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PARTE II PROGETTO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI SAN GAETANO

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PARTE II

PROGETTO DEL

PARCO ARCHEOLOGICO DI SAN GAETANO

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CAPITOLO 5. Il Parco Archeologico di San Gaetano 5.1. Inquadramento generale dell’intervento

La zona di intervento coinvolge un’area che si estende dal semaforo posto in Loc. Galafone fino all’area archeologica situata in Loc. San Gaetano.

Allo stato attuale l’area si presenta completamente abbandonata poiché l’unico elemento caratterizzante sono le tubazioni per la distribuzione dell’etilene dallo Stabilimento Solvay al pontile Vittorio Veneto. In questo ambiente pianeggiante spicca poi il deposito dell’etilene, un “bombolone” bianco che domina l’intero paesaggio e che si trova nelle immediate vicinanze degli scavi archeologici di San Gaetano, danneggiando fortemente l’immagine dell’intera zona.

L’intervento diretto alla sistemazione a parco degli scavi non è sufficiente alla riqualificazione dell’area che necessita di una risistemazione globale al fine di creare un ambiente invitante non solo per i residenti ma anche per i turisti che possono casualmente recarsi nelle spiagge lungo la costa. Visto che ci troviamo lungo l’asse Vada-Mazzanta, oggetto di studio del Piano Strutturale comunale, è opportuno rifarsi a questo e integrare l’intervento nel progetto di riqualificazione. Si prevede infatti la realizzazione di una pista ciclabile che crei un’alternativa a quella già esistente, che si sviluppa lungo l’Aurelia, e attraversi la zona più interna fiancheggiando e allo stesso tempo schermando le tubazioni e l’area di interesse naturalistico protetta. Il turista può così decidere di fare una deviazione e di procedere nella direzione del Parco Archeologico. Durante il percorso si incontra un primo filare di pini, esistente, che è un buono strumento per schermare la presenza del “bombolone dell’etilene”; questo unico filare però protegge la vista solo per un primo tratto della pista ciclabile, è quindi necessario che sia piantato un secondo filare di pini e che si crei un’area a verde intorno alla recinzione degli edifici industriali che si trovano proprio vicino agli scavi.

Si cerca così di ovviare ad un problema che potrebbe essere risolto definitivamente in un lontano futuro vista l’intenzione dello Stabilimento di eliminare gli impianti industriali in questa zona.

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Il tracciato della pista ciclabile conduce fino all’ingresso del parco che può essere comunque raggiunto anche da una seconda viabilità. Infatti, invece di percorrere il tratto appena descritto, si può proseguire lungo la pista ciclabile dell’Aurelia fino alla prima deviazione verso la pineta e le spiagge lungo la costa. Qui la pista ciclabile si sviluppa direttamente sulla carreggiata in cui si ha anche un intenso traffico veicolare, prevalentemente nei mesi estivi. Proprio in prossimità degli scavi si ha però un ampio parcheggio che può essere tranquillamente utilizzato dai visitatori del parco e non solo.

La creazione del parco archeologico ha lo scopo di migliorare la qualità turistico-ricettiva di Vada, che come abbiamo detto resta legata ad un forte carattere di stagionalità. Valorizzando invece alcuni elementi, come gli scavi archeologici, si prevede una maggiore fruizione della zona e un innalzamento dell’offerta culturale non solo ai turisti ma anche ai residenti del Comune, che molto spesso non conoscono l’effettiva importanza delle carte “culturali” che la zona può offrire. Oltre al progetto del parco si prevede il riuso di uno degli edifici che si affacciano sull’Aurelia, Il Palazzo, di proprietà dello Stabilimento Solvay, ma anche questo in completo abbandono. All’interno sono previste strutture a servizio del Parco Archeologico come laboratori di archeologia sperimentale e una piccola sala conferenze, oltre che a un punto di ristoro che può essere anche utilizzato dai bagnanti.

Vediamo in dettaglio questi due interventi.

5.2. Il sito archeologico di San Gaetano

In età tardo-repubblicana l’ager Volaterranus occupava una vasta porzione dell’Etruria nord-occidentale, compresa fra i territori di Pisa e Lucca a nord, di Firenze e Siena a nord e a est, e di Populonia a sud.

La città dominante, Volterra (Volaterrae), si è sviluppata su un colle a controllo delle fertili vallate dell’Era, dell’Elsa e del Cecina; mediante quest’ultima la città era collegata con la fascia costiera dove, poco a nord della foce antica del Cecina, era ubicato il suo porto principale, denominato Vada Volaterrana nelle fonti di età tardo-repubblicana ed imperiale.

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Il comprensorio, gestito a partire dall’età arcaica da aristocrazie etrusche, era caratterizzato da risorse agro-silvo-pastorali e minerarie e da diversificate attività manifatturiere.

Il processo di romanizzazione ebbe corso durante il III secolo a.C. Scavi effettuati a Volterra, a Vada Volaterrana ed in siti particolarmente significativi del territorio permettono di ricostruire molti aspetti delle dinamiche insediative, delle attività produttive e dei trends commerciali in atto nell’ager Volaterranus dalla romanizzazione al tardo antico.

In questo arco cronologico il popolamento risulta articolato in: centri urbani, agglomerati minori e insediamenti sparsi.

Volaterrae Æ centro urbano: vi si svolgono le funzioni amministrative ed è centro di consumo; in epoca repubblicana la città è un polo propulsore di specializzate attività artigianali, mentre in età imperiale sembra perdere tali prerogative.

Vada Volaterrana Æ centro urbano minore: connotato dalla presenza di un porto, con funzioni commerciali di stoccaggio e redistribuzione delle merci di produzione locale e di importazione.

Gli insediamenti sparsi potevano essere:

- a carattere rurale ed erano siti (villae) di piccole, medie e grandi dimensioni, distribuiti soprattutto nella fascia costiera e nelle retrostanti basse pendici collinari, aree con buone potenzialità per la produzione cerealicola e per le colture specializzate come la vite e l’ulivo. Gli insediamenti rurali nelle zone interne di alta collina sembrano invece maggiormente connessi con le attività pastorali e di sfruttamento del bosco;

- a carattere manifatturiero. Sono stati identificati centri specializzati per le produzioni ceramiche (laterizi, anfore, vasellame) ubicati, secondo evidenti scelte di razionalità economica, a breve o brevissima distanza da corsi d’acqua, lungo la viabilità principale e in prossimità di porti. Agglomerati connessi allo sfruttamento delle risorse minerarie dovevano essere nel settore collinare interno ma questi villaggi di lavoratori, evidentemente in strutture povere e precarie, non presentano “visibilità archeologica”. La ricchezza derivata dallo sfruttamento delle risorse minerarie è invece

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materializzata nelle numerose necropoli di età arcaica e classica individuate nell’interno e nella Bassa Val di Cecina.

In un sistema insediativo ed economico così complesso e diversificato Vada Volaterrana rappresenta, sia per le intense attività commerciali connesse al suo porto, sia per le sue caratteristiche di insediamento urbano, il più importante centro nel tratto di costa compresa tra Portus Pisanus e Populonium.

I rinvenimenti archeologici effettuati nei secoli scorsi documentano che l’abitato di Vada Volaterrana si estendeva sotto gran parte della moderna Vada ed oltre la periferia nord dell’attuale abitato, sino all’area di San Gaetano, dove è stato portato in luce il quartiere a destinazione commerciale di seguito descritto.

Le segnalazioni di recuperi e di rinvenimenti sembrano concentrarsi nell’area compresa tra l’attuale Piazza Garibaldi e la riva del mare. In quest’area, ed in particolare in prossimità della Torre Medicea di Vada, nel 1830 P. Pifferi notò “pezzi di marmo bianco” e “ un capitello dello stesso marmo di ordine corinzio, e alcune antiche muraglie indicanti la circonferenza di un tempio”, che giudicò “sotto l’impero di Traiano e dedicato a Nettuno”.

Di poco a est della Torre, in prossimità della Chiesa, nel 1884, nel corso di lavori per la costruzione di una casa si trovarono “i notevoli avanzi di un’abitazione romana non comune, essendoci mosaici e decorazioni marmoree”. Nelle vicinanze si rinvennero numerosi reperti, fra i quali un’epigrafe funeraria tardo-romana.

Ancora in Piazza Garibaldi nel 1925 si trovarono “vari fondamenti di mura antichi di grande spessore e ripiani di ciottoli”, interpretati come”i fondamenta di un grande caseggiato”. Si trovarono anche “parecchie tombe rovinate dagli operai ed altre si intuivano dai lastroni che si avanzavano entro terra”.

