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Capitolo I. Profilo storico-linguistico della comunità dei parlanti

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Capitolo I. Profilo storico-linguistico della comunità dei parlanti

1.1 Cenni storici e demografici

Prosecutore della politica di progressiva apertura a fovore degli ebrei promossa a Firenze dal 1437 (cfr. MILANO 1971, 349), Lorenzo il Magnifico pensò di favorire lo sviluppo economico e commerciale del porto di Livorno consentendo anche la presenza di marrani1 nel ruolo di abili mercanti in grado di investire capitali e stringere importanti relazioni d’affari. Questa tendenza si rafforzò con Cosimo I, che nel 1549 invitò gli ebrei portoghesi convertiti a forza al cristianesimo a stabilirsi a Pisa, promettendo tutele di tipo giudiziario per crimini riguardanti la religione (cfr.

CASTIGNOLI 2001,77-83).Pochi anni dopo, la crisi del porto di Ancona del 1555-1556 causata dalle persecuzioni pontificie lo indusse a emanare un privilegio “segreto” con il fine di spingere gli ebrei anconetani in fuga a trovar rifugio e tolleranza religiosa nel porto di Livorno (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008, 32), unica città dello Stato Mediceo designata per tale scopo (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,56).

Ulteriori atti di apertura e accoglienza si riscontrano anche nell’operato di Francesco I, fondatore della città di Livorno nel 1575: l’anno successivo due mercanti levantini ebrei furono invitati a insediarsi a Pisa garantendo loro il pieno esercizio della libertà di culto (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,89). Dieci anni dopo, un piccolo nucleo di ebrei provenienti da Ferrara e Venezia era già attivo a Pisa nell’intrattenere rapporti con l’Africa del Nord e con le città italiane di provenienza, mentre la grande carestia che colpì l’Italia tra il 1590 e il 1592 favorì il decollo del nascente porto di Livorno, diventato scalo abituale delle navi olandesi cariche di grano provenienti dal Nord Europa (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,89).

È tuttavia con le Lettere Patenti promulgate nel 1591 e nel 1593 da Ferdinando I, altrimenti note come Costituzione Livornina o Leggi Livornine2, che Livorno divenne la città d’Italia più favorevole all’insediamento ebraico, soprattutto per i sefarditi, tanto da meritarsi il soprannome di

«piccola Gerusalemme» (BEDARIDA 1957,86).

1 Ebrei sefarditi convertiti a forza o per convenienza al cattolicesimo.

2 Per la stesura delle Lettere Patenti del 1591 il Granduca si avvalse della consulenza di un industriale e scrittore ebreo, Maggino di Gabriello (cfr. FRANCESCHINI 2008a, 20-21). Per il testo si è fatto riferimento all’edizione sinottica delle due redazioni del 1591-1593 pubblicata in allegato a TOAFF Renzo1990, 419-431.

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Con l’obiettivo di sviluppare i commerci e «resultare utile a tutta Italia e specialmente ai poveri» (FRATTARELLI FISCHER 2008, 50), la Costituzione Livornina di Ferdinando I permise l’insediamento di altre comunità straniere autonome (inglesi, francesi, armeni, fiamminghi, greci), le cosiddette “Nazioni”, conferendo però alla Nazione Ebrea uno statuto privilegiato e una forte autonomia politica e persino legislativa (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,48-50); inoltre, Ferdinando I confidava nella capacità degli ebrei di stabilire rapporti commerciali con i turchi (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,90).

Il primo editto concedeva ai mercanti di ogni nazione e fede religiosa, ma in particolare agli ebrei ponentini e levantini3, la facoltà di insediarsi con o senza le famiglie nella città di Pisa “o nel porto e negli scali di Livorno”, assicurando anche il diritto di proprietà su beni stabili. Un secondo editto ampliò e specificò i privilegi concessi ai mercanti ebrei. Tra i provvedimenti, eccezionali per l’epoca, troviamo il diritto di tornare alla propria fede originaria, il diritto alla “ballottazione”4, la nomina di un giudice speciale per le vertenze tra ebrei e cristiani, la giurisdizione interna per tutti i processi tra ebrei, la facoltà di esercitare per medici e chirurghi ebrei anche su cristiani, il diritto ad avere una sinagoga, il riconoscimento delle feste religiose e la garanzia che nessun figlio minore di tredici anni potesse essere sottratto ai genitori per essere catechizzato o battezzato5.

