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Il sistema periodico di Primo Levi tra chimica e letteratura

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Il sistema periodico di Primo Levi tra chimica e letteratura

CANDIDATO

RELATORE

Anna Carone Chiar.mo Prof. Fabrizio Franceschini

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Vinicio Pacca

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Indice

Introduzione………..…p. 5.

I. Argon: frammenti di un mondo antico rivissuto attraverso la pagina scritta..….p. 10.

II. Idrogeno: il primo approccio alla materia………..p. 24.

III. Zinco, la battaglia per la vita……….p. 30.

IV. Ferro: la libertà di sbagliare……….…p. 40.

V. Potassio e l’elogio dell’impurezza……….………...…..p. 49.

VI. Nichel: amore pietroso e solitudini d’amianto………...p. 55.

VII. Piombo: l’ossimoro di una vita spesa alla ricerca del “metallo della

morte”……….p. 62.

VIII. Mercurio: una sostanza ambivalente…………..………p. 70.

IX. Fosforo: un percorso di formazione tra scoperte, incontri amorosi e

sconfitte………...p. 77.

X. Oro: la caduta dei Partigia e l’elemento della libertà perduta………...p. 84.

XI. Cerio, l’elemento della sopravvivenza………...p. 96.

XII. Cromo: un amore felice e un libro liberatore……….p. 107.

XIII. Zolfo: storia di un mestiere………...p. 116.

XIV. Titanio: la vernice magica……….p. 122.

XV. Arsenico, il mestiere di “chimicare”: “occhio e pazienza”………p. 126.

XVI. Azoto: “aurum de stercore”, la celebrazione dell’impurità………..p. 132.

XVII. Stagno, il metallo dalle numerose proprietà e l’esperienza di lavoro

indipendente………..p. 139.

XVIII. Uranio: un “doppio rovesciato” di Levi……….p. 146.

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XIX. Argento, i grandi effetti di piccole cause………...………p. 155.

XX. Vanadio: “un esemplare umano tipicamente grigio”………...…..p. 162.

XXI. Carbonio: l’elemento simbolo del valore universale della scrittura……...p. 178.

Conclusione……….……….p. 193.

Bibliografia……….…..p. 195.

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Introduzione

Il presente studio propone un’analisi critica e linguistica dei ventuno capitoli che compongono la complessa struttura de Il sistema periodico e vuole, altresì, far luce sulle diverse componenti tematiche che la percorrono.

L’opera viene pubblicata nel 1975, anno in cui Levi dà le dimissioni da direttore della fabbrica di vernici e si dedica in maniera esclusiva all’attività letteraria.

Il sistema periodico ha alle spalle una storia redazionale lunga e complessa: l’idea di scrivere un libro

sulla chimica si fa strada in Levi nei primi anni Sessanta, quando egli dichiara di voler far conoscere spunti e stimoli sul mestiere di chimico, ma l’elaborazione del progetto non comincia subito1:

inizialmente lo scrittore ha in mente un libro in stile epico e conradiano, come si arguisce da La carne

dell’orso, un racconto del 1961 dato in lettura a Calvino e giudicato dallo stesso riuscito solo a metà; Il sistema periodico porta le tracce di questa epica conradiana, ma la soluzione narrativa adottata è

un’altra2.

I primi racconti sulla vita di fabbrica, stando alle parole di Levi, “sono i peggiori”3 e nelle opere dello scrittore prevalgono altri aspetti della sua vita, come le esperienze giovanili e la discriminazione razziale, il tema dell’ebraismo e del Lager. Solo tra il 1966 e il 1968 prende forma l’idea dell’opera e l’autobiografia emerge quale suo tema centrale, come lo scrittore dichiara in un’intervista al traduttore croato Mladen Machiedo: “Sarà un libro sulle mie esperienze di chimico. All’infuori di queste non ho più molto da dire. Il primo racconto descrive il mio amore giovanile per la chimica, anzi per l’alchimia […]. Ho scritto un racconto su un atomo”4. Il primo testo citato nell’intervista

potrebbe essere Idrogeno, l’altro è sicuramente Carbonio.

Stando al dattiloscritto consegnato a Einaudi, la maggior parte dei racconti viene stesa tra il 1973 e il 1974; alcuni testi sono più antichi ed entrano a far parte della raccolta con l’apporto di alcune modifiche: è il caso di Titanio, già pubblicato nel 1948 su “L’Italia socialista” con il titolo Maria e il

cerchio, e Zolfo, apparso su “L’Unità” nel 1950 con il titolo Turno di notte5. Nell’opera chimica

rientrano anche due testi estranei alla trama autobiografica: si tratta di Piombo e Mercurio, che Levi fa risalire agli anni precedenti la deportazione, ma che probabilmente sono stati rielaborati a partire da materiale già esistente.

1 Cfr. la nota al testo del Sistema periodico, in Primo Levi, Opere complete I, Torino, Einaudi 2016, p. 1516. 2 Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda 2015, p. 252.

3 Edoardo Fadini, Primo Levi si sente scrittore “dimezzato”, in Opere complete III, Torino, Einaudi 2018, p. 18. 4 Mladen Machiedo, La parola sopravvivrà, in Opere complete III, cit., p. 33.

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Argon, il testo liminare della raccolta, è uno dei racconti più vecchi e ha avuto numerose stesure; Carbonio, invece, è il testo che chiude Il sistema periodico e appare già nel 1972 sul mensile “Uomini

e libri”6. Diversi racconti vengono pubblicati in rivista prima dell’uscita del volume: Ferro, ad

esempio, è il risultato del rimaneggiamento de La carne dell’orso, il racconto di stile conradiano poi superato dall’idea dell’autobiografia chimica. Probabilmente anche Cerio nasce dal riutilizzo di materiali scartati da Se questo è un uomo, come dimostrerebbe un appunto dell’autore7. Il libro può dirsi concluso nel 1974.

Calvino, in quanto consulente editoriale della Einaudi, legge il dattiloscritto e valuta i racconti: la lettera che scrive a Levi il 12 ottobre 1974 è una preziosa testimonianza sulla stesura del libro, perché l’autore de Il sentiero dei nidi di ragno discute con il Nostro sulla posizione dei nuovi capitoli ricevuti:

Ferro, Fosforo, Azoto, Uranio, Argento e Vanadio; Argon, secondo Calvino, sarebbe da spostarsi

dopo il ritorno dal Lager, ma nella versione finale esso compare in posizione iniziale. Il racconto più recente è Vanadio, del settembre 19748.

La lettera di Calvino implica un’approvazione editoriale: il libro esce nel 1975 e Levi “si conferma uno scrittore di racconti e insieme un memorialista di tipo particolare: un autore attento alla composizione, alla disposizione delle sue storie e soprattutto alla ‘cornice’ entro cui inserirle”9.

Ogni capitolo porta il nome di un elemento della tavola periodica di Mendeleev (ossia dello schema con cui il chimico russo Dmitrij Mendeleev nel 1869 ordinò gli elementi chimici in base al loro peso atomico e al numero di elettroni presenti negli orbitali atomici10) e riconduce ad un’epoca di vita dell’autore; Levi seleziona solo gli elementi che hanno un legame con i momenti e le figure più importanti della sua storia personale: la struttura testuale rispecchia una forte unità tematica, essendo la chimica al centro dell’opera e della vita dell’autore.

Tra gli elementi che danno il titolo ai capitoli e le lettere dell’alfabeto viene stabilita una connessione profonda: come queste si combinano tra di loro per formare le parole e danno forma al pensiero, così gli atomi si uniscono a formare le molecole e rappresentano i mattoni dell’universo e i portatori della vita11; ai ventuno elementi dei capitoli corrispondono le ventuno lettere dell’alfabeto, quali elementi primordiali del linguaggio.

Il sistema periodico non è un’autobiografia, stando alla dichiarazione leviana del racconto finale, ma

rappresenta l’avventura del mestiere di chimico: a ben vedere, in effetti, l’opera non è solo un

6 Ivi, p. 255.

7 Cfr. la nota al testo del Sistema periodico, in Opere complete I, cit., p. 1518. 8 Ivi, p. 1522.

9 M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 258. 10 https://it.wikipedia.org/wiki/Tavola_periodica_degli_elementi.

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“Bildungsroman”12, cioè un romanzo di formazione, ma spazia dalla rappresentazione del mondo

degli antenati ebrei piemontesi ai racconti d’invenzione fino alla storia di un atomo di carbonio. Nonostante la varietà di generi impiegati nell’opera, le storie raccontate sono quasi tutte autobiografiche; esse, però, non riguardano solo la “microstoria”13 della persona narrativa ma accolgono anche la grande storia, una narrazione al plurale, collettiva e soggetta a cambiare in ogni capitolo, dove rientra il destino di una generazione maturata negli anni del fascismo, ossia di un periodo storico particolarmente difficile nella storia italiana, e del popolo ebraico, con tutte le

discriminazioni di cui era oggetto nell’Europa contemporanea14. Argon introduce la raccolta facendosi portavoce di alcuni motivi d’interesse di Levi, come il recupero

delle lingue scomparse e l’elogio degli antenati ebrei piemontesi, dei quali lo scrittore offre un ritratto umoristico, fino a giungere ai ricordi della sua infanzia e ai ritratti comici del padre e della nonna. Nei racconti successivi si delinea il nucleo del percorso di formazione del protagonista: dagli anni universitari alla lotta contro la materia, fino all’esperienza di Auschwitz e alla storia del mestiere di chimico.

Si è evidenziato come gli elementi che danno il titolo ai capitoli sono legati alla storia della crescita personale e professionale del protagonista; ognuno di essi esprime metaforicamente il contenuto dei racconti ed è legato alla memoria dell’autore e della sua generazione15: “Così avviene, dunque, che

ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza”16.

Da questo punto di vista si è utilizzato lo studio di Giusi Baldissone, che da un lato individua varie affinità tra le proprietà intrinseche agli elementi chimici e il carattere dei personaggi, e dall’altro fa riferimento all’onomastica degli elementi e al potere evocativo delle parole e dei suoni legati ai nomi stessi17.

Un caso particolare è quello dei personaggi che incarnano un doppio di Levi, primo tra tutti Sandro: questo personaggio dal carattere di ferro, proprio come il racconto di cui è protagonista, diventa metafora di un’altra grande passione di Levi, cioè l’alpinismo e la montagna, a loro volta simbolo dell’anelito alla libertà.

A tal proposito un testo centrale è Zinco, dove le esperienze di laboratorio descritte diventano metafora della storia del protagonista e della sua generazione negli anni del fascismo: il fatto che lo

12 Enrico Mattioda, Levi, Roma, Salerno Editrice 2011, p. 99. 13 P. Levi, Il sistema periodico, Torino, Einaudi 2014, p. 212. 14 M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 258.

15 Francesca Medaglia, La chimica delle relazioni in “Il sistema periodico” di Primo Levi, “Rivista di studi italiani”, XXXIII (2015), 2, p. 159.

16 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 213. 17 Giusi Baldissone, Il nome degli elementi nel sistema narrativo di Primo Levi, “Italianistica”, XLII (2013), 1, p. 37.

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zinco impuro si lasci attaccare facilmente dagli acidi diventa l’occasione per un elogio dell’impurezza e della diversità.

Tra i saggi utilizzati nel presente lavoro vi è quello di Natasha Chang, che legge Il sistema periodico come uno spazio aperto all’allegoria e all’alterità: l’affermazione di impurezza dello zinco, ad esempio, viene letta dalla studiosa come un tipo di alterità da esaltare a scapito della logica dell’uguaglianza propugnata dal fascismo.

Cerio, il racconto che occupa la posizione centrale dell’opera, rappresenta un punto di snodo della

vicenda e riporta il protagonista nel laboratorio di Auschwitz, dove egli è in compagnia di un altro suo doppio, il coraggioso e forte Alberto, grazie al quale i due compagni hanno salva la vita.

Un’altra cesura importante è quella di Cromo, che nella storia della formazione leviana svolge il ruolo di “Wendepunkt”18, cioè di punto di svolta dai sogni adolescenziali e dal dolore dell’esperienza

concentrazionaria alla vita adulta e alla stabilità economica. In questo racconto cruciale, inoltre, viene tematizzato il connubio strettissimo tra chimica e letteratura: il ricordo di Auschwitz si concretizza nella scrittura testimoniale, grazie a cui Levi può trasmettere l’esperienza vissuta che la sola testimonianza storica non veicola.

L’obiettivo fondamentale di questa ricerca è stato proprio quello di mettere in luce il rapporto di Levi con la chimica e la letteratura, che sono i due principali poli d’interesse della sua opera.

Alla base di quest’ultima è la volontà di creare un ponte tra le due discipline e di ricomporre la frattura che le separa: nel Sistema periodico emerge come il mestiere di chimico, che lega le molecole per creare lunghe catene, non si discosti molto da quello del narratore, che lega parole ed esperienze. Dal mestiere di chimico deriva l’esigenza di ordine e chiarezza, che si riversa nella scrittura letteraria, intesa da Levi come un modo per dare ordine al caos del mondo. Infatti, sulla base di questo raggiunto equilibrio, il protagonista del romanzo di formazione può ricominciare la sua battaglia per il sapere e la sua lotta contro la materia.

Il presente studio evidenzia che tutta l’opera è attraversata dal dualismo tra uomo e materia, contro cui il chimico ingaggia una lotta continua. Il linguaggio dello scrittore si colora di termini afferenti alla sfera della guerra e della battaglia per dipingere questo rapporto dell’uomo con la materia. L’analisi di Lucie Emmett in particolare ha evidenziato come la chimica sia stata per Levi una scuola di vita e un processo di apprendimento continuo: il ruolo del chimico militante consiste in una sfida alla materia, che se talvolta si presenta come madre benigna, più spesso indossa i panni di un nemico da combattere19.

18 E. Mattioda, Levi, cit., p. 109.

19 Lucie Emmett, L’uomo salvato dal suo mestiere: Aspects of Se questo è un uomo revisited in Primo Levi’s Il sistema periodico, “Italian studies”, 56:1, p. 122.

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Un aspetto centrale del presente lavoro è stato l’analisi del linguaggio del Sistema periodico: la chimica si offre in quest’opera come un baule di metafore umane e letterarie, e viceversa la scrittura si offre come il mezzo più idoneo a rappresentare la storia del protagonista e del suo mestiere. Il linguaggio è uno strumento poliedrico nell’opera di Levi: talvolta viene impiegato per resoconti di tono umoristico e sarcastico, come nel caso dell’etimologia popolare che coinvolge diversi nomi di elementi chimici; tuttavia il cambiare nomi alle cose è un’operazione pericolosa per Levi, perché nella visione dell’autore rappresenta la sostituzione del caos all’ordine e ricorda il principio della spersonalizzazione operato ad Auschwitz. Il tema della storpiatura dei nomi, infatti, si fa preponderante nella seconda parte dell’opera, dove il segnale linguistico annuncia l’ingresso in scena dell’avversario: il dottor Müller protagonista di Vanadio è un personaggio chiave di quest’opera, perché nella figura di questo “antagonista imperfetto” si condensano alcuni temi centrali del pensiero leviano sull’esperienza traumatica di Auschwitz.

Carbonio chiude la raccolta chimica con un ritorno alla finzione narrativa e racconta la storia epica

di un atomo di carbonio: la scrittura si configura come lo strumento più importante per comunicare e trasmettere l’esperienza vissuta dell’uomo.

Uno strumento fondamentale della presente ricerca è stato Il doppio legame di Carole Angier, biografia dello scrittore torinese che ha scandagliato il suo pensiero offrendo un’analisi puntuale dei motivi nascosti dietro i racconti chimici.

L’interesse dell’opera di Levi deriva dalla sua capacità di mettere in luce l’insensatezza della separazione tra la scienza e la letteratura; questo dualismo rispecchia perfettamente la condizione dell’uomo Primo Levi, che creando un’analogia tra gli elementi chimici e la sua vita unisce attraverso la narrazione le sue molteplici identità: studente, chimico, sopravvissuto alla deportazione e scrittore. La natura centauresca che anima l’uomo Primo Levi si riversa nella sua attività di chimico e scrittore, due facce di una stessa medaglia.

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Argon: frammenti di un mondo antico rivissuto attraverso la pagina scritta

“Il capitolo sulla cultura dei miei antenati ebrei piemontesi ne Il sistema periodico, è stato scritto con amore. Io sono profondamente legato al Piemonte. Mi rendo conto perfettamente dei difetti del carattere piemontese, poiché sono i miei stessi difetti”20.

Argon, il capitolo con cui si apre l’opera, racconta la storia degli avi ebrei di Levi, che ne ricorda, con

fine senso dell’umorismo, le usanze, la lingua e le stranezze21.

In virtù del suo dipanarsi tra storia del proprio albero genealogico e rappresentazione di un linguaggio arcaico, Argon si presenta come un testo molto eterogeneo rispetto alle altre prose che compongono

Il sistema periodico. Come ha rilevato Cavaglion, questo racconto non è un documento attendibile

per conoscere la preistoria di Levi, poiché qui l’immaginazione ha il sopravvento sulla realtà. Egli suggerisce di leggere il testo piuttosto come “una novella teatrale, alla quale fa da contrappunto una riflessione sulla natura del linguaggio” 22.

L’idea di scrivere un saggio sui propri antenati nacque in Levi dall’esigenza di ricordare, subito dopo Auschwitz, i milioni di persone uccise. Nonostante egli non avesse né una fede religiosa né una grande conoscenza delle sue origini ebraiche, con il ritorno alla vita lo scrittore sentì la necessità bruciante di ricordare i suoi avi, in ossequio ad uno dei grandi comandamenti ebraici, Yizkor, che significa, appunto, “Ricorda”23.

La versione finale di Argon deriva dal rimaneggiamento di un testo nato come divulgazione filologico-narrativa. Aquest’ultimoLevi ha aggiunto la vicenda autobiografica riguardante il ricordo del padre e della nonna paterna, corrispondente alle ultime due pagine e mezzo della versione definitiva. Un altro intervento apportato riguarda l’aggiunta di particolari sulle atrocità naziste, come l’oltraggio del manto di preghiera utilizzato nel rituale ebraico. La lezione finale presenta, in più, una considerazione sulla peculiarità del gergo ebraico piemontese, fino ad estendersi a riflessioni generali sulla condizione dell’uomo, “groviglio di carne e di mente”. In questa sede, inoltre, Levi delinea la figura del centauro come rappresentazione della condizione umana24.

20 Germaine Greer, Colloquio con Primo Levi, in Opere complete III, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi 2018, p. 576. 21 Alberto Cavaglion, Argon e la cultura ebraica piemontese (con l’abbozzo del racconto), in Primo Levi. Il presente del passato, Milano, Franco Angeli 1991, p. 169.

22 A. Cavaglion, Notizie su Argon. Gli antenati di Primo Levi da Francesco Petrarca e Cesare Lombroso, Torino, Instar libri 2006, p. 2.

23 Carole Angier, Il doppio legame. Vita di Primo Levi, Milano, Mondadori 2004, p. 25.

24 Martina Bertoldi, La costruzione de “Il sistema periodico” di Primo Levi, “Ticontre. Teoria Testo Traduzione”, 6 (2016), p. 73.

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Cavaglion racconta di aver ricevuto in dono da Levi la copia dattiloscritta del testo nel 1973, due anni prima della pubblicazione. Questo abbozzo provvisorio, che ebbe circolazione ristretta nell’ambito della comunità ebraica piemontese, doveva servire come base per una trattazione più ampia sulla lingua dei suoi antenati, che Levi stava studiando in quel periodo.

Gli avi ebrei piemontesi vengono associati, con un’ironica analogia, ad alcuni elementi del Sistema Periodico, quali l’argon, lo xenon, il neon e il krypton, che hanno tre caratteristiche peculiari: sono gas inerti, nobili e rari. Tra tutti questi Levi elegge l’argon a rappresentazione dei suoi antenati. Come fa notare Cavaglion, questo espediente stilistico non fu colto, alla prima lettura, dalla comunità ebraica piemontese, che sottovalutò le potenzialità del testo. Ma, a ben vedere, la metafora dell’inoperosità non rappresenta una novità nel panorama letterario italiano tra Otto e Novecento: in molte opere di ambiente torinese si ritrova la tematica di un mondo spento, inoperoso e privo di vitalità25.

In Argon passività e attività descrivono non solo categorie chimiche, ma anche, nel loro valore strettamente metaforico, profondi stati d’animo26. Infatti, a ben vedere, l’inerzia di cui parla l’autore

per definire i suoi antenati va intesa in senso retorico: questi gas hanno molte risorse, portano nomi dotti e sono indispensabili per la sopravvivenza di ogni essere umano. Allo stesso modo, gli antenati ebrei erano persone operose e attive in ambito lavorativo, riflessive e speculative nella conversazione quotidiana. Dunque, come emerge fin dalle prime righe del testo, lo scrittore si serve di un meccanismo narrativo molto complesso, basato sulla dissimulazione. È dietro questa messa in scena, che, secondo Cavaglion, si nasconde il significato di Argon27. La dissimulazione rappresenta la via d’accesso ad un mondo meraviglioso, sconosciuto al pubblico italiano, perché “inusuale rispetto al tipo di scrittura cui Levi ci aveva abituati”28.

A ben vedere però, Argon non si presenta come un unicum nell’opera leviana. Nel racconto Il fondaco

del nonno, confluito tra le pagine de L’altrui mestiere, Levi getta uno sguardo sul negozio di stoffe

del nonno materno29. Il nipote gli attribuisce le stesse proprietà degli antenati ebrei piemontesi, descrivendolo come un uomo arguto, ironico e di poche parole, ma soprattutto come un grande lavoratore. Inoltre l’appellativo di Monsù Ugotti, racconta Levi, deriva dal commerciante da cui aveva rilevato l’attività e ha continuato ad esser tramandato per via generazionale, tanto da essere affibbiato persino al Nostro. Si rileva la stretta analogia con la “barbalinearità”, come la definisce

25 Ivi, p. 3.

26 A. Di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora, cit., p. 104. 27 A. Cavaglion, Notizie su Argon, cit., p. 5.

28 Ibidem.

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Cavaglion in luogo della matrilinearità dell’ebraismo tradizionale, quale caratteristica peculiare degli antenati ebrei piemontesi. Per quanto concerne il linguaggio, poi, in questo racconto si legge che i venditori del negozio “comunicavano tra di loro in piemontese, intercalando però nella parlata una ventina di termini tecnici che i clienti […] non avrebbero dovuto decifrare, e costituivano un microgergo scheletrico”30. L’analogia con Argon si conclude con la carrellata di immagini su

personaggi leggendari o sugli zii di Levi, tutti “figé dans un’attitude”.

Il tema degli antenati, come ha rilevato Antonio Di Meo, rappresenta un aspetto importantissimo dell’opera di Levi, ed è, più in generale, un tratto tipico della cultura ebraica, come dimostrano gli esempi dell’Antico Testamento e del Vangelo di Matteo e Luca, pieni di riferimenti alle genealogie degli ebrei31. La storia della propria genealogia, dice Di Meo, è servita a molti autori ebrei per riscattare la dispersione della propria personalità di fronte ad un ambiente estraneo e ostile. Nel caso specifico di Argon, invece, l’elemento chimico “inoperoso” è metafora del silenzio di Dio, “l’assenza dell’azione di Dio a protezione del suo popolo tormentato e torturato. Assenza che costringeva gli ebrei a dover agire, essi stessi in prima persona, cioè a fuoriuscire dalla passività”32.

Il testo liminare della raccolta si configura, sin da subito, come un tentativo di riscattare gli antenati ebrei dalla condizione di discriminazione di cui essi sono stati vittime in passato. La loro è, infatti, una storia di emarginazione ed esclusione, che li ha costretti a vivere separati dal resto della comunità piemontese.

Il racconto s’impernia su due aspetti fondamentali: quello narrativo, con una sintesi di storie, usi e costumi degli avi ebrei, e quello linguistico, con cui l’autore offre una panoramica dei loro motti arguti e del gergo furbesco, rimasti a livello orale nella memoria familiare. Gli antenati sono ricordati per qualche espediente che li ha visti protagonisti, per qualche peculiarità o caratteristica personale, con l’accompagnamento di espressioni tipiche del gergo ebraico piemontese. Quello del linguaggio è un aspetto centrale del racconto, perché, come ha evidenziato Cavaglion, la descrizione dei personaggi è subordinata al loro ruolo linguistico. Si tratta di “personaggi-parole”, ognuno dei quali “indossa come un abito di scena l’espressione del gergo che Levi ha cucito su misura per lui”33.

Lo scrittore, infatti, tratteggia una sorta di dizionario del lessico ebraico piemontese spiegando che, ad esempio, i suoi antenati chiamavano dispregiativamente i cristiani “gôjìm”. Questo termine deriva dall’ebraico goy e significa “popolo” o “nazione”. Come si legge nel Piccolo dizionario

30 Ivi, p. 971.

31 A. Di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora, cit., p. 108. 32 Ivi, p. 109.

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dell’ebraismo, esso è applicato nella Bibbia sia ai non Israeliti che al popolo d’Israele. In un secondo

momento, tuttavia, prevale la tendenza ad applicarlo solo alle altre nazionalità e, inoltre, esso può assumere sfumature peggiorative34. Lo scrittore fornisce anche una chiave di lettura per le storie degli avi che si accinge a raccontare, spiegando che essi attribuivano gli appellativi “barba” e “magna” per designare gli zii e le zie, da intendersi, però, non nella loro accezione ristretta, ma in senso ampio per tutte le persone anziane della comunità. Inoltre, nel caso degli zii di età avanzata i due attributi, afferma Levi, tendevano a fondersi con il nome, dando vita ad appellativi che si tramandavano nel corso delle varie generazioni.

Un aspetto importante che emerge dalla descrizione del gergo ebraico piemontese è il riso e l’ironia di cui è pervaso, da interpretarsi come una forma di riscatto rispetto alla miseria quotidiana subita con l’esilio. In Argon l’ironia si presenta in tre forme diverse e allo stesso tempo interconnesse: è, in primo luogo, una caratteristica del gergo furbesco degli antenati ebrei; è il mezzo attraverso cui il narratore presenta i personaggi; infine, l’ironia è l’altra faccia dell’autoironia di Levi, dal momento che “un ebreo che racconta una barzelletta sugli ebrei sta ridendo di sé stesso”35. È rilevante, infatti, che tutto

lo studio di Cavaglion su Argon si basi su una lettura umoristica del testo, da catalogarsi sotto la categoria del bachalòm. Questa locuzione, come spiega Levi, significa “in sogno” ed è “da aggiungere burlescamente ad un’affermazione affinché venga intesa dal partner, e solo da lui, come il suo contrario”36.

Per quanto concerne la galleria delle eccentricità di Argon, vi sono, da un lato, “barba” e “magne” appartenenti alla famiglia di Levi, e, dall’altro, protagonisti di vicende tramandate nel corso degli anni. Gli antenati più lontani nel tempo sono fotografati per mezzo di una frase o un’azione che li ha contraddistinti. Tra i personaggi “figé dans un’attitude” Levi ricorda la zia Abigaille, la cui vicenda è rappresentata in meno di tre righe e tra parentesi. La donna “era entrata in Saluzzo a cavallo d’una mula bianca, risalendo da Carmagnola il Po gelato”37. Quello di Magnavigàia è un mondo fantasioso,

dove una mula bianca sostituisce il principesco cavallo bianco delle fiabe, e una sposa percorre un Po dalle anse troppo piccine, dunque un’immagine difficilmente fotografabile in un quadretto di vita piemontese.

Altri personaggi sono figure simboliche che Levi attinge alla religione ebraica. Barbamiclín viene definito con un solo aggettivo: “era un semplice”, dice laconicamente il narratore. Inoltre, era soprannominato “Piantabibini”, perché gli era stato detto che i “bibini”, cioè i tacchini, “si seminano

34 Patrizia Sola (a cura di), Piccolo dizionario dell’ebraismo, Milano, Gribaudi 1999, p. 64. 35 C. Angier, Il doppio legame, cit., p. 26.

36 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 9. 37 Ivi, p. 6.

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come i pesci, piantandone le penne nei solchi, e crescono poi sui rami”. Questa citazione, come rileva Cavaglion, è tratta dall’episodio di Le avventure diPinocchio in cui il Gatto e la Volpe convincono

il protagonista dell’esistenza di un albero su cui crescono monete d’oro anziché frutti38. Ma, secondo

lo studioso, “Collodi è solo uno schermo”: nell’episodio di Barbamiclín protagonista è “Sôra pita”, la tacchina che infastidisce il signor Lattes, vicino di casa dello zio Pacifico39. Anche la tacchina partecipa di quella dissimulazione che è cifra stilistica peculiare di Argon: lo zio le si rivolge come se fosse una persona, l’animale “ubbidisce senza convinzione. Entrambi pensano il contrario di quello che sono costretti a dire”: la verità è lasciata all’immaginazione40. L’umanizzazione del tacchino,

animale vittima di un triste rituale di sgozzamento nella tradizione ebraica, si intreccia al destino di sofferenza degli ebrei, da cui scaturisce l’ilozoismo di Levi41.

La rete dei riferimenti letterari, nella “minicommedia” di Piantabibini, si estende, secondo lo studioso, al filone religioso: a ben vedere, l’appellativo del protagonista come “semplice”, e la dichiarazione secondo cui “i semplici sono figli di Dio e non dirai loro ‘raca’”, è di matrice biblica: si tratta di una variazione di Salmi 116, 6, “Dio protegge i semplici” con l’aggiunta di una citazione dal Vangelo di

Matteo:“chi poi dice al fratello: ‘Stupido’ dovrà essere sottoposto al sinedrio”42. Siamo in presenza

di un caso di sincretismo che avvalora l’ipotesi della dissimulazione come base stilistica di Argon. Se, infatti, lo scrittore afferma che i termini legati alla sfera cattolica subiscono una modificazione molto profonda dell’originaria forma ebraica, nel passo in questione, di contro, Levi rinvia alla fonte biblica in modo “per nulla corrotto, anzi filologicamente impeccabile”, per dimostrare che quel linguaggio criptico non era necessario sempre, e soprattutto non è un vincolo per lo scrittore stesso. Il carattere dell’inerzia è incarnato al meglio dai barba: si può citare, tra i tanti, l’esempio di Nonô Leônìn, che, avendo i piedi piatti, si rallegrò molto quando i cittadini di Casale lastricarono il vicolo dove abitava. Barbaraflìn, invece, si innamorò di una ragazza, a cui non aveva il coraggio di dichiararsi, tanto da scriverle lettere che poi non spediva, ma a cui rispondeva da sé.

Vi è poi la storia di due barba dal carattere opposto, il Gnôr Grassiadiô e il Gnôr Colombô, ognuno dei quali possedeva un animale dalle caratteristiche peculiari. Il Gnôr Grassiadiô aveva un pappagallo che ripeteva l’espressione “Nosce te ipsum”; il Gnôr Colombô, invece, si era comprato una cornacchia che, alla frase in latino rispondeva con una massima in dialetto piemontese: “Fate furb”. Questa personificazione degli animali, vero e proprio fil rouge che attraversa tutta l’opera leviana,

38 A. Cavaglion, Notizie su Argon, cit., p. 67. 39 Ibidem.

40 Ibidem. 41 Ivi, p. 69. 42 Cfr. Matteo 5, 22.

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risponde ad un messaggio che Levi vuole mandare ai suoi lettori. Secondo la tesi di Cavaglion, l’espressione messa in bocca alla cornacchia è legata alla citazione latina in epigrafe all’abbozzo di

Argon43. La frase, ripresa dai Tristia di Ovidio (IV 10, 1-2), recita: “Quem legis ut noris”. Uno dei

motivi che ha spinto lo scrittore ad eliminare l’epigrafe è che la posterità non potrà mai sapere chi è veramente l’autore, e che, a ben vedere, non si è in grado di conoscere nemmeno sé stessi. La cornacchia del Gnôr Colombô sembra avvalorare questa tesi.

L’espressione “fatti furbo” ritorna, stavolta in italiano, a distanza di qualche capitolo, sulla bocca di Giulia, la collega a cui Levi fa una corte pacata e timida. In Fosforo il protagonista giunge a conclusione che la sua “incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello”44.

La sezione narrativa che segue descrive la storia del dialetto ebraico piemontese, che è occasione per alcune riflessioni di ordine morale. Nonostante l’esiguità del dialetto ebraico, afferma Levi, si tratta di un linguaggio di grande valore umano, “come lo è quello di tutti i linguaggi di transizione e di confine”45. Tutte le comunità ebraiche italiane, infatti, avevano sviluppato linguaggi simili,

costituitisi in gergo e doppiamente segreti, in cui l’ebraico si combinava con i dialetti locali. Il plurilinguismo dell’ebraico piemontese viene spiegato da Levi attraverso la metafora degli strati geologici: esso è il risultato della stratificazione tra l’ebraico dei padri, lingua “sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l’alveo dei ghiacciai”, e il dialetto piemontese “scabro, sobrio e laconico, mai scritto se non per scommessa”. Questo contrasto del linguaggio ebraico riflette, per Levi, la spaccatura profonda insita nell’animo ebreo e, ad un livello più generale, la condizione dell’uomo, dimidiato tra spirito e materia, “groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere”46. Tale condizione, poi, rinvia nello specifico all’ibridismo insito in Levi, vissuto dall’autore

come una spaccatura tra le varie sfaccettature della sua personalità.

Di questa condizione Levi stesso non fa mistero in un’intervista a Edoardo Fadini, in cui egli rivendica la doppia natura della sua anima:

Io sono un anfibio, un centauro […] e mi pare che l’ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica: sono un tecnico, un chimico. Un’altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti. Sono proprio due mezzi cervelli. È una spaccatura paranoica47

43 Ivi, p. 112.

44 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 117. 45 Ivi, p. 8.

46 Ivi, p. 9.

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Come evidenziato da Belpoliti, tutta l’opera di Levi è attraversata dal motivo dell’identità centauresca. In un primo tempo la spaccatura è quella tra lo scrittore concentrazionario e l’autore di brevi racconti, che sembrano irrelati rispetto al tema del Lager. A ben vedere, però, la divisione non coinvolge solo la sua esperienza di scrittore: tutta la condizione umana è attraversata da una natura centauresca. L’espressione più chiara di questa si trova in un racconto del 1961 incluso in Storie

naturali, Quaestio de Centauris48, in cui la figura mitica del centauro viene eletta a rappresentazione della condizione umana. Nel mito greco il centauro è un essere metà uomo e metà cavallo, due parti inglobate in una stessa personalità: “l’immagine evidente dell’instabile unione tra istintualità e raziocinio”49.

Nel Sistema periodico Levi riprende l’immagine del centauro attribuendola al popolo ebraico, inteso come emblema della condizione umana. Allargando lo sguardo, si può dire che in questa natura dimidiata si nasconde il significato profondo di un testo come Il sistema periodico: si tratta, infatti, di un “libro sulla sua avventura di chimico, un libro autobiografico, quasi memorialistico, che però contiene continui punti di fuga, direzioni e svolgimenti narrativi che esorbitano rispetto al suo asse centrale, quello della vita di Primo Levi chimico”50. In quest’opera il mestiere di chimico si lega alla storia personale dello scrittore, al contesto storico e politico in cui si trova a vivere e, infine, alle sorti del popolo ebraico nella storia contemporanea d’Europa.

Come emerge in più punti del racconto, la condizione di emarginazione ha portato gli antenati ebrei a sviluppare un senso di superiorità e di orgoglio, frammisto a quello di inferiorità cui sono costretti. Ad apertura di racconto, infatti, Levi asserisce che i gas inerti sono talmente paghi della loro condizione da non combinarsi con gli altri elementi. Quando poi fa riferimento agli antenati, egli afferma che, nonostante siano mancate storie di persecuzione, “una parete di sospetto, di indefinita ostilità, di irrisione”51 era stata eretta contro gli ebrei. Poche righe più avanti il narratore, quasi a riscattare il vilipendio, dichiara che “il rifiuto era reciproco: da parte della minoranza, una barriera simmetrica era stata eretta contro l’intera cristianità […] riproducendo, su scala provinciale e su uno sfondo pacificamente bucolico, la situazione epica e biblica del popolo eletto”. Le loro storie, inoltre, “hanno in comune […] un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata)

48 Si legge in Opere complete I, cit., pp. 593-604.

49 M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 376. 50 P. Levi, Opere complete II, cit., p. 1521.

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relegazione al margine del gran fiume della vita”52, dove l’aggettivo tra parentesi, più che rappresentare un’opposizione, indica semmai la duplice natura di questa condizione.

Per quanto concerne l’aspetto linguistico, che si intreccia di continuo alla narrazione di questo magico mondo scomparso, Levi racconta che alla base di questo gergo furbesco vi era, inizialmente, l’esigenza di mantenere la segretezza e di difendersi dalla maggioranza. Infatti, le parole più diffuse riguardano termini che concernono la sfera dell’oppressione e della mancanza di difesa: “manod”, cioè soldi, “lachtì”, ossia nascondersi, “pàhad”, che significa paura. Un altro gruppo di termini era impiegato con valore dispregiativo, ma anche, in senso ironico, tra moglie e marito: “’n sarod”, ad esempio, deriva da “tzarà” ed era usato per designare persona o merce di poco valore. Un terzo gruppo di termini era nato nel settore del commercio delle stoffe, che nel secolo scorso era in mano agli ebrei. Come ha sottolineato la Angier, questo “sotto-gergo specialistico” era usato per nominare in codice i prezzi dei prodotti, che spesso venivano stabiliti al momento dell’acquisto sulla base della ricchezza e desiderabilità del cliente. Altre parole erano usate per comunicare in segreto raccomandazioni e avvertimenti: un “missià”, ad esempio, era un cliente noioso53. Levi ci dice, inoltre, che molti

commercianti non ebrei, lavorando con i proprietari, si sono appropriati, anche inconsapevolmente, di questo gergo, utilizzando le stesse espressioni. Tra i vari termini appartenenti a questo gergo furbesco i più interessanti sono quelli afferenti alla sfera religiosa cattolica, che si presentano come criptici e storpiati per due motivi: prima di tutto al fine di evitare la comprensione da parte dei “gentili”, in secondo luogo per spogliare le parole del loro valore “magico-sacrale”. La sinagoga, ad esempio, era detta “scòla”, in allusione al luogo dove si impara e si viene educati; “Odò” era utilizzato, invece, per designare Cristo, “quando proprio non se ne poteva fare a meno”54, afferma Levi con

ironia. Altri termini, infine, sono tratti direttamente dai libri sacri e dal rituale ebraico, ma il loro uso gergale ne ha deformato e allargato l’area semantica. Gli esempi citati dall’autore mettono in luce l’aspetto ironico e comico di questa “bizzarra parlata”. Ad esempio, a partire dal significato biblico di “spandere”, il termine “shafòkh” ha dato vita all’espressione “fé sefòkh”, che veniva utilizzata dalle donne per designare il vomito infantile. Anche il termine “rùakh” è passato dal significato alto ed illustre di “alito” a quello basso e prettamente gergale di “tirare un vento”; nel passo in questione, inoltre, è da notare che alla comicità di cui si colora l’espressione si aggiunge il commento ironico dell’autore, il quale afferma che in questa forma “si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore”55.

52 Ibidem.

53 C. Angier, Il doppio legame, cit., p. 27. 54 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 11. 55 Ivi, p. 12.

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La Angier osserva che la barriera linguistica esistente tra ebrei e cristiani non era del tutto impermeabile: molti termini filtrarono all’esterno, anche perché il linguaggio degli ebrei piemontesi aveva come struttura il dialetto piemontese. La biografa di Levi legge, in questa barriera permeabile di muta autodifesa, il significato storico della metafora del racconto56. Il significato personale, invece, è da ricercarsi nel riferimento all’inerzia come caratteristica peculiare degli avi piemontesi. Quest’ultima, così come l’interesse alla “discussione gratuita” e alla “speculazione disinteressata” sono, a ben vedere, anche tratti della personalità dello scrittore, che, afferma la Angier, vaglia attentamente le storie da inserire nel racconto: “Il ritratto degli antenati di Primo Levi ci parla tanto di lui quanto di loro”57.

Due personaggi in particolare rappresentano appieno la metafora dei gas inerti: Barbaricô e Barbabramìn58. Il primo era un medico, ma non gli piaceva il mondo: non sopportava i rumori della città, “gli impegni, gli orari e le scadenze”, ma era troppo inerte per cambiare vita. Alla fine, andò a vivere a Torino, dove continuò a condurre la sua vita pigra, evitando gli impegni del matrimonio e del lavoro. Quando Levi lo conobbe, era un vecchietto “rattrappito e trasandato”, conviveva con una “gôià”, che voleva persino farlo battezzare, ma senza successo, per via di quella tendenza all’inerzia e all’indifferenza che lo caratterizzava. A questa donna i familiari di Barbaricô avevano attribuito l’appellativo “ironico e crudele” di “Magna Môrfina”, ironico perché gôià e senza figli, quindi senza possibilità di diventare “magna”, crudele perché si era diffusa la diceria, probabilmente falsa, di “un certo suo sfruttamento del ricettario di Barbaricô”59. A mio parere, in questa descrizione analitica è

evidente come il tratto dell’inerzia, da cui potrebbe emergere un ritratto in negativo del vecchio medico, sia strettamente legato ad un’esaltazione dello stesso, come si legge tra le righe: quando lo scrittore afferma che Barbaricô non amava il mondo, corregge subito il tiro giustificando il motivo di un’affermazione così forte; in secondo luogo, il narratore dice che il vecchietto tentava di liberarsi dalla gôià “saltuariamente e debolmente”, da cui trapela la bontà d’animo e l’impossibilità a fare del male da parte di Barbaricô; l’elogio dello stesso si conclude con l’attribuzione della dote di divoratore di libri e della assenza di bisogni.

L’altro barba degno di nota è Barbabramìn, parente dello scrittore in quanto fratello della sua bisnonna. L’inerzia che lo contraddistingueva era di un altro tipo. Levi racconta che si innamorò della prima domestica, “havertà” nel gergo ebraico piemontese, che girava in casa sua per accudire la madre. Il narratore offre una breve descrizione di questa gôià, una contadina analfabeta che girava

56 C. Angier, Il doppio legame, cit. p. 28. 57 Ivi, p. 29.

58 Ivi, p. 30.

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scalza per la casa ed era insolente con i suoi datori di lavoro. Barbabramìn si era innamorato della sua libertà, della sua cucina e della sua bellezza, ma quando i genitori seppero che intendeva sposarla, glielo impedirono. La reazione di Barbabramìn fu degna della sua inerzia: rimase a letto per ventidue anni, durante i quali mandò in rovina la sua famiglia. Tutto il resto è avvolto in una nube leggendaria: si narra che l’uomo passasse il suo tempo a leggere e a dirimere controversie. Inoltre, di tanto in tanto, interrompeva la sua routine per accogliere nel suo letto la bella havertà o per sgattaiolare nel bar sotto casa. Alla morte dei genitori sposò la donna, ma rimase a letto, ormai troppo debole per qualsiasi azione: “morì povero, ma ricco d’anni e di fama, e in pace di spirito”, conclude ironicamente il narratore.

La sezione narrativa finale, aggiunta in un secondo momento, si allaccia alla storia personale dello scrittore. In ossequio alla legge dominante della dissimulazione, Levi parla di sé il meno possibile in

Argon. Le ultime pagine hanno, dunque, un valore fondamentale, perché solo a questo punto fa

capolino la sua persona, nei panni di un timido bambino che mette in tasca il cioccolatino tarlato donatogli dalla nonna. Si tratta di Nona Màlia, che sopravvive in alcune pose di studio, nei suoi “preziosi cimeli” e nei ricordi sbiaditi di Levi. Egli racconta che la donna, prodiga e “stracciacuori” da giovane, andò inclinando verso l’avarizia e la stranezza quando, in età avanzata, sposò un uomo burbero e taciturno. Cominciò a conservare tutto ciò che le veniva sotto mano, “robe raffinate e pattume rivoltante”, frequentava la parrocchia e pare che si confessasse anche. La descrizione della donna si intreccia, nella sezione finale, al ricordo personale dello scrittore, che andava a trovarla con il padre. Anch’egli è dipinto nella sua singolarità di ebreo sui generis: essendo un ingegnere, “verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto”. Inoltre, nonostante il divieto ebraico di mangiare quel prosciutto, cedeva ogni volta alla tentazione, ma sospirando e imprecando, quasi chiedendo la complicità del figlio.

Il quadretto familiare si conclude con il rito della visita domenicale alla nonna, scandito dall’esclamazione: “A l’è ’l prim ’d la scòla!” e dal ricordo dei cioccolatini tarlati che la nonna offriva ripetutamente al bambino, e che egli faceva sparire in tasca “pieno d’imbarazzo”.

L’espressione orgogliosa del padre di Levi, che vanta il titolo di primo della classe per il figlio, viene accostata da Cavaglion a Un letterato ebreo, uno dei Ricordi-Racconti di Saba, in cui il protagonista viene dipinto come un futuro “luminare del Giudaismo” dal suo maestro di religione, con l’espressione “un vero hahàm!”60. Il “primo della classe”, in effetti, occupa un posto speciale, non

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solo in “Argonopoli”, ma anche nella tradizione ebraica torinese, terra fertile per le materie scientifiche.

La descrizione di Nona Màlia è ricca di particolari da cui emergono due aspetti rilevanti: il primo è l’ironia con cui viene tratteggiata la figura della donna, un tratto tipico della scrittura leviana; il secondo è la rappresentazione negativa che trapela della nonna paterna. Quando, ad esempio, egli racconta del suo estraniamento dagli affetti familiari, tra parentesi rivela che “del resto non doveva aver mai sentiti con profondità”. Dunque, un primo tratto non espresso nel testo, ma cui si allude implicitamente, è quello della freddezza, tant’è che, poche righe più avanti, Levi afferma che suo padre si rivolgeva a lei in terza persona. A conferma di questo tratto della personalità, descrivendo gli incontri settimanali a casa della nonna, Levi dice che la donna li accoglieva “con visibile riluttanza”. In secondo luogo, egli afferma che le amiche della nonna erano “indementite come lei”; era, inoltre, una donna avara e tirchia, tanto da nascondere i suoi gioielli, poi rivelatisi falsi, fino ai suoi ultimi giorni. Questo ritratto di donna algida e distante può essere inteso come metafora di un sentimento di abbandono vissuto dal Levi bambino, che si riflette nel destino dei suoi antenati ebrei piemontesi, abbandonati e costretti ad un lungo esilio. Storia personale e vicenda del popolo di appartenenza sono legati da un nesso inscindibile, a sottolineare la forte volontà, da parte di Levi, di connettersi alle proprie radici.

Francesca Medaglia, invece, studiando Argon, ha visto, dietro la rappresentazione di una emarginazione rispetto al resto della società piemontese, una storia di mescolanza e contaminazione61. Lo dimostra, secondo la studiosa, il matrimonio tra lo zio ebreo di Levi e una cristiana, o il fatto che suo padre non riesca a fare a meno del prosciutto, nonostante i sensi di colpa. L’ibridazione è evidente anche a livello linguistico, alla luce delle continue intersezioni tra l’italiano lucido di Levi, le espressioni in dialetto piemontese e le parole ebraiche. La Medaglia, inoltre, pone sullo stesso piano le relazioni tra gli elementi della chimica e quelle umane. Come gli elementi del Sistema Periodico interagiscono tra di loro, creando la materia, così l’esperienza umana e letteraria di Levi è determinata da una serie di relazioni con persone diverse tra loro. Perciò, afferma la Medaglia, ad ogni elemento è associato un episodio o un’esperienza che ha cambiato e accresciuto l’identità di Levi.

Dunque, si tratta di un’ulteriore conferma della tesi, sostenuta da Cavaglion, di un racconto basato sulla dissimulazione: tutto il paragone con i gas inerti si auto-contraddice, perché l’aspetto su cui pone l’attenzione Levi non è la rarità e l’inerzia di questi elementi, ma il loro carattere ibrido.

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Per quanto concerne la ricezione del testo, Cavaglion racconta che Italo Calvino, leggendo il dattiloscritto di Argon, che aveva ricevuto in anteprima assieme agli altri capitoli dell’opera, ritenne che il racconto fosse troppo eterogeneo rispetto agli altri per assumere la posizione iniziale, e consigliò allo scrittore di far comparire il capitolo verso la metà dell’opera, in particolare dopo l’esperienza concentrazionaria, quando egli ritrovò i parenti scampati, a simboleggiare una certa continuità familiare. Nella lettera del 12 ottobre 1974 si legge:

Quanto a Argon ho sempre le mie riserve sul fatto che sia in apertura […] perché è il solo capitolo in cui l’elemento chimico sia metaforico; anche qui la difformità strutturale darebbe meno nell’occhio se il capitolo comparisse verso la metà del libro. (Per esempio: ritorno dalla deportazione; ritrovare i familiari scampati; riflessione su cosa è stata questa continuità familiare.)62

Nonostante la fermezza di Levi nel conservare la posizione liminare del racconto, secondo Cavaglion l’autore de Il sentiero dei nidi di ragno ha un ruolo centrale nell’ispirazione del testo, perché da lui sarebbe partita l’intuizione secondo cui quegli antenati goffi e patetici sono pur sempre degli aristocratici; inoltre, alcune figure femminili, come la zia Abigaille, sono rivisitazioni calviniane dell’Ariosto. Infine, di matrice calviniana è l’idea “secondo cui ‘i nostri antenati’ vanno osservati con la bonaria affettuosità con cui si osservano sovrani poveri, sussiegose ma fatue regine, principi o cavalieri decaduti”63. La conclusione della stesura di Argon del ’73 con la figura del sedicente

barone-zio Barbabramìn non sarebbe affatto casuale: si tratta, secondo Cavaglion, di una “malcelata forma di captatio benevolentaie”. A Calvino, dunque, il Nostro presentava la versione, in forma ridotta e accorciata, di un suo personale ciclo degli antenati, presentati non come baroni rampanti o cavalieri inesistenti, ma nella forma di “savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa”.

Lo studioso, allargando lo sguardo oltre l’orizzonte provinciale, scorge poi una risorsa più lontana nel tempo, e tuttavia costante: si tratta delle Scorciatoie e dei Ricordi-Racconti di Saba, da cui deriva la rappresentazione del “personaggio-zia”, inteso come asse portante della famiglia ebraica nell’Ottocento. Appartiene al poeta triestino anche il principio della dissimulazione, l’idea della messa in scena, che si espleta nell’opera di Levi come idea che la sola verità sia quella del sogno. Tra le varie storie degli avi piemontesi ce n’è una in particolare che, secondo lo studio di Cavaglion, è di matrice sabiana. Si tratta dell’episodio che ha come protagonista Barbarônìn: il narratore racconta di quando i genitori, andati ad assistere alla prima rappresentazione teatrale del figlio e vedendolo

62 Cfr. Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli. Introduzione di Claudio Milanini, Milano, Mondadori 2000, p. 1256. 63 A. Cavaglion, Notizie su Argon, cit., p. 12.

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“armato come un filisteo”, gli intimarono, in dialetto piemontese, di posare la sciabola. Questo racconto conferma la tesi dello studioso secondo cui, in Argon, l’artificio prevale sulla rappresentazione della realtà. Si tratta infatti di un calco da un racconto di Saba, Tommaso Salvini e

il mio terribile zio64: Saba racconta che da bambino era andato a vedere una rappresentazione dell’Oreste di Alfieri con lo zio, per vedere in azione Tommaso Salvini nelle vesti di Pilade. L’eroe, rivolgendosi all’amico, pronuncia la frase “Dammi quel brando”, che finisce, privata di ogni classicità, sulla bocca della zia Allegra65.

Allargando lo sguardo alla posizione del testo nell’opera, si può notare come la disposizione di Argon ad apertura del Sistema periodico non sia affatto casuale, ma si inserisca all’interno di uno schema narrativo ben preciso. Come ha rilevato Antonio di Meo66, la categoria chimica della passività, con cui si apre l’opera, fa da contraltare al capitolo finale, rappresentato dal carbonio, l’elemento più attivo e più legato alla dinamica della vita sul nostro pianeta. Anche la Bertoldi rileva la stretta affinità tra Argon e Carbonio, entrambi incentrati sullo stesso tema del rapporto tra spirito e materia, anche se rappresentati da elementi con caratteristiche antitetiche: l’argon, in quanto gas inerte, non si combina con nessun altro elemento, mentre il carbonio è sempre associato agli altri elementi, in quanto simbolo della vita. Inoltre, come fa notare Zublena, la scelta dell’elemento argon ha un valore prettamente metaforico, mentre “l’atomo di carbonio non costituisce più un figurante metaforico, ma viene rappresentato”67. Lo stesso Calvino, come si è detto, dimostra il suo dissenso nei confronti della

posizione iniziale di Argon proprio “perché è il solo capitolo in cui l’elemento chimico sia metaforico”.

Come è emerso dalle varie “novelle teatrali” raccontate in Argon, a partire da questo racconto si dipana una rete vastissima di riferimenti letterari. La struttura del testo, secondo Cavaglion, deriva da un racconto di Augusto Monti, Un savio Natano monferrino, in cui l’autore racconta della sua infanzia e giovinezza ad Acqui e descrive le amicizie importanti nella formazione di suo padre. Tra queste Monti ricorda un certo De Benedetti, che parlava un dialetto infarcito di espressioni ebraiche e il cui motto personale era “io leggo la vita a tutti”. L’espressione “leggere la vita” è oggetto di un saggio confluito ne L’altrui mestiere, ma la conclusione di Levi, in quelle pagine, è di carattere opposto: “io non leggo la vita a nessuno”, afferma lapidariamente il Nostro. In questa espressione è da ricercare, per Cavaglion, il significato profondo di Argon.

64 Umberto Saba, Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori 2001, pp. 497-502. 65 A. Cavaglion, Notizie su Argon, cit., p. 28.

66 A. di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora, cit., p. 104.

67 Paolo Zublena, Un sistema quasi periodico. Il linguaggio chimico nel Sistema periodico di Primo Levi, in L’inquietante simmetria della lingua. Il linguaggio tecnico-scientifico nella narrativa italiana del Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso 2002, pp. 75 e 82.

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Inoltre, come anticipato, è importante sottolineare che nella versione accorciata del racconto è presente una citazione latina a fianco al titolo: “Quem legis, ut noris”, ripresa dai Tristia di Ovidio e poi eliminata nella versione definitiva. Oltre che a ragioni di carattere stilistico la rinuncia alla citazione ovidiana è il frutto, secondo Cavaglion, di una consapevolezza insita nella coscienza di Levi: “Se non sai chi sei, non puoi pretendere che altri lo sappia meglio di te. Tutto questo è ovvio. Di Ovidio non sappiamo, ma Levi […] fortemente dubita che uno possa sapere veramente chi è”68.

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Idrogeno: il primo approccio alla materia

Dopo aver delineato, in Argon, la genealogia degli antenati piemontesi, il focus della narrazione si sposta, a partire da Idrogeno, sulla storia personale e professionale del narratore. È la tappa iniziale della crescita progressiva di Levi come chimico, qui alle prese con il suo primo esperimento, condotto in un laboratorio rudimentale e parco di attrezzature.

La sequenza narrativa iniziale si apre in medias res: Levi e il suo compagno, Enrico, hanno ottenuto le chiavi per entrare in laboratorio. Le coordinate della vicenda si delineano solo nel corso della narrazione, ma prima il narratore si sofferma su una descrizione analitica del suo giovane compagno, definito subito nei suoi tratti morali. Enrico è presentato come un giovane coraggioso e maturo per la sua età, pieno di sogni concreti e realizzabili. Come Primo, anche Enrico vuol diventare un chimico, ma i suoi sentimenti nei confronti della scienza sono molto divergenti da quelli del narratore. Enrico aspira ad una vita tranquilla ed economicamente agiata; Levi, invece, vede la chimica come “una nuvola indefinita di potenze future”, da cui trarre ordine e comprensione della realtà circostante. Con una similitudine si paragona persino a Mosè, in attesa di ricevere risposte sul Monte Sinai.

Questa riflessione di carattere religioso è stata interpretata da Antonio Di Meo come esempio della sua tesi sul valore morale e filosofico assunto dagli scritti di Levi. Lo studioso, in particolare, individua una connessione tra ordine morale e naturale nella scelta giovanile di approcciarsi alla chimica. Mentre Enrico ricerca dalla chimica “gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura”, il giovane Levi si approccia alla materia in cerca di significati: “tale scelta, infatti, piuttosto che la ricerca di un mestiere, era stata […] una sorta di costituzione della propria personalità in relazione a quella del cosmo”69.

Inoltre Di Meo individua, nel passo in questione, un riferimento alla celebre frase della Critica della

ragion pura di Kant, “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”, con la differenza

che per Kant l’ordine del mondo risiede nel sistema newtoniano, mentre per il Nostro esso dipende dal Sistema Periodico di Mendeleev.

Per quanto concerne la vicenda raccontata in Idrogeno, Carole Angier afferma che essa corrisponde, quasi per intero, alla realtà. Dietro il personaggio di Enrico si nasconde una persona reale, Mario Piacenza70, che aveva le stesse caratteristiche attribuite da Levi al protagonista del racconto.

69 A. Di Meo, Primo Levi e la scienza come metafora, cit., p. 14. 70 C. Angier, Il doppio legame, cit., p. 96.

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Seguendo uno schema che si ripete quasi invariato nei vari racconti del Sistema periodico, il deuteragonista della vicenda si caratterizza per opposizione rispetto all’autore. Secondo la Angier, “è l’irruzione del Contrario, dell’Altro; l’altro, o il nemico, che Primo ammira e non ammira nello stesso tempo, con cui si misura e indaga quella che per lui diventerà la domanda della sua vita: Cos’è un

uomo?”71.

Inoltre, la biografa individua in Enrico le caratteristiche del piemontese per antonomasia: è coraggioso, tenace, spavaldo e dotato di senso dell’onore. Si tratta, a ben vedere, delle stesse qualità di cui il narratore rivestirà Sandro, altro grande amico durante gli anni universitari. Mentre però Enrico è legato alla materia dal punto di vista teorico e prettamente utilitario, il rapporto di Sandro con la natura è più diretto e concreto. Dunque, si potrebbe identificare Enrico come il primo passo della crescita professionale di Levi, e Sandro come una sua evoluzione: da un rapporto teorico e passivo con la materia si passa ad un approccio concreto e pratico con la stessa.

Primo ed Enrico condividono l’amore per la chimica, anzi, come specifica l’autore stesso in un’intervista, per l’alchimia72. Martina Mengoni definisce questo rapporto amicale tra i due in termini

di “dualismo”. Gli “autoritratti duali”, afferma la studiosa, sono quelli in cui “l’autore descrive sé stesso come membro di una coppia amicale, per similitudine o per contrasto”73.

Tornando al racconto, a confronto con Enrico il giovane Levi, con il suo “tormentoso oscillare dal cielo […] all’inferno” risulta piuttosto immaturo. Quando però i due giovani fanno il loro ingresso nel laboratorio, essi condividono una stessa atrofia e incapacità di agire: il narratore afferma che le loro mani sono ormai “rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili”74; aduse alla scrittura,

ignorano il contatto diretto con la materia. Per Levi il tatto è elemento fondamentale nell’approccio del chimico alla materia: parlando della sua chimica “a misura d’uomo”, egli afferma che la sua è stata anche la chimica dei fondatori, “che non lavoravano in equipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani […] La mano è un organo nobile, ma la scuola, tutta presa ad occuparsi del cervello, l’aveva trascurata. Dobbiamo pur saper usare le nostre mani”75.

71 Ibidem.

72 Cfr. M. Machiedo, La parola sopravvivrà, in Opere complete III, cit., pp. 30-34. 73 M. Mengoni, Primo Levi, autoritratti periodici, “Allegoria”, 71-72 (2015), p. 157. 74 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 24.

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È proprio in laboratorio che le mani vergini dei due personaggi interagiscono con strumenti e materiali. Innanzitutto, Levi ed Enrico lavorano con il vetro, piegando e soffiando tubi fatti del materiale stesso.

Luigi Cerruti ha evidenziato in queste pagine la presenza di un tema chiave dell’opera leviana, cioè la vocazione alla concretezza, strettamente connessa alla materialità del mondo e al lavoro, in quanto rappresentazione di quella umana76. Infatti, la sezione narrativa che precede il racconto dell’esperienza in laboratorio si conclude con una riflessione sulla necessità di una conoscenza concreta della realtà, che esuli dalla teoria scolastica. Le gemme, la mica e le mani, menzionati dall’autore, rappresentano i regni della natura, il minerale, rappresentato dalle gemme e dalla mica, e l’animale, cioè le mani, che egli vorrebbe maneggiare in modo concreto, in opposizione all’insegnamento dogmatico impartito a scuola. Cerruti pone l’accento sul corsivo usato da Levi, quel “non come loro vogliono”, sintomatico di un’insofferenza verso le nozioni impartite dai professori. Levi guarda al sé stesso di quaranta anni prima come ad un adolescente in cerca di avventura, di una “scorciatoia” verso il mestiere che lo interessa. In realtà, come fa notare lo studioso, l’apprendistato professionale di Levi seguirà un’altra strada, basata su uno studio arduo e su corsi di chimica sempre più impegnativi77. E tuttavia, l’intenzione adolescenziale di trovare una scorciatoia non viene meno

nel corso degli anni. In Ferro, infatti, Levi afferma che “C’era un metodo, uno schema ponderoso ed avito di ricerca sistematica […] ma io preferivo inventare volta per volta la mia strada, […] sublimare il mercurio in goccioline, trasformare il sodio in cloruro e ravvisarlo in tavolette a tramoggia sotto il microscopio”78.

Martina Mengoni, nella sua analisi di Idrogeno, inteso come inizio cronologico e genetico dell’opera, si sofferma su un’espressione in particolare, “Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze”, considerata di grande efficacia evocativa per via dell’accostamento semantico tra i lemmi che compongono il sintagma: “dragare”, dice la Mengoni, “è termine specifico, quasi tecnico”79; il

“ventre”, viceversa, è “termine polisemico, rabelaisiano (ma anche biblico), facile simbolo di cavità/maternità”; infine, il “mistero” è termine appartenente alla sfera dell’alchimia. Le due specificazioni finali, “con le nostre forze, col nostro ingegno”, secondo la studiosa riconducono tutta l’espressione al grado zero, “ridimensionando di colpo l’epos dell’impresa, senza però sminuirlo”.

76 Luigi Cerruti, Una vita concreta. Materia, materiali e lavoro umano in primo Levi, in Voci dal mondo per Primo Levi. in memoria, per la memoria, a cura di Luigi Dei, Firenze, University Press 2007, p. 42.

77 Ivi, p. 43.

78 P. Levi, Il sistema periodico, cit., p. 37.

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Dunque, per la Mengoni Idrogeno costituisce il motore del Sistema periodico, la spinta morale e conoscitiva ad un approccio concreto alla chimica.

L’incontro con la materia si presenta sotto forma di duello, di sfida del “chimico inerme” alla materia. La metafora bellica è un vero e proprio Leitmotiv del Sistema periodico, a scandire il rapporto di Levi con la materia, descritta di volta in volta come enigmatica, vecchia, passiva ed ingannevole. In

Idrogeno, infatti, il vetro, che è il primo strumento con cui Levi ed Enrico hanno a che fare, è definito,

nella sua “rigidità spietata”, come la prima vittima, il primo avversario da combattere. Lo scopo degli esperimenti, per i due adolescenti, non ha ancora a che fare con la chimica, ma con un approccio concreto alla realtà: “il nostro scopo era quello di vedere coi nostri occhi, di provocare con le nostre mani, almeno uno dei fenomeni che si trovavano descritti con tanta disinvoltura sul nostro testo di chimica”80. Nonostante Idrogeno immortali un momento iniziale della crescita professionale di Levi,

già emerge con forza il tentativo del futuro chimico di rapportarsi alla realtà “sporcandosi le mani”: come se fosse un bambino che guarda il mondo per la prima volta, lavorare con il vetro, plasmandolo con le proprie mani, è un atto di creazione affascinante. Proprio quelle mani “rozze e deboli ad un tempo” possono plasmare la materia e provocare fenomeni nuovi.

A tal fine, i due compagni vogliono preparare l’ossidulo d’azoto; ma, non avendo il materiale adatto, Primo ricorre all’elettrolisi dell’acqua. Enrico, dal canto suo, non è convinto della riuscita dell’esperimento che, in effetti, provoca un’esplosione. Nonostante il fallimento, Primo prova una “certa sciocca fierezza, per aver confermato un’ipotesi, e per aver scatenato una forza della natura”81.

L’elemento utilizzato è proprio l’idrogeno, come pensa il protagonista.

Nel finale quindi, come fa notare la Angier, i ruoli dei due compagni si invertono: Levi, che all’inizio ha dipinto Enrico come maturo e responsabile, prende in mano la situazione e si trasforma in chimico, salvando il suo onore di uomo82. Eppure l’esperimento si è concluso con un’esplosione, tant’è vero che l’anello di vetro di fondo è tutto ciò che ne rimane, “come un simbolo sarcastico”. Questa espressione viene interpretata dalla Angier come un monito a ricordare che “l’ambizione di comprendere il mondo con il potere della mente è troppo grande, troppo arrogante, troppo simile alle prerogative di un dio”83. Poco prima, nel descrivere il comportamento del tubo di vetro quando viene

soffiato, Levi afferma che l’esplosione che ne deriva è una “giusta punizione”, e paragona la

80 Ivi, p. 26. 81 Ivi, p. 27.

82 C. Angier, Il doppio legame, cit., p. 97. 83 Ibidem.

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