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Discrimen » Extraordinary rendition e sparizione forzata transnazionale nel diritto penale e nel diritto internazionale dei diritti umani

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EXTRAORDINARY RENDITION E SPARIZIONE FORZATA TRANSNAZIONALE NEL DIRITTO PENALE E NEL DIRITTO

INTERNAZIONALE DEI DIRITTI UMANI (*)

soMMario: 1. Dalla detenzione preventiva a quella di sicurezza: un cambiamento paradigmatico? – 2. Extraordinary rendition: casi e numeri. – 3. Una panoramica politica dell’Europa. – 4. Extra- ordinary rendition e diritti umani applicabili nella prospettiva della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’Unione Europea. - 4.1. Giurisdizione. - 4.1.1. La Convenzione Interna- zionale sui Diritti Civili e Politici/Il Comitato per i diritti umani. - 4.1.2. La Commissione e la Corte Interamericana dei Diritti Umani. - 4.1.3. La Corte Europea dei diritti dell’uomo. - 4.2.

Detenzione di sicurezza ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani? - 4.2.1. La Con- venzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici/Il Comitato per i diritti umani. - 4.2.2. La Commissione e la Corte Interamericana dei Diritti Umani. - 4.2.3. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. - 4.3. Principi di diritto internazionale dei diritti umani in materia di estradizione o di consegna per ragioni di giustizia/extraordinary rendition (misure speciali amministrative- SAMS). - 4.3.1. La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici/Il Comitato per i diritti umani. - 4.3.2. La Corte Interamericana dei Diritti Umani. - 4.3.3. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 5. Conclusioni. - 5.1. Sequestro e detenzione di sicurezza: obblighi positivi e negativi. - 5.2. Extra-ordinary rendition: nessuna carta bianca al potere esecutivo. Il controllo giudiziario. - 5.3. La dimensione transnazionale degli obblighi positivi e negativi derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani.

1. Dalla detenzione preventiva a quella di sicurezza un cambiamento paradigmatico?

In una società democratica la libertà dall’arresto o dalla detenzione arbitraria è un principio fondamentale dello Stato di diritto (Rechtsstaat). Esistono molteplici forme di arresto e detenzione legittime, nel senso sia di formalmente previste dalla legge, sia di conformi ai principi di protezione dei diritti umani. Questi metodi legali non fanno parte soltanto del diritto penale, ma anche di altre aree relative al potere punitivo dello Stato, come ad esempio il diritto dell’immigrazione (e delle espulsioni), o l’esecuzione delle misure amministrative di tutela dell’ordine pubbli- co ecc. Molte modalità di detenzione illegittime sono previste come reato nel dirit-

(*) Traduzione dall’inglese a cura di Giulia Checcacci, perfezionanda in diritto penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

Criminalia 2012

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to nazionale e/o nel diritto internazionale. Da un punto di vista sia linguistico che giuridico, l’espressione “detenzione preventiva” può essere variamente interpretata.

Non esiste, infatti, a livello internazionale una definizione unanime. In Francia, ad esempio, con l’espressione détention provisoire o détention préventive si fa tradizio- nalmente riferimento alla custodia cautelare, la tipica forma di detenzione di un indagato in attesa del processo. Nei paesi di civil law la reclusione senza che sia stata formulata un’accusa é generalmente considerata una misura amministrativa.

Anche nella terminologia inglese, il concetto di detenzione preventiva non é univoco. Il fine della custodia preventiva non è quello di trattenere o imprigionare un soggetto perché accusato di un crimine e c’è il pericolo che possa sfuggire al processo o inquinare la prova (tali sono le motivazioni alla base della custodia pre- ventiva); la ragione posta a fondamento di un ordine di arresto preventivo é quella di imprigionare un soggetto considerato una minaccia pericolosa.

Tradizionalmente, la detenzione preventiva era prevista per coloro che, accusati di aver commesso un crimine, erano considerati pericolosi perché affetti da una malattia mentale o in ragione della tipologia del reato commesso (ad esempio, rei- terate violenze sessuali). In questi casi, la misura detentiva era eseguita all’interno di ospedali psichiatrici giudiziari, così da limitare il pericolo per la società; in altre parole, si trattava di uno strumento di “difesa sociale”. Peraltro, in molti Paesi, questa misura di sicurezza era prevista dallo stesso sistema di giustizia penale (sia nella fase delle indagini preliminari, che nella fase esecutiva della sentenza di con- danna). In alcuni Paesi, inoltre, tale misura veniva imposta anche dopo l’esecuzione della condanna, al duplice scopo di evitare la reiterazione del reato e permettere il trattamento psichiatrico del soggetto.

Negli ultimi decenni, lo scopo della detenzione preventiva è stato ampliato: da misura di difesa sociale a misura per la protezione della sicurezza (nazionale). La detenzione preventiva si è trasformata in detenzione di sicurezza ed è stata succes- sivamente svincolata dalla giustizia penale e dal processo. La custodia preventi- va è diventata una misura di Sicherungsverwahrung, una forma di detenzione per individui bollati come un pericolo per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale, a causa delle loro condotte o addirittura dei loro profili psicologici. La condotta di per sé non è sufficiente a fondare il sospetto che è stato commesso un reato, ma rappresenta comunque una minaccia (pericolo/offesa). La detenzione diventa finalizzata alla prevenzione, imposta dal potere esecutivo (i ter- mini détention administrative e detenzione preventiva coprono entrambi gli aspet- ti). Tale strumento è utilizzato per ragioni imperative di sicurezza, senza che sia necessaria un’accusa formale: lo scopo può essere quello di rimuovere un pericolo per la sicurezza in generale oppure quello di permettere interrogatori per motivi di sicurezza o per esigenze di intelligence, consentire il trasferimento, l’espulsione o la deportazione di un sospetto. Nei casi più estremi, lo scopo può anche essere

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quello di uccidere il detenuto.

La sempre maggiore diffusione della detenzione preventiva a fini di sicurezza rappresenta un vero e proprio cambiamento di paradigma. Essa è stata particolar- mente utilizzata nel campo della lotta al terrorismo fin dagli anni ’80.

In quest’ambito, sono stati incrementati i poteri dei servizi segreti impiegati nel- la prevenzione del crimine, ad esempio attraverso la possibilità di utilizzare stru- menti di indagine coercitivi senza la necessità che vi sia un’accusa, un’indagine in corso o un’incarcerazione.

L’anticipazione del rischio è diventata una forza trainante nella giustizia penale, cercando di integrare in essa la sicurezza nazionale1.

La detenzione di sicurezza è destinata a presunti terroristi, classificati tali o co- munque inseriti in apposite liste, non perché sospettati di aver commesso o perché hanno commesso atti terroristici, ma soltanto perché il potere esecutivo li conside- ra come un pericolo per la sicurezza pubblica o nazionale.

La detenzione di sicurezza è una forma di reclusione di quelle persone etichet- tate come una minaccia. Si tratta prevalentemente di una misura di anticipazione o di prevenzione (ante delictum), che si applica cioè prima della preparazione o commissione di un qualsiasi reato.

La lista che contiene il nome dei terroristi è il frutto delle decisioni degli organi esecutivi e delle informazioni dei sevizi di intelligence. In altre parole, la detenzio- ne di sicurezza non è il frutto di una decisione di un tribunale (penale). In alcuni casi, la decisione può essere rivista dagli organi giudiziari, ma l’ampiezza e le regole del controllo giurisdizionale si scontrano con il segreto che copre le informazioni dei servizi di intelligence e l’interesse pubblico invocato dalle agenzie governative.

Il cambio di paradigma non è limitato alla giustizia penale nazionale o alla sicurezza nazionale, ma ha delle ripercussioni anche sulla cooperazione internazio- nale in materia penale. Tradizionalmente, la cooperazione fra Stati o tra autorità giudiziarie in materia di arresto e detenzione di persone allo scopo di sottoporli a giudizio o di eseguire una condanna è stata regolata e imposta attraverso trattati di mutua assistenza (MLAT) a carattere bilaterale o multilaterale, specialmente trattati bilaterali o multilaterali di estradizione2.

Queste decisioni a proposito delle procedure di estradizione sono basate, nella maggior parte dei Paesi, su un doppio procedimento: un procedimento giudiziario e un procedimento esecutivo. L’estradizione del soggetto richiesto è concessa solo a seguito di una doppia approvazione.