Presso la piazza, nel 1931, vennero rinvenuti anche “due grossi frammenti di rocchi di colonna in marmo a tortiglione finemente scanalata, qualche resto di capitello e basi di colonna”.

A giudicare da queste segnalazioni Vada Volaterrana aveva un centro monumentale, con edifici imponenti, che si estendeva tra la Torre Medicea e la Piazza Garibaldi.

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Il settore residenziale di età romana doveva estendersi dalla piazza almeno fino alla periferia meridionale dell’attuale Vada dove negli anni ’20-’30 vennero rinvenuti abbondanti materiali di età tardo-repubblicana e imperiale, ed anche di una necropoli con tombe alla cappuccina.

Numerosi materiali antichi, fittili ed in metallo, “derivarono dalle campagne prossime a Vada”: a sud ed a est del centro abitato potevano essere quartieri suburbani caratterizzati da domus praedia e villae, mentre a nord l’agglomerato veniva a saldarsi con il porto e con il quartiere commerciale di cui è stato scavato un settore in località S. Gaetano. In questa zona potremmo ipotizzare le abitazioni dei lavoratori del porto e le infrastrutture per chi, per vari motivi e necessità, frequentava e faceva scalo a Vada Volaterrana. A giudicare dai documenti di archivio e dalla descrizione di Rutilio Namaziano, alla periferia nord-orientale dovevano essere ubicate almeno parte delle antiche saline di Vada. È verosimile inoltre che lungo la costa, proprio in prossimità di Vada, fossero ubicati gli arsenali per le attività cantieristiche volterrane, che le fonti documentano ben avviate alla fine del III sec. a.C.

Come documentano le fonti itinerarie, oltre che nei circuiti marittimi, Vada era ben inserita nei collegamenti stradali: il centro si sviluppava in prossimità della Via Aurelia, il principale asse viario dell’Etruria, una possibile mansio/statio, era forse identificabile in località Podere del Pozzo, circa 5km a sud di Vada. Sempre lungo l’Aurelia, 5km a nord, un agglomerato era ubicato in corrispondenza del moderno centro di Rosignano Solvay: di questo rimangono consistenti resti di almeno due nuclei necropolari, con sepolture di varia tipologia datate prevalentemente all’età tardo-antica.

Vada Volaterrana si presenta dunque come un centro urbano ben definito: gerarchicamente minore rispetto a Volterra per molti aspetti ma con specificità molto importanti nell’economia del distretto.

Fin dagli anni ‘70 il Gruppo Archeologico e, dal 1982, il Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico dell’Università di Pisa, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e con il supporto della Società Solvay e del Comune di Rosignano Marittimo, effettuano indagini

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stratigrafiche in località San Gaetano di Vada, dove è stato portato in luce un quartiere di età romana, relativo all’antica Vada Volaterrana, porto di Volaterrae. A giudicare dai dati geo-morfologici e dai relitti di navi antiche che sono stati individuati, il porto potrebbe essere localizzato in prossimità dell’attacco dell’attuale pontile Vittorio Veneto della Società Solvay; lo specchio di mare antistante e, in particolare, il tratto di costa compreso tra la Punta di Pietrabianca e la Punta del Tesorino risultava particolarmente adatto alla sosta delle navi e alle operazioni di imbarco/sbarco merci, perché protetto da un esteso sistema di secche. Lo scalo sorgeva non lontano dalla foce antica del Fiume Cecina, la cui valle costituiva un’agevole via di comunicazione tra Volterra ed il mare.

Il quartiere individuato in località S. Gaetano venne costruito con unità progettuale a partire dagli ultimi decenni del I secolo d.C.; al momento sono stati portati in luce un edificio termale (le Piccole Terme: A) in prossimità della riva antica; un horreum (magazzino: B) ad est delle precedenti; e un edificio attualmente di

incerta destinazione (C).

Ai primi decenni del II secolo d.C. si data un grande edificio termale (D), inserito nel medesimo piano organico e ubicato a Sud-Est degli horrea.Successivamente sono state ritrovate anche una fontana monumentale (E) ed una schola (F). I

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lavori agricoli effettuati a partire dagli anni ’50 del XX secolo hanno fortemente intaccato le strutture: soltanto in alcuni settori si conservano parte degli alzati e le pavimentazioni.

Questi edifici risultano edificati con la medesima tecnica costruttiva: le fondazioni sono in opus caementicium, conglomerato cementizio gettato entro le trincee scavate nella sabbia umida; l’alzato dei muri, conservato per un’altezza di circa 50cm, è in opus vittatum, cioè costituito dal nucleo in opus caementicium e dal paramento in blocchetti parallelepipedi (cm 24x12x12 circa) di pietra locale (“panchina”), disposti in filari regolari.

In alcuni settori meglio conservati i muri presentano sulla sommità un piano di tegole, evidentemente messo in opera come isolante dall’umidità. Su tale piano poggiava la parte superiore dell’alzato, di cui non rimangono resti nella collocazione originaria; a giudicare dai potenti strati di argilla rinvenuti nel corso degli scavi, almeno in parte le strutture degli alzati dovevano essere costituiti da pisé (argilla messa in opera pressata entro casseforme) o, più probabilmente da mattoni “semicotti” (lasciati indurire al sole e non cotti in fornace).

I dati di scavo e la cronologia dei materiali rinvenuti documentano ristrutturazioni (ampliamenti, cambio d’uso di ambienti, ripavimentazioni) effettuate sia nella media età imperiale (evidenti soprattutto nelle “grandi terme”), sia nel tardo-antico, dopo una fase di parziale abbandono dell’area, durante la quale numerose sepolture occuparono parte delle strutture.

Uno degli scheletri pertinenti a tali sepolture è stato datato, con analisi C14 (calibrata), al 267-377 d.C., prezioso terminus post quem per la cronologia delle ristrutturazioni tarde, in accordo con la datazione dei numerosi reperti monetali e ceramici rinvenuti negli strati formatisi durante la successiva fase di vita degli edifici.

Nel corso del VI secolo l’area di S. Gaetano venne progressivamente abbandonata ed occupata da una necropoli, le cui sepolture hanno restituito significativi oggetti di ornamento personale, databili tra la fine del VI e i primi decenni del VII secolo d.C., la medesima datazione dei reperti rinvenuti nei più tardi livelli d’uso e negli strati di dismissione dei pozzi e dei drenaggi.

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5.2.1. Le presenze di età preromana

In alcuni settori dell’area archeologica, le accurate metodologie di scavo hanno permesso di individuare, al di sotto degli edifici di età romana, i resti di un abitato esteso sui lidi costieri, fornendo così anche interessanti indicazioni sull’evoluzione del livello del mare.

Nel settore sud-orientale degli horrea, al di sotto delle sabbie dunali a granuli fini su cui sono state costruite le fondazioni dell’edificio, è stato individuato uno strato di sabbia caratterizzato in superficie da lenti rossastre, il cui colore è dovuto alla lunga esposizione agli agenti atmosferici. Al di sotto di esso si è trovato uno strato di sabbia a granuli fini misti a numerosissimi frammenti di ceramica di impasto. Su queste sabbie, in cui durante lo scavo affiorava l’acqua di falda, sono stati rinvenuti i resti delle abitazioni (strutture lignee, frammenti di intonaco, cioè argilla semicotta con impressioni del tessuto vegetale che costituiva le pareti delle capanne) e della suppellettile impiegata (grossi contenitori in ceramica di impasto molto grossolano). L’analisi radiocarbonica di uno dei pali lignei con cui erano costruite le capanne ha permesso di datare il villaggio all’850 ± 50 a.C.

Il villaggio risulta poi coperto da strati sabbiosi contenenti conchiglie caratteristiche di un ambiente marino costiero a bassa salinità con sedimenti ricchi di fauna malacologica. Questi si depositarono in seguito ad un episodio di innalzamento del livello del mare; le acque aggirarono i lidi sabbiosi ancora oggi esistenti lungo il litorale di Vada e penetrarono all’interno, formando una laguna. Questa, grazie alla natura non continua dei lidi, era in comunicazione con il mare aperto e doveva avere una profondità estremamente ridotta ed un basso grado di salinità. All’innalzamento del livello del mare, dopo breve tempo, fece seguito un

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relativo abbassamento che determinò il prosciugamento dell’area lagunare su cui, in età flavia, venne costruito il complesso degli horrea e delle terme.

5.2.2. I porti dell’Etruria

Per tutto l’arco di vita dell’insediamento sono documentate intense attività commerciali: giungevano merci dall’intero bacino del Mediterraneo e vi confluivano i prodotti locali destinati alla commercializzazione locale, regionale e transmarina.

