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il filo rosso Il gigantismo dell io Stabat nuda Aestas*

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Academic year: 2022

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M d L

Il gigantismo dell’“io”

Alcyone

Stabat nuda Aestas*

Primamente intravidi il suo piè stretto scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l’aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa.

5 Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la rèsina gemette giù pe’ fusti.

Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.

10 Scorsi l’ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell’argento palladio trasvolare senza suono. Più lungi, nella stoppia, l’allodola balzò dal solco raso,

15 la chiamò, la chiamò per nome in cielo.

Allora anch’io per nome la chiamai.

* Stabat... Aestas: l’espressione deriva da Ovidio, Metamorfosi, II, 28: «stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat» (‘stava nu- da l’estate e portava ghirlande di spighe’).

1. Primamente: ‘Dapprima’. – piè stretto: ‘piede sottile’.

2. scorrere... pini: ‘correre con leggerezza sopra gli aghi di pino bruciati dal sole, secchi’.

3-4. ove... effusa: ‘dove l’aria (aere, latinismo) ardeva (estuava, latinismo) tanto che pareva tremare (con grande tremito), come se fosse una fiamma (vampa) bianca che si diffondeva tutt’in- torno (effusa)’.

5. si tacquero: ‘tacquero’; il verbo “tacere” usato come se fos- se un riflessivo è una forma arcaica. – rochi: ‘fiochi, dal suono debole’.

6-7. Copiosa... fusti: ‘La resina stillò (gemette) abbondante (copio-

sa) lungo i tronchi (giù pe’ fusti) degli alberi’.

8. colùbro: ‘serpente’, latinismo. – sentore: ‘odore’.

10. Scorsi... rami: ‘Riuscii a vedere le ombre azzurrine (cerulee, latinismo) dei rami’.

11. falcata: ‘arcuata’, a forma di falce. – capei fulvi: ‘capelli bion- di tendenti al rosso’.

12. nell’argento... trasvolare: ‘passare rapidamente (trasvolare, latinismo) tra le fronde argentee degli ulivi, sacri ad Atena (o Pal- lade, da cui l’aggettivo)’.

13. lungi: ‘lontano’. – stoppia: le stoppie rimaste dopo la falcia- tura.

14. solco raso: ‘campo falciato’.

15. in cielo: ‘volando in cielo’.

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285 entrò, che richiudeasi strepitoso.

20 Più lungi, verso il lido, tra la paglia marina il piede le si torse in fallo.

Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.

Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.

Immensa apparve, immensa nudità.

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17. leandri: ‘oleandri’.

18. bronzea: ‘del colore del bronzo’. – falasco: tipo di erba a fo- glie lunghe e forti che, quando è secca, assume tonalità bronzee.

19. strepitoso: ‘facendo rumore’, il rumore dell’erba secca e dura.

20-21. paglia marina: piante di posidonia essiccate, dette im- propriamente ‘alghe’.

21. il piede... in fallo: ‘il piede compì un movimento errato, le si impigliò’, facendola inciampare.

23. Il ponente... capegli: ‘Il vento di ponente, sollevando le on- de, provocò la schiuma che bagnò i suoi capelli’; siamo su una spiaggia della Versilia, che è esposta a ponente, quindi il vento di ponente è la brezza di mare.

I

l poeta ha intravisto una donna, dal piede picco- lo, dalla schiena falcata e dai capelli fulvi, corre- re leggera sugli aghi della pineta nel caldo della piena estate: la insegue e nell’uliveto la raggiunge.

Ella fugge sfiorando le stoppie. L’inseguitore la chiama, ma la fuggitiva si immerge tra gli oleandri, attraversa i giunchi palustri, arriva alla spiaggia dove inciampa, cade, e si mostra nella sua nudità.

Che il poeta, poi, la faccia sua il testo non lo dice, ma lo lascia credere. Una caccia, dunque, una cac- cia amorosa. Ma è una caccia ben strana: la donna fuggente ha il potere, con la sua sola presenza, di imporre un silenzio totale alla natura, di fare am- mutolire le cicale, di rendere fioco il murmure dei ruscelli e, in tanto silenzio, di rendere percettibile il fluire della resina nei tronchi. Ha il potere di esaltare gli odori, come quello del serpente. Anche la natura è simpatetica, partecipa delle stesse emo- zioni del poeta: anch’essa cerca di fermare la don- na; persino una allodola levatasi in volo la chiama per nome. Infine, caduta, la donna si rivela im- mensa, come se il suo corpo nudo ricoprisse tutto il paesaggio circostante. Questa donna è sopran- naturale, è una dea: è l’Estate divinizzata.

La caccia amorosa ha una lunga tradizione let- teraria alle spalle. Non per caso queste tre strofe sono impregnate di letteratura più di quanto i ca- pelli della donna caduta si imbevano di acqua di

mare. È possibile citare almeno due precedenti:

uno moderno e uno antico. Il moderno è il poema in prosa Alba (Aube) di Arthur Rimbaud [MdL Arthur Rimbaud, T7]: l’io ridesta la vita e la luce in un’alba estiva, fino a svegliare la dea, l’alba, che fugge mentre lui la insegue. Alla fine l’io riesce a raggiungerla, a toccarla, a sentire «qualcosa del- l’immenso suo corpo». L’antico è la trasformazio- ne di Dafne in lauro come viene raccontata da Ovi- dio nel primo libro delle Metamorfosi: Apollo in- segue la ninfa Dafne per farla sua, ma quando sta per afferrarla, la ninfa invoca l’aiuto del padre Pe- neo e viene trasformata in una pianta di alloro.

Questo mito, reso famigliare alla poesia italiana dalla interpretazione che ne aveva dato Petrarca nella vicenda del suo infelice amore per Laura, af- fascina d’Annunzio, anche per i giochi virtuosisti- ci che esso consente. In Alcyone lo ripropone un’altra volta, in forme petrarchesche, nel compo- nimento L’oleandro. Sulla nostra poesia l’impron- ta ovidiana è manifesta fin dal titolo, che cita un verso del secondo libro delle Metamorfosi, ed è confermata da un fitto intarsio di riprese e allusio- ni che, oltre a Ovidio, coinvolgono anche Virgilio e Properzio. Come quella di Pascoli, anche la poe- sia di d’Annunzio ha come referente naturale la grande tradizione classica. Se dunque il racconto ovidiano soggiace a quello dannunziano, vale la

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L’inutile inseguimento di Apollo nel mito latino si presenta come frustrazione amorosa, impossibi- lità di realizzare il desiderio; la seconda parte del racconto, però, quella in cui il dio forma una co- rona con le fronde del lauro in cui la ninfa si è tra- sformata e la consacra come insegna dei poeti, si presenta come risarcimento sotto forma di dono poetico. Insomma, il mito designa la poesia come canto della mancanza e come frutto della sublima- zione del desiderio. Ora, sublimazione sembra proprio un concetto sconosciuto a d’Annunzio.

L’estate fugge, ma alla fine viene raggiunta. È vero che essa sembra dissolversi nella natura di cui non è che una personificazione, ma è tutta la natura nella sua immensità che diventa oggetto di posses- so dell’io narrante. La poesia non risarcisce di una perdita e di una mancanza, ma celebra orgogliosa- mente un trionfo. In altre parole, non la pena, il trauma, il male di vivere, ma la pienezza del vive- re e il possesso del reale sono i suoi nutrienti.

Nel mito ovidiano Apollo è un dio, ma Dafne è una ninfa, appartiene anch’essa a un mondo supe- riore. Insomma, tra i due non c’è disparità di sta- tus. Benché dio, Apollo non riesce però a farla sua.

Il personaggio della poesia dannunziana, che sem- brerebbe coincidere con il poeta stesso, è invece semplicemente un uomo, e tuttavia vince, e pos- siede una creatura divina. Già in Rimbaud era ve- nuto meno il sentimento dello scacco amoroso, ma, intanto, il suo testo non parlava di possesso (l’io, una volta afferrata l’alba fuggente, si limitava a circondarla dei suoi stessi veli e nel fare ciò «sen- tiva qualcosa dell’immenso suo corpo») e, poi, quell’io aveva uno statuto ambiguo, tra l’adulto e l’infantile. Nel testo di Rimbaud i tratti dell’alluci- nazione adulta assomigliavano non poco al sogno di onnipotenza di un bambino, al punto che, do- po essere stato raccontato sempre in prima perso- na, alla fine il poema passa alla terza e così svela al- meno un aspetto dell’identità dell’io: «ho sentito qualcosa dell’immenso suo corpo. L’alba e il fan- ciullo caddero ai confini del bosco». Nella poesia di d’Annunzio ogni ambiguità è bandita: il suo io

divino, un essere immenso come immensa è la na- tura in cui si identifica, è molto più di un uomo, è lui pure divinizzato, è un superuomo che si eleva sulle masse e, contro le convenzioni sociali, affer- ma i suoi diritti di essere superiore. Quale poeta borghese avrebbe mai osato affermare di essersi congiunto con l’Estate?

Anche d’Annunzio, come Pascoli, aveva il pro- blema di definire il suo ruolo di poeta: le sue ri- sposte, però, sono diametralmente opposte a quel- le di Pascoli. Invece di tenersi da parte, di farsi pic- colo, di lasciarsi imbevere dalle impressioni del mondo per registrarle nella poesia, lui si colloca al centro, dilata il suo io e ricostruisce il mondo at- traverso la poesia. Sulla vita come sulla pagina scritta impone il sigillo di un io elitario, di una per- sonalità eccezionale, al di fuori degli schemi, in- carnando l’ultimo mito ottocentesco del poeta-va- te, detentore della parola che svela la verità. Nel testo poetico, o meglio, nelle prove più alte, come sono quelle di Alcyone, l’ipertrofia dell’io può di- latarsi al punto da decretarne l’annullamento, e al- lora abbiamo il d’Annunzio migliore, quello che spinge il suo esibizionismo individualistico fino al- l’estrema oggettività del discorso: una oggettività che nasce, paradossalmente, da un eccesso di sog- gettivismo. Sono i momenti nei quali, come in Sta- bat nuda Aestas, l’io dimentica sé stesso, o meglio, annulla la sua identità per identificarsi totalmente, attraverso un’esperienza panica (di fusione con il tutto) che ha i caratteri dell’estasi smemorizzante, con la natura. Anche se dobbiamo immaginare che il possesso fisico dell’Estate, e quindi la fusione to- tale, avvenga fuori del testo, nel “non detto” che pure lo continua, nella realtà testuale l’immedesi- mazione tra elementi naturali e sensibilità dell’io narrante è già in atto. L’accensione dei sensi che permette di sentire la vita scorrere nelle piante e di interpretare, in una comunione totale, i segni e i ri- chiami della natura è già fusione panica, possesso del mondo. Da parte del soggetto? Nella fabula, certo; ma nella realtà testuale questo soggetto si è già spogliato dei tratti individuali, già si è reso eva-

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287 gli sostanza. Parallelamente, anche la personifica-

zione dell’estate perde via via i tratti umani per dis- solversi, nell’ultimo verso, in una entità astratta priva di ogni denotazione individualizzante. L’am- plesso non è dunque tra due esseri finiti, ma tra due dimensioni infinite: la loro fusione segna la perdita dell’identità di entrambi. L’io è natura, e la natura è il corpo dell’io.

Questi momenti di estasi panica e smemorante sono spesso avvicinati da d’Annunzio all’esperien- za della Morte. Solo che non si tratta di momenti nei quali la vita si annulla, ma momenti nei quali la vita si arresta. La perdita della coscienza, a cui cor- risponde l’acquisizione di una sensibilità spinta ol- tre i limiti corporei, non è vissuta come esperienza della fine e del nulla: ha poco a che fare, dunque, con la morte: semmai, è esaltazione della vita in sé, allo stato precosciente. A d’Annunzio mancava un vero sentimento mistico: le sue estasi e i suoi stati di annullamento sono credibili non in quanto fi- gure di morte, ma unicamente come dilatazione cosmica, metaforica, del piacere sessuale.

Come per Pascoli, anche per il d’Annunzio mi- gliore l’orizzonte ambientale è quello naturale. E come per Pascoli, anche la più alta poesia dannun- ziana non prevede la presenza dell’uomo e, tanto meno, dell’uomo associato. Entrambi i poeti non censurano la città, semplicemente l’ignorano.

Mentre Pascoli, però, si pone in ascolto della natu- ra, cercando perfino di riprodurne i suoni inartico- lati e le sfumature più intime e sfuggenti, d’Annun- zio dà alla natura la sua voce. A un atteggiamento mimetico (imitativo) e passivo subentra in lui la vo- lontà di creare, di rifare la natura, con una smania agonistica che per certi aspetti ricorda le perfor- mance di un poeta barocco come Marino. I perso- naggi umani possono entrare nel paesaggio, ma sot- to forma di entità mitologiche, sollevati in una sfe- ra astorica e atemporale, la sola nella quale l’uomo possa incontrarsi con una natura che assume an- ch’essa colorazioni mitiche. Molto spesso infatti, come nella nostra poesia, essa è umanizzata, si pre- sta a un dialogo, e non alla semplice auscultazione,

volta, si rivela fondamentale per un poeta tra Otto e Novecento. Non è residuo, ma linfa viva per una poesia che, rivestendo la realtà di un alone magico- mitologico, fa scaturire dall’artificio non l’imitazio- ne del naturale, ma una idea originale e inedita di natura. La modernità di d’Annunzio consiste nella sua convinzione dell’impossibilità di attingere il semplice e il naturale e nella coerente ricerca di un linguaggio poetico che, per via di letteratura, faccia nascere le cose, non rappresentabili nella loro nu- dità. Anche in questo la sua strada è opposta a quel- la pascoliana: al poeta che spinge la sua raffinatez- za sino a tentare di far dimenticare l’alone lettera- rio che pure circonda ogni sua parola, d’Annunzio contrappone un poeta che esalta la letterarietà. Se Pascoli cerca di non fare vedere lo sforzo, di appa- rire naturalmente poeta, d’Annunzio ti pone sem- pre davanti la materia letteraria come materia grez- za, rispetto alla quale si esalta l’abilità dell’artefice capace di fare sprizzare effetti di naturalità illusio- nistica dall’artificio.

In linea con tutta la sua figura complessiva, egli è dunque un poeta che attinge da altri poeti la sua materia prima. La sua voracità è grande e non con- sente graduatorie e selezioni: tutto il menu, antico e moderno, della poesia è imbandito alla sua tavo- la. Ovidio, Properzio, Virgilio, abbiamo detto, e in- sieme a loro il moderno Rimbaud. Ma potremmo aggiungere Dante e Petrarca e, nel momento cul- minante, proprio nell’ultimo verso, perfino Car- ducci porta il suo contributo: «ignea ne l’aria im- mota / l’estate immensa sta» (Davanti una cattedra- le). Per la verità, è tutto il lessico di Stabat nuda Ae- stas a presentarsi come lessico aulico, fortemente connotato di letterarietà: dall’aere che estuava,

«quasi bianca vampa effusa» (v. 4), alla resina che geme; dal sentore del colùbro (v. 8) all’«argento pal- ladio» (v. 12) degli ulivi; dal «solco raso» (v. 14) da cui si alza l’allodola alla «bronzea mèsse» (v. 18); dal falasco che si richiude strepitoso (v. 19) (con agget- tivo pascoliano) alla paglia marina. Per ogni parola potremmo trovare un precedente letterario. Anche i tecnicismi botanici, altra caratteristica che acco-

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piano di espressioni classicistiche e lontane dal lin- guaggio di comunicazione, del tipo: «estuava l’ae- re» (v. 3) o «argento palladio» (v. 12). In una tavo- lozza composta di colori sintetici come quella dan- nunziana, un colore naturale come le forme ono- matopeiche di Pascoli emetterebbe un bagliore stridente. Non è la natura in sé la preda di cui d’An- nunzio va a caccia, nemmeno per catturarne le se- grete simbologie o le impressioni più rare; lui mira a una esperienza sospesa fuori del tempo, tra uma- nità e mito, tra la stagione attuale e la sua trasposi- zione assoluta, e per questo obiettivo necessita di una lingua anch’essa fuori del tempo, sospesa fra tecnicismo e letterarietà. In definitiva, il centro del- la sua poesia resta l’io, espanso, dilatato, annullato in quanto soggetto del discorso, ma sempre vigile, presente, come se fosse un commediografo sulla scena, in quanto artefice del discorso. Non c’è vera frizione tra le due istanze di espansione e di fusio- ne del soggetto con la natura, se è vero che anche l’annullamento dell’io altro non è che un momento di supremo esibizionismo, la sua massima valoriz- zazione: il piccolo io cosciente si innalza nell’in-

spiro, troppo umane nel fondo per poter attingere veramente l’Assoluto.

Durante le estati fra il 1895 e il 1903 Pascoli sog- giorna stabilmente in Garfagnana, a Castelvec- chio, d’Annunzio trascorre periodi più o meno lunghi di vacanza in Versilia, tra Marina di Pisa e Marina di Pietrasanta: li separano solo le Apuane.

Da quei soggiorni nascono i Canti di Castelvecchio, con la loro realtà rurale, folklorica, paesana, e l’Alcyone, cioè il diario proiettato nel mito di una estate tra mare e monti. Entrambi i libri escono nel 1903 (quello di d’Annunzio con la data tipografi- ca del 1904); l’Alcyone, nel finale, rende omaggio a Pascoli. Il 1903 è la data che segna la fine della stagione ottocentesca della poesia italiana, il cul- mine della ricerca di forme espressive che saldas- sero la nostra tradizione con le istanze di moder- nità avanzate dal grande Simbolismo europeo. Al nuovo secolo Pascoli e d’Annunzio lasciano una ingombrante eredità, della quale sarà arduo libe- rarsi, ma consegnano anche un dono prezioso, un magistero tecnico, di metrica e di lingua poetica, che permeerà gran parte della poesia a venire.

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