3Sono chiamati “levantini” gli ebrei provenienti dal Medio Oriente e in generale dall’area dell’ex Impero Ottomano, mentre i cosiddetti “ponentini” sono gli ebrei provenienti dall’altro lato del Mediterraneo, soprattutto dalla penisola iberica.

4 Grazie a questo provvedimento soltanto i massari, i capi della Nazione Ebrea, avrebbero detenuto il potere di

“ballottare”, ovvero permettere l’aggregazione di ebrei forestieri; inoltre la “ballottazione” assumeva anche il valore di salvacondotto, garantendo la protezione da ogni procedimento per addebiti precedente all’arrivo in Toscana. Per approfondimenti si faccia riferimento a J.-P.FILIPPINI, 1983.

5 Alcuni passi dei due provvedimenti contengono elementi utili a comprenderne anche l’evoluzione culturale e linguistica della comunità ebraica livornese. L’articolo 1, ad esempio, sancisce che «[...] vi promettiamo il passo e transito franco e libero tanto delle vostre persone, mercanzie, robe e famiglie, quanto di vostri libri ebraici, o in altra lingua stampati, o scritti a penna, così per Mare, come per Terra[...]», mentre l’articolo 3 garantisce che «[...] potrete venire, stare, abitare e conversare in detta nostra Città di Pisa e Livorno [...]». L’articolo 21 invece recita che «[...] non vogliamo, che alcuno sia ardito farvi alcuno insulto, oltraggio, o violenza sotto pena della disgrazia vostra[...]». In un passo dell’articolo 30, infine, il legislatore rivolge la propria attenzione alla cultura alimentare: «[...] e che possiate volendo pigliare un Macellaro, o più Ebrei, che vi faccino la carne, che averete bisogno [...]»; ancora oggi lo sciattino, il macellaio esperto nella preparazione della carne secondo i precetti religiosi, è situato all’interno del Mercato delle Vettovaglie ed è un punto di riferimento per la comunità ebraica livornese (per il testo integrale si veda TOAFF Renzo 1990, 427). Il clima liberale promosso dai Granduchi non impedì tuttavia all’Inquisizione di Pisa di arrestare nel 1634 a Livorno e, dopo alcuni

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Dopo alcuni incerti tentativi iniziali (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 97), la comunità di Livorno, composta non solo da sefarditi, crebbe rapidamente e senza interruzioni, fatta eccezione per la peste del 1629-30 (cfr. TOAFF Renzo 1990, 114-115): dal 1601 al 1642 gli ebrei presenti a Livorno passano da 124 su un totale di 2874 cittadini a 1211 su una popolazione complessiva di 12300 persone (TOAFF Renzo 1990, 102-103). Da questo momento in poi la comunità ebraica costituirà costantemente il dieci per cento della popolazione livornese, fino a raggiungere le 3500 unità a metà del XVIII secolo (TOAFF Renzo 1990, 145). Parallelamente al declino di Pisa come città emporio (cfr.

TOAFF RENZO 1990, 107), nel corso del Seicento Livorno assume l’immagine di fiorente città mercantile e cosmopolita dipinta nelle cronache dei viaggiatori stranieri6.

Una delle ragioni principali è lo sviluppo dell’industria del corallo, vera e propria moneta di scambio mediterranea, che era commercializzato e poi lavorato con grande successo dai sefarditi di Livorno. Il corallo divenne comune merce di scambio all’interno di una rete di rotte commerciali che coinvolgevano la Sardegna, i porti barbareschi, Alassio, Lisbona, Alessandria d’Egitto, per giungere fino all’India. Al centro di questa rete c’erano le compagnie mercantili gestite a Livorno da marrani portoghesi prima e da ebrei sefarditi dopo (FRATTARELLI FISCHER 2008,74-75).

Meta prescelta dai mercanti ebrei (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 130), ben presto Livorno divenne il porto franco di intermediazione tra Europa settentrionale, mediterraneo occidentale e mediterraneo musulmano (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,85). Grazie agli ebrei e ai loro contatti commerciali con il mondo islamico, passavano da Livorno le merci dell’Asia, dell’Africa e delle colonie iberiche (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 137); a ciò si aggiunga che i notabili di origine straniera delle altre Nazioni di Livorno, pur dichiarandosi cattolici, mantennero sempre saldi rapporti con le originarie comunità non cattoliche (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 207-208).

