I. UN TERRENO DIMENTICATO
I.1. Pavese fa tradurre Jung. La pubblicazione einaudiana de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna
La storia del pensiero junghiano in Italia è caratterizzata da tutta una serie di fraintendimenti e preconcetti: si può dire che le sue teorie siano state spesso accompagnate da molte incertezze e polemiche per cui, «pur riconoscendogli un lavoro “poderoso”, permaneva il dubbio se fosse soprattutto uno psichiatra, come egli esigeva di essere considerato, o anche un metafisico, un teologo, un mitologo, il prete di una nuova religione»15.
Il nome di Jung compare in Italia per la prima volta nel marzo del 1903, all’interno della rivista
«Luce e Ombra» specializzata nell’occultismo. Lo psichiatra svizzero viene citato nell’articolo intitolato Questioni ardenti, in cui veniva presentata la sua tesi di laurea Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti16.
Cinque anni più tardi, nel 1908, vengono pubblicati alcuni scritti da due importanti accademici dell’epoca, Luigi Baroncini e Carlo Modena. Il primo contributo, Il fondamento e il meccanismo della psicoanalisi, ad opera di Baroncini, appare nel terzo numero della «Rivista di Psicologia Applicata». Nell’articolo l’autore esalta gli studi ad opera di Jung sulla dementia praecox, pubblicati poco prima in Svizzera, sottolineandone l’importante eco che aveva avuto a livello europeo e preannunciando un articolo originale sullo studioso svizzero per il numero seguente17. Dopo questo slancio iniziale, per i successivi trent’anni non furono più proposte traduzioni in italiano di scritti di Jung né la sua opera fu approfondita in forma di monografia.
Si può pensare che la mancanza iniziale di gruppi organizzati che sapessero divulgare al momento opportuno la psicologia analitica abbia in qualche modo ritardato la penetrazione del suo pensiero in Italia. Ma, più in generale, lascia perplessi osservare come sia Baroncini che Modena, pur avendone apparentemente compreso l’importanza in quanto primi esponenti principali della disciplina psicologica, smettano improvvisamente di approfondire i loro studi e non citino più Jung, accostando il suo nome, spesso erroneamente, a quello di Sigmund Freud.
Emerge a questo punto un tema che segnerà fin da subito la storia del pensiero junghiano nel nostro paese: una grande confusione tra le figure di Freud e Jung.
15 A. CAROTENUTO, op. cit., p. 160.
16 Ivi, p. 11.
17 Ivi, p. 14.
Per quasi trent’anni il nome di Jung comparirà nella pubblicistica italiana o sotto forma di recensione o come accompagnatore del nome molto più prestigioso di Freud. E, d’altra parte, anche l’introduzione di Freud avvenne in Italia in un modo più prudente che altrove, nonostante l’indirizzo del primo gruppo di psicoanalisti italiani fosse unicamente freudiano: Edoardo Weiss è stato il primo vero psicoanalista appartenente all’«Associazione Psicoanalitica Internazionale» dal 1913 ed è considerato il padre della psicoanalisi in Italia, poiché attorno a lui si riunirono Emilio Servadio, Nicola Perrotti e Cesare Musatti, i quali formarono tutti gli altri psicoanalisti italiani.
Questo debole gruppo di psicologi era esclusivamente di indirizzo freduiano: e così il nome di Jung, a parte gli accenni nelle opere di divulgazione, non fu conosciuto in Italia prima del 1942, nonostante la sua introduzione ben prima del 1914 e la presenza a Roma, fin dal 1935, di Ernst Bernhard, noto psicoanalista junghiano18.
In realtà già nel 1936 era uscito a cura di Mario Gabrieli per «Laterza» il libro Il mistero del fiore d’oro di Jung e Wilhelm, un religioso protestante che aveva vissuto per molti anni in Cina.
Questo è un libro importante in cui Jung riprende i temi del concetto d’«Individuazione» cui aveva accennato ne L’io e l’inconscio del 1928, ma il lettore italiano si trova schiacciato da certe formulazioni junghiane senza aver mai avuto una preparazione precedente, considerato che l’unica traduzione italiana di un lavoro di Jung era di fatto quella risalente al 1908 in riferimento alla dementia praecox, e trattava di argomenti completamente distanti da quello che Laterza proponeva nel 1936.
Concetti come quelli di «Anima», «Animus», «Individuazione», vengono il più delle volte travisati da molti autori che si lanciano in diatribe contro le posizioni di Jung: sulla «Rivista di Psicologia» Fabio Luzzatto scrisse che «portando l’influsso delle idee religiose degli antichi sulla nostra ideazione nei sogni, la scuola di Jung non soltanto rende omaggio al più scientifico spiritualismo, come fa, parlando dell’anima e della sua attività illuminata nel campo dell’inconscio, ma torna al vecchio screditato pregiudizio delle idee innate»19.
Qui il recensore scambia probabilmente il termine Anima junghiano con l’analogo termine di senso cristiano: questo è, secondo Carotenuto, uno dei tanti episodi sintomatici della superficialità che ha contraddistinto i critici della psicologia analitica e, più in generale, di tutta la psicoanalisi20.
Bisogna attendere il 1942 per l’ingresso ufficiale di Jung in Italia, attraverso la pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna per la Casa editrice Einaudi.
Lo psichiatra Giovanni Bollea, considerato il padre della neuropsichiatria infantile italiana e amico di Mario Alicata, nell’ottobre del 1940 aveva proposto una raccolta di scritti di Jung alla
18 Cfr. M. DAVID, op. cit., p. 216.
19 A. CAROTENUTO, op. cit., pp. 62-63.
20 Ibidem.
Casa editrice e fu proprio Cesare Pavese, a partire dal 1941, a sollecitarne fortemente la pubblicazione21.
Dal 1938 Pavese è una presenza autorevole e decisiva all’interno della Casa editrice: lo scrittore è di fatto redattore con una progressiva centralità delle resposabilità e competenze intellettuali, professionali e tecniche. Nel 1942 è consulente editoriale e proprio in quello stesso anno verrà assunto con un «contratto di Impiego di concetto di Ia categoria»22 per un compenso di L. 1000 nette al mese e con l’impegno di non assumere lavori continuativi con altre case editrici.
Dietro alla prima pubblicazione di Jung in Italia c’è quindi una trama che lega insieme i nomi di Bollea, Alicata, Pavese, e che riconduce al «cervello collettivo»23 dell’ambiente culturale einaudiano: Cesare Pavese e Mario Alicata fanno già parte del gruppo dei “senatori” dal 1941, composto inoltre da Giulio Einaudi, Leone Ginzburg, Giaime Pintor e Carlo Muscetta.
Questo “direttorio”, fondamentale per l’elaborazione della politica editoriale della Casa, ha intensi rapporti con tutti i collaboratori, dai redattori ai consulenti: accanto a Giovanni Bollea troviamo personaggi della cultura italiana come Felice Balbo, Norberto Bobbio, Italo Calvino, Bruno Fonzi, Natalia Ginzburg, Antonio Giolitti, Ubaldo Scassellati, Paolo Serini, Elio Vittorini, Massimo Mila.
La figura editoriale di Pavese all’interno dell’Einaudi è davvero eccezionale: egli segue l’intero iter del testo e del prodotto-libro, con una scrupolosa attenzione alla qualità.
Il libro che lo scrittore fece pubblicare nel 1942, e ristampato l’anno successivo, era una raccolta di saggi compresi tra il 1920 e il 1930 che formavano il III volume della Psychologische Abhandlungen.
Pubblicato dalla Rascher di Zurigo nel 1932 con il titolo di Seelenprobleme der Gegenwart, in italiano uscì con il titolo Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, tradotto da Arrigo Vita e Giovanni Bollea i quali, oltretutto, preferirono rimanere nell’anonimato.
Attraverso la forma piana e particolarmente chiara di questa traduzione, il lettore è in grado di assistere allo sviluppo delle idee del medico svizzero.
Secondo Carotenuto, «l’Italia si è effettivamente accorta di Jung proprio dopo la pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna»24 e in qualche modo questa pubblicazione anticiperà le due ondate successive delle traduzioni di Jung: la prima che va dal 1946 al 1951, la seconda che è iniziata nel 1960 ed è dovuta soprattutto alle edizioni Boringhieri.
La scelta dell’Einaudi di tradurre Jung s’inscrive totalmente in quella politica culturale di
“identità einaudiana” che si andava formando nei primissimi anni Quaranta.
21 Cfr. C.PAVESE, Officina Einaudi. Lettere Editoriali 1940-1950, S. Savioli(a cura di), Einaudi, Torino 2008, p. 324.
22 IDEM, Lettere 1924-1944, L. Mondo(a cura di), Einaudi, Torino 1966, p. 537.
23 G.C. FERRETTI, L’editore Cesare Pavese, Einaudi, Torino 2017, p. 14.
24 A. CAROTENUTO, op. cit., p. 57.
Sono anni tragici e difficili, l’ Italia è in pieno clima di guerra e i bombardamenti aerei del 1942-43 segneranno il punto di non ritorno, l’anno in cui il paese si preparerà definitivamente ad essere distrutto: con l’armistizio dell’ 8 settembre 1943 l’Italia sprofonda definitivamente nel baratro della guerra civile.
Anche dal punto di vista culturale è un periodo travagliato e l’ Einaudi si trova al culmine di una situazione soffocante che si protrae ormai da lungo tempo.
A partire dagli anni Trenta, infatti, la storia della Casa è segnata dalla repressione del regime fascista e da una lunga serie di carcerazioni, arresti, condanne al confino, censure e autocensure.
Giulio Einaudi si trova quindi costretto a fare i conti con i condizionamenti, le autorizzazioni e i divieti del regime, il quale, soprattutto attraverso l’opera di Giuseppe Bottai ministro dell’Educazione Nazionale, si fa promotore di una manovra che agiva nella direzione di un recupero degli intellettuali, partendo dal riconoscimento della “cultura-laboratorio” e dalla necessità, a livello politico, di filtrarne i risultati attraverso l’organizzazione fascista della cultura, la cosiddetta
“cultura-azione”. Il regime, cioé, doveva servirsi degli intellettuali opportunamente irregimentati nelle strutture della “cultura-azione”.
E spesso anche Pavese si troverà a subire la censura preventiva fascista come quando, elencando i numerosi interventi sul testo tradotto di Un mucchio di quattrini, scrive: «Ho seguito scrupolosamente i consigli del ministero»25.
Nonostante le mediazioni e la pragmatica diplomazia di Giulio Einaudi, la Casa seguirà comunque una politica di anticonformismo diffuso e di non allineamento, come testimoniato dalla nascita e articolazione di varie collane, a partire dalla fine degli anni Trenta, che punta a conquistare nuovi spazi di lettura attraverso opere di alta qualità, seguendo il preciso obiettivo di rivolgersi a un pubblico più ampio di quello degli uomini di cultura.
Un indirizzo che sarà uno dei tratti principali e più specifici della produzione einaudiana, come sottolinea Gian Carlo Ferretti: «un antiaccademismo che non è corrività, un rigore che non è specialismo, una ricerca della novità che significa anche rinnovamento della tradizione, una produzione generalista ma ben diversificata, e una qualità elegante e insieme funzionale del prodotto»26.
Le collane varate tra il 1937 e il 1942 si muovono decisamente nella direzione dell’identità einaudiana e il ruolo di Pavese assume un significato centrale in questo processo, se si pensa che già dal 1939 egli parla in prima persona ai collaboratori in nome della Casa editrice, con un
25 C. PAVESE, Lettere 1924-1944, cit., p. 527.
26G.C. FERRETTI, op. cit., p. 73.
atteggiamento preoccupato e determinato soprattutto a «orientare meglio il lettore nel suo approccio al testo»27.
La pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna rientra dunque in un processo di elaborazione della cultura che coglie alcune costanti di fondo tipicamente einaudiane e comincia proprio in quello scorcio di tempo a tracciare le direttive culturali che indicheranno la via al periodo post bellico.
La traduzione di Jung esce per la collana «I Saggi», ideata da Balbo, che si presenta come «una collezione che attinge, con poche limitazioni, ai più diversi campi, dalla critica letteraria alla storiografia, dalla filosofia alla memorialistica, dalla scienza alla critica d’arte, dalla psicologia a vere e proprie opere letterarie»28.
Al di là del notevole ritardo culturale italiano nei confronti di Jung, è interessante notare il fatto che la prima vera affermazione in Italia dello psicoanalista abbia trovato terreno fertile attraverso la volontà di un poeta e di una casa editrice come l’Einaudi, all’interno di una collana, sottolinea Luisa Mangoni, nella quale «non compaiono raccolte di scritti di consuetudine accademico-universitaria, ma opere unitarie e originali»29: dalle varie collane einaudiane emerge una molteplicità di generi, autori, testi interagenti tra loro che spaziano nella non settorialità e una selettività nelle scelte sempre all’interno di una impostazione preoccupata delle esigenze del lettore.
Esistono, in effetti, degli ostacoli che la cultura italiana presentava alla diffusione della psicoanalisi in generale: negli ambienti politici, religiosi, scientifici, universitari e medici la penetrazione fu estremamente ridotta e, inoltre, la debolezza della scuola psicoanalitica italiana non contribuì ad arginare uno scetticismo diffuso. La psicoanalisi si presentava allo psichiatra o al neurologo come una vera rivoluzione, un totale cambiamento dei metodi, dell’atteggiamento mentale, dei postulati scientifici30.
Secondo Luciano Mecacci, inoltre, «la peculiarità della storia psicologica italiana è forse quella di essere interessante non tanto per gli specifici contributi tecnici, quanto per i modi in cui le forze di opposizione hanno reagito allo sviluppo della disciplina e l’hanno osteggiata»31.
Michel David, tentando un succinto bilancio della storia della psicoanalisi in Italia, divide due periodi ben distinti: uno è quello della prima volgarizzazione ad alto livello, che va dal 1908 al 1915; l’altro, che si estende dalla prima guerra mondiale fino alla seconda, rappresenta una presa di
27C. PAVESE, Lettere 1924-1944, cit., p. 536.
28 G.C. FERRETTI, op. cit., p. 79.
29 L. MANGONI, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 36-38.
30 Cfr. M.DAVID, op. cit.
31L. MECACCI, Psicologia e psicoanalisi nella cultura italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 2: «La storia della psicologia italiana nel Novecento si sia trovata schiacciata soprattutto da tre forze culturali e ideologiche
eccezionali: l’idealismo e il fascismo, il cattolicesimo e la Chiesa, il marxismo e il Partito Comunista Italiano».
posizione netta, polemica, tra oppositori e fautori, con un momento particolarmente positivo per il freudismo, intorno al 1930-34, e un rapido decadimento fino al silenzio32.
Negli ambienti scientifici il mancato interesse della psicoanalisi deriva da problemi connessi alle differenze di specializzazione universitaria e professionale: i vari Baroncini, Modena, Assagioli, De Sanctis, Levi-Bianchini, pionieri della psicoanalisi e primi esponenti del freudismo italiano prima del 1915, erano tutti medici con interessi psicologici particolari e i loro articoli di pura divulgazione freudiana uscirono su riviste principalmente non mediche, e cioè di psicologia.
Si può affermare che gli psichiatri italiani furono, a eccezione di Levi-Bianchini, compatti nell’ostilità preconcetta a Freud: la loro diffidenza nasceva dal fatto che egli «aveva trascurato eccessivamente la base genetica e somatica delle malattie mentali per sostituirvi unicamente lo studio degli elementi psicogenetici»33.
Se in un arco di tempo che va dal 1930 al 1936 gli ambienti scientifici sembrano aver fatto la loro scelta preferendo il silenzio, come ricorderà Musatti, indicando che «vi fu allora un certo interesse per la nuova psicologia del profondo, una simpatia da parte di alcuni isolati studiosi, qualche polemica con altri ambienti, ma l’influenza fu pressoché nulla fra i medici e gli psichiatri»34, e se l’interesse si era spostato quindi dagli ambienti scientifici a quelli della cultura meno specializzata, dove «le polemiche si fanno con i romanzieri e i filosofi, si parla di psicoanalisi soprattutto nei salotti romani»35, gli attacchi antisemiti, iniziati nel 1937, rappresentano il discrimine, la netta separazione e l’inizio di quel periodo del silenzio progressivo, dell’esilio e della clandestinità, che terminerà solo a guerra conclusa. Otto anni in cui quasi solo la pubblicistica cattolica continuerà a interessarsi polemicamente di psicoanalisi.
Il ritardo e la debole espansione della scienza psicologica in Italia non hanno favorito l’interesse degli intellettuali alle ricerche e alle scoperte di questa disciplina. Si può dire che non vi è stata, ad esempio, simbiosi e scambio tra la scienza e la letteratura in questo settore, se è vero che, riportando le parole di Cesare De Lollis, vi sono nella cultura italiana delle tendenze antipsicologiche come la
«persistenza di forti tradizioni retoriche. L’onirismo, l’arte visionaria teorizzata da Jung, suscitano scandalo e diffidenza malgrado l’esempio di Dante; l’autobiografismo confessato non è mai stato praticato con la furia che altre letterature vi hanno portato»36.
La pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna nel 1942 si pone come un momento fondamentale poiché sembra in qualche modo stimolare un certo risveglio all’interno degli ambienti culturali.
32 Cfr. M. DAVID, op. cit., p. 143.
33 Ivi, p. 165.
34 C.L. MUSATTI, Presentazione, «Rivista italiana di Psicoanalisi», vol. I, n. 1, 3-10, 1955.
35 M. DAVID, op. cit., p. 217.
36 C. DE LOLLIS, Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, Laterza, Bari 1929, p. 274.
Per fare un esempio, il giovane Remo Cantoni, con il quale Pavese si troverà a condividere negli anni del dopoguerra argomenti comuni riguardo al tema del mito, aveva pubblicato nel 1941 con Garzanti la sua tesi di laurea Il pensiero dei primitivi. La prima edizione di questo libro non contiene alcun riferimento a Jung, mentre la seconda edizione porta numerose pagine dedicate allo psichiatra di Zurigo: secondo Carotenuto, Cantoni ha sentito il bisogno di introdurre le idee del medico svizzero nel suo lavoro dopo averlo conosciuto; ed è significativo, per l’importanza di Jung nella cultura italiana attraverso la pubblicazione einaudiana, che la prima edizione del 1941 non ne faccia alcun riferimento37.
Nel 1943 escono i primi lavori critici sulla psicologia junghiana che prendono spunto proprio dalla pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna: sulla rivista «La Ruota» viene pubblicato un articolo dedicato al rapporto tra arte e psicologia analitica in cui i paralleli con Vico sono suggestivi. L’autore dello scritto, Oreste Macrì, afferma che «il descrittivismo in Jung è una difesa, un segno di discrezione, non un proposito scientifico: la soluzione non conta, conta penetrare in questa coscienza moderna che si è arricchita di tanti modi fantastici, mentali, religiosi, pratici, dell’irrazionale, del senso, della magia [...]»38.
Inoltre, un lunghissimo articolo di ventisei pagine firmato dal filosofo Paolo Filiasi Carcano sembra afferrare la posizione scettica di Jung contro le comode soluzioni nel campo della psicologia, cercando di convogliare al lettore il senso di provvisorietà tipico della ricerca junghiana: «il volume dello Jung – scrive Filiasi Carcano – non si rivolge a lettori impazienti, ma bensì di preferenza a lettori che sappiano vivere con serietà la nostra epoca senza pretendere ad ogni costo risposte e rimedi ai mali che ci travagliano»39.
Anche Roberto Sassone scrisse:
Jung mostrava un uomo a più dimensioni collegato a tutta l’umanità da fili invisibili, dava ruoli attivi e positivi alle forze inconsce, all’irrazionale, riesumando quell’atmosfera di mito, quel senso di spazi sconfinati che tanto ripugna alla scienza accademica la quale con la sua ansia del dato riproducibile a volontà, finisce a volte col non vedere oltre il suo naso40.
37 A.CAROTENUTO, op. cit., pp. 56-57
38 O. MACRÌ, L’arte nella psicologia di C.G. Jung con un riguardo a Vico, «La Ruota», 4, n. 3, p. 111.
39 P.F. CARCANO, Il problema psichico dell’uomo moderno, «Archivio di filosofia», 13, n. 3-4, pp. 244-269.
40 R. M. SASSONE,L’insegnamento di Jung per combattere il pericolo di perdita dell’individualità, «Il Mattino», 20 giugno 1976.
La figura e il pensiero di Jung fuoriescono dall’ambito medico terapeutico «per penetrare profondamente nell’ambito della storia, interessando l’etnologia, la mitologia, la storia delle religioni, le concezioni artistiche»41.
I giudizi sul suo contributo non sono facili e la sua opera presenta molteplici sfacettature, talvolta sfuggenti e apparentemente contradditorie.
Egli è senza dubbio fra gli studiosi che più hanno contribuito a mettere in luce il significato e i limiti dell’impostazione psicoanalitica: il suo linguaggio di maggior aderenza al tema psicologico è cauto, spesso dubitativo, estremamente critico e problematico nei confronti delle sue stesse asserzioni.
E viene da chiedersi chi mai tra filosofi, teologi, umanisti, storici delle religioni, psicologi potrà esprimere su Jung un giudizio che superi la parzialità della propria disciplina, riallacciandoci a un’espressione di Augusto Romano, noto analista junghiano, che scrisse: «come sanno molti suoi esegeti, è possibile braccare Jung ma assai difficile afferrarlo»42.
41 F. ANTONELLI, Una “riconciliazione” tra Jung e Freud, «Il Tempo», 26 maggio 1973.
42 M. INNAMORATI, Jung, Carrocci, Roma 2013, p. 278.
I.2. Ombre psicoanalitiche. Le tracce indirette attraverso Il mestiere di vivere
Nel 1949 Cesare Musatti scrisse che «negli ultimi trent’anni le dottrine di Freud si sono, per lo meno in una interpretazione superficiale e sommaria, diffuse nel mondo della cultura, e non sono rimaste prive di influenza sopra letterati e romanzieri, cosicché tracce dirette dei punti di vista psicoanalitici sono riscontrabili in non poche produzioni della letteratura contemporanea»43.
Vi sono scrittori italiani che hanno conosciuto la psicoanalisi più o meno direttamente e a diversi gradi di profondità, ma la rifiutano apertamente per ragioni varie; altri, senza conoscere in modo così profondo la materia psicologica, possono però utilizzarla ai loro fini specifici e in modo consapevole per la loro attività creatrice, anche senza credervi ciecamente, con una certa ironia, come fece Svevo.
Altri ancora si prestano all’esperienza clinica e si fanno psicoanalizzare per risolvere problemi personali che l’opera d’arte non bastava a liquidare: in questo senso il nome di Umberto Saba è emblematico. Lontanissimo da questa posizione è assolutamente Cesare Pavese che, testimonianza di Bianca Garufi, rifuggiva l’analisi temendo ne scalfisse la creatività44.
Ci sono poi artisti che hanno conosciuto la psicoanalisi solo di seconda mano, indirettamente, senza saperlo, o talvolta credendo di saperlo, e non ne sono per forza i più cattivi assimilatori: a me sembra che Pavese possa rientrare in questa ultima categoria.
Ma quali mezzi abbiamo per valutare la percentuale di apporti psicoanalitici nelle opere dello scrittore piemontese? Questo è un primo quesito puramente documentario e trova le sue risposte nella biografia dell’autore: che rapporti ebbe Pavese con la psicoanalisi? Si potranno ricercare documenti precisi sulle date, i particolari, gli incontri, e ci si appoggerà, per quanto possibile, su epistolari, saggi, interviste, fonti.
Tuttavia, al di là di queste ricerche, rimane il problema dell’opera nel suo fatto concreto: in che cosa essa è influenzata dalla psicoanalisi? In questo caso le scelte lessicali e la frequenza di certi vocaboli psicoanalitici sono spesso rivelatrici di tale influenza e vengono a rafforzare intuizioni psicologiche spontanee: si pensi alla tematica erotica, la sessualità anormale, il vizio; tutti motivi apparenti di questa letteratura. Si potrà certamente, e anzi sarà la via più facile, condurre un’inchiesta linguistica ricercando un lessico specializzato, con uno studio attento dei mascheramenti lessicali e fraseologici usati dall’autore per trasporre secondo il proprio stile i
43 C.L. MUSATTI, Trattato di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 66.
44 A. ROMANO, La psicoanalisi è fuori moda perchè legittima la sofferenza, «La Stampa», 4 agosto 2017.
termini tecnici della clinica, senza peraltro che a un’individuazione di tali termini corrisponda necessariamente un’assimilazione consapevole avvenuta attraverso la lettura specifica delle teorie di Jung da parte del poeta.
Se dovessimo procedere secondo questa modalità d’indagine nei riguardi di Pavese si rimarrebbe tuttavia spiazzati e alquanto sorpresi: la ricerca lessicale di tali spie, tracce e particolari risulterebbe totalmente inutile. L’opera narrativa pavesiana, infatti, può essere letta senza che in superficie appaia una minima traccia di mentalità psicoanalitica; una mentalità però, si badi bene, profondamente assimilata dall’autore: Pavese sente infatti la necessità di lasciar vivere i personaggi nella fantasia, per poi introdurre il suo stile, la costruzione, un certo disegno autonomo, che sono a loro volta indicativi delle scelte esistenziali dell’autore e di uno lavoro di scavo profondo:
[...] il narrare non è un fatto di realismo psicologico né naturalistico, ma di un disegno autonomo di eventi, creati secondo uno stile che è la realtà di chi racconta [...] intendo per stile questo svolgere una catena di dati che dispongono intorno a sé la realtà psicologica e naturale e la sostengono e sono puro partito preso – scatti dell’intelligenza e non altro. Qualcosa come l’antefatto arbitrario del sogno, che scatena tutta la proiezione degli eventi, colorandoli secondo “una passione”, che è partito preso e irrealtà 45.
In particolare, alcuni racconti pavesiani scritti nel 1940 cercano proprio di costituirsi secondo i criteri di mancanza di successione temporale e di casualità che sono tipici del sogno.
Pavese non rifiuta quindi la “vita interiore” del personaggio ma, anzi, riconosce che lo stile novecentesco è proprio un «perenne farsi di vita interiore»46.
Nel caso di Pavese, come acutamente osserva Michel David, assistiamo a un paradosso evidente, una divisione in due parti «come quella di un dottor Jekyll scrittore»47: da una parte troviamo i romanzi, le poesie, i saggi, quasi del tutto privi di considerazioni psicologiche; dall’altra il diario e la frequenza, in queste pagine, di un lessico psicologico che va a compensare l’assenza sistematica di psicologismo nell’opera narrativa.
Attraverso le pagine de Il mestiere di vivere, secondo Dominique Fernandez «uno dei rari diari analitici della letteratura italiana»48, lo scrittore affronta senza compiacimenti e con acuta sensibilità
45 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, M. Guglielminetti-L. Nay(a cura di), Einaudi, Torino 2000, p.
229. Ma cfr. anche ivi, p. 144. (20 dic. 1938): «al gusto della battuta significativa e bizzarra, sostituire il pensiero significativo e bizzarro non più dialogato, ma approfondito a tessuto connettivo della storia».
46 Ivi, p. 133.
47 M. DAVID, op. cit., p. 511.
48 D. FERNANDEZ, L’échec de Pavese, Grasset, Parigi 1967, pp. 17-18.
una disamina dei suoi mali psichici, conscio delle proprie “tare” e della progressiva nevrosi d’angoscia.
Quando l’opera venne pubblicata gran parte dei critici disprezzò Il mestiere di vivere: erano gli anni in cui si adoperava la categoria di “decadentismo” per definire l’opera pavesiana, che si fondava soprattutto sulla contrapposizione tra realismo e decadentismo, molto di moda nella critica degli anni ˊ50.
Alberto Moravia, ad esempio, giudicò questo diario «un libro penoso»49:
[...] E questa pena a ben guardare viene soprattutto dalla combinazione di un dolore costante, profondo e acerbo con i caratteri meschini, solitari e quasi deliranti di un letterato di mestiere. Da un lato questo dolore che in Pavese aveva motivi concreti e purtroppo irrimediabili, dall’altro una vanità infantile, smisurata, megalomane 50.
Sempre in quegli stessi anni, Giuseppe Trevisani lo definì «un misto di idee abortite e di frasi da cioccolatini»51.
Giustamente Mauro Ponzi ha sottolineato che «le etichette applicate di volta in volta a Pavese avevano uno scopo più strumentale che interpretativo, servivano, cioè, ai critici per difendere una propria teoria della letteratura contro un’altra servendosi di Pavese solo come di un’occasione polemica»52. Se si pensa a quelli che sono i dibattiti sul rapporto tra politica e cultura nell’immediato dopoguerra, si comprende l’accanimento dei critici che, magari anche in buona fede, in un momento di totale ideologizzazione della letteraura, o per arrivismo, in un periodo in cui era utile sventolare la bandiera dell’ortodossia marxista, usano Pavese come banco di prova per svolgere il loro discorso impegnato.
Lo scrittore inizia a tenere un diario nel 1935 durante il confino di Brancaleone e le annotazioni continueranno fino alle soglie della morte, seguendo una gamma che va dal sottile appunto di poetica allo sfogo accurato. Se si esclude l’opera poetica Lavorare Stanca, composta negli anni che vanno dal 1930 al 1935, il tempo della composizione del diario coincide con il tempo della produzione letteraria, per cui vi si possono riscontrare notizie di tutte le opere; l’elemento preponderante è quello letterario, ma ben presto il carattere degli appunti prenderà la forma di una più generale speculazione sulla vita e sul lavoro, disegnando così un profilo teorico del rapporto tra
49 A. MORAVIA, Pavese decadente, in L’uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1963, p. 89.
50 Ibid.
51 G. TREVISANI, Chi l’ha visto: Cesare Pavese, Trevi, Milano 1961, p. 45.
52 M.PONZI, op. cit., p. 185.
Pavese e la letteratura come strumento di esplorazione di sé e dell’altro, in un sorta di specchio dell’esistenza.
La pubblicazione del diario a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay nel 1990 è stato un evento editoriale determinante, che segnò la tendenza volta a rivalutare le questioni di poetica pavesiana.
Questa nuova edizione integra omissioni e corregge le sviste della prima edizione del 1952, integrando nel volume, oltre al testo del diario, una raccolta di Pensieri cassati, la trascrizione di un sogno, e un diario giovanile intitolato Frammenti della mia vita trascorsa53.
Emergono anche aspetti significativi per ciò che riguarda la cognizione teorica: nonostante l’opera sia stata sempre accettata come un “diario”, Guglielminetti tenta una ricostruzione dei vari stadi compositivi consapevole che «Il mestiere di vivere è un diario costruito in blocchi, i quali però si elevano come un tutt’uno»54.
Vi emerge così un continuo intreccio di scrittura da “journal intime” e della volontà di costruire un
“journal de l’oeuvre”, passando poi per un “journal des idées”55 come possibile forma unitaria in una «suggestiva ricerca di vita e di arte, di pensiero e di poesia, di riflessione di sé e dell’universo esistenziale, che si riflette nella sua opera. E si fa ragione di scrittura: di umana, traumatica ed insieme alta poesia dell’essere, riflessa in se stesso: nella vicenda stessa della propria vita di uomo e di scrittore»56. Verso la conclusione l’opera assume i contorni regolari di un “esame di coscienza”, per questo motivo Cesare Segre ha parlato, nel finale, di un “journal de travail”57, confermando le tendenze ispiratrici di questa esperienza, come lo Zibaldone di Leopardi e i Journaux intimes di Baudelaire.
Riflessioni e pensieri all’interno del diario integrano via via le molte letture affrontate nell’arco di quindici anni: seguendo le pagine in modo diacronico si nota subito una massiccia tendenza all’introspezione e all’elaborazione di sommari consuntivi di fine anno, a chiudere un bilancio in una “partita doppia” esistenziale.
Ecco che allora, ricollegandoci alle osservazioni del David, nel diario possiamo leggere di
“identificazioni”, “sdoppiamenti”, “forza reattiva”, “abissi della coscienza”, “archetipo”, di
“oggettivare complessi subconsci”, di “investire” i propri sentimenti sugli altri.58
53 Cfr. B. VAN DEN BOSSCHE, Rassegna della critica pavesiana: 1980-2000, «Testo», XL, 2000, p. 54.
54 M. GUGLIELMINETTI, Attraverso “Il mestiere di vivere”, in Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. XXXIV.
55 Ivi, p. XXXXVI.
56 C. DI BIASE, L’inconsolabile Orfeo in Cesare Pavese, «Esperienze letterarie», 3-4, 2000, p. 23.
57 Cfr. C. SEGRE, Introduzione, in Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., pp. V-XXX.
58 Cfr. M. DAVID, op. cit., p. 519.
Che tipo di rapporto si può delineare, attraverso questi termini, tra Cesare Pavese e la psicoanalisi?
Senza dubbio rimane, per quanto in modo controverso, una presenza costante, mai del tutto ostentata e, anzi, il più delle volte sottointesa e dissimulata.
Il 2 febbraio del 1941 troviamo riportato un colloquio tra Pavese e un suo amico commediografo:
«Quando gli dico che ignora la psicologia, intendo non che ignora i meccanismi umani su cui costruisce i suoi drammi, ma che, oltre questo campo del “possibile” psicologico vissuto nell’arte, egli non ha mai vissuto nella realtà un dubbio psicologico, una malattia dello spirito – di quelle malattie che, sole, fanno sperimentare e intravedere gli abissi della coscienza»59.
Più avanti, nel 1946, si legge:
Ecco: quel che non ti va della psicoanalisi è la evidente tendenza a trasformare in malattie le colpe. Capirei trasformarle in virtú, in modi di essere energici, ma no – si scopre il trauma che fa sí che hai paura, per esempio, dei ranocchi e allora aspetti la guarigione. Balle!
Siamo chiari: non ho niente contro il formulario psicoanalitico – ha arricchito la vita interiore – ce l’ho contro le facce di bronzo che se ne servono per scusare la loro pigra svogliatezza e credono che sentirsi dire che inculare i ragazzini è un risultato di una loro esperienza del cavatappi.
Nossignore. Non bisogna inculare i ragazzini.60
Pavese non accetta la deresponsabilizzazione etica implicita nella dottrina psicoanalitica, ma questo passo ambiguo e controverso si collega a un certo spirito di fondo deterministico, anche nell’ambito letterario sentito come una tentazione da schiacciare con lo “scatto delle mascelle”:
Nella poesia tu senti lo stesso bisogno [...] non ti piace abbandonarti al determinismo dell’analisi. Ma vuoi scegliere un rapido gesto che sia mito, cioè volontario avvenimento imposto sulle deviazioni. Fai bene a conoscere tutti gli antichi esasperanti e semoventi della passione. Ma devi sceglierli, cioè non consentirvi, come fanno tutti gli analisti nonostante le ironie contro il meccanicismo generico della passione61.
Sarà da ricordare, inoltre, che nel 1932 un giovane Pavese protestava in un saggio su Edgard Lee Masters contro «l’incoscienza insomma pseudoscientifica che tanto piace adesso disgraziatamente
59 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 216.
60 Ivi, p. 314. Corsivo dell’autore.
61 Ivi, pp. 131-132.
negli Stati» e contro la mania dei «casi clinici»62: una presa di posizione contro la letteratura psicoanalitica.
Secondo Michel David, sembra che Pavese abbia avuto un “periodo freudiano” dovuto alla conoscenza dei testi psicoanalitici intorno al periodo 1939-41, negli anni in cui lo scrittore abbandonava la poesia per la prosa63. Ma il passaggio verso la narrativa copre un periodo di tempo abbastanza lungo, se si pensa che i primi racconti risalgono al 1936 e il primo romanzo pubblicato, Paesi tuoi, è composto nel 1939.
Le pagine del diario del periodo tra il 1936 e il 1937 sono ricche di riflessioni intime ma non contengono nessuna allusione alla psicologia del profondo. Probabilmente la tematica psicologica di questo periodo, legata alla presenza delle parole “istinto” e “coscienza”, è da attribuire alla lettura di autori come Proust, Dostoevskij e Gertrude Stein64.
Il nome di Freud è citato da Pavese solamente nel 194065, confermando il fatto che la lettura degli Essais de psychanalyse, avvenuta verosimilmente tra il 1938 e il 1940, rappresenta il primo impatto dello scrittore con le teorie psiconalitiche. A sostegno di questa tesi ci sarebbe una lettera indirizzata a Fernanda Pivano che analizza esplicitamente la personalità della ragazza, in cui il poeta opera un’autentica trasposizione letteraria della visione psicoanalitica, maneggiando con sorprendente lucidità concetti tipicamente freudiani come lo sdoppiamento, la solitudine, la mania di assoluto, il terrore di vivere un semplice stato fisiologico66.
Questa investigazione della soggettività con il metodo psicoanalitico ha il suo punto di svolta esattamente nel 1939, l’anno in cui nel diario appare ripetutamente per la prima volta la nozione di
“inconscio”, chiamato “istinto” nei primi anni e che verso il 1944 sarà denominato “subconscio” e talvolta “irrazionale”. Il 2 febbraio 1939 Pavese scrive:
Se sono veri progressi interiori soltanto quelle consapevolezze che coincidono con cose che sapevamo già (3 dic. ˊ38), allora non conta in noi che l’inconscio e qui è la nostra vera indole e tempra. Ciò che s’impara nella vita, ciò che si può insegnare, è la tecnica del passaggio alla consapevolezza – che diventa cosí la semplice forma della nostra natura. Le religioni e le dottrine pretendono tutte che si possa insegnare non solo il passaggio alla consapevolezza, ma il suo contenuto – e siccome ciò non basterebbe, hanno
62 C. PAVESE, Polemica antipuritana con ardore puritano, in Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, pp. 51-62.
63 Cfr. M.DAVID, op. cit., p. 511.
64 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 124. Pavese annota: «La coscienza esiste, ma non è come dicono il cristallino assoluto che ci sorveglia»; e anche ivi, p. 126 :«L’idea di Gertrude è che ogni essere umano possiede una certa energia, spesa la quale si è serviti. Si vede qui la sua educazione clinica[...]Nelle sue pagine la vita è terribilmente chiara. Al senso delle cose immisurabili, al fantastico, sostituisce l’incantesimo del tranquillo fluire[...]».
65 Ivi, p. 209.
66 Cfr. G.I. ROSOWSKY, Pavese lettore di Freud, Sellerio, Palermo 1989, pp. 21-22.
tutte un argomento di grazia, d’intuizione, d’entusiasmo, che supplisca al calore sprigionato dall’incontro dell’inconscio con la realtà67.
Compare qui una coloritura religiosa, quasi mistica, del tutto estranea al pensiero freudiano tipicamente metodico e sperimentale.
Un determinismo rigoroso concorrerebbe in un certo modo al suo “passaggio” da Freud a Jung, se è vero che, sempre tenendo conto della testimonianza di Fernanda Pivano, Pavese aveva iniziato a studiare il tedesco leggendo Freud, per poi passare successivamente a tradurre Jung proprio in quegli anni, e nel 1940 aveva ricevuto i testi di Bollea che due anni dopo sarebbero confluiti nella pubblicazione de Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna.
Il nome di Jung compare la prima (e unica) volta nel diario il 22 maggio 1941:
Béguin, L’âme romantique et le rêve.
Idea che si ritroverà in Schubert, Carus, Schopenhauer e Jung C.G.
Il gusto di K.P. Mortiz per i RICORDI D’INFANZIA è un modo di ritrovare testimonianze di uno stato anteriore alla vita che nell’infanzia è ancora fresco e lascia tracce. Rappresenta cioé la fuga non soltanto dal reale contemporaneo, ma dal reale in blocco. Aspirazione tipica del protoromanticismo. Così desiderano trasformarsi in oggetti naturali (Shelley- Leopardi). Così si intravede nella NATURA (la nuvola, il tuono, l’onda, di Sh.
e Leop.) l’appiglio per partecipare di una vita che non è più la condizione umana. Così si cercano i SOGNI non soltanto come fuga dalla realtà diurna, ma come appiglio a una prenatale esistenza. Così si anela a immedesimarsi
NEL TUTTO che appare come realtà prenatale 68.
Ecco il valore potenziale dell’inconscio: personale, strato che raggiunge il suo limite nei primissimi ricordi d’infanzia; collettivo, contenente la fase preinfantile e i residui della vita ancestrale che si risvegliano alla coscienza dell’Io. Secondo Jung, «noi chiamiamo l’inconscio nulla, e invece esso è una realtà in potenza: il pensiero che faremo, le azioni che compiremo, lo stesso destino di cui ci lamenteremo domani, sono già presenti inconsciamente oggi e una conoscenza completa della struttura inconscia presente in ogni individuo fin dalla sua origine permetterebbe di preannuciarne ampiamente il destino»69. Qui la nozione junghiana di inconscio si lega a doppio filo alla concezione di destino che Pavese maturerà negli ultimi anni della sua vita.
67 C. PAVESE,Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 147. Corsivo dell’autore.
68 C. PAVESE. Il mestiere di vivere. Diario 1945-1950, cit., p. 224.
69 C.G.JUNG., La dinamica dell’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 21.
Ma è significativo osservare che nell’appunto in cui Jung viene citato, Pavese lega insieme svariati nomi che vanno da Shubert a Moritz, da Carus a Schopenhauer.
Nel 1941 si registra, attraverso Il mestiere di vivere, una molteplicità di interessi e osservazioni a testimonianza di un momento estremamente fertile dell’elaborazione creativa: si tratta di letture specialistiche sul surrealismo francese, ma anche l’Experience mystique di Lévy-Bruhl, letto nel 1937 e che, insieme a The Golden Bough di Frazer, rappresentano i due pilastri delle passioni etnografiche di Pavese. Successivamente la lettura de Les confessions di Rousseau, in lingua, lo induce probabilmente allo studio di Béguin e Raymond, sottolineandone le formulazioni psicoanalitiche. La primavera di quell’anno è densa di letture filosofiche che riguardano i nessi simboli delle figurazioni oniriche: La simbologia del sogno di Schubert, Moritz, Nerval, Carus, Schopenhauer e, appunto, Jung.
Il sogno viene a porsi in questo momento della ricerca pavesiana come modello di struttura narrativa, per le sue caratteristiche di automaticità, autosufficienza, simbolicità sottratta a tutti i condizionamenti. Inoltre, a livello contenutistico, permette un’apertura ai sedimenti memorali che risalgono generalmente all’infanzia. Ma Pavese, secondo Elio Gioanaola, «è più interessato alle strutture del comportamento del sogno e alle analogie che esso presenta con i modi di raccontare, che alla sostanza psichica messa in rilievo dalle incursioni nel regno dell’inconscio»70.
Va da sé che una singola menzione del nome di Jung in più di quattrocento pagine di diario risulta effettivamente un misero indizio per stabilire un qualche collegamento tra le teorie analitiche del medico e le idee del poeta. I rapporti che si possono stabilire tra Pavese e Jung non si lasciano rintracciare facilmente.
Egli evita oltretutto l’uso di termini troppo marcati strettamente riconducibili a una qualsiasi teoria junghiana: se si prende, per esempio, il termine “archetipo”, si noterà come questo compaia nel diario solamente nel 1950 e in un uso assai lontano dalla concezione junghiana più completa e matura, cioè come strutture transindividuali e cariche di energia che mediano tra la zona istintuale e quella psichica71.
Soprattutto le riflessioni che si possono collegare alla psicoanalisi sono formulate in modo strettamente personale: portano infatti l’impronta non solo dello scrittore, ma anche di un lettore attento dell’esperienza altrui secondo modalità che appaiono sostanzialmente finalizzate alla ricerca e al chiarimento della propria poetica. Ne nasce una difficoltà per un’indagine che voglia stabilire una più generale influenza, sia essa letteraria, filosofica, psicologica, diretta e riscontrabile.
L’operazione del poeta si configura come un fagocitamento attuato nei confronti di ogni
70 E. GIOANOLA, Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, Jaca Book, Milano 2003, p. 13.
71 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 396. (13 maggio 1950): «[...] Amore e morte ˗ questo è un archetipo ancestrale».
individualità letteraria e linguistica suscettibile di imprimere una spinta centrifuga all’operazione poetica che egli stava portando avanti e che «nell’ultima parte del diario realizza la sua massima ambizione: ingoiare, racchiudere dentro i propri schemi e cadenze mitiche la realtà e la storia»72. La povertà di citazioni non significa un vero e proprio occultamento intenzionale, quanto un metodo di assimilazione che ricorreva spesso allo stile aforistico, compiacendosi magari della massima e della sentenza, in un’ottica per cui, sottolinea Michela Rusi, «il debito con gli scrittori più significativi per la sua vicenda letteraria e umana appare in Pavese tanto più profondo quanto più reticente, ellittico, non dichiarato apertamente, insufficiente»73.
Secondo Mutterle, i giudizi critici formulati da Pavese ne Il mestiere di vivere contengono «quasi sempre un fondo di esattezza, ma sono regolarmente deformati in un’ottica troppo particolare, magari talora genialmente»74.
La carenza di esplicitazioni nei riguardi di Jung si nasconde però dietro la formulazione di più o meno vaghe reminiscenze concettuali per cui, nonostante sia comunque impossibile dimostrare la filiazione diretta del pensiero pavesiano da quello junghiano, rimangono evidenti tracce di correlazione nella poetica che lo scrittore porterà avanti, a partire dal 1943, attraverso l’investigazione di sé.
Questa tendenza è abbastanza evidente per tutti i problemi legati all’Io e all’affermazione dell’Io nella compiutezza della vita personale, nella “personalità”. È impossibile non riconoscere in queste parole di Pavese una certo richiamo a un concetto cardine della psicologia analitica come quello di
“centro”, che si ricollega all’Individuazione:
Ognuno di noi ha una ricchezza di fatti e gesti che sono simboli della sua felicità – essi non valgono per sé, per la loro neutralità, ma c’invitano ci chiamano, sono simboli. Che è quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico, affermazione, centro.75
E in una postilla aggiunta il 26 novembre del 1949 scrive: «Qui sei diventato felice!»76.
Le motivazioni profonde dell’inconscio sono per lo scrittore decisive: quasi alla fine della sua vita Pavese scriverà che il proprio interesse principale non era mai stato il “vero”, bensì «ciò che noi
72 A.M. MUTTERLE, Contributo per una lettura del Mestiere di vivere, in AA.VV., Profili linguistici di prosatori contemporanei, Liviana, Padova 1973, p. 416.
73M. RUSI, La malvage analisi, Longo, Ravenna 1988, p. 8.
74 A.M. MUTTERLE, Miti e modelli della critica pavesiana, in Critica e storia letteraria, Vol. 2, Liviana, Padova 1970, p. 742.
75 C.PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 245.
76 Ibid.
siamo»77: «Io, e credo molti, ricerchiamo non ciò che è vero in assoluto, ma ciò che noi siamo. In quest pensieri tu tendi con sorniona noncuranza a lasciar affiorare il tuo essere vero, i tuoi gusti fondamentali, le tue realtà mitiche. Una realtà che non abbia legame radicale nella tua essenza, nel tuo subconscio ecc., non sai che fartene»78.
Il 1943 sarà l’anno del vero e proprio punto di svolta per lo sviluppo della poetica che attraverso i ricordi d’infanzia vuole “ritrovare” testimonianze di uno stato anteriore alla vita. Conoscere e ri- conoscere, vedere e ri-vedere, le cose non si scoprono se non attraverso i ricordi che di esse si hanno: su questa idea madre, Pavese non smetterà di attirare la nostra attenzione.
E verso gli anni 1944-1945, chiuso nel rifugio del collegio di Serralunga di Crea, comincerà ad aprirsi a dei “momenti metafisici”, elaborando un concetto del “divino” che andrà a collocarsi all’interno della nozione di inconscio.
Ecco giustificata la tesi del David quando sostiene in conclusione che «Pavese ha conosciuto inizialmente Freud, e ne ha assimilato più di quanto possa pensare [...] poi durante la guerra e gli anni di meditazione solitaria a Serralunga, più che a Freud sembra che egli si accosti a Jung e agli junghiani»79.
Comprensibilmente Carotenuto non si spiega a quali junghiani si possa essere avvicinato Pavese, dal momento che Bianca Garufi può aver fatto da tramite tra il poeta e gli junghiani solo dopo il 1944, quando la scrittrice entrerà in analisi con Ernst Bernhard80.
Ma Pavese assimila una teoria composita e frammentaria cresciuta organicamente nel corso degli anni: una teoria che si nutriva tanto di suggestioni, di occasioni ed intuizioni quanto di letture più disparate sull’argomento, seguendo la logica dominante di trovare conferma alla poetica che andava elaborando.
La scoperta delle radici fantastiche dell’istante-eternità gli consentirà poi di andare avanti pensando di «modificare il proprio passato»81 e sentirsi in grado di dominare il proprio destino, cioè scoprendo un nuovo significato da dare alla propria infanzia ritrovandola sul piano mitico,
77 Ivi, p. 349.
78 Ibid.
79 M. DAVID, op. cit., p. 514.
80 A. CAROTENUTO, op. cit., p. 56. Bianca Garufi, scrittrice e psicoanalista, ebbe una tormentata relazione con Cesare Pavese dal 1945 al 1946. Considerata, insieme a Tina Pizzardo e Fernanda Pivano, una delle tre donne più importanti nella parabola esistenziale dello scrittore, è stata sicuramente quella che più ha contato dal punto di vista creativo: scrive a quattro mani con Pavese il romanzo uscito postumo col titolo Fuoco grande e a lei è dedicata l’opera Dialoghi con Leucò, di cui peraltro la Garufi lascerà intendere di aver ispirato il primo dialogo, Le streghe.
Sarà una delle prime allieve di Ernst Bernhard, da cui va in analisi nel dopoguerra, laureandosi in Lettere e filosofia nel 1951 con la prima tesi su C.G. Jung mai discussa in Italia. Entra in contatto con le teorie junghiane quando già era terminato il suo rapporto con Pavese, ma è indubbio lo stimolo intellettuale esercitato sul poeta dalla ragazza in merito alla materia psicoanalitica, che aveva appena iniziato a studiare, e il comune interesse per il mondo delle origini e i miti greci. Per approfondimenti Cfr. M.MASOERO, Una bellissima coppia discorde, il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), Olschki, Firenze 2011.
81Ivi, p. 281.
integrandovi i concetti di “rusiticità” e “primitivo” provenienti da Vico, Rousseau, Lèvy-Bruhl, e le letture etnoantropologiche di autori come Frazer, Malinowski, Keréniy, Eliade, Frobenius e Walter Otto.
Dopo il 1945, attraverso la ripresa dei miti antichi e primitivi, Pavese sembra intenzionato a sperimentare una lettura da un’angolazione “psichico-esistenziale” per esprimere l’alterità e la messinscena di un conflitto interiore, esorcizzando una parte di sé.
Investigando il mito secondo «motivazioni psicogenetiche»82, lo scrittore si sofferma sul rapporto tra questi conflitti interni e la loro espressione artistica: «Se è vero che religione e magía oggettivando complessi subconsci (demoni, morti, spiriti, ecc.) ne liberarono l’uomo primitivo e diedero campo all’io, altrettanto succederà in tutta l’esperienza – ciò che si sperimenta (amore, avventura, rischio, ecc.), con ciò si oggettiva e ci lascia liberi»83.
Questa reinvenzione pavesiana dei miti antichi in una prospettiva soggettiva, come “figure” del destino psicologico individuale e interindividuale, si collegherà ai motivi dell’”unicità” e dell’
atemporalità, che si svilupperanno con nuove implicazioni e verranno sintetizzati in uno scritto del 1950 intitolato La poetica del destino:
Che anche i gesti, le parole, la vita umana siano veduti come simbolo, significa che si configurano come esistenti fuori dal tempo e insieme ogni volta scoperti come unici, come per la prima volta rivelati. Una vita appare destino quando inaspettatamente si rivela esemplare e fissata per sempre84.
E non ci si dovrà stupire di alcune formulazioni spaventosamente illuminanti e premonitrici come quando, ad esempio, già nel 1936 lo scrittore annotava:«[...] è la mia idea fissa che quanto accade a un uomo è condizionato da tutto il suo passato [...]»85.
E questa idea la si ritroverà sottesa in tutta la sua opera.
82 Cfr. B. VAN DEN BOSSCHE, Nulla è veramente accaduto. Strategie discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese, Franco Cesati, Firenze 2001, p. 299.
83 C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 323.
84ID., La poetica del destino, in Saggi letterari, cit., p. 312.
85C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, cit., p. 31.