1 M. hirsCh Ballin, Anticipative criminal investigation, Theory and Counterterrorism Prac- tice in the Netherlands and the United States, L’Aja, Springer - T.M.C. Asser Press, 2012.

2 M. ChEriF Bassiouni, International Extradition: United States Law & Practice 1, Oxford, Oxford University Press, 2007.

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I MLAT contengono anche garanzie contro l’estradizione arbitraria, come ad esempio la necessità che la richiesta di estradizione sia fondata sul ragionevole sospet- to che la persona abbia commesso un reato per cui è prevista l’estradizione sia nello Stato richiedente che nello Stato richiesto (requisito della doppia incriminazione).

Al procedimento di estradizione si applica sia il diritto internazionale, sia il diritto europeo che il diritto nazionale.

Nonostante il fine dei MLAT sia quello di avere l’esclusiva sugli arresti, le deten- zioni e le consegne transfrontaliere dei sospettati o condannati (colpevoli), alcuni Paesi hanno introdotto, oltre alla procedura formale di estradizione, alcune politi- che di riconsegna attraverso procedure amministrative o esecutive di estradizione (quindi senza il coinvolgimento del potere giudiziario). La procedura di “consegna per motivi di giustizia” può essere descritta come una tecnica attraverso la quale un sospettato può essere forzosamente trasferito in un altro Stato, qualora sia im- possibile condurlo di fronte ad un tribunale attraverso la normale procedura di estradizione.

Ciò significa che la consegna si applica soltanto nel caso eccezionale in cui vi sia un mandato di arresto con lo scopo di sottoporre il sospettato ad un procedimento penale nello stato richiedente3. Il trasferimento forzato può essere eseguito uni- lateralmente dagli agenti dello Stato in cui il sospetto colpevole verrà processato, anche con la collaborazione degli agenti dello Stato in cui avviene il sequestro.

Da un punto di vista giuridico, la procedura di consegna per motivi di giustizia si basa su leggi interne e, in certa misura, era soggetta al controllo giurisdizionale del tribunale amministrativo. Una volta trasferita di fronte al giudice dello Stato richiedente, la persona sequestrata veniva sottoposta al processo ordinario, come ogni altro detenuto in attesa di giudizio. La procedura di consegna per motivi di giustizia si inserisce all’interno di un procedimento penale, dal momento che il sospettato è sequestrato proprio per motivi di giustizia: per essere processato o per eseguire la sentenza di condanna. Ciò non significa che la consegna in se stessa è una procedura giudiziale. Manca, infatti, un mandato emesso da un giudice e, in realtà, si tratta per lo più di un’operazione militare o di polizia sotto copertura, che rischia di violare la sovranità statale di altri Stati, quando non c’è la loro collabora- zione. Fino a che punto le operazioni segrete unilaterali e extraterritoriali possano inficiare il procedimento penale è stato oggetto di molti dibattiti e procedimenti, la maggior parte dei quali conclusisi essenzialmente con la formula male captus bene detentus. Secondo questa teoria l’arresto, la detenzione e la consegna avvenute illegalmente non pregiudicano una carcerazione legale o un giusto processo, anche

3 E. nadElMann, The evolution of United States Involvement in the International Rendition of Fugitive Criminals, in 25 New York University Journal of International Law and Policy, 813, 1993, 857-82.

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quando l’arresto, la detenzione e la consegna sono il risultato di un sequestro for- zato nel territorio di un altro Stato.

Il sequestro di A. Eichman da parte del Mossad nel 1960 in Argentina per por- tarlo in Israele è sicuramente uno dei casi più famosi.

La consegna per motivi di giustizia è stata per decenni ed è ancora una politica applicata dagli Stati Uniti, ma le sue origini risalgono a molti anni fa. Fu approvata dal Presidente Regan nel 1986 come procedura da utilizzare contro i sospettati di terrorismo, ma in realtà era applicata anche in caso di traffico di droga o di armi4.

Il sequestro dell’ex presidente Manuel Noriega, avvenuto a Panama City ad opera delle forze militari statunitensi per processarlo negli Stati Uniti per traffico di droga, è uno degli esempi più famosi5. Nel 1993 il Presidente H.W. Bush auto- rizzò, con la National Security Directive n. 77, una specifica procedura per la sua riconsegna6. Successivamente, nel 1998, il Presidente Clinton firmò la Decisione Presidenziale n. 62, con la quale attribuiva un ampio margine di manovra per varie operazioni anti-terrorismo, incluse anche quelle di “Arresto, Estradizione, Ricon- segna e Processo”7.

Nonostante il trasferimento forzato per fini di giustizia in un altro Stato sia considerato illegale nel diritto internazionale, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato il potere del governo di processare coloro che sono stati sequestrati, a prescindere dalla legalità della procedura secondo il diritto internazionale ed ha anche ritenuto non applicabili le regole previste dalla Costituzione americana agli agenti impegnati in operazioni al di fuori del territorio statunitense (si tratta della dottrina Ker-Frisbie e della teoria elaborata nel caso United States v. Alvarez- Machain)8.

Anche in vari Paesi europei, come ad esempio in Francia o in Spagna, nell’am- bito della lotta al terrorismo è stata utilizzata la medesima strategia contro coloro sospettati di essere coinvolti nelle attività del gruppo ETA. Al fine di evitare le lun- gaggini e la complessità della procedura di estradizione e, di conseguenza, aggirare anche le garanzie previste dai MLAT, veniva utilizzata la cosiddetta “estradizione amministrativa”. Veniva eseguita, dunque, secondo lo schema delle informali coo- perazioni di polizia, al di fuori di qualsiasi cornice giuridica. In pratica, le autorità

4 D. CaMEron Findlay, Abducting Terrorist Overseas for Trial in the United States. Issues of International and Domestic Law, in 23 Texas International Law Journal, 1, 1988, 2-3.

5 United States v. Noriega, 746 f. supp. 1506, 1511.

6 Documento riservato.

7 Documento riservato.

8 Frisbie v. Collins, 342 U.S.519 (1952), Ker v. Illinois, 119 U.S.436 (1886) andUnited States v.

Alvarez-Machain, 504 U.S.655 (1992). j. stark, The Ker-Frisbie-Alvarez Doctrine: International Law, Due Process, and United States Sponsored Kidnapping of Foreign Nationals Abroad, in 9 Connecticut Journal of International Law,161, 1993.

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di polizia e gli agenti dell’intelligence portavano al confine la persona interessata e la consegnavano alle autorità straniere. Tuttavia, vi era una differenza sostanziale con le politiche di “consegna per motivi di giustizia” messe in pratica dagli Stati Uniti: in America, infatti, la consegna per motivi giustizia era il risultato di un ra- pimento unilaterale e extraterritoriale posto in essere dagli ufficiali statunitensi in territorio straniero.

Recentemente, la pratica di consegnare un sospettato per fini di giustizia è stata applicata in modo sistematico con riguardo alla persecuzione della pirateria nell’a- rea somala del Golfo di Aden. Molti imputati sono stati trasferiti in vari Stati euro- pei per essere processati, senza alcun tipo di procedura di estradizione9.

Precisamente, sotto la presidenza Clinton, le procedure di “consegna per motivi di giustizia” furono cambiate. Durante la metà degli anni ’90, molte persone ven- nero catturate in Albania e Bosnia e trasferite in Egitto da militari statunitensi. Il primo caso di cui siamo a conoscenza è quello che riguardò Tal’at Fu’ad Qassim, sequestrato in Bosnia, poi portato su una nave statunitense per essere interrogato e infine trasferito in Egitto per ulteriori interrogatori e per la carcerazione. Qassim fu presumibilmente giustiziato mentre si trovava nelle carceri egiziane10. La pro- cedura di consegna per motivi di giustizia fu convertita, sotto l’amministrazione Clinton, in una consegna finalizzata allo svolgimento dell’interrogatorio e alla rac- colta di informazioni durante la carcerazione di sicurezza. L’ex direttore della CIA, George Tenet, calcolò che la sua agenzia aveva catturato più di 80 persone prima dell’11 settembre 200111.

Ciò significa che l’amministrazione Clinton aveva trasformato la procedura di consegna alla giustizia, che era essenzialmente una tecnica di esecuzione del diritto penale, in una misura con finalità preventive. Ecco che ebbe origine la “extraordi- nary rendition”. La CIA, in collaborazione con il dipartimento della Difesa e l’FBI, divenne responsabile del programma di lotta al terrorismo, secondo il quale la cat- tura di persone in Paesi stranieri era effettuata da agenti statunitensi, con o senza la cooperazione del governo di quello Stato, per poi essere trasferiti in un altro Paese per l’interrogatorio e la detenzione. Nonostante già nel 2002 il Washington Post avesse pubblicato un articolo in cui venivano descritte le pratiche di trasferimento di sospetti terroristi verso Paesi esteri affinché venissero interrogati, soltanto nel 2006, dopo la sentenza della Corte Suprema Hamdan v. Rumsfeld, l’esistenza della procedura di extraordinary rendition fu confermata dal presidente Bush jr. La defi- nì come un programma particolare, eseguito dalla CIA per tenere in stato di fermo e

9 r. GEiss, A. PEtriG, Piracy and Armed Robbery at Sea - The Legal Framework for Counter- Piracy Operations in Somalia and the Gulf of Aden, Oxford, Oxford University Press, 2011, p. 344.

10 Human Rights Watch, Black Hole: The Fate of Islamist rendered to Egypt, 2005, Vol. 17, n. 5.

11 Dichiarazione fatta durante la prima sessione del secondo giorno dell’udienza pubblica della Commissione Nazionale sugli Attacchi Terroristici negli Stati Uniti.

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interrogare individui sospettati di essere gli artefici degli attacchi dell’11 settembre, dell’attentato allo USS Cole e dei bombardamenti contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, oltre a coloro coinvolti in altri atti terroristici che sono costati la vita a civili innocenti in tutto il mondo. Il presidente Bush jr. ammise pubblicamente ciò che già si sospettava da tempo, e cioè che il governo degli Stati Uniti gestiva un programma mondiale segreto di detenzione dei “nemici combattenti”. Una direttiva presidenziale, firmata il 17 settembre 2001, avrebbe concesso alla CIA la legittima- zione a eseguire il programma di extraordinary rendition12. Dopo la sentenza della Suprema Corte Hamdan v. Rumsfeld, il Congresso emise nel 2006 il Military Com- mission Act, il quale provvedeva a dare una base legale alle detenzioni, interrogatori e processi contro “i combattenti nemici illegali”. L’amministrazione Bush presen- tò il Military Commission Act come una base giuridica sufficiente per eseguire il programma di extraordinary rendition, nonostante alcune specifiche norme fossero lacunose e fosse evidente che tutte le persone sequestrate venissero etichettate come

“nemici combattenti illegali”. L’amministrazione Obama promise di verificare la pratica dell’extraordinary rendition, ma al tempo stesso non la eliminò, né la forma- lizzò come una strategia segreta di lotta contro i “nemici combattenti”.

Nonostante entrambe le procedure di consegna per motivi di giustizia e di ex- traordinary rendition siano speciali misure amministrative (SAMS) che si discosta- no dalla procedura giudiziale di estradizione, l’aggettivo “straordinaria” di fronte al termine “rendition” ne cambia profondamente il significato. Una procedura pre- cedentemente vincolata dai confini segnati dalle leggi statali e dai trattati, assistita da alcune garanzie procedurali di fronte ai tribunali, entra ora a far parte del regno della discrezionalità politica. Negli Stati Uniti, il potere esecutivo ha definito la procedura di “extraordinary rendition” come un metodo per trasferire, nelle car- ceri di altri Stati, nemici combattenti detenuti al di fuori del territorio statunitense, senza che il Presidente sia vincolato dalla Costituzione o da altre leggi nazionali13.

2. Extraordinary rendition: casi e numeri

La pratica delle extraordinary rendition è rimasta sconosciuta fino al 2005-2006.

Solo grazie alle investigazioni e alle inchieste informali (ad opera della stampa e di alcune ONG), è emersa la portata e la vastità del programma di extraordinary rendition. Il numero esatto di episodi non è chiaro, dato che le fonti spaziano da

12 Per fonti ufficiali, v. http://www.fas.org/irp/offdocs/pdd39.htm; http://www.fas.org/irp/

offdocs/pdd-62.htm; http://foreignaffairs.house.gov/110/34712.pdf. Il contenuto fondamentale ri- mane riservato.

13 Per un’analisi approfondita, j. yoo, Transferring Terrorists, in 79 Notre Dame Law Review, 2003-2004, 1184.

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qualche centinaio a qualche migliaio. I casi nei quali sono coinvolti gli Stati europei sono ampiamente documentati, mentre quelli che coinvolgono Paesi della regione asiatica sono rimasti spesso sconosciuti. Ciò significa che i casi di sequestro e l’uso segreto della carcerazione avvenuti in Asia rimangono ancora oggi un buco nero.

Al fine di raffigurarsi uno schema della pratica delle extraordinary rendition, vorrei qui ricordare tre casi emblematici, nei quali sono stati coinvolti alcuni Paesi europei. Il primo caso è quello che ha riguardato Hassan Mustafa Osama Nasr, anche chiamato Abu Omar, un musulmano egiziano Imam di Milano, sospettato di avere rapporti con organizzazioni fondamentaliste islamiche e di fomentare il terrorismo. Egli fu sequestrato nel 2003 con un’operazione congiunta della CIA e dell’intelligence italiana e fu poi trasferito in Egitto attraverso un aeroporto milita- re in Germania. In Egitto, Abu Omar fu tenuto in una prigione segreta per 2 mesi e agli arresti domiciliari per circa 4 anni; inoltre fu sottoposto ad interrogatori, al- cuni dei quali sospettati di essere delle vere e proprie forme di tortura. Dopo 4 anni di detenzione fu rilasciato. Non ci fu alcun mandato d’arresto, alcuna imputazione o habeas corpus. I cittadini italiani che hanno eseguito il sequestro e coloro che hanno collaborato ad esso (in Italia) sono stati perseguiti dalla giustizia italiana per vari reati. Il tribunale di Milano riuscì a scoprire l’identità dei responsabili durante un’approfondita inchiesta giudiziaria, in seguito alla quale gli agenti dell’intelli- gence italiana furono arrestati e fu chiesta l’estradizione degli agenti della CIA.

La richiesta di estradizione, però, non fu mai inviata dal governo italiano (né dal governo Prodi, né dal governo Berlusconi) agli Stati Uniti. Il governo Berlusconi, inoltre, al fine di evitare l’utilizzazione delle prove raccolte nella sede dell’autorità di intelligence concesse agli agenti l’immunità e il segreto di Stato14. La Corte Co- stituzionale italiana approvò l’uso di questo privilegio e di conseguenza una parte sostanziale delle prove raccolte per il processo non poterono essere utilizzate. Nel novembre 2009, però, i giudici italiani incarcerarono 22 agenti della CIA e due agenti dei servizi segreti italiani per il sequestro di Abu Omar sul territorio italiano e imposero condanne fino a 8 anni di reclusione per i capi dell’operazione. Tutta- via, alcune delle persone imputate per il rapimento non furono incarcerate grazie alle immunità diplomatiche. Il processo e le condanne del giudice italiano furono le prime, e fino ad ora le uniche, sentenze emesse contro soggetti implicati nel pro- gramma delle extraordinary rendition della CIA.

Il secondo caso è quello che ha riguardato Al-Masri. Khaled El-Masri è un cittadino tedesco, nato in Kuwait, un musulmano di origini libanesi. Si è trasferito in Germania nel 1985. Nel 2003 si recò a Skopje, in Macedonia, per una breve va- canza. Al confine macedone, però, fu fermato dalle autorità di intelligence locali,

14 Cfr. G. illuMinati, Nuovi Profili del segreto di stato e dell’attività di intelligence, Torino, Giappichelli, 2010.

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interrogato per diverse ore e poi portato in un albergo di Skopje, dove fu trattenuto per 23 giorni sotto il controllo di guardie armate, senza un mandato di arresto, senza l’assistenza di un avvocato e senza alcun tipo di imputazione formale ecc. Fu interrogato ininterrottamente. Durante l’interrogatorio, ci fu anche uno scambio di informazioni fra le autorità locali in Macedonia e le autorità di polizia tedesche.

Dopo la detenzione, fu trasferito all’aeroporto di Skopje in Macedonia e consegna- to alla squadra incaricata del programma di extraordinary rendition della CIA.

L’aereo volò in Afghanistan dove fu tenuto in carcere segretamente per altri 4 mesi, fino a che non fu scoperto che forse era la persona sbagliata (aveva un nome simile a quello di un associato alla “cellula di Amburgo” di Al-Qaeda). Al fine di masche- rare l’errore, fu riportato in Albania con una extraordinary rendition al contrario.