È molto difficile ricostruire un profilo soddisfacente dell’iniziale composizione etnica iniziale della Nazione ebrea di Livorno (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 108). Ciò che è noto è che, diversamente da ciò che successe altrove, la volontà granducale unita all’azione di Maggino di Gabriello ha impedito la fondazione di sinagoghe distinte (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,157),

anni di carcere, bruciare sul rogo Fernando Alvares, tornato al giudaismo con il nome di Abram da Porto Nato (FORNACIARI 2005, 27).

6 Riferimenti in FRANCESCHINI 2008a, 25-31. Una nota di Giuseppe Tavani può aiutarci a comprendere l’atmosfera che si respirava a Livorno in quel periodo: «il fervore di vita commerciale che animava la città ha fatto sì che in spagnolo il suo nome venisse usato in senso traslato nell’accezione di ‘‘algazara, barahunda, desorder, confusión’’»

(TAVANI 1959, 69).

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imponendo la formazione di una comunità panetnica sul modello di Venezia, con levantini, ponentini ed ebrei italiani uniti sotto un unico tempio (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 61; FRATTARELLI

FISCHER 2008, 99)7. Nonostante i ripetuti sforzi di Maggino, il tentativo di convincere gli ashkenaziti esuli dalla Lombardia a insediarsi a Livorno si rivelò invece fallimentare (cfr. FRATTARELLI FISCHER

2008, 56-57); soltanto a partire dalle secondà metà del Seicento si assiste all’immigrazione di ebrei tedeschi, soprattutto donne dedite a mansioni subalterne (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 240-241).

Il peso demografico e la protezione granducale permisero ben presto l’autonomia politica rispetto alla comunità pisana; la nuova organizzazione assicurava il potere all’oligarchia sefardita, che negli ultimi decenni del secolo fu egemonizzata dai portoghesi a scapito degli ebrei italiani, prevalentemente di bassa estrazione sociale ed esclusi dal godimento delle cariche, salvo rarissime eccezioni (cfr. TOAFF RENZO 1990,177). Quando alcune ricche famiglie italiane si stabilirono a Livorno, tentando una «scalata» di potere, trovarono un muro nelle élites sefardite, che giunsero persino a esercitare pressioni di tipo economico sul Granduca per indurlo a impedire la partecipazione al governo degli ebrei italiani (cfr. TOAFF RENZO 1990, 178). Già nel 1599, in una supplica dei massari al Granduca, quest’ultimi venivano definiti «persone di cattiva reputazione», e «non mercanti» che dovevano essere esclusi dalla ballottazione. Cosimo I accettò, a patto di conoscere caso per caso le ragioni del rifiuto, ma gli ebrei italiani continuarono comunque a godere dei privilegi generali previsti per tutti i forestieri. Fu così che in una prima fase l’insediamento di ebrei italiani nella comunità livornese venne circoscritto e arginato (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,95) dai marrani portoghesi legati agli ebrei di origine iberica e poi dai sefarditi in genere, almeno fino al 16808. Da questo momento in poi, gli ebrei italiani, emarginati politicamente ma non socialmente (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,125), iniziarono ad aspirare alle cariche della Nazione, raggiungendo il diritto a essere eletti dal 1715. Inoltre, mentre aumentava l’immigrazione ebraica dall’Italia, nella seconda metà del Seicento calò l’afflusso di sefarditi e addirittura ci furono movimenti di emigrazione dal granducato vero città orientali, come Salonicco o Smirne; da questa fase in poi si assisterà a una lenta e graduale italianizzazione delle nazioni sefardite di Pisa e Livorno (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,183).

7 Come si vedrà nei capitoli successivi, le influenze del tedesco e dello yiddiš nel giudeo-livornese sono scarse.

8 Ѐ importante ricordare tuttavia che nel Granducato le differenze tra sefarditi ed ebrei italiani si fondavano più sulla lingue e sul rito che sulla connotazione etnica (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,182).

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Già all’inizio del diciassettesimo secolo si ha invece testimonianza delle prime significative interazioni tra Livorno e Tunisi (cfr. FRATTARELLI FISHER 2008, 143, 179; ZLITNI 2006, 349–371).

