcus spp., Acinetobacter spp., Staphylococchi coagulasi negativi, enterococchi, Pseudomonas spp., Legionella e componenti della famiglia delle Enterobacteriacee come Escherichia coli, Proteus mirabilis, Salmonella spp., Serratia marcescens e Klebsiella pneumoniae. Ma i patogeni nosocomiali più frequentemente riportati sono, in primis, Escherichia coli e Staphylococcus aureus, seguiti da enterococchi e Pseudomonas aeruginosa. 38

Escherichia coli viene frequentemente isolato nelle infezioni delle vie urinarie, a differenza di Staphylococcus aureus che invece è più frequente in altri e variegati distretti; i cocchi coagulasi negativi sono frequentemente responsabili di

(28)

28 batteriemie ed Enterococcus spp. è frequentemente isolato nelle infezioni del sito chirurgico ed in caso di batteriemie. Pseudomonas aeruginosa viene isolata in circa 1/10 di tutte le infezioni e può determinare ICA in diversi distretti.

Nel corso degli anni l’eccessivo e spesso improprio utilizzo di terapie antibiotiche ad ampio spettro, sia nelle comunità che negli ambienti sanitari, associato alla durata sempre maggiore dei giorni di degenza ospedaliera (soprattutto nelle unità di Terapia Intensiva) 39 ha favorito l’emergenza e lo sviluppo di ceppi batterici

resistenti (quali Staphylococcus aureus meticillino resistente (MRSA), pneumococchi resistenti alla penicillina, enterococchi resistenti alla vancomicina, Acinetobacter baumannii, Burkholderia cepacia) con conseguenti difficoltà in termini di controllo, prevenzione e possibilità terapeutiche.

I patogeni nosocomiali e la loro distribuzione nei diversi siti di infezione hanno caratteristiche di dinamicità.

A dimostrazione di ciò si ricorda che storicamente la resistenza è stata un problema subito dopo l’introduzione della penicillina G e delle sulfonamidi negli anni ’40; di fatti all’inizio dell’era antibiotica le più frequenti ICA erano di origine stafilococcica e venivano ben controllate con la penicillina; successivamente gli stafilococchi iniziarono a produrre l’enzima beta-lattamasi e potevano comunque essere controllati mediante gli antibiotici beta-lattamici. Negli anni ’60 si verificò un maggior coinvolgimento nelle ICA da parte di ceppi resistenti della famiglia delle enterobacteriacee (Klebsiella spp., Escherichia spp., Proteus spp.) e tra il 1975 ed il 1980 si osservò la comparsa di bacilli Gram negativi multiresistenti (Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter). 40 Studi più recenti hanno permesso di rilevare la

“ri-emergenza” di cocchi Gram positivi, tra cui stafilococchi coagulasi positivi e negativi e streptococchi e l’emergenza di Gram negativi, quali la Burkholderia cepacia e Stenotrophomonas maltophila. 41

Negli ultimi decenni si è verificato un incremento continuo ed allarmante di tali microrganismi resistenti; negli USA, ad esempio, il 50-60% di oltre 2 milioni di ICA è determinato da patogeni antibiotico-resistenti.

(29)

29 Di seguito vengono riportati alcuni dei principali microrganismi responsabili delle malattie infettive nosocomiali.

Staphylococcus aureus

Rappresenta il principale componente della famiglia delle Staphylococcaceae; si tratta di un Gram positivo, asporigeno, immobile, catalasi positivo, anaerobio facoltativo, che può essere sia patogeno che commensale.

L’uomo è continuamente esposto al rischio di un’infezione stafilococcica in quanto normalmente la maggioranza degli individui adulti ospita stafilococchi potenzialmente patogeni sulla cute e, soprattutto, a livello del naso-faringe; lo stato di portatore può essere transitorio o comunque intermittente, benché sia stato dimostrato che vi sono degli individui che ospitano questi microrganismi continuamente o per periodi assai lunghi.