Il vasto e articolato territorio dell’Etruria, compreso tra le foci del Tevere e del Magra, ha avuto fin dalle origini una netta vocazione marittima, come testimoniano i numerosi porti e scali minori noti attraverso le fonti scritte e i rinvenimenti archeologici.

La scelta dei luoghi si basava su considerazioni valide ancora ai giorni nostri: si prediligevano punti della costa ove le condizioni erano favorevoli rispetto alla geomorfologia e ai cicli dei venti e delle correnti. Erano caratterizzati da difese naturali o artificiali, in grado di offrire un riparo sicuro in caso di condizioni metereologiche avverse e da moli e banchine disposti in maniera funzionale. Gli approdi secondari sfruttavano generalmente ripari naturali, promontori

circondati da baie o isolotti prospicienti la costa, meglio se dotati di riserve di acqua dolce. Particolarmente adatta in entrambi i casi era la foce di un

fiume, spesso associata a specchi

lagunari e quindi ben protetta, che poteva

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verso l’entroterra.

offrire ricovero alle imbarcazioni e al tempo stesso costituiva una via di penetrazione

Il porto di Vada Volaterrana era ubicato non lontano dalla foce del fiume Cecina, in prossimità dell’attacco del moderno pontile della Società Solvay, dove la presenza di un vasto sistema di secche garantiva un’agevole sosta alle navi.

Una vivace descrizione del porto ci è fornita dal poeta Rutilio Namaziano che, agli inizi del V secolo d.C., nel suo viaggio di ritorno da Roma verso la Gallia, fece scalo a Vada. Secondo il poeta al porto si accedeva attraverso le secche, mediante un canale subacqueo di difficile accesso e perciò segnalato da pali con frasche. Si ritiene che tale percorso fra le secche possa essere identificato con il canale, lungo circa 1km, ubicato nei pressi del pontile della Solvay ed evidenziato da foto aeree. Tale ipotesi è in corso di verifica mediante una campagna di ricerche subacquee condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana.

Comunque i relitti di navi antiche individuati nelle secche, associati alle numerose segnalazioni di materiali sporadici ed ai risultati degli scavi nel quartiere portuale di S. Gaetano, testimoniano, dall’età ellenistica al tardo antico, l’intensa frequentazione di questo braccio di mare da parte di navi provenienti da diverse aree del Mediterraneo.

Le merci rinvenute nel quartiere di Vada Volaterrana documentano gli ampi traffici che coinvolsero le coste alto-tirreniche.

In particolare, nella prima età imperiale sono attestati vivaci rapporti commericiali con l’Italia meridionale tirrenica da cui provenivano soprattutto vino e vasellame specializzato per la cottura dei cibi; dall’Italia settentrionale, tramite percorsi terrestri e fluviali, giungevano lucerne.

In questo periodo molto intensi erano i rapporti con il Mediterraneo occidentale, in particolare con la penisola iberica. Questa regione infatti garantiva alla plebe di Roma – mediante traffici gestiti dallo Stato (traffici annonari) – il rifornimento di olio e di salse di pesce e, dato il boom produttivo ed imprenditoriale determinato da queste esigenze, esportava tali derrate nell’intero bacino del Mediterraneo ed oltre. Il porto di Vada, trovandosi lungo le rotte fra Roma e la Penisola Iberica,

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costituiva uno scalo dal quale queste merci potevano essere ampiamente redistribuite.

Oltre all’olio e alle salse di pesce dalla Penisola Iberica giungeva, in quantità molto più ridotta, anche vino.

Le importazioni dal Nord-Africa (olio, salse di pesce e vasellame), già consistenti alla fine del I secolo d.C., divennero massicce a partire dal III secolo d.C.: la Penisola Iberica perse il suo primato economico e per i rifornimenti annonari divenne predominante l’asse commerciale Cartagine – Roma. Nel porto di Vada venivano dunque sbarcate le merci nord-africane che, dopo aver rifornito il mercato di Roma, risalivano il Tirreno verso la Gallia.

A partire dal IV secolo d.C. diventano consistenti anche le importazioni di vino da diverse aree del Mediterraneo orientale (Siria, Palestina, Asia Minore), la cui produzione era stata stimolata dalle esigenze di Costantinopoli, la nuova Capitale.

Una certa vitalità si registra anche nell’Italia meridionale: il vino giunge a Vada Volaterrana dall’area siculo-calabrese e vasellame specializzato per cuocere cibi dall’isola di Pantelleria.

Il porto di Vada Volaterrana risulta inserito nei traffici mediterranei sino dai primi decenni del VII secolo d.C.

5.2.3. Circolazione monetaria e traffici mediterranei

Seguendo una tendenza che compare già a partire dal regno di Gallieno (260-268) e si manifesta più compiutamente dopo la riforma monetaria di Diocleziano del 294, l’intero IV secolo d.C. è caratterizzato dal decentramento della produzione monetaria da parte di Roma, attraverso l’apertura di numerose zecche stabili in altrettante importanti città, allo scopo di garantire un rifornimento costante a tutte le regioni dell’Impero.

Se una moneta di quest’epoca è ben conservata, è possibile, grazie alla lettura dei contrassegni presenti sul rovescio, individuarne la zecca di emissione.

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Le emissioni delle singole zecche avevano ovviamente corso legale in tutto l’impero: in ciascun sito tardo romano è dunque possibile rinvenire monete emesse in ateliers anche molto distanti, benché l’approvvigionamento monetario fosse comprensibilmente garantito in primo luogo dalle zecche più vicine.

Così avviene anche per gli horrea di Vada Volaterrana, dove il quadro complessivo delle zecche attestate, tra le monete databili a questo periodo, permette non solo di far luce sulle fonti dell’approvvigionamento di moneta bronzea nel sito, ma anche in certi casi di notare tracce di rapporti, traffici e percorsi commerciali che l’analisi della restante documentazione archeologica avrebbe rischiato di lasciare in ombra.

Ad esempio, la discreta presenza negli horrea di numerario emesso nelle zecche galliche di Treviri, Lugdunum (Lione) e soprattutto Arelate (Arles) mostra il pieno inserimento del porto di Vada Volaterrana, anche in età tardo romana, nei circuiti commerciali che collegavano l’Italia tirrenica al sud della Francia.

Allo stesso modo la non trascurabile quantità di emissioni di Ticinum (Pavia), Aquileia e Siscia fa ipotizzare l’esistenza di contatti con l’area padano-adriatica e di direttrici commerciali transappenniniche.

Si ricava l’immagine di una presenza certo egemone, ma non totalitaria, della zecca di Roma, ed emerge il ruolo primario di Ticinum nel rifornire di numerario in bronzo Vada Volaterrana fino alla chiusura della zecca nel 326.

Tale dato ci fornisce una conferma dell’inserimento del porto di Vada Volaterrana in un circuito di traffici commerciali di ambito non esclusivamente locale o regionale, ma esteso a tutto il bacino del Mediterraneo.

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ldati erano 5.2.4. Le PICCOLE TERME

Le piccole terme (A) prospettavano ad ovest sulla spiaggia ed, ad est, erano direttamente collegate con gli horrea, al cui muro perimetrale si appoggiavano.

Si articolavano in ambienti di servizio (1-2), fra cui i praefurnia (forni: 3-4-12) con accessi esterni indipendenti, e in vani a

disposizione dei frequentatori. Quelli risca

caratterizzati da spessi pavimenti in cocciopesto sostenuti da colonnine di bessales (mattoni quadrati con lato di circa 22cm), alte 2 piedi romani (60cm), che permettevano la circolazione

dell’aria calda proveniente dai forni; questa saliva ai comignoli attraverso intercapedini realizzate con tegole mammatae (munite di protuberanze) e/o attraverso tubuli in terracotta a sezione quadrangolare, che foderavano le pareti.

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del fognolo.

Il pubblico accedeva alle piccole terme da est; tramite il vano degli horrea entrava in un portico curvilineo (15), affrescato, leggermente sopraelevato rispetto all’area scoperta (16), grosso modo semicircolare, della palestra pavimentata in opus signum e bordata ad ovest da blocchi di panchina nei quali è incavato un canaletto per convogliare

l’acqua piovana in direzione

Dalla palestra si accedeva al vestibolo (9); qui o

nell’attiguo vano (apodyterium/spogliatoio:

11) i clienti lasciavano gli effetti personali prima di iniziare il percorso termale entrando nel vano (laconicum/sudatio:8) che, riscaldato dal forno (6) funzionava come una sauna, una stanza per bagni a vapore.

Da qui si passava nelle stanze per le abluzioni con acqua tiepida (tepidarium:

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gersi, ungersi, sottoporsi a

: è certo, ad

a cavità circolare, interpretabile come isterna, profonda 1,50m circa, pavimentata con tegole fratte e rivestita con un tonaco molto povero; tale struttura fu successivamente trasformata in calcara, ioè in un forno per la produzione di calce.

7) e poi calda (calidarium: 5) , dove erano due vasche, murate lungo i lati ovest e nord, servite dal serbatoio metallico per acqua (testudo) posato sul basamento al centro dell’ambiente.

Dopo il bagno caldo si tornava nel vestibolo, per immergersi nella vasca di acqua fredda (frigidarium: 10) il cui canaletto di deflusso, aperto verso ovest, era regolato da chiusini (cataracta). Ad uso dei bagnanti era un altro vano (13) le cui successive e radicali ristrutturazioni hanno obliterato le tracce alla destinazione originaria. Si tratta di un vasto ambiente, cui si accedeva tramite il probabile apodyterium; qui i clienti potevano forse deter

massaggi e poi, eventualmente raggiungere il mare tramite l’apertura ubicata sul lato nord-ovest. Nell’attigua abside, forse non afferente alla fase edilizia originaria delle terme, doveva essere ubicata una vasca (14).

L’edificio conserva resti di pavimentazione a mosaico e rivestimenti in marmo (lunense e campigliese), in cui sono evidenti “restauri” antichi, cioè la sostituzione di lastre marmoree con mattoni. Sono evidenti anche ristrutturazioni

esempio, uno scambio di funzioni fra gli ambienti (8) e (11): la sauna (8) cessa di essere riscaldata dal praefurnium (6) quando lo spogliatoio (11) diviene un ambiente riscaldato in seguito alla costruzione del praefurnium (12).

Nel complesso termale vennero effettuati interventi edilizi anche in età post-antica: nell’ambiente (13) venne scavata un

c in c

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erano a pianta

porticato. Gli ambienti

l’estremità sud erano di m 18 x 5,5; gli altri

trollata.

le con veicoli per

n

Le caratteristiche strutturali dell’edificio e il mancato rinve quantità di granaglie porta ad escludere che questi maga deposito di cereali (granaria). Gli horrea erano piuttosto de di vasellame ceramico e di derrate alimentari (vino, olio, sa di frutta, etc. contenute entro anfore, di cui sono s rinvenimenti nel corso degli scavi) e probabilmente di molt sono rimaste tracce archeologiche (ad esempio il sale prod 5.2.5. Gli HORREA I magazzini (horrea) rettangolare, con cortile centrale (cellae) erano 34, disposti simmetricamente lungo i lati est ed ovest; di essi 4 al

misuravano di norma m 11.40 x 4.40.

L’entrata era a sud, dal lato del porto e, come normalmente negli horrea, di modeste dimensioni (m 1,80 equivalente a 6 piedi romani) in modo da essere adeguatamente con

Le merci, in arrivo o in partenza dal porto, erano trasportate su carri sino all’ingresso: l’interno degli horrea, in generale, non era praticabi

motivi di sicurezza, e quindi i prodotti venivano trasportati e immagazzinati manualmente da facchini (saccarii).

Il portico, costituito da due file simmetriche di pilastri, di cui sono state individuate alcune basi con possenti fondazioni in opus caementicium, proteggeva le cellae dagli agenti atmosferici e permetteva l’eventuale deposito delle merci anche in caso di maltempo.

La copertura dei vani degli horrea era in travi lignee molto probabilmente ad u unico spiovente, sulle quali poggiava il manto di tegole e coppi.

nimento di significative zzini fossero adibiti al stinati allo stoccaggio lse di pesce, conserve tati effettuati cospicui e altre merci di cui non

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scarico delle navi e al

contenute in sacchi o

ento dello

la cura annonae. A capo

possedimenti. Il proprietario li dava in locazione ad un ppaltatore (conductor o horrearius) che affittava ai clienti spazi di diversa mpiezza per il deposito: interi ambienti (horreum, callae, apothecae), armadi

ca), casse (arcae), tutti chiusi a hiave. I contratti avevano durata annuale e prevedevano il pagamento di una somma (merces o pensio) all’horrearius, con cui egli si assumeva anche la responsabilità della custodia delle merci e di cui rilasciava una ricevuta (chirographum). In caso di insolvenza degli affittuari, l’horrearius tratteneva in pegno le merci depositate fino all’avvenuto pagamento.

Fra i lavoratori delle aree portuali numerosi erano i saccarii (facchini), addetti allo

trasporto a spalla

delle merci,

anfore, fino all’interno dei magazzini. Al mom

sbarco alcuni impiegati

registravano le merci trasportate e rilasciavano loro una tessera, probabilmente funzionale alla retribuzione.

Presso i moli o, più raramente, all’interno degli horrea, lavoravano anche i mensores, addetti alla pesatura e misurazione delle merci in arrivo e talvolta anche al controllo della loro qualità.

Riguardo alla gestione degli horrea, la mancanza di dati epigrafici e letterari non consente di stabilire se i magazzini dell’area portuale di Vada appartenessero alla municipalità o fossero gestiti mediante la concessione in affitto.

Nel primo caso essi sarebbero stati destinati prevalentemente allo stoccaggio dei rifornimenti per la città e affidati agli edili, cui spettava

della loro amministrazione sarebbero stati vilici o horrearii, responsabili davanti ai magistrati municipali. Gli horrea “di affitto” appartenevano invece a ricche famiglie o sorgevano su loro

a a

(armaria) o partizioni di armadi (intercolumnia, lo c

(19)

a ta

grossi ciottoli pluviali. Alla

o a sostenere la copertura ell’edificio, con tutta probabilità a volta.

ul lato nord una canaletta (I) indirizzava le acque piovane defluenti dalla opertura nel grande collettore cui si legava (II), costruito con spallette in muratura e il fondo in semilateres (laterizi dalle dimension

Collegata con l’edificio doveva essere anche un’altra can lunghi in media 50cm) (III), che faceva defluire le acque in d

ti addetti alla registrazione delle bularii) e da operai sorvegliati

A sud-est degli horrea è ubicato un edificio quadrangolare (m 8,60x8,80) di cui rimane la fondazione a piattaforma omogenea, costruita in opus caementicium (conglomerato di pietre e malta), gettato sopra Il personale subalterno era costituito da impieg

merci in entrata e uscita e alla contabilità ( (custodes, horrearii).

5.2.6. EDIFICIO D’ INCERTA DESTINAZIONE (C)

fondazione, su cui sono visibili tracce dello spiccato dei muri perimetrali, si appoggiavano 5 pilastri, anch’essi in opera cementizia, che contribuivan

d S c

i medie di cm 59x28). aletta in laterizi (coppi

(20)

quanto riguarda l’uso dell’edificio, si era inizialmente pensato che potesse essere un macellum,

alimentari deperibili; ma ancora non c’è nessun elemento che lo possa classificare come

9 o

ium;

7Æ laconicum/sudatio;

13 Æ vestibolo del

struita in laterizi e malta ed Per

cioè un mercato per derrate

tale.

5.2.7. Le GRANDI TERME e la FONTANA MONUMENTALE Dell’edificio (ancora in corso di scavo nell’estate 199 numerosi ambienti, alcuni dei quali in pessimo stato di c Gli ambienti portati in luce sono:

) sono stati individuati nservazione. 1 - 2 Æ praefurnium; 3 Æ calidarium; 4 Æ praefurnium; 5 Æ tepidar 6 Æ esedra; 8 Æ vani di servizio; 9 Æ apodyterium; 10 – 11 Æ frigidarium; 12 Æ palestra; frigidarium; 14 Æ frigidarium.

Strettamente connesso con l’attività delle terme è il pozzo E: struttura di forma circolare (diametro 2,90m, cioè dieci piedi romani), co

(21)

bicata immediatamente ad est del complesso termale, lungo il lato “di servizio”.

se

o, laterizio e litoide.

d essere un elemento u

Nel settore orientale dell’area archeolo vasche di forma quadrangolare (F e G). Come nelle piccole terme e negli horrea, ristrutturazioni e restauri effettuati nel IV soprattutto nella pavimentazione della vasch dove, ad esempio, molte delle lastr

integrate con materiale di reimpieg

gica sono state inoltre individuate due

anche in questo edificio sono evidenti colo d.C. . I rifacimenti sono visibili e e della nicchia del calidarium (3), e marmoree, evidentemente rimosse, risultano

Nel quartiere è stata inoltre individuata una fontana monumentale (E), ubicata immediatamente ad Est dell’entrata principale degli horrea e costituita da un bacino quadrangolare e da uno semicircolare, oltre a

decorativo, assolveva funzioni di grande utilità.

La statua di Attis dalle grandi terme.

La scultura, rinvenuta in frammenti in una vasca delle grandi terme, raffigura un giovane con il capo coperto da un berretto di forma conica, tipico del mondo

(22)

rduto, la cui estremità ricurva è ancora ben visibile sulla roccia; il braccio

volta anch’essa a

indusse alla pazzia provocandone la morte, che

in questo enso, ma è verosimile che la nostra statua sia pertinente all’arredo scultoreo di ale, non lontano dalle grandi terme o addirittura ricavato ll’interno di esse, come spesso avveniva nel caso di luoghi deputati al culto di religioni di provenienza orientale. Il ritrov

finalmente sulla qualità degli arred ar irrimediabilmente dispersi, e fornisce

orientale, e vestito solo di un mantello che, appoggiato sulla spalla sinistra, si avvolge intorno al braccio in un voluminoso panneggio che ricade fino a toccare la gobba del torello accovacciato su un masso roccioso.

Con la mano sinistra il giovanetto doveva stringere il pedum (bastone pastorale), ora pe

destro, anch’esso mancante, era portato all’indietro e la mano destra, appoggiata sul gluteo, ancora stringe una siringa. La presenza di questo strumento musicale e del pedum fanno pensare alla raffigurazione di un pastore.

Questo è rappresentato in posizione di riposo, con le gambe incrociate, mollemente sbilanciato verso sinistra; la posizione della testa, ri

sinistra e piegata in avanti, sottolinea tale squilibrio, mentre lo sguardo malinconico del pastorello sembra incontrare quello del toro accovacciato ai suoi piedi.

Si tratta, con ogni probabilità, di Attis. Il mito racconta che la dea frigia Cibele, la Gran Madre degli Dei, colpita dalla straordinaria bellezza del giovane se ne innamorò e che, da lui rifiutata, lo

lo stesso Attis si arrecò evirandosi. Ma Cibele, pentitasi, ottenne dagli Dei l’immortalità di Attis che divenne così il sacerdote del suo culto.

I confronti più stretti per la statua di Vada sono rappresentati da due sculture, una da Sarsina, l’altra dal Celio, a Roma, raffiguranti un giovane pastore con berretto, vestito solo di un mantello e accompagnato da un toro, accovacciato su un masso roccioso. Entrambe le statue provengono da edifici di culto di tipo orientale e rendono così piuttosto certa l’identificazione dei due giovinetti frigi con il pastore Attis, amato da Cibele.

Il complesso di S. Gaetano non fornisce per il momento alcun indizio s

un contesto cultu a

amento della statua di Attis ci illumina morei utilizzati nel sito di Vada, ormai anche un importante contributo per i m

(23)

rima metà del II secolo d.C. .

mo detto, sono in opus caementicium

nti su uno strato di grossi ciottoli

a da pietre legate con malta e laterizi.

l’evoluzione di questo tipo iconografico, probabilmente diffuso da botteghe di orizzonte microasiatico nel corso della p

5.2.8. La SCHOLA

L’edificio interpretato come schola, esteso per 36m nord-sud e 18m est-ovest, è costituito da un ambiente principale (M), circondato su tre lati da un’area scoperta (L) e da un corridoio porticato (I), su cui si affacciavano 8 ambienti (A-H) con pavimenti in argilla.

Le fondazioni dell’edificio, come abbia

(I) 

(formato da malta, ciottoli fluviali, frammenti di panchina e scarsi laterizi) che nei muretti perimetrali arrivano alla profondità di circa 1m, mentre in quelli divisori non superano i 50cm. Le fondazioni presentano due tipologie costruttive: a sacco, più frequente, e a cassaforma, entrambe poggia

fluviali messi in opera a secco su una sabbia dunale.

L’ingresso principale, costituito da un arco a tre fornici (larghezza complessiva almeno di 4,50m) posto sul lato orientale dell’edificio, indirizzava l’attenzione dei frequentatori sulla struttura quadrangolare, interpretabile come altare o base di statua, che costituiva il centro architettonico del complesso; accanto ad essa vi era un pozzetto votivo in tegole e malta.

La fondazione dell’altare risulta realizzata mediante le tecnica “a sacco”: sopra una gettata di materiali eterogenei (frammenti laterizi e ceramici, pietre), venne messa in opera una platea di malta sulla quale si imposta la struttura dell’altare, costituit

L’area scoperta (L) era pavimentata con lastre litoidi quadrangolari della larghezza di 60cm delle quali sono stati rinvenuti soltanto gli allettamenti in malta. Le lastre poggiavano sopra un potente strato di malta contenente abbondanti frammenti ceramici: lo scavo di questa sottopavimentazione nel settore a ridosso dell’altare ha restituito materiali di varia cronologia (frammenti di terra sigillata

(M)  (L)  (A)  (B)  (C)  (D)  (G) (H) (F) (E)

(24)

ne (in tegole bipedales incastrate

vest il complesso. È probabile che l’acqua

ntato in tegole, presentava muri perimetrali esterni

era un vasto ambiente rettangolare (esteso

(B). Il vano (A) era pavimentato con

rso di più secoli.

tardo-italica, di anfore Dressel 2-4 di Africana piccola con orlo ad echino). In particolare il rinvenimento di quest’ultimo esemplare, databile tra la fine del II ed il III secolo d.C., documenta che nel corso della media età imperiale vennero effettuati interventi di ristrutturazione almeno in questo settore del pavimento del cortile.

Nell’area (L) è stato individuato il sistema di drenaggio in uso nella prima fase di vita dell’edificio: esso era costituito da due fog

con andamento digradante) di cui sono rimaste le parti terminali, passanti al di sotto del muro delimitante ad o

piovana proveniente dai tetti del portico e dall’ambiente (M) venisse convogliata nei collettori mediante tubazioni in terracotta, verticali ed orizzontali, per essere poi scaricata verso mare; di tale sistema idraulico ovviamente non rimane traccia. Il corridoio porticato, pavime

rivestiti di intonaco grigio ed era delimitato all’interno da una serie di pilastri, dei quali rimangono in situ tre fondazioni e l’intero piano di appoggio, della profondità di circa 0,40m. Due esedre simmetriche poste sul lato orientale del portico arricchivano l’effetto scenografico dell’insieme.

Il sistema di drenaggio era costituito da due grosse fogne in tegole passanti al di sotto del muro perimetrale Ovest.

Al centro dell’edificio, sul lato Ovest,

m 15x6) caratterizzato dalla presenza di 4 pilastri quadrati in opus vittatum (circa m 0,86x0,86) e pavimentato con tecniche diverse, in mosaico e in opus spicatum (mattoncini a lisca di pesce).

Per quanto riguarda gli ambienti che si affacciano sul portico, sul lato settentrionale, (A) costituiva un vano di passaggio, funzionale alle attività di servizio dell’edificio, come documentano le aperture a nord verso l’esterno, a sud verso il portico e ad ovest verso l’ambiente

battuti in argilla e la sua funzione di disimpegno viene confermata dalla presenza, immediatamente all’esterno dell’uscita nord, di un ampio immondezzaio, accumulatosi nel co

(25)

ll’ambiente (C) sono state individuate almeno due fasi pavimentali in

ul lato est.

pesanti interventi moderni e

i resti della preparazione

nel settore settentrionale dell’ambiente, compaiono gli strati formatisi L’ambiente (B) presenta numerose ristrutturazioni effettuate in epoca tardo-antica, documentate da diverse stratificazioni pavimentali, in argilla ed opus signinum e dall’innalzamento delle soglie dell’ambiente.

Anche ne

argilla e, grosso modo in posizione centrale, i resti di una struttura costituita da un blocco squadrato, probabilmente di reimpiego e da un conglomerato di laterizi e pietre legati con malta.

Del vano (D), a causa della presenza di un ulivo al suo interno, sono stati portati in luce soltanto i muri perimetrali; si è comunque individuata la soglia che si apriva s

Sul lato meridionale dell’edificio il vano (E) si affacciava a nord sul portico; esso conserva gran parte del battuto pavimentale in argilla, che risulta tagliato per la messa in opera di un pozzetto, la cui spalletta, costituita da tegole disposte di piatto e legate con malta, è rialzata di 15cm rispetto al piano di calpestio. Tale pozzetto, profondo 0,84m e con diametro esterno di 0,90m, è costruito in mattoni e malta.

La lettura dell’ambiente (F) risulta compromessa dai

in particolare dalla presenza, al centro, di un’ampia buca effettuata per la messa a dimora di un albero. Sono stati individuati

sottopavimentale in malta, frammenti laterizi e sabbia pressata; la pavimentazione con tutta probabilità era in cocciopesto, della quale sono stati rinvenuti ampi lacerti.

Nel vano (H) si hanno consistenti prove di attività artigianali (fusione di metalli). Quest’ultimo ambiente presenta una stratigrafia complessa, formatasi in seguito a diversificate attività antropiche. Nel settore meridionale, al di sotto degli strati di distruzione sono stati individuati, ancora in situ, alcuni frammenti delle tegole che dovevano pavimentare l’ambiente nella sua ultima fase di vita. Queste erano collocate sopra una stratificazione costituita da sabbia, carboncini e laterizi concotti, che copriva un riempimento in argilla gialla.

Al di sotto,

(26)

rvano parte del bacino in malta e resti dei

sua caratteristica

profondi sconvolgimenti causati dai lavori agricoli effettuati in età

se di vita dell’edificio. Nella Sopra uno strato pavimentale in argilla grigio-verde si imposta una vasca per la tempratura del metallo, di cui si conse

muretti di contenimento. Pertinente a questo bacino è probabilmente un piccolo tubo in bronzo con evidenti tracce di malta (utilizzato per la colatura dei liquidi). Sono stati individuati anche i resti di un piano di appoggio in grafite, materiale comunemente utilizzato nelle officine metallurgiche per la

refrattarietà al calore. Un’ulteriore documentazione dell’attività fusoria è costituita da un accumulo di ceneri di forma regolare, posto nel settore settentrionale, parallelo al muro nord dell’ambiente, ed il rinvenimento in questi strati di numerosi nuclei di pietra pomice, comunemente utilizzata in epoca antica per rifinire oggetti in metallo.

Le attività metallurgiche risultano obliterate dalla messa in opera di un vespaio, costituito da un riempimento in argilla con infissi frammenti di laterizi tagliati intenzionalmente, al di sopra del quale venne posto il piano di tegole che costituì l’ultima pavimentazione dell’ambiente.

L’ultimo intervento registrabile nell’ambiente è la deposizione di una sepoltura in anfora, sconvolta dai lavori agricoli, posta nel settore nord-occidentale della stanza. Evidentemente tale sepoltura faceva parte della vasta necropoli che si installò negli edifici durante la fase di abbandono del quartiere.

Nonostante i

moderna, lo scavo dell’ambiente (F) ha permesso di individuare una stratificazione pavimentale ancora in uso nell’ultima fa

parte ancora leggibile tale stratigrafia risulta essere costituita da un potente strato di cocciopesto pavimentale legato alle pareti est e sud della stanza mediante un pulvino di malta; tale cocciopesto era steso sopra uno strato di sabbia livellata, che copriva un riempimento in argilla gialla, posto direttamente sulla sabbia dunale. Al di sopra del cocciopesto pavimentale, coperti dal crollo delle strutture, i resti di un focolare documentano la frequentazione più tarda dell’ambiente.

Per quanto riguarda la copertura del complesso si può ipotizzare che gli ambienti A-D e E-H fossero coperti con un doppio spiovente, il cui lato interno costituiva la copertura del portico (I) anche qui la struttura del tetto doveva essere costituita da

(27)

degli ambienti (B) e (D), che potrebbero essere

zione come schola sede di

vista sociale ed economico, furono i collegia di tipo

l’origine dei collegia viene fatta risalire a Numa Pompilio,

della più

politica accentratrice da parte dello stato che arrivò a vincolare le corporazioni più travi lignee su cui poggiavano le tegole e i coppi, abbondantemente rinvenuti negli scavi.

L’ambiente (M) con tutta probabilità presentava un secondo piano, con il solaio sorretto dai 4 pilastri e copertura a doppio spiovente.

Nonostante la presenza

interpretati come tabernae, si può ragionevolmente escludere una destinazione soltanto commerciale. È infatti caratteristica di questo edificio un’assialità basata sull’allineamento entrata monumentale / apertura del portico / struttura centrale dell’ambiente scoperto. Inoltre ad attività cultuali possono essere associati anche i due pozzetti scavati nell’ambiente (E) e nell’area (L). Da queste peculiarità sembra ragionevole ipotizzare una frequentazione economica/sociale/sacrale del complesso e dunque una sua originaria destina

collegium, connesso quindi alla gestione delle attività economiche svolte nel quartiere portuale di Vada Volaterrana.

Nei testi latini il termine collegium veniva utilizzato per designare un gruppo di persone associate dalla comunanza delle funzioni, del culto, della professione. Esistevano collegia pubblici, come quelli sacerdotali, e collegi privati che potevano avere scopi e caratteristiche diversissime: a sfondo politico, religioso, funerario ed anche ludico.

I più importanti, dal punto di

professionale (artigiani, artisti, commercianti). La loro diffusione in Etruria, su base epigrafica, è attestata da più di 25 collegia diversi e da circa 120 mestieri singoli. Tradizionalmente

secondo re di Roma, il quale avrebbe diviso la popolazione di Roma per mestieri in flautisti, orefici, carpentieri, tintori, cuoiai, conciatori, fabbri e vasai e in un’altra corporazione che raggruppava i mestieri rimanenti.

Per molto tempo la possibilità di associarsi da parte dei cittadini godette

ampia autonomia, finché nella prima metà del I secolo a.C. l’uso di queste associazioni nella lotta politica provocò un deciso intervento statale in senso restrittivo: l’imperatore Augusto impose l’autorizzazione del Senato e la pubblica utilità per ogni nuovo sodalizio. Nel I – III secolo d.C. si registrò una progressiva

(28)

a sede del sodalizio (schola, curia) era adibita soprattutto a luogo di riunione e di l’esistenza di elementi sacrali, ad essa si legava anche la

o e t za patrimoniale), il a p o is g credito e di azione; i collegi

o un notevole peso economico e sociale.

disposti entro anfore o in fosse rivestite di pietre o in importanti all’organismo burocratico, in modo tale da garantire i servizi che i collegia avevano in appalto.

L

incontro, ma vista pratica cultuale.

Il collegio nominava auton magistri quinquennales, vi curatores instrumenti (lega repunctor (revisore?) ed il p I collegia disponevano di potevano avere un patrim collegiale. Le ricchezze d trascurabili e garantivano a

mamente i propri magistrati: i più importanti erano i rano poi il quaestor (amministratore della cassa), i i all’amministrazione e alla vigilan

tronus causarum (rappresentante giuridico).

ropri archivi nei quali erano conservati tutti gli atti e nio in beni immobili o denaro, custodito nell’arca ponibili per le corporazioni più grandi non erano li affiliati e all’associazione una notevole capacità di a erano consumatori, produttori e distributori di beni, attività che conferivan

5.2.9. Le necropoli

Gli edifici del quartiere portuale, ed in particolare gli horrea e le grandi terme, in un periodo compreso tra la fine del III ed il IV secolo d.C., vennero almeno in parte occupati da una necropoli.

Sono stati infatti recuperati resti ossei umani frammentati e non connessi (corrispondenti ad almeno 18 individui) e 14 sepolture, con i defunti

tombe “alla cappuccina” (l’individuo veniva disteso su uno strato di laterizi e coperto da tegole disposte a doppio spiovente).

Uno degli scheletri di tale necropoli, sottoposto ad analisi al radiocarbonio, è stato datato al 267-377 d.C. . Per quanto riguarda lo studio dei resti scheletrici è stata adottata, già al momento dello scavo vero e proprio, una particolare metodologia atta a preservare, per quanto possibile, ogni informazione che le

(29)

fine di permettere poi un secondo “microscavo”. È seguito

approccio sembra dimostrare che il campione di popolazione sia formato

aumi nella parte feriore della gamba, fanno pensare che essi fossero soggetti ad attività fisiche i medio-forte entità.

e analisi di tipo paleonutrizionale propendono a favore di una dieta definibile ggigiorno come mediterranea, cioè una dieta mista in cui erano compresi rodotti vegetali ed ittici. Si nota inoltre un certo apporto di proteine di origine nimale, derivate probabilmente più dal consumo di derivati del latte che da

el corso del VII secolo d.C. , durante la fase di abbandono del quartiere, gli

ibbie, etc.), databili appunto al VII ossa possono ancora fornire. Esse sono state infatti prelevate insieme alla terra in cui erano contenute, a

un accurato lavoro di lavaggio, siglatura e catalogazione dei frammenti ossei. Sono stati poi rilevati, sui reperti che ancora presentano una qualche integrità, i caratteri metrici e morfologici più significativi, ivi comprese la statura e le patologie.

Il primo

da individui abbastanza alti per l’epoca presa in esame (infatti la statura media risulta di 170cm circa nel sesso maschile e di 158cm per quello femminile). I pochi residui facciali sembrano denunciare tratti non particolarmente marcati. Una discreta incidenza di patologie a carico del distretto vertebrale (probabilmente dovute ad un eccessivo trasporto di carichi sul dorso) e la presenza di periostiti a livello tibiale, chiaro indice di ripetuti tr

in d L o p a carni. N

edifici vennero occupati da un’altra necropoli, probabilmente riferibile a genti venute dal Nord: dal punto di vista antropologico gli individui risultano infatti di altezza maggiore e con tratti fisionomici più marcati. A tali sepolture sono da riferire alcuni elementi di corredo in bronzo (f

(30)

territorio ricco di

ne ha fortemente indebolito la

nella normativa amministrativa (vedi

Council of Museum) all’art. 2.1 del suo statuto definisce il l servizio della società po, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze nica e

finizione di museo anche:

i e i siti e i monumenti o la natura di musei per la loro attività di acquisizione, di e di comunicazione delle testimonianze materiali di popoli e biente;

collezioni e presentano esemplari viventi

nicazione ed esposizione dell’oggetto ai fini di studio, educazione e diletto.

5.3. Dal Museo al Parco Archeologico

Il concetto e la struttura del Museo in Italia si è evoluto dal fenomeno del collezionismo, tipico dei secoli XV-XVII; questa struttura mostra sempre una sua fisionomia particolare in quanto molto spesso si colloca in un

evidenze culturali e di per se stesso “museo”.

Dalla fine dell’Ottocento fino all’ultimo ventennio del Novecento ha sofferto di una negazione istituzionale, cioè di un non riconoscimento legislativo, poiché i musei statali erano considerati solo unità funzionali dell’istituto periferico Soprintendenza; questa situazione

rappresentatività e condizionato lo sviluppo rispetto ad altri paesi occidentali. Solo di recente esso è stato considerato

D.Lgs. 112/1998 artt. 148-155) e nella legislazione di tutela. L’ICOM (International

Museo “un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, a e del suo svilup

materiali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comu soprattutto le espone a fini di studio, di educazione e di diletto”.

L’ICOM accoglie entro questa de

- i siti e i monumenti naturali, archeologici ed etnografic storici che hann

conservazione del loro am

- le istituzioni che conservano delle vegetali e animali;

- gli istituti di conservazione e le gallerie di esposizione; - i parchi naturali.

I punti di forza della definizione di museo dell’ICOM sono: - la ricerca;

- la conservazione (con l’acquisizione, elemento dinamico del museo); - comu

(31)

prendere nuove forme

el

a forma integrata di conservazione e di fruizione di e culture e stili di vita oramai scomparsi e molto rati in un insieme unitario con gli elementi naturali che ne rare un determinato processo storico.

ento

e di gestione;

lla scala del Nella legislazione italiana invece i compiti del museo sono:

- la conservazione; - la valorizzazione - la fruizione.

Manca l’accento sull’attività di ricerca.

Se consideriamo in particolare la definizione ICOM, che estende la qualifica di museo ad insiemi non tradizionalmente assimilabili a collezioni museali, vediamo che in questo modo si pongono le premesse per com

museali. Infatti anche nelle aree archeologiche, naturalistiche e nei parchi vi sono quegli aspetti di ricerca, conservazione e comunicazione tipici dei musei, anche se l’aspetto espositivo e conservativo deve tener conto della complessità d contesto.

Il Parco Archeologico è “ un beni culturali” grazie alla qual lontani da noi sono integ

costituivano ampia parte al fine di illust

L’origine può essere attribuita ai musei etnografici nord europei tra fine Ottoc e inizi Novecento con l’introduzione di criteri espositivi che evitano di estrapolare gli oggetti dal loro contesto; tale concezione poi si estende velocemente all’archeologia con la ricostruzione di villaggi protostorici.

L’offerta europea in materia di parchi archeologici è oggi molto vasta e soprattutto può contare su una pluriennale e consolidata esperienza nel settore della sperimentazione oltre che nel settore dell’educazione e della formazione. Possiamo osservare che musei e parchi hanno in comune:

- destinazione pubblica; - forme di comunicazione; - form

- necessità di progettazione culturale.

Il Parco differisce per una maggiore complessità in materia di valorizzazione. Quindi nella fase di progetto dobbiamo tener conto che “lavorare su

parco territoriale significa elevare la disciplina archeologica al rango delle materie essenziali alla gestione del paesaggio; vuol dire però, soprattutto superare

(32)

della risorsa potenziale e non necessariamente della risorsa nota: (…)

spiro che (…) comprendano i problemi zazione integrata delle risorse”.

è l’attività principe di un parco. Essa si divide a sua

per la loro utilizzazione nelle azioni di gestione.

- valorizzazione delle risorse; - sviluppo economico.

’obbiettivo strategico dell’azione di gestione deve essere convincere il tessuto conomico dell’area ad investire seriamente in attività di impresa culturale e/o di valore del comprensorio, enerato dal parco.

computerizzate.

l’analisi e l’interpretazione puntiforme di un sito, ponendosi nella dimensione di gestione

superare i limiti dell’approccio proteso ai singoli problemi (…) mirando viceversa alla costruzione di progetti di ampio re

della conservazione e della valoriz La progettazione dunque

volta in:

- ricerca scientifica (cardine di ogni attività sia nei musei che nei parchi);

- conservazione delle risorse, elemento indispensabile per la trasmissione dei beni e dunque

Il suo obbiettivo strategico sarà dunque di pianificare gli interventi, con una progettualità che sappia far crescere le capacità gestionali locali e dia garanzie agli organi di tutela (per evitare “i giardini di rovine” di molti siti archeologici italiani).

Il secondo aspetto fondamentale nell’organizzazione delle attività di un parco è la gestione che a sua volta si compone di:

L e

turistica, motivando questa scelta con l’incremento g

Quindi vediamo che sia in fase di progettazione che di gestione l’elemento fondamentale rimane il territorio i cui condizionamenti possono rendere necessario differenziare le iniziative a più livelli di complessità. A seconda dei vari casi sarà dunque da calibrare l’intervento, il quale potrà spaziare dal recupero di contesti e ambiti territoriali molto vasti alla semplice restituzione mediante ricostruzioni virtuali, grafiche o

(33)

rienza a livello europeo, che molto spesso ei

entazione, sia nell’ambito di progetti d’area

ica in Italia: una definizione che

da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza 5.4. Archeologia sperimentale e parchi archeologici

Il parco archeologico è una forma di integrazione tra conservazione e fruizione dei beni culturali che è ancora poco applicata nel nostro paese ma che invece può contare su una consolidata espe

concretizza il rapporto tra parchi e sperimentazione nella dimostrazione d processi e nella ricostruzione degli edifici e dei contesti, oltre che nel settore dell’educazione e formazione.

Fondamentali sono le potenzialità dell’archeologia sperimentale nelle forme di valorizzazione e fruizione consapevole del paesaggio archeologico, in stretta connessione con quelle discipline inerenti la teoria della produzione e del consumo di beni, come l’archeologia ambientale e l’archeologia della produzione. Ad esempio la capacità di riprodurre cicli produttivi legati alla confezione di particolari alimenti viene proposta come uno degli elementi di possibile successo della sperim

destinati alla creazione di parchi archeologici, sia nell’ambito di progetti relativi all’impianto di parchi tecnologici.

Il recente dibattito italiano sull’argomento mette insieme tre concezioni diverse: - una prima, che discende in modo diretto dall’impostazione legislativa su cui

è costruito il sistema della tutela archeolog

parte dall’area archeologica intesa come un “sito su cui insistono i resti di un insieme edilizio originariamente concluso per funzione e destinazione d’uso complessiva”, identificando il parco come “un ambito territoriale caratterizzato

di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura attraverso itinerari ragionati e sussidi didattici”;

- una seconda, di matrice urbanistica, che intende il parco archeologico come una possibile componente utile alla conservazione e alla valorizzazione diacronica delle risorse di un territorio con una prospettiva di gestione che raccorda il singolo “oggetto” archeologico all’odierno contesto urbano o rurale di sviluppo delle comunità residenti;

(34)

tto del

o dive

strettamente collegate alla fruizione pubbl

ale rio

ntro ster - una terza che parte infine dall’esperienza dei parchi naturali per sviluppare in

senso estremo la concezione del “paesaggio culturale” come risultante di un’attività antropica che ha prodotto la forma e l’attuale asse

paesaggio.

Le necessità di ricostruire sperimentalmente il passato si frammentano e si disperdono oggi in linee molt rse, tutte fortemente condizionate dalla e agli specialisti ma al tempo stesso ica dell’archeologia, in un rapporto iche che vengono il più possibile enta necessaria la definizione di un sione individuale dell’archeologo che

che “ricostruito” nella sua effettiva senso l’archeologia speriment richiesta di fornire risposte adeguat

dialettico con le componenti sociali e civ interessate dagli addetti ai lavori. Quindi div passato continuamente “costruito” dalla vi sceglie di interagire con esso, piuttosto sostanza storica o tecnologica. In questo diventa cruciale per la valorizzazione del per la sua capacità di rappresentare i cicli p Come operazioni di grande valore Sperimentale Storico-Archeologico di Lejr

patrimonio culturale nei parchi prop roduttivi di qualunque natura. scientifico possiamo citare il Ce

e in Danimarca e quello della Bu Ancient Farm in Gran Bretagna.

Vecchia tomba vichinga a Lejre.

(35)

In Italia si ha

- la ricost e all’VIII

ura abitativa

che la cap

Little Woodbury House, Buster Ancient Farm

Longbridge Deverel House, Buster Ancient Farm

nno due importanti esperimenti:

ruzione appena off-site della capanna protostorica, risalent

secolo a.C., di Fidene, alla periferia nord-orientale di Roma effettuata da Riccardo Merlo. Colpisce qui il voluto contrasto tra la strutt

protostorica e il contesto urbano circostante: oltre all’ovvio valore aggiunto anna conferisce al luogo, si dovrebbe considerare anche la potenziale sollecitazione che l’archeologia urbana può esercitare sulle

(36)

il voluto distacco dall’impianto originale delle fondamenta, da cui si è partiti per la ricostruzione interpretativa, periferie e sugli stessi abitanti del luogo, attraverso l’inserimento di questi segni del passato, in tutti i sensi marcatori della crescita della città.

- il tentativo di ricostruzione di parte dell’alzato del tempio tardo-arcaico del

addetto ai lavori. L’elevato del tempio è stato ricostruito soltanto in parte: la parzialità dell’intervento determina perciò un intenzionale carattere di “non finito”, conferendo da un lato leggerezza e reversibilità alla struttura, dall’altro sottolineando

Portonaccio, nell’antica città etrusca di Veio: una sorta di rievocazione dell’area sacra che ha il valore di produrre un forte impatto visivo, di immediata percezione del volume architettonico nell’osservatore non

enfatizzando di conseguenza il peso dell’insostituibile ricerca scientifica alla base del progetto.

Con tali premesse si possono riassumere le tre funzioni chiave dei parchi di archeologia sperimentale e dei siti archeologici dove sono proposte ricostruzioni del passato:

(37)

di alcune fasi della tecnologia antica o comunque dei cicli

- la necessità di “presentare” il sito, per rispondere ad esigenze di

una forma definitiva, mantenendosi nell’ambito delle

così da attivare una politica di sviluppo condivisa proprio grazie alla creazione - la necessità di sviluppare la sperimentazione archeologica, inerente la

ricostruzione

produttivi, così come oggi sono definiti dall’archeologia della produzione; - la necessità primaria di esercitare attività ritenute formative per i giovani in

età scolare;

comunicazione del luogo e degli oggetti, allo scopo di favorire lo sviluppo turistico ed accentuare le identità culturali locali.

Attualmente si afferma che il dubbio instillato dai metodi della ricerca archeologica in progress e dai suoi processi interpretativi siano la ricetta migliore per allontanare la forma di ripetitività del dato, legata all’enfasi di alcuni suoi caratteri più spettacolari e più spendibili con il pubblico. Il lavoro dell’archeologo è da considerarsi un raccordo insostituibile tra la teoria e la pratica attraverso la capacità e l’abilità speculativa che è un tipico atteggiamento dell’essere umano e ha segnato tutte le tappe dell’evoluzione e del progresso tecnologico. In altre parole, la tendenza a mettere in dubbio parte dell’assunto precedentemente acquisito, che è tipica del lavoro archeologico in progress, sarebbe la ricetta vincente per salvaguardare la qualità scientifica del proprio lavoro e del prodotto finale, del quale l’aspetto di “non finito” (nel senso di non essere mai in condizione di assicurare

mutazioni prodotte continuamente dalle nuove scoperte e dall’incremento delle conoscenze), è uno stato che si trasmette ed informa di sé il vero parco archeologico scientifico.

I riferimenti che si hanno a livello europeo riescono a dare un’idea delle potenzialità dell’archeologia come veicolo formativo e soprattutto come fonte scientifica di primissimo livello per il recupero delle informazioni sulla tecnologia antica. Il denominatore comune dei vari esempi che abbiamo, almeno sotto il profilo gestionale, risiede nella provata incapacità di auto sostentamento economico dei parchi, una condizione che ha comunque indirizzato il menagement di molte strutture a cercare una sintonia con la promozione turistica,

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rodotto un

stione e si induce un sostanziale abbattimento

troppo sempre di più ad un incremento dell’archeologia “disneyficata” nel nostro Paese, nonostante

.5. Archeologia e progetti d’area: dall’intervento puntiforme alla valorizzazione

proporzione dell’intervento. In altri termini, bisognerebbe operare con una dell’immagine archeologica del comprensorio; i dati emersi da un confronto a livello europeo sulla sostenibilità dei parchi archeologici hanno p

quadro generalmente desolante, i cui caratteri comuni si identificano nel necessario e continuo finanziamento pubblico che alimenta il settore.

Un dato importante è il successo comunicativo e commerciale che hanno certi theme parks come l’italiano Archeopark di Darfo Boario Terme, nei quali un paradossale incremento di valore è rappresentato dal fatto di non dover mantenere o conservare monumenti “autentici” ma soltanto ricostruzioni o copie degli stessi: si semplifica così la conferenza degli enti pubblici e privati nelle attività di tutela, valorizzazione e ge

dei costi di esercizio legati alla conservazione e alla gestione dei beni “autentici”, quasi mai di proprietà del gestore.

Se non si renderà in qualche modo l’attuale quadro legislativo più dinamico e più “morbido” con gli Enti territoriali ci si avvierà pur

l’immenso patrimonio potenzialmente valorizzabile.

5

integrata del paesaggio

Qualsiasi modello di valorizzazione possibile (da quello a piccola scala del sito, al parco archeologico, fino al theme park), prima di applicare i possibili strumenti della sperimentazione in archeologia dovrebbe fare i conti con la dimensione e la

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insufficiente di discussione scientifica sugli aspetti della sua

ul significato del

i lettura complessiva ci introduce nella

menti che li circondano e ne

se di ricerca, seguito da una ricomposizione dei possibili paesaggi archeologici.

prospettiva di valutazione “selettiva” delle risorse archeologiche, per far emergere soltanto alcuni tra quegli elementi di cui è possibile la conservazione, in modo da segnare con la loro presenza il paesaggio circostante.

L’uso di questo termine condiziona in profondità la logica della fruizione pubblica: interventi recenti sull’archeologia dei paesaggi hanno sottolineato la complessità sottesa alla definizione del “paesaggio archeologico”, lasciando emergere un livello ancora

valorizzazione.

Chi fa oggi archeologia del paesaggio, concentra il 90% delle proprie energie nella diagnostica georeferenziata sul campo, da trasformare in informazioni digitali che potranno essere oggetto di una restituzione a fini museali, ma soltanto raramente saranno organizzate anche in previsione di una loro fruizione on site. Molto si è discusso e si discute sul valore, sul significato e sulla potenzialità delle carte archeologiche: poco si è discusso fino ad ora sul senso e s

rapporto tra carte archeologiche e valorizzazione del paesaggio.

L’attenzione dello studioso si dovrebbe appuntare perciò su cosa selezionare e su come valorizzare in futuro un paesaggio, in occasione della redazione della carta archeologica: in realtà, si tratta spesso di operare dei collegamenti utili, che sfuggono in sede di ricerca sul campo o sono trascurati al momento della raccolta dei dati e della documentazione finale. Il punto è che la carta archeologica rappresenta un momento ineludibile di conoscenza della potenziale risorsa archeologica, perché, oltre a far emergere “oggetti archeologici”, riesce a ristabilire relazioni tra questi oggetti, la cu

restituzione del paesaggio archeologico.

Il problema è trovare una cornice adatta alla fruizione, in cui il paesaggio possa essere restituito impiegando, se non tutte, almeno una buona parte delle relazioni tra i singoli oggetti archeologici e gli ele

rappresentano il contesto naturale di sviluppo.

Una visione organica di questo genere può infatti essere utile per abituarsi a lavorare in una prospettiva d’area, attraverso un processo di scomposizione di tutti gli elementi del paesaggio, in fa

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