Tunisi fu il primo porto nordafricano dove ebrei provenienti da Livorno e da altre città toscane, ma anche da Ancona e Genova, gestivano commerci tra il Maghreb musulmano e il mondo cristiano. I nativi di Livorno erano noti con il nome arabo Grana ed erano caratterizzati da un elevato grado di mobilità. Nel 1685 è dimostrata a Tunisi l’esistenza di un insediamento permanente di circa trecento livornesi (FRATTARELLI FISHER 2008, 179), fondato soprattutto da membri di famiglie sefardite spagnole e portoghese di alto rango attivi nelle professioni liberali e molto fieri della propria origine e del proprio linguaggio. L’autodefinita “Comunità Portoghese” di Tunisi godette sin dall’inizio di uno status privilegiato e spesso il bey sceglieva tra i Grana medici e consiglieri personali. L’arrivo di questi nuovi ebrei causò attriti con la comunità ebraica locale, i cosiddetti Twansa, soprattutto a causa della diversa condizione sociale; a parte poche eccezioni, gli ebrei indigeni vivevano infatti in povertà nel ghetto di Hara, dove praticavano mestieri tradizionali (cfr. Petrucci 2008, 174). I Grana furono invece i precursori di un sistema di credito transnazionale basato su lettere di cambio ed erano generalmente ben istruiti e abbigliati secondo lo stile europeo (cfr. Petrucci 2008, 175). Nel 1710 I due gruppi ebraici si scissero fondando due comunità separate, con istituzioni amministrative e religiose autonome, cimitero incluso. Dal punto di vista linguistico, la comunità abbandonò lo spagnolo all’incirca alla fine del secolo XVIII, come dimostrano alcuni contratti datati 1780 scritti ancora in questa lingua (Levy 1996, 1999). I primi Grana di Tunisi continuarono a parlare spagnolo e portoghese a casa, ma probabilmente scelsero di parlare italiano con gli altri ebrei di Livorno e giudeo-arabo con gli ebrei tunisini (cfr. Boccara, 2000, 40–43).

Per tornare a Livorno, durante il Seicento l’amministrazione sefardita si dimostrò chiusa a un rinnovamento nelle gerarchie di potere, ma si adoperò per il bene di tutta la comunità attraverso l’istituzione di associazioni ed enti caritatevoli come l’Hebrà de casar orfas e donzelas9 o la confraternita Bikur Holim e l’imposizione della frequenza obbligatoria delle scuole di Talmud Toràh per i maschi fino ai quattordici anni. Il clima culturale del secolo era vivace, e diversi eruditi marrani si stabilirono a Livorno, approfittando della protezione granducale; tra questi Elia Montalto, medico

9 [Abram Nunes] è fra i donatori della fraternità Hebra de Cazar Orfas e Donzales (Mohar ha-Betulot), ha una notevole fortuna […] Nel testamento del 1648 ricorda di avere affari a Genova, Amsterdam, Smirne, Costantinopoli, Venezia, Firenze, Tunisi oltre che a Livorno (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,143).

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di Ferdinando I e della regina Maria de’ Medici, l’astronomo portoghese noto come Jacob Hebreus e il rabbino medico veneto David Nieto (cfr. FILIPPINI 1997,1050).

Il lento declino dei sefarditi ebbe inizio nel 1715, quando Cosimo III riconobbe le istanze degli ebrei italiani abrogando il monopolio iberico:

«non vi sono ebrei nobili e plebei, non vi sono ebrei spagnoli ed ebrei italiani, vi sono solo ebrei» (FRATTARELLI FISCHER 2008,184)

In realtà il “partito spagnuolo”10 riuscì a bloccare ogni provvedimento in tal senso, mantenendo il controllo dell’assemblea dei governanti almeno fino alle riforme introdotte nel 1769 da Pietro Leopoldo; successivamente i sefarditi furono costretti a cedere alcune cariche, occupate da negozianti provenienti in gran parte dall’Africa del Nord (cfr. FILIPPINI 1997,1052). Non priva di conseguenze culturali e linguistiche, una delle tappe del declino di tale egemonia fu il Motuproprio del 1787, con il quale il Granduca impose la lingua italiana al posto del portoghese per gli atti e le sentenze. Ciononostante i mecenati sefarditi mantennero una forte influenza culturale, creando istituzioni per l’insegnamento religioso e ospitando a Livorno prestigiosi rabbini (cfr. FILIPPINI 1997, 1053).