In Macedonia furono aperte delle investigazioni amministrative e penali, ma non fecero progressi e si prescrissero. Nel 2004, un pubblico ministero tedesco di Mo- naco aprì nuovamente le indagini dichiarando che Al-Masri era stato illegalmente sequestrato, detenuto, fisicamente e psicologicamente maltrattato e interrogato in Macedonia e in Afghanistan. Nel 2005 furono inviate lettere di rogatoria e nel 2007 vennero emessi mandati di arresto internazionale contro 13 agenti della CIA. Le autorità macedoni rifiutarono di cooperare e le autorità esecutive tedesche rifiuta- rono di inviare le richieste di estradizione negli Stati Uniti. Durante i procedimenti civili negli Stati Uniti, svoltisi in virtù dell’Alien Tort Statute, Al-Masri dovette confrontarsi con il privilegio del segreto di Stato opposto dall’amministrazione sta- tunitense. Sia la Corte distrettuale che la Corte d’Appello del quarto distretto de- cisero che il caso non poteva essere deciso senza rivelare alcuni segreti di Stato. La Suprema Corte, infine, non volle riesaminare il caso. Nel 2008, l’ACLU (American Civil Liberties Union) promosse un ricorso di fronte alla Commissione Interame- ricana dei Diritti Umani. Nel 2009, la fondazione Soros ha presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro la Macedonia. Entrambe le procedure sono attualmente pendenti.

Il terzo caso ha riguardato Abd al-Rahim al-Nashiri, un cittadino saudita, ar- restato nel 2002 a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dalla polizia locale. Dopo un mese di detenzione segreta, fu clandestinamente consegnato alla CIA e trasferito in una prigione segreta, conosciuta come “Salt Pit” in Afghanistan, dove fu a lun- go interrogato e probabilmente torturato. Dopo una breve permanenza a Salt Pit fu trasferito dalla CIA in una prigione segreta a Bangkok e subito dopo trasferito in una prigione segreta in Polonia. Successivamente è stato tenuto dalla CIA in isolamento in altre carceri fuori dalla Polonia. Prima fu trasferito a Rabat, poi a Guantanamo. Dopo un anno a Guantanamo fu riportato a Rabat e successiva- mente trasferito a Bucarest in Romania. Nel 2006 fu poi nuovamente trasferito a Guantanamo. Fu solo nel settembre 2006 che il governo degli Stati Uniti seppe per la prima volta che Al Nashiri era stato segretamente detenuto oltre oceano e che

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era stato trasferito nella prigione di Guantanamo. Al Nashiri è ancora oggi detenu- to a Guantanamo; in pratica è rimasto segretamente in carcere per circa 10 anni.

Nel dicembre 2009, Al Nashiri fu accusato di fronte alla Commissione Militare di Guantanamo. Durante il riesame delle situazioni di tutti i detenuti di Guantana- mo, sotto l’amministrazione Obama, le accuse furono fatte cadere. Attualmente, Al Nashiri è sotto processo di fronte al tribunale militare di Guantanamo. Il 20 aprile 2011, i procuratori militari hanno annunciato che chiederanno l’applicazione nei suoi confronti della pena capitale. Anche con riguardo a questo caso, la fondazione Soros, nel 2009, ha presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro la Polonia. Il caso è attualmente pendente.

Il ruolo degli Stati e degli agenti e ufficiali europei nel programma delle extra- ordinary rendition può prendere varie forme. Si va dal sequestro della persona in- teressata, su richiesta degli Stati Uniti alla diretta partecipazione nella cattura e nel trasferimento, nella predisposizione e uso di strutture carcerarie o altre tipologie di aiuto nella messa in opera del programma (attraverso lo scambio di informazioni di intelligence o l’agevolazione di voli segreti della CIA ecc.). Così facendo, molti Stati europei hanno orchestrato, collaborato o comunque facilitato il programma di extraordinary rendition. Stando così le cose, il coinvolgimento degli Stati europei nel programma di extraordinary rendition è diventato un argomento politico molto delicato.

3. Una panoramica politica dell’Europa

Il Parlamento europeo ha creato una commissione temporanea per investigare sul presunto uso degli Stati europei da parte della CIA per il trasporto e la deten- zione illegale dei prigionieri (TDIP). Lo scopo era quello di determinare se la CIA aveva posto in essere sul territorio dell’Unione Europea carcerazioni segrete e extra- ordinary rendition, o se aveva comunque promosso in Europa simili operazioni. La commissione, inoltre, si è occupata anche di stabilire se erano stati coinvolti cittadini e/o Stati dell’Unione Europea. Il rapporto finale dell’indagine c.d. Fava è stato pub- blicato nel 2007 e contiene informazioni dettagliate su alcune operazioni avvenute con la cooperazione degli Stati europei e dei loro agenti, soprattutto nel campo dell’attività civile e militare di intelligence e nel settore dei trasporti militari15.

Il Consiglio d’Europa, dal canto suo, aveva richiesto due indagini separate.

Nell’ambito della prima, Terry Davis, segretario generale del Consiglio d’Euro-

15 Per i documenti, v. http://www.europarl.europa.eu/comparl/tempcom/tdip/default_en.

htm;http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//NONSGML+

REPORT+A6-2007 0020+0+DOC+PDF+V0//EN.

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pa, chiese agli Stati, in base all’articolo 57 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, di spiegare in che modo venivano assicurati adeguati controlli sugli

“agenti stranieri” nel loro territorio, quali garanzie avevano preso per prevenire carcerazioni segrete e come veniva assicurata l’efficacia delle investigazioni che era- no state intraprese. Dal rapporto è emerso che in molti Paesi membri del Consiglio d’Europa manca una normativa che regoli simili attività, che la regolamentazione del traffico aereo era inadeguata e che le norme sull’immunità erano un ostacolo allo svolgimento di efficaci investigazioni16. La seconda inchiesta fu promossa dal Comitato per gli Affari Legali e i Diritti Umani dell’assemblea parlamentare sotto la guida del rapporteur Dick Marty, il quale ha curato due relazioni, una nel 2006, l’altra nel 200717. Dick Marty è stato particolarmente efficace nel mettere in eviden- za le reali tratte aeree dei voli della CIA in Europa e, grazie a tale accertamento, ha dimostrato il coinvolgimento delle autorità europee nel trasferimento di persone detenute illegalmente.

Nella sua qualità di presidente del Comitato per gli Affari Legali e i Diritti Umani dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Dick Marty chiese anche alla Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto (nota come Commissione di Venezia) un’opinione giuridica sugli obblighi internazionali degli stati membri del Consiglio d’Europa riguardo alla concessioni di strutture carcerarie per detenzioni segrete e al trasporto transnazionale di prigionieri. La Commissione di Venezia nel 2006 elaborò una relazione nella quale si concludeva che gli Stati coinvolti nelle operazioni di extraordinary rendition avevano agito in violazione del diritto internazionale e dei principi umanitari nella misura in cui avevano partecipato o avevano omesso di adempiere i loro doveri di investigare, perseguire e sanzionare simili condotte18.

Finalmente, nel 2007 il Comitato per la sicurezza nazionale e l’intelligence del Regno Unito pubblicò un rapporto molto critico sulle operazioni di rendition. Sco- po dell’inchiesta era quello di indagare se le agenzie di sicurezza e di intelligence inglesi erano a conoscenza e/o erano state coinvolte nelle attività di rendition. Il Comitato nella sua raccomandazione considera in ogni caso abusiva la detenzione segreta, a prescindere dall’esistenza di una richiesta legale19. Secondo il Comitato, ogni qualvolta vi sia la concreta possibilità che la consegna del sospettato sia fina- lizzata alla detenzione in una struttura segreta, anche se per un limitato periodo di tempo, deve essere negata l’autorizzazione. Il Comitato non ha trovato alcuna pro- va, però, del coinvolgimento delle agenzie inglesi nelle operazioni di extraordinary

16 https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?id=976731&Site=COE.

17 http://assembly.coe.int/main.asp?link=/documents/workingdocs/doc06/edoc10957.htm;

http://assembly.coe.int/documents/workingdocs/doc07/edoc11302.pdf.

18 http://www.venice.coe.int/docs/2006/CDL-AD(2006)009-e.asp.

19 http://www.fas.org/irp/world/uk/rendition.pdf.

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rendition, ma rimane abbastanza critico sulla possibilità di creare forme di “conse- gna straordinaria” al di fuori di quelle per motivi di giustizia, militari e finalizzate all’esecuzione di una condanna detentiva, che sono e restano, secondo il Comitato, giustificabili strumenti nelle mani dei servizi civili e militari di intelligence.

4. Extraordinary rendition e diritti umani applicabili nella prospettiva della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dell’Unione Europea

Sia la consegna ai fini di giustizia che la extraordinary rendition non sono pre- viste dal diritto internazionale. Se volessimo effettuare una valutazione della pro- cedura della extraordinary rendition dal punto di vista del diritto internazionale umanitario, ci troveremmo di fronte a una serie ibrida di possibili violazioni dei diritti umani, come ad esempio:

• arresto e detenzione arbitrarie;

• sparizione forzata;

• trasferimento forzato;

• tortura;

• diniego di accesso agli uffici consolari;

• diniego di accesso a tribunali imparziali e indipendenti/habeas corpus.

In questo contributo, vorremmo porre particolare attenzione alla detenzione segreta come metodo e scopo del programma di extraordinary rendition. Potrem- mo affrontarla dal punto di vista della tassonomia della detenzione preventiva, così come elaborata da Stella Burch Elias20:

• la base giuridica della detenzione;

• la notifica dell’imputazione;

• comparizione davanti a un’autorità giudiziaria, amministrativa o di altro tipo;

• periodo di tempo passato in carcere senza la contestazione di un’imputazione o senza processo;

• possibilità di avere un avvocato;

• diritto ad un’udienza pubblica e giusta;

• controllo giurisdizionale;

• regole che riguardano l’interrogatorio

In ogni caso, è abbastanza evidente come la procedura di extraordinary rendition mostri delle debolezze sotto tutti i punti di vista. Si potrebbe individuare una base giuridica nel sistema normativo statutinitense, ma anche in quel caso resterebbero

20 s. Elias, Rethinking “Preventive Detention” From a Comparative Perspective: Three Frame- works for Detaining Terrorist Suspects,in 41 Columbia Human Rights Law Review, 99, 2009.

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delle problematicità dal punto di vista del diritto internazionale dei diritti umani (ad esempio, per quanto riguarda la prevedibilità e il controllo giurisdizionale).

Dal momento che qui abbiamo a che fare, da un punto di vista europeo, con una pratica transnazionale di cooperazione fra ufficiali e agenti sia statunitensi che di altri Paesi europei, ci piacerebbe concentrarci su alcuni specifici, complessi pro- blemi comuni a tutti questi standard. Il primo argomento che vorrei proporre è il seguente: gli Stati europei, dal punto di vista del diritto internazionale umanita- rio, possono avere giurisdizione in materia? In altre parole, si applicano i trattati umanitari a questo tipo di situazioni? L’argomento è particolarmente importante, visto che la Corte Suprema degli Stati Uniti non intende applicare i principi costi- tuzionali alle attività dei connazionali poste in essere al di fuori del territorio degli Stati Uniti (dottrina di Kerr-Frisbie/ Alvarez-Machain). Il secondo argomento me- ritevole di ulteriore analisi riguarda il problema del se e fino a che punto il diritto internazionale dei diritti umani può accettare una specifica categoria di detenzione di sicurezza, specialmente nel campo della lotta al terrorismo. La terza questione riguarda, invece, il problema dell’applicazione di specifici principi di diritto inter- nazionale dei diritti umani anche all’estradizione o alla consegna ai fini di giustizia/

extraordinary rendition (misure amministrative speciali - c.d. SAMS).

4.1. Giurisdizione

Nonostante le convenzioni sui diritti umani prevedano principi universali, ciò non significa che gli Stati possano applicarli sempre e possano essere dichiarati re- sponsabili in ogni caso. A tale scopo è necessario che gli Stati possano esercitare la loro giurisdizione. La maggior parte dei trattati sui diritti umani contiene, nei pri- mi articoli, un riferimento agli individui soggetti alla loro giurisdizione, ma senza darne una definizione. Tradizionalmente, nel diritto internazionale la giurisdizione è legata all’applicazione territoriale, anche se a proposito di diritto internazionale dei diritti umani c’è stata un’importante evoluzione.

4.1.1. La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici/Il Comitato per i diritti umani

Già nel 1981, il Comitato per i diritti dell’uomo, istituito in base all’art. 28 del Patto sui diritti civili e politici, si era occupato della questione in merito al caso Lilian Celiberti de Casariego v. Uruguay21. Nel 1978, Lilian Celiberti de Casa- riego era stata arrestata a Porto Alegre (Brasile) insieme ai suoi due bambini e al Sig. Universindo Rodriguez Diaz. L’arresto fu eseguito da agenti uruguaiani, con

21 Comunicazione n. R.13/56, U.N. Doc. Supp. No. 40 (A/36/40), 185 (1981), http://www1.

umn.edu/humanrts/undocs/session36/13-56.htm.

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la connivenza di due ufficiali della polizia brasiliana. Furono trattenuti per una settimana nell’appartamento della Sig.ra Celiberti a Porto Alegre e poi trasportati al confine uruguaino. Da qui furono forzosamente trasferiti in Uruguay e tenuti in carcere. Una settimana dopo le Fuerzas Conjuntas dell’Uruguay confermarono pubblicamente l’arresto della Sig.ra Celiberti, dei suoi due figli e del Sig. Universin- do Rodriguez Diaz, sostenendo che essi avevano provato ad oltrepassare il confine fra il Brasile e l’Uruguay clandestinamente e con materiale sovversivo. Per 4 mesi furono tenuti in isolamento. La Sig.ra Celiberti fu imputata di “associazione ever- siva”, “cospirazione e atti preparatori finalizzati alla violazione della Costituzione”, oltre a varie violazioni del codice penale ordinario e militare. Per questo motivo, fu processata davanti al tribunale militare e messa in custodia cautelare.

Il Comitato per i diritti dell’uomo ha osservato che nonostante l’arresto e la re- clusione iniziale di Lilian Celiberti de Casariego sia avvenuta presumibilmente in territorio straniero, non c’erano ostacoli, ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo op- zionale (“...gli individui soggetti alla sua giurisdizione...”) o ai sensi dell’art. 2(1) del Protocollo (“... gli individui nel suo territorio e soggetti alla sua giurisdizione ...”), che impedivano di prendere in considerazione questi fatti, oltre all’accusa di suc- cessiva deportazione nel territorio uruguaiano, dal momento che queste azioni erano state commesse da agenti uruguaiani in territorio straniero22. Il Comitato per i diritti umani ritiene, infatti, che il riferimento, contenuto all’articolo 1 del Protocollo opzionale, agli “individui soggetti alla sua giurisdizione” non impedi- sce di interpretare la disposizione come riferita non al luogo in cui la violazione è commessa, ma al rapporto fra lo Stato e l’individuo in relazione a una qualsiasi violazione dei suoi diritti come stabiliti nel Protocollo, a prescindere dal luogo di commissione23. Il Comitato per i diritti umani così conclude:

“10.3 L’articolo 2 (1) del Patto pone in capo a ogni Stato membro un obbligo di rispetta- re e assicurare i diritti “a tutti gli individui presenti sul territorio e soggetti alla sua giurisdi- zione”, ma non implica che lo Stato interessato non possa essere dichiarato responsabile per la violazione dei diritti previsti dal Patto commessi dai suoi agenti nel territorio di un altro Stato, a prescindere dal consenso o dall’opposizione del governo di quello Stato (...) L’art.

2, paragrafo 1, richiede agli Stati parti anche di rispettare e assicurare i diritti del Patto a tutti gli individui presenti sul territorio e soggetti alla loro giurisdizione. Ciò significa che lo Stato deve rispettare e assicurare i diritti stabiliti nel Patto a chiunque sia soggetto al po- tere o al controllo effettivo di quello Stato, anche se non si trova sul suo territorio. Questo principio si applica anche a coloro che si trovano sotto il potere o l’effettivo controllo delle forze di uno Stato anche se operano al di fuori del territorio statuale, a prescindere dalle circostanze nelle quali un tale controllo opotere è stato ottenuto, come ad esempio nel caso

22 Punto 10.1.

23 Punto 10.2.

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di forze parte di un contingente nazionale assegnate ad un’operazione internazionale di mantenimento della pace (peacekeeping) o di imposizione della pace (peace-enforcement).

In linea con ciò, sarebbe irragionevole interpretare l’art. 2 del Patto nel senso di permettere le violazioni del Patto commesse nel territorio di un altro Stato e impedire quelle stesse violazioni quando commesse nel proprio territorio”.

Dal 1981 il Comitato per i diritti umani ha ammesso l’applicazione extraterrito- riale del Patto in molteplici casi, sulla base del requisito dell’autorità o dell’effettivo controllo24. Inoltre, nella osservazione generale n. 31 ha stabilito che:

“Gli Stati parte, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, devono rispettare e assicurare i diritti contenuti nel Patto a tutti gli individui che possono trovarsi sul loro territorio e a tutti coloro che sono soggetti alla loro giurisdizione. Ciò significa che uno Stato parte deve rispettare e assicurare i diritti stabiliti nel Patto a chiunque sia soggetto al suo potere o al suo controllo effettivo, anche se non si trova nel territorio di quello Stato. Il godimento dei diritti del Patto non è limitato ai cittadini degli Stati parte ma a tutti gli individui, a prescindere dalla nazionalità o apolidia [...]. Questo principio si applica anche a coloro che si trovano sotto il potere o l’effettivo controllo delle forze di uno Stato anche se operano al di fuori del territorio statuale, a prescindere dalle circostanze nelle quali un tale con- trollo opotere è stato ottenuto, come ad esempio nel caso di forze parte di un contingente nazionale assegnate ad un’operazione internazionale di mantenimento della pace (peaceke- eping) o di imposizione della pace (peace-enforcement)”25.

Infine, merita particolare attenzione il fatto che la Corte Internazionale di Giu- stizia, nell’analizzare la portata della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (ICCPR), nel suo parere sulle conseguenze giuridiche della costruzio- ne del muro nei territori occupati della Palestina, abbia stabilito che “sebbene la giurisdizione degli Stati sia prevalentemente territoriale, essa può essere esercitata fuori dal territorio nazionale” e che “considerando l’oggetto e lo scopo dell’ICCPR, sembrerebbe naturale che gli Stati parti del Patto siano vincolati al rispetto delle sue previsioni”26. Nello stesso senso va la decisione emessa nel caso Democratic

24 Per esempio, cfr. Final Observations on Cyprus, Doc. UN CCPR/C/79/Add.39, 21 set- tembre 1994, parag. 3; Final Observations on Israel, Doc. UN CCPR/C/79/Add.93, 18 agosto 1998, parag. 10; Final Observations on Israel, Doc. UN CCPR/CO/78/ISR, 21 agosto 2003, parag. 11;

Final Observations on Belgium, Doc. UN CCPR/C/79/Add.99, 19 novembre 1998, parag. 14; Final Observations on the Netherlands, Doc. UN CCPR/CO/72/NET, 27 agosto 2001, parag. 8; Final Ob- servations on Belgium, Doc. UN CCPR/CO/81/BEL, 12 agosto 2004, parag. 6.

25 Osservazione generale n. 31, adottata dal Comitato per i diritti umani, The Nature of the General Legal Obligation Imposed on States Parties to the Covenant, 80esima sessione, U.N. Doc.

HRI/GEN/1/Rev.7, p. 192, p. 194 e ss., parag. 10.

26 ICJ, Advisory Opinion of the International Court of Justice on the Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, parag. 109, 9 luglio 2004, reperibile all’indirizzo http://www.icj-cij.org/homepage/sp/advisory/advisory_2004-07-09.pdf.

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Republic of the Congo v. Uganda, nella quale si afferma che il diritto internazionale dei diritti umani è applicabile anche rispetto ad operazioni effettuate da uno Stato nell’esercizio della sua giurisdizione al di fuori del suo territorio27.

4.1.2. La Commissione e la Corte Interamericana dei Diritti Umani

La Commissione Interamericana dei Diritti Umani ha elaborato la teoria del

“controllo personale”, sostenendo che gli individui sotto “l’autorità e il controllo”

di uno Stato soggiaciono alla giurisdizione di quello Stato per quanto riguarda il diritto internazionale dei diritti dell’uomo. Ciò significa che la Commissione Inte- ramericana dei Diritti Umani ritiene che sussista la competenza ratione loci di uno Stato per azioni avvenute nel territorio di un altro Stato, ogni qualvolta le presunte vittime siano soggette all’autorità e al controllo dei suoi agenti28. Recentemente, per quanto riguarda i detenuti a Guantanamo Bay, la Commissione ha rilevato che

“chi è sotto l’autorità o il controllo di uno Stato, a prescindere dalle sue condizio- ni, è privato della protezione giuridica dei suoi fondamentali o inderogabili diritti umani”29.

È interessante notare come la Commissione Interamericana abbia di recente dichiarato ammissibile il ricorso interstatuale Ecuador v. Colombia30, col quale l’Ecuador ha sostenuto che gli individui uccisi nel suo territorio, durante un at- tacco militare organizzato dalla Colombia avente di mira un campo delle FARC (c.d. operazione Phoenix), erano sotto il controllo colombiano. Nelle sue osserva- zioni scritte al ricorso interstatuale, la Colombia ha affermato che la Commissio- ne Interamericana non avrebbe giurisdizione ratione loci dato che le vittime non erano soggette alla giurisdizione colombiana, come richiesto dall’articolo 1.1 del- la Convenzione Americana31. In questo senso, la Colombia sostiene che, essendo una regola generale, il concetto di “giurisdizione” deve essere interpretato in senso territoriale. La conclusione a cui si deve giungere, dunque, secondo la Colombia, nell’interpretare gli articoli 1.1. e 2 della Convenzione Americana è che la legge si

27 ICJ, Case concerning Armed Activities on the Territory of the Congo (Democratic Republic of Congo v. Uganda), 19 dicembre 2005, parag. 216. Reperibile all’indirizzo http://www.icj-cij.org/

docket/files/116/10455.pdf.

28 IACHR Report n. 109/99, Case 10.951, Coard et al. (United States), 29 settembre 1999, parag. 37; IACHR Report n. 14/94, Petition 10.951, Callistus Bernard et al. (United States), 7 feb- braio 1994, parag. 6 e 8; IACHR Report n. 31/93 Case 10.573, Salas (United States), 14 ottobre 1993, parag. 6.

29 Decisione sulla richiesta di misure cautelari (Detenuti a Guantánamo Bay, Cuba), IACHR, 41, I.L.M. 532, 533 (12 marzo 2002)

30 Report n. 112/10, Inter-state petition IP-02, Ammissibilità, Franklin Guillermo Aisalla Mo- lina, Ecuadorv. Colombia.

31 Comunicazione del 20 ottobre 2009, Observations of the State of Colombia to the inter-State petition PI-2, pp. 5-20.

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caratterizza per la sua applicazione territoriale. “Conseguentemente, al fine di ren- dere la protezione effettiva, le persone che vogliono beneficiare della suddetta pro- tezione devono trovarsi nel territorio dello Stato”32. La Colombia argomenta anche che, data la dimensione territoriale del termine “giurisdizione” contenuta all’artico- lo 1.1 della Convenzione Americana e considerato che la morte del cittadino ecua- doriano, il Sig. Aisalla, è avvenuta in Ecuador, non sussisteva la giurisdizione dello stato colombiano33. Inoltre, secondo la Colombia, nel diritto internazionale, le uni- che due possibili eccezioni alla regola della giurisdizione territoriale riguardano le operazioni militari o le attività poste in essere da agenti diplomatici o consolari nei territori di altri Stati; e al fine di ritenere che uno Stato abbia esercitato la sua giurisdizione in maniera extraterritoriale attraverso un’operazione militare all’este- ro, è necessario dimostrare che c’era un’occupazione militare o che lo Stato aveva esercitato il suo controllo sopra il territorio dell’altro Stato34. Secondo la Colombia, però, con l’operazione “Phoenix” non si era verificata né un’occupazione militare né il controllo sul territorio, dal momento che non c’era una presenza militare per- manente in Ecuador e le forze armate colombiane non cercavano di rovesciare o sostituire né il Governo ecuadoriano néil suo esercito. In conclusione, secondo la stato colombiano, in questo caso mancavano le condizioni per ritenere che a segui- to dell’operazione “Phoenix”, la Colombia avesse esercitato la sua giurisdizione in modo extraterritoriale nella regione dell’Angostura (Ecuador) e sulle persone che erano lì presenti35.

La Commissione Interamericana dei Diritti Umani inizia con un’analisi dal punto di vista del diritto internazionale:

“Nel diritto internazionale, la giurisdizione non si fonda esclusivamente sul criterio territoriale, ma può essere esercitata anche sulla base di altri principi. In questo senso, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani ha stabilito che “in certe circostanze, l’esercizio della sua giurisdizione su atti extraterritoriali non solo è compatibile, ma addirit- tura richiesto dalle norme che la regolano”36. Quindi, nonstante la giurisdizione si riferisca normalmente all’autorità su soggetti che si trovano sul territorio dello Stato, i diritti umani sono propri di ogni individuo e non si basano sulla cittadinanza o sulla posizione geografi-

32 Comunicazione del 20 ottobre 2009, Observations of the State of Colombia to the inter-State petition PI-2, pp. 10 e 11.

33 Comunicazione del 20 ottobre 2009, Observations of the State of Colombia to the inter-State petition PI-2, pag. 11.

34 Comunicazione dello Stato della Colombia, DVAM.DIDHD.GOI. n. 31461/1312 del 10 giugno 2010, ricevuta dal IACHR il 14 giugno 2010, parag. 30.

35 Comunicazione dello Stato della Colombia, DVAM.DIDHD.GOI. n. 31461/1312 del 10 giugno 2010, ricevuto dal IACHR il 14 giugno 2010, parag. 49.

36 IACHR Report n. 109/99, Merits, Case 10.951, Coard et al. (United States), 29 settembre 1999, parag. 37.

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ca. Secondo il diritto interamericano dei diritti umani, ogni Stato americano è obbligato a rispettare i diritti di tutte le persone presenti sul proprio territorio e di quelle presenti sul territorio di un altro Stato, ma comunque soggette al controllo dei propri agenti37. Questa posizione si concilia con quella delle altre organizzazione internazionali che nell’analizzare la sfera di applicazione degli strumenti del diritto internazionale dei diritti umani hanno riconosciuto la loro extraterritorialità”.

La Commissione Interamericana dichiara il ricorso ammissibile e ne analizza il merito, ma nella sua decisione sull’ammissibilità, la Commissione definisce una questione essenziale:

“Di conseguenza, il seguente punto è essenziale per la Commissione nella deterinazio- ne della giurisdizione: l’esercizio dell’autorità sulle persone da parte degli agenti di uno Stato anche quando non operano sul proprio territorio, non richiede, ai fini della respon- sabilità dello Stato per gli atti commessi dai suoi agenti all’estero, l’esistenza di una rela- zione giuridica formale, strutturata e prolungata. Al momento dell’esame dell’ambito della giurisdizione della Convenzione Americana, è necessario stabilire se c’è o meno un nesso causale fra la condotta extraterritoriale dello Stato e le presunte violazioni dei diritti e delle libertà di un individuo”.

Ad oggi, la Commissione Interamericana dei Diritti Umani non si è occupa- ta dell’ampiezza della (sua) giurisdizione nel dettaglio. Comunque, la Corte ha avuto modo di confrontarsi con casi di violazioni transnazionali dei diritti umani (v. 4.3.2).

4.1.3. La Corte Europea dei diritti dell’uomo

Nella sua decisione sul caso Bankovic e altri c. Belgio e altri38, la Corte Europea ha sostenuto che il significato del termine “giurisdizione” deriva dal diritto inter- nazionale ed ha un’accezione principalmente, ma non esclusivamente territoriale.

La Corte ha ammesso che gli atti delle autorità degli Stati membri commessi al di fuori del territorio nazionale o che comunque possono produrre effetti al di fuori del loro territorio possono, in circostanze eccezionali, essere soggetti alla giurisdi- zione di uno Stato parte. Nel caso Bankovic, la richiesta fu comunque dichiarata inammissibile dato che il bombardamento aereo non aveva garantito un controllo effettivo sulla regione in questione.

Nella fase precedente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva già concluso che la “giurisdizione” non è limitata al territorio nazionale di uno Stato membro,

37 IACHR Report n. 86/99, Case 11.589, Armando Alejandre Jr. et al. (Cuba), 13 aprile 1999.

38 Decisione sull’ammissibilità del ricorso n. 52207/99 del 12 dicembre 2001 (Grande Came- ra) nel caso Bankovic e altri c. Belgio e altri 16 Stati Contraenti.

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dato che quest’ultimo può essere dichiarato responsabile anche per atti delle sue autorità che producono effetti al di fuori del territorio nazionale39.

L’esercizio della giurisdizione è una condizione necessaria affinché uno Stato possa essere dichiarato responsabile per azioni o omissioni a lui imputabili che hanno provocato una violazione dei diritti e delle libertà tutelate40. Nel caso Loi- zidou c. Turchia, la Corte Europea ha decretato che quando uno Stato esercita un controllo effettivo su una determinata area, allora esercita la sua giurisdizione41. La Corte Europea ha espresso questo concetto in questi termini:

“A tal proposito la Corte ricorda che, nonostante l’articolo 1 preveda dei limiti alla portata della Convezione, il concetto di “giurisdizione” non è vincolato al territorio na- zionale delle Alte Parti Contraenti. [...] la responsabilità delle Parti Contraenti può in- sorgere per gli atti delle autorità statuali che producono effetti fuori dal loro territorio, a prescindere dal fatto che siano commessi all’interno o all’esterno dei confini nazionali.

Avendo ben presente l’oggetto e lo scopo della Convenzione, la responsabilità di una Parte Contraente può anche insorgere quando, in conseguenza di un’azione militare – sia lecita che illecita – lo Stato eserciti un controllo effettivo su un’area al di fuori del territorio nazionale. L’obbligo di assicurare, in tale area, i diritti e le libertà previsti nella Convenzione deriva proprio dall’esercizio di un simile controllo, a prescindere che sia esercitato direttamente, attraverso le sue forze armate, oppure attraverso un governo locale subordinato”42.

Questa sentenza fu confermata nel 2001 con il caso Cipro c. Turchia43.

Queste circostanze eccezionali, che giustificano la configurazione di una giuri- sdizione extraterritoriale, si applicano anche all’art. 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Già nel 1989 la Corte decise nel caso Stocké c. Germania:

“Ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, le Alte Parti Contraenti devono assicurare i dirit- ti previsti dall’art. 5(1) “a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione”. Questa garanzia non è limitata al territorio nazionale delle Alte Parti Contraenti interessate, ma si estende a tutte le persone soggette alla loro effettiva autorità e responsabilità, senza che rilevi il fatto che questa autorità sia esercitata in patria o all’estero. Inoltre, uno Stato non solo mantiene

39 CEDU, Drozd E Janousek c. Francia e Spagna, decisione del 26 giugno 1992, parag. 91. Cfr.

anche le decisioni della CEDU sull’ammissibilità dei ricorsi n. 1611/62, X c. Repubblica Federale Tedesca, 25 settembre 1965; ricorso n. 6231/73, Hess c. Regno Unito, 28 maggio 1975; ricorso n.

6780/74 e n. 6950/75, Cipro c.Turchia, 26 maggio 1975; ricorsi n. 7289/75 e n. 7349/76, X and Y v Switzerland, 14 luglio 1977; ricorso n. 9348/81, W. v United Kingdom, 28 febbraio 1983.

40 Ilascu e altri c. Moldavia e Russia, Decisione del 8 luglio 2004, parag. 311.

41 CEDU, Loizidou c. Turchia (Obiezioni preliminari), Decisione del 23 marzo 1995, parag.

62 e CEDU, Loizidou c. Turchia, Decisione del 18 dicembre 1996.

42 CEDU, Loizidou c. Turchia (Obiezioni preliminari), Decisione del 23 marzo 1995, parag. 62.

43 CEDU, Cipro c. Turchia, Decisione del 10 maggio 2001.

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la sua giurisdizione sugli agenti da lui autorizzati che si trovano in un Paese straniero, ma la esercita anche su ogni altra persona sottoposta alla loro autorità. Nella misura in cui le azioni o omissioni di uno Stato riguardano tali persone, lo Stato è responsabile”44.

In casi più recenti, come ad esempio quello di Issa e al. c. Turchia, la Corte Euro- pea ha riaffermato che la responsabilità di uno Stato può derivare dalla violazione dei diritti e delle libertà di coloro che si trovano in un altro Stato, ma che rimangono sotto il controllo e l’autorità degli agenti del primo Stato, che operavano, legalmente o illegalmente, nel territorio del secondo. Il criterio applicato è quello del generale

“controllo effettivo”. Secondo la Corte Europea, la responsabilità in queste situa- zioni deriva dal fatto che l’articolo 1 della Convenzione Europea non può essere in- terpretato in modo da permettere ad uno Stato membro la commissione in un altro Stato di violazioni dei diritti umani, che non gli sono permesse nel suo territorio45. Nella decisione Issa c. Turchia, lo Stato convenuto è accusato di essere coinvolto in operazioni militari transfrontaliere, finalizzate a perseguire ed eliminare presunti terroristi. La Corte Europea ha ammesso che, in conseguenza di una simile azione, si deve ritenere che lo Stato abbia esercitato, temporaneamente, il generale ed effet- tivo controllo di una particolare porzione di territorio nella quale stava conducendo un’operazione militare.

Infine, vorrei ricordare due casi che sono direttamente correlati alla pratica della “consegna per motivi di giustizia”. Il primo caso è quello Öcalan c. Tur- chia46. Il leader del PKK fu sequestrato a Nairobi, in Kenya, dai servizi segreti turchi. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo decise che Öcalan era soggetto alla giurisdizione della Turchia dal momento che a Nairobi era stato fisicamente trasferito dalla polizia kenyana sotto il controllo degli ufficiali turchi. In quel caso, è stato ritenuto sufficiente che la vittima fosse stata fisicamente consegnata alla custodia e al controllo delle autorità turche, senza il bisogno di dimostrare il controllo su una determinata area geografica. Il secondo caso riguarda la deten- zione in Iraq di Al-Saadoon eMufdhi. Entrambi furono detenuti nella “Divisional Temporary Detention Facility” (sezione di detenzione temporanea all’interno del carcere) per mesi, prima dagli Stati Uniti, poi dai militari britannici e in seguito furono consegnati al tribunale iracheno per essere processati. Nella decisione sull’ammissibilità, la Corte ha ritenuto che alcuni detenuti incarcerati in una pri- gione inglese sul territorio iracheno, erano comunque soggetti alla giurisdizione del Regno Unito, dal momento che si trovavano sotto il loro totale ed esclusi- vo controllo di fatto e di conseguenza anche di diritto, esercitato dalle autorità

44 CEDU, Stocké c. Germania, Decisione del 12 ottobre 1989 parag. 166.

45 CEDU, Issa e altri c. Turchia, Decisione del 16 novembre 2004, parag. 71.

46 CEDU, Öcalan c. Turchia, Decisione del 12 maggio 2005.

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britanniche47. Nella sua sentenza finale, la Corte è abbastanza chiara:

“128. È stato ammesso che una Parte Contraente è responsabile ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione per tutte le azioni ed omissioni dei suoi organi a prescindere che tali condotte siano una conseguenza di una legge nazionale o di un obbligo di conformarsi al diritto internazionale. L’articolo 1 non fa distinzioni in base al tipo di regola che viene in rilievo e non esclude che la giurisdizione di uno Stato contraente possa essere sottoposta al controllo del rispetto della Convenzione. Le forze armate dello Stato convenuto, essendo entrate in Iraq, hanno posto in essere una condotta attiva per portare sotto la giurisdizione del Regno Unito i due ricorrenti, arrestandoli e trattenendoli in una prigione gestita dal governo inglese (cfr. Al-Saadoon and Mufdhi c. Regno Unito, dec. n. 61498/08, §§ 84-89, 30 giugno 2009). In queste circostanze, la Corte considera che lo Stato convenuto era vin- colato dall’obbligo di primaria importanza di assicurare che l’arresto e la detenzione non comportavano la violazione dei diritti dei ricorrenti sanciti dagli articolo 2 e 3 della Con- venzione e dall’articolo 1 del Protocollo n. 13»48.

Possiamo concludere, dunque, che la Corte utilizza principalmente la dottrina del controllo territoriale, ammettendo però, in alcuni casi eccezionali, l’applicazio- ne extra-territoriale. In ogni caso, rimane difficile per la Corte definire quali atti e quali effetti sono necessari affinché sussista la giurisdizione di uno Stato, come ad esempio nel caso di un’occupazione o di un’azione militare extra-territoriale o antiterroristica, o nel caso di giurisdizione derivante da eventuali obblighi positivi.

Nel caso di custodia e detenzione, la situazione è più lineare, dato che la Corte ammette in realtà la dottrina del controllo personale, grazie alla quale lo Stato “ha la piena libertà di rispettare (o violare) i diritti di coloro che trattiene in stato di detenzione”49.

4.2. Detenzione di sicurezza ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani?

Il secondo argomento che merita di essere approfondito riguarda la questione se e fino a che punto il diritto internazionale dei diritti umani ammetta una specifica categoria di “custodia di sicurezza”, specialmente nel campo della lotta al terrori- smo. Come regola generale possiamo dire che il diritto internazionale dei diritti umani ammette la detenzione di sicurezza in alcuni limitati casi e, anche quando la autorizza, la subordina a varie condizioni, perfino in periodo di guerra o in stato di emergenza.

47 CEDU Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, ricorso n. 61498/08, decisione sull’ammis- sibilità, del 30 giugno 2009.

48 CEDU, Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, 2 marzo 2010.

49 M. sattErthwaitE, Rendered Meaningless: Extraordinary Rendition and the Rule of Law, in The George Washington Law Review, 75, 1333, p. 1372.

(22)

4.2.1. La Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici/Il Comitato per i diritti umani

La detenzione di sicurezza non è di per sé una violazione della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, sebbene i criteri che ne regolano l’ap- plicazione e la procedura siano molto rigidi. Già nel 1982, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva scritto nel suo commento generale n. 8 all’art. 9 della CIDCP, che riguarda il diritto alla libertà e alla sicurezza delle persone, che l’articolo 9(1) si applica a tutte le privazioni della libertà, sia in materia penale che non. In particolare, l’importante garanzia stabilita dal paragrafo 4 e cioè il diritto che un tribunale controlli la legittimità della detenzione, si applica a tutti coloro che sono stati privati della libertà personale mediante arresto o reclusione. Inoltre, gli Stati membri, ai sensi dell’art. 2(3), hanno l’obbligo anche di assicurare mezzi di ricorso nei casi in cui un individuo lamenti di essere stato privato della sua liber- tà in violazione della Convenzione. Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite menziona esplicitamente al paragrafo 4 del suo commento sulla detenzione preventiva che:

“4. Anche se la detenzione c.d. preventiva è utilizzata per ragioni di sicurezza pubblica, deve essere soggetta alle stesse regole, e cioè non deve essere arbitraria, deve fondarsi su motivazioni e procedure stabilite dalla legge (parag. 1), devono essere fornite all’interessato informazioni sulle motivazioni (parag. 2) e deve essere garantito un mezzo di ricorso così come un adeguato indennizzo in caso di violazione (parag. 5)”50.

In ogni caso, non è chiaro qual è il quantum di prova richiesto per applicare la detenzione di sicurezza e se questo quantum rimane uguale per la detenzione breve, quella di media e quella di lunga durata.

È importante sottolineare che questi obblighi si applicano anche alla detenzione extraterritoriale di persone sotto l’effettiva custodia e controllo dello Stato:

“Mentre l’articolo 2 si esprime in termini di obbligo per gli Stati membri verso gli individui titolari dei diritti stabiliti dalla Convenzione, ogni Stato Parte ha un interesse giuridico a che ogni altro Stato rispetti i propri obblighi. Ciò deriva dal fatto che ‘le regole che riguardano i diritti fondamentali degli essere umani’ sono obbligazioni erga omnes”51.

La Convenzione si applica anche in quelle situazioni di conflitto armato nelle

50 Comitato per i Diritti Umani, osservazione generale n. 8, articolo 9 (sessione 16esima, 1982), Raccolta di osservazioni generali e raccomandazioni generali adotatte dalle commissioni inca- ricate di monitorare l’implementazione dei principali trattati sui diritti umani (Human Rights Treaty Bodies), U.N. Doc. HRI/GEN/1/Rev.1, 8 (1994).

51 Comitato per i Diritti Umani, osservazione generale n. 31, Nature of the General Legal Obligation on States Parties to the Covenant, U.N. Doc. CCPR/C/21/Rev.1/Add.13 (2004).

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