Le infezioni stafilococciche sono alla base di diversi quadri patologici che si differenziano notevolmente a seconda della sede del processo infettivo e delle sue modalità di diffusione (per continuità, diffusione metastatica ematogena, etc.).

Questo microrganismo rappresenta la causa primaria di infezioni delle basse vie respiratorie e del sito chirurgico, seguite da batteriemie ed infezioni cardiovascolari; alcuni stafilococchi, produttori di enterotossine, sono la causa di intossicazioni alimentari quando siano in grado di contaminare alcuni cibi idonei (in particolare cibi ricchi di lipidi: panna, crema, etc.) a garantirne una rapida moltiplicazione con la produzione di consistenti quantità di tossine. 42

S. aureus è uno dei batteri che più spesso presenta il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, che si manifesta in maniera molto spiccata fra i ceppi diffusi in ambiente ospedaliero e che sono responsabili delle stafilococcie nosocomiali. Lo

Staphylococcus aureus Meticillino resistente (MRSA) fu descritto per la prima

volta entro un anno dalla introduzione della meticillina, negli anni 1959-60; la prima epidemia si verificò nel 1968 e da allora l’incidenza di tale germe, quale patogeno nosocomiale è aumentata enormemente. Gli stafilococchi meticillino-resistenti

(30)

30 rappresentano ormai una vera e propria emergenza sanitaria sia nella patologia nosocomiale che comunitaria, anche perché tra essi iniziano ad emergere ceppi resistenti ai glicopeptidi (vancomicina) che rappresentano, se non l’unico, certo il principale presidio terapeutico efficace. Il meccanismo alla base della meticillino-resistenza è rappresentato da una diminuita affinità delle “penicillin binding proteins” di tali batteri per le isossazolil-penicilline e per le betalattamine in genere e, in particolare, dalla presenza di una PBP2 diversa (PBP2a) da quella presente nei batteri sensibili, la cui produzione verrebbe indotta dalla meticillina (o dai farmaci correlati). Inoltre, spesso la meticillino-resistenza è associata alla resistenza verso altri tipi di antibiotici (ad esempio gli aminoglicosidi). 43

Enterobatteri

Comprendono un grande numero di batteri, a prevalente habitat intestinale (sia nell’uomo che negli animali); nel loro insieme tali germi possono essere definiti bacilli Gram negativi, asporigeni, mobili o immobili, quasi costantemente provvisti di pili, aerobi-anaerobi facoltativi. Gli enterobatteri sono coinvolti in una serie di manifestazioni morbose umane che possono essere divise in: infezioni sistemiche (le cosiddette febbri enteriche – tifo e paratifo), infezioni primitivamente ed esclusivamente intestinali (varie forme di enteriti e gastroenteriti) ed infezioni a localizzazione extraintestinale. Quest’ultimo gruppo comprende principalmente infezioni delle vie urinarie, alle quali si sono aggiunte, negli ultimi anni, altre varie infezioni, di tipo “opportunistico”, rappresentate da infezioni delle vie respiratorie, sovrainfezioni di ferite (chirurgiche e non), infezioni conseguenti a manovre endoscopiche strumentali, etc..

In questo gruppo particolare importanza, ai fini della presente trattazione, è rivestita da Escherichia coli e Klebsiella pneumoniae.

Escherichia coli: è un ospite normale dell’organismo umano, in cui rappresenta la specie predominante della comunità batterica aerobia-anaerobia facoltativa

(31)

31 residente nell’intestino crasso. Si tratta di un germe estremamente versatile le cui sottopopolazioni possiedono diversi fattori di patogenicità e sono in grado di provocare una serie di quadri morbosi tra cui si ricordano infezioni delle vie urinarie e delle ferite, polmoniti nei pazienti immunocompromessi, meningiti nei neonati, enteriti e gastroenteriti. 44

Klebsiella pneumoniae: le Klebsielle sono enterobatteri costantemente provvisti

di capsula, immobili; pur essendo frequentemente repertabili nel materiale fecale umano, si ritrovano spesso associate a diverse forme morbose interessanti l’apparato respiratorio. La specie più importante è Klebsiella pneumoniae che si riscontra nella flora batterica dei tratti intestinale, urogenitale e respiratorio dell’uomo, ma anche nell’ambiente e si trasmette sia per contatto diretto con pazienti infetti, sia per contatto indiretto con il personale sanitario o con varia strumentazione contaminata (ad esempio cateteri, respiratori, etc.).

Dal punto di vista clinico tale germe si rende responsabile principalmente di affezioni respiratorie (più frequentemente polmoniti), soprattutto in soggetti debilitati per altre malattie respiratorie infettive e non (bronchiectasie o altre affezioni polmonari croniche), nonché di infezioni delle vie urinarie e delle ferite e sepsi. Si tratta di germi dotati di notevole resistenza agli antibiotici, in particolare la Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi di tipo KPC, enzima in grado di rendere inefficaci tutti gli antibiotici beta-lattamici, inclusi i carbapenemici, che dal primo isolamento, avvenuto negli USA nel 1996, si è diffusa rapidamente; in Europa l'epidemia è stata dapprima segnalata in Grecia per poi estendersi in tutto il continente. Nel corso del tempo sono state descritte diverse varianti di Klebsiella pneumoniae carbapenemasi 45; nel 2009, in un paziente di ritorno dall’India affetto

da K. Pneumoniae, fu individuata per la prima volta una nuova carbapenemasi, denominata Nuova Delhi Metallo-beta-lattamasi (NDM-1), in grado di idrolizzare i carbapenemi e di conferire notevole resistenza terapeutica (le uniche molecole efficaci in vitro sembrano essere colistina e tigeciclina). 46,47

(32)

32 Acinetobacter baumannii

I batteri appartenenti al genere Acinetobacter sono cocco-bacilli gram-negativi, aerobi, ossidasi-negativi. Sono molto diffusi nell’ambiente, essendo presenti nel suolo, nell’acqua e in una grande varietà di alimenti. Possono inoltre far parte della popolazione batterica commensale degli esseri umani (tratto respiratorio, genito-urinario, cute).

Alcune specie sono riconosciute tra i patogeni opportunisti in grado di causare infezioni in individui con sistema immunitario compromesso. In particolare, Acinetobater baumannii è responsabile di oltre l’80% di tutte le infezioni correlate al genere, colpendo soprattutto pazienti ospedalizzati, immunodepressi, lungodegenti, sottoposti a protratte terapie antibiotiche e a procedure invasive e si rende responsabile di una grande varietà di quadri patologici, tra i quali si ricordano polmoniti, setticemie, endocarditi, infezioni delle vie urinarie, di ferite chirurgiche ed ustioni, meningiti. 48,49

La trasmissione avviene prevalentemente per contatto diretto o indiretto attraverso superfici contaminate, infatti negli ospedali Acinetobacter è stato isolato, oltre che dalle mani del personale di assistenza, nell’acqua degli umidificatori, nei ventilatori, nei cateteri e anche su materassi, cuscini ed elementi di arredo. Questo batterio è in grado di sopravvivere oltre 30 giorni in condizioni di essiccamento e la sua capacità di resistere a lungo nell’ambiente, unitamente alle molteplici modalità di trasmissione, rendono ragione della sua estrema pericolosità come patogeno nosocomiale in grado di determinare eventi epidemici. Inoltre, il profilo delle antibiotico-resistenze di questo organismo, per sua natura caratterizzato dalla resistenza a numerose classi di antibiotici, sta diventando sempre più estremo: se infatti i carbapenemi erano considerati una delle ultime classi di agenti attivi sui patogeni gram-negativi multi resistenti, gli A. baumannii maggiormente diffusi oggi sono produttori di carbapenemasi e quindi resistenti a tale classe di antibiotici. Proprio l’incremento nell’utilizzo dei carbapenemi, osservato negli ultimi anni è uno dei principali fattori che ha determinato l’aumento delle infezioni da A. baumannii

(33)

33 resistente a questi antibiotici. I ceppi resistenti ai carbapenemi (58% del totale nel 2009) conservano unicamente la sensibilità alla colistina, antibiotico il cui utilizzo è gravato da problemi di tossicità. Per quel che riguarda la tigeciclina, le prove di efficacia nei confronti di A. baumannii sono considerate insufficienti.

Pseudomonas aeruginosa

Il genere Pseudomonas comprende bacilli Gram negativi, mobili per la presenza, in genere, di un singolo flagello polare, non fermentanti, aerobi-anaerobi facoltativi ossidasi-positivi. La specie di maggior interesse medico è rappresentata da Pseudomonas aeruginosa, batterio ubiquitario, in conseguenza delle scarse esigenze nutrizionali e della sua capacità di adattamento a diverse situazioni ambientali. Particolarmente resistente ai tensioattivi a base di ammonio quaternario, questa sua caratteristica gli consente di crescere anche in soluzioni di derivati di tale sostanza (usati come disinfettanti). Tale bacillo può transitoriamente colonizzare il tratto respiratorio ed addominale di soggetti ospedalizzati, in particolare coloro che vengono trattati con terapia antibiotica ad ampio spettro di azione, sottoposti a ventilazione meccanica e/o lungodegenti.

La patogenesi delle infezioni determinate da questi microrganismi ha origine in caso di compromissione delle difese immunitarie (ad esempio in caso di neutropenia, chemioterapia, etc.) oppure in presenza di cateteri vescicali o intravascolari.

Lo P. aeruginosa colonizza le membrane mucose e/o la cute, determina invasione a livello locale e disseminazione a distanza. Tali processi sono resi possibili da diversi fattori di virulenza: pili, enzimi (elastasi, proteasi, fosfolipasi C) e tossine (esotossina A). Dal punto di vista clinico lo spettro di quadri che può determinare è molto ampio e varia dalla presenza di materiale purulento di colore verdastro a livello delle ferite, alle infezioni delle vie urinarie, alle polmoniti necrotizzanti. 50

P. aeruginosa è frequentemente resistente a gran parte degli antibiotici di maggior impiego. Tale proprietà è dovuta sia ad una farmaco-resistenza intrinseca (in funzione della scarsa permeabilità degli involucri esterni del batterio a numerosi antibiotici), sia alla produzione di numerose beta-lattamasi e amino glicosidasi, alla

(34)

34 presenza di varie alterazioni nei bersagli specifici di varie classi di farmaci e alla presenza di efficaci meccanismi di espulsione dei farmaci antibatterici che riescono a penetrare all’interno del batterio. In Letteratura sono riportati tassi di frequenza di MDRPA (Multidrug Resistant Pseudomonas aeruginosa) variabili dallo 0,6 al 32% a seconda della localizzazione geografica e del tipo di studio effettuato. 51

Enterococchi

Si tratta di cocchi Gram positivi, anaerobi facoltativi, largamente presenti in natura, considerati parte della normale flora microbica dei tratti gastrointestinale e genitourinario.

La maggior parte delle ICA sono determinate essenzialmente da due componenti: Enterococcus faecalis (80-90% dei casi) ed Enterococcus faecium (10-15% dei casi).52

Le più frequenti ICA prodotte da tali microrganismi sono rappresentate dalle infezioni delle vie urinarie seguite da infezioni addominali e pelviche. Inoltre possono determinare infezioni a livello dei siti chirurgici, batteriemie, endocarditi, sepsi neonatali e, raramente, meningiti.

L’ampio spettro di resistenza nei confronti di numerosi antibiotici può porre seri problemi terapeutici. In particolare, la prima descrizione di Enterococchi resistenti alla Vancomicina risale al 1996. Di tali microrganismi sono stati identificati quattro fenotipi (VanA, VanB, VanC e VanD), dei quali il VanA rappresenta quello più frequentemente riscontrato. Inoltre, negli enterococchi la resistenza alla Vancomicina è spesso correlata alla resistenza alla Ampicillina, che talora deriva da un linkage genetico. 53

Clostridium difficile

Bacillo Gram positivo, anaerobio, sporigeno, appartenente alla famiglia Clostridiaceae, largamente diffuso nel suolo, presente nel tratto intestinale degli animali, che colonizza circa il 3% degli adulti sani. L’infezione da C.

(35)

35 difficile è tipicamente di origine nosocomiale, correlata all’uso di antibiotici 54-56 e si

manifesta con discreta frequenza anche con carattere epidemico. La gravità della CDAD (Clostridium difficile associated disease) è variabile ed il quadro clinico si può presentare come sindrome diarroica lieve o severa, fino ad arrivare alla colite pseudomembranosa, alla colite fulminante, al megacolon tossico e alla perforazione intestinale (1-3 % dei pazienti che si infettano). L’infezione si verifica a seguito di trasmissione fecale-orale, per ingestione di spore che sopravvivono nell’ambiente acido dello stomaco e si trasformano nella forma vegetativa nel colon. Il paziente colonizzato/infetto è la fonte primaria di C. difficile che, per via diretta o indiretta, contamina l’ambiente, che diviene la fonte secondaria.

Come già detto, minore importanza è rivestita, in termini prettamente numerici, dai miceti – tra i quali prevale Candida albicans nei pazienti immunocompromessi (ma anche Pneumocystis carinii ed Aspergillus spp.) – e dai virus – tra i quali si ricordano HIV, i virus dell’epatite, Varicella-Zoster, Herpes simplex, enterovirus e rotavirus (soprattutto nei reparti pediatrici), virus influenzali e parainfluenzali, Cytomegalovirus, etc..

2.4 TRASMISSIONE DELLE INFEZIONI IN OSPEDALE

Si definisce “serbatoio di infezione” “qualsiasi persona, pianta, animale, terreno o materiale organico o oggetto inanimato in cui l’agente infettivo di norma vive, si moltiplica e da cui dipende primariamente per la sopravvivenza, riproducendo se stesso in modo da poter essere trasmesso ad un ospite suscettibile”; il serbatoio rappresenta, quindi, l’habitat naturale in cui vive un microrganismo.

In ospedale esso è costituito dall’uomo (soggetti infetti/colonizzati e/o portatori) o dall’ambiente; la “sorgente” o “fonte di infezione” è invece il soggetto dal quale l’agente dell’infezione si trasmette all’ospite suscettibile, in modo diretto o indiretto. Il serbatoio e la sorgente in taluni casi possono coincidere.

Riferimenti

Documenti correlati

NELLA SANITÀ PUBBLICA 1/5 DEL PERSONALE STABILE DELLA PA Al 31 dicembre 2018, sono occupati nella sanità pubblica circa 650 mila dipendenti a tempo indeterminato, un quinto

“In questo modo – sottolinea la presidente della Federazione Barbara Mangiacavalli – non si riuscirà a equilibrare il numero dei professionisti (non solo infermieri

Seguono, con un valore pari al 30,1%, gli infermieri ospedalieri le cui segnalazioni sul loro operato sono invece cresciute rispetto all’ anno precedente (18,4%). Aumentano inoltre

I determinati della salute; Promozione della salute; Educazione alla salute; Programmazione e Gestione degli Interventi di Sanità Pubblica; Disuguaglianze di Salute;

Lo scopo di questo documento è presentare una panoramica del concetto di fragilità che mostri come il linguaggio, le logiche e gli strumenti di sanità pubblica, possano

4 Anche se i fattori sociali (socio-politici, socio-economici e socio-culturali) erano da tempo menzionati nella letteratura di Sanità pubblica, si fa risalire alla Dichiarazione

I risultati ottenuti sono raggruppabili in quattro tematiche principali: l'impatto degli accorpa- menti di ospedali su esiti clinici, processi e utilizzazione delle

Il testo, che sembra concepito come strumento pra- tico, nei primi sei capitoli della parte generale riporta alcune esigenze fondamentali: un continuo richiamo alla obbligatorietà