Grazie all’opera di accoglienza e all’ambiente favorevole il rabbinato livornese godette nel corso del secolo XVIII di un periodo di splendore, esprimendo maestri di grande fama, anche fuori d’Italia. Fondata nel 1650, la prima stamperia ebraica pubblicò scritti provenienti da tutto il Mediterraneo e, nel 1740, a Livorno erano già attive nove tipografie (LATTES-TOAFF 1991,1-40).

Passando ad esaminare la comunità dalla prospettiva demografica, il primo dato che salta agli occhi riguarda le dimensioni: nel Settecento la comunità ebraica livornese era la più numerosa d’Italia, e in Europa era seconda solo ad Amsterdam. Il censimento del 1738 registra infatti 3476 anime, mentre quello del 1808 indica in 4963 il numero di cittadini ebrei residenti a Livorno; secondo alcune stime, nel 1809 la popolazione ebraica reale avrebbe superato le 5338 unità (FILIPPINI 1982, 25-26). La crescita era dovuta all’immigrazione, che modificò profondamente la composizione

“etnica” degli ebrei livornesi: levantini, nordafricani, ma anche ragazze ebree provenienti dalla Germania impiegate temporaneamente come domestiche (cfr. SERCIA GIANFORMA 1990,28). Nel 1809 il 42,36% della popolazione maschile aveva un’età compresa tra 0 e 19 anni, mentre gli adulti

10Tale esplicita denominazione compare in ARCHIVIO DI STATO DI LIVORNO, Governo F 939, fol. 199.

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(20-59 anni) erano il 48,39%: grazie all’immigrazione, non si registrò dunque un invecchiamento della popolazione nonostante il basso tasso di natalità.

La comunità ebraica livornese ricalcava la struttura di una tipica popolazione urbana del secolo XVIII, anche se al suo interno permanevano alcuni caratteri della famiglia patriarcale11, seppur con una struttura aggregata di tipo complesso (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,121). Come ci ricorda Caccini, gli ebrei «quando dicono di essere di famiglia si intende esser compagni di negozio e non di casato» (FRATTARELLI FISCHER 2008,122).

Da un punto di vista sociourbanistico, a Livorno non fu mai istituito un ghetto, ma la comunità era in buona parte concentrata in un quartiere non molto esteso situato tra il duomo e il bastione del Casone, comprendente decine di strade con edifici a più piani12. A causa di questa elevata densità di popolazione (700 abitanti per ettaro) spesso si parlò di questa zona usando il termine “ghetto”, sebbene fossero comunque presenti anche botteghe e talvolta abitazioni di piccoli commercianti e artigiani cristiani e turchi. Come ci informa la Frattarelli Fisher, il censimento del 1646 ci restituisce l’immagine di un quartiere densamente popolato (1250 persone per 170 unità abitative), probabilmente a causa di numerosi casi di subaffitto per i nuovi immigrati (cfr. FRATTARELLI FISCHER

2008, 190), ma tutto sommato decoroso e costuito da abitazioni confortevoli (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,189). Il Prospetto delle case del 1749 circa indica il quartiere ebraico come “ghetto”

e lo illustra come una zona autonoma che parte dall’asse di via Ferdinanda fino al mare, densamente urbanizzata e sfruttata al massimo dal punto di vista edilizio (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,196- 197). Le case, un po’ più alte della media, giungevano fino a sei piani, e altri dati indiretti (quali ad esempio il numero delle sedie) confermano l’immagine di un quartiere denso di relazioni sociali (cfr.

FRATTARELLI FISCHER 2008,201).

Gli ebrei di Livorno, oltre a poter circolare liberamente fuori dal ghetto, godevano persino del riconoscimento della proprietà immobiliare piena, fatto che permise l’integrazione progressiva delle famiglie più ricche con la élite dei possidenti cristiani (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,149), come si evince dalla Legge Comunitativa del 1780 di Pietro Leopoldo.

11 Spesso i primigeniti portavano il nome del nonno, oppure più famiglie con discendenti comuni convivevano nello stesso palazzo o addirittura nello stesso appartamento (cfr. FILIPPINI 1882, 30-35).

12 In realtà sin dal secolo XVII le autorità granducali perseguirono ufficiosamente l’obiettivo di concentrare la popolazione ebraica in una zona ben precisa e poco estesa, attraverso un’emarginazione graduale attuata con provvedimenti personali (cfr. FRATTARELLI FISCHER 1984, 585). In questo quartiere delimitato da quattro strade e con la sinagoga al centro, la popolazione fu quasi totalmente ebraica fin dalla prima metà del secolo XVIII (FRATTARELLI FISCHER 2008,188).

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Come spesso accade, le differenziazioni interne nella composizione sociale della comunità si materializzavano a livello urbanistico. Nonostante l’ostilità di clero e autorità, gli ebrei benestanti risiedevano anche fuori dal quartiere ebraico e possedevano addirittura villette alla periferia della città (cfr. FRANCESCHINI 2008a, 35; FILIPPINI 1992, 1057); alcuni ricchi ebrei avevano tuttavia ampi appartamenti e negozi nella via principale della città13, attorno alla Piazza delle Erbe14 e nella Venezia Nuova, zona in cui trafficavano anche ebrei di basso rango, spesso in contrasto con i popolani cristiani (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,186-190).

Dal 1645 il processo di urbanizzazione non interessò solo il quartiere ebraico, ma, come abbiamo accennato, anche le aree lungo i canali della Fortezza Nuova. Nel quartiere della Venezia Nuova le abitazioni dei mercanti, ebrei e non, si affacciano sulle strade e sui canali, in diretto collegamento col porto e col mare, ed erano situate sopra grandi magazzini a volta dove venivano scaricate le merci (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,194). A differenza di quanto avveniva in altre città italiane, gli ebrei a Livorno ebbero il permesso di acquistare immobili, mescolandosi col resto della popolazione, come avvenne subito nella zona adiacente al quartiere ebraico (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,188-189), e diventando col tempo addirittura proprietari di circa un terzo di tutte le case della città (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,185). Le differenze sociali interne alla Nazione Ebrea si palesavano proprio sul possesso della casa: quasi la metà di questo ingente patrimonio immobiliare era infatti posseduto dal gruppo ristretto dei governanti (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,199).

Seguendo le conclusioni di Frattarelli Fisher, la strategia urbanistica tese a “ghettizzare”, appunto, la zona più interna del quartiere ebraico, popolosa e popolare, separandola dal privilegiato ceto mercantile e, probabilmente, in accordo con esso (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,205).

Se invece si passa a esaminare i rapporti tra ebrei e cristiani, ciò che emerge è un quadro di intensi e costanti contatti privati e comunitari, sostanzialmente unico in Italia e scandito da secoli di

“incontri e scontri”, come sintetizzato da Franceschini nel titolo di un lavoro che scandaglia questo tema con la lente della letteratura dialettale (FRANCESCHINI 2008a, 2008b). L’assenza di un ghetto istituito e dell’obbligo di portare il segno facilitava gli scambi con i cristiani e, come logico, soprattutto con i crista͂o-novos di origine portoghese (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,131).Per avere un’idea dell’eccezionalità di questa condizione, si cita un bando emesso da Cosimo II nel 1620, in cui il Granduca è costretto a precisare qualcosa che altrove era evidentemente scontato: il divieto di coabitazione tra ebrei e cristiani (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,186). Nonostante gli accorati strali

13 Via Ferdinanda, dove fu aperta la prima sinagoga (FRATTARELLI FISCHER 2008,186).

14 Oggi Piazza Felice Cavallotti, sede del mercato ortofrutticolo all’aperto.

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dell’Arcivescovo di Pisa (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 147) e i tentativi di intervento dell’Inquisizione, nella realtà questo costume non fu mai represso seriamente, in virtù di un contesto in cui la gerarchia sociale era in certi casi ribaltata: schiavi, serve e servitori cristiani non censiti prestavano infatti servizio nelle case degli ebrei benestanti (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,125).A tal proposito le parole scritte dal governatore di Livorno nel 1664 non lasciano spazio a dubbi:

«quanto alle serve cristiane che tengono gli ebrei, mentre non si tratti di ragazze di poca età, sempre si son chiusi gli occhi» (FRATTARELLI FISCHER 2008,240). Rapporti ufficiali e carte processuali denunciano la scandalosa naturalezza con cui gli ebrei livornesi si intrattenevano in conversazioni con cristiani di ambo i sessi, comprese donne nubili. Conoscenti e gregari cattolici, accusati di esser diventati “mezzi ebrei” (FRATTARELLI FISCHER 2008,218), partecipavano ai loro festini, commedie, matrimoni e persino rituali di circoncisione e, sovente, si rivolgevano alle cure dei medici ebrei (cfr.

FRATTARELLI FISCHER 2008,236). Nonostante la presenza di case e botteghe cristiane, il quartiere ebraico dietro al duomo godeva di un certo grado di autonomia ammessa dalle autorità granducali, che permetteva, ad esempio, agli ebrei di festeggiare in strada il Purim con musica, balli e banchetti pubblici che attiravano anche i cristiani in periodo di Quaresima, «cosa che non si pratica in nessuna città dove sono ebrei», come ebbe ancora a lamentare l’Arcivescovo di Pisa nel 1726 (cfr.

FRATTARELLI FISCHER 2008,188). Come oggi pare ovvio, ma all’epoca affatto pacifico, la promiscuità spaziale e sociale tra ebrei e cristiani rendeva frequenti i rapporti sessuali, soprattutto tra ebrei agiati e donne cristiane di condizione marginale: serve, balie o vere e proprie meretrici (cfr. FRATTARELLI

FISCHER 2008,238-239), come documentato da atti giudiziari risalenti alla seconda metà del XVII secolo (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,248).Gli ebrei, inoltre, frequentavano e animavano i luoghi sociali di tutta la città, quali teatri, caffé, atelièr, sale da gioco, ma anche salotti privati dove conversavano dottamente forestieri e concittadini illustri, tra cui proprio la biblioteca dell’erudito ebreo Giuseppe Attias (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 200). In questo quadro non stupisce dunque la scoperta da parte degli inquirenti di casi di palese convivenza tra ebrei e donne cristiane già nella metà del Settecento (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,251).

Oltre ai rapporti personali e di vicinato, l’altro potente ambito di contatto erano gli affari e i commerci, a partire dal primato nella lavorazione del corallo grezzo, condotta in parte a domicilio, ma soprattutto in laboratori installati dentro le case degli imprenditori ebrei, dove veniva impiegata anche manodopera cristiana maschile e femminile (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008, 181). Ebrei erano inoltre gli appaltatori del tabacco, dell’acquavite e della carta, settori “di punta” che favorivano il contatto con la popolazione cristiana (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,237). Nelle botteghe e nei fondaci, aperti spesso in zone centrali ma fuori dal quartiere ebraico (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,

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187), lavoravano garzoni e lavoranti cristiani, e non erano rare le discussioni con la plebe cristiana anche in materia di fede (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,237).

Se vogliamo osservare più da vicino la stratificazione sociale della comunità nel suo secolo di maggiore dinamismo ed espansione, le professioni svolte dagli ebrei livornesi nel Settecento possono essere suddivise in tre categorie: commercio internazionale; commercio e artigianato rivolto alla comunità e, infine, attività di carattere religioso. Esaminando i dati del censimento del 1809, si desume che più del 42% della popolazione attiva apparteneva alla prima categoria, mentre il 23% alla seconda. A questi devono essere aggiunte varie tipologie di mestierianti e coloro che svolgevano saltuariamente lavori di ogni tipo. Rabbini, oratori, maestri, custodi, medici, insegnanti e in generale tutti coloro che operavano all’interno delle istituzioni religiose costituivano invece quasi il 6% della popolazione15. Mentre le grandi famiglie sefardite vivevano di rendita, grazie all’ingente patrimonio immobiliare e al prestito di capitali, circa un migliaio di capifamiglia versavano in condizioni precarie, al limite dell’indigenza. Si impose progressivamente anche una «borghesia d’affari»

costituita da negozianti da poco arrivati a Livorno, soprattutto dall’Africa del Nord e in parte dall’Italia centrale, la quale si arricchì rapidamente attraverso l’attività mercantile. A differenza di ciò che accadde altrove nello stesso periodo, la conflittualità sociale tra ricchi e masse disagiate risulta comunque elevata, probabilmente in virtù di una robusta rete di sostegno sociale costituita da credito agevolato, mansioni retribuite e sussidi elargiti dalle famiglie benestanti (cfr. FILIPPINI 1997,1060).

Succeduti i Lorena ai Medici nel 1737, il Granduca Pietro Leopoldo attuò una serie di riforme in materia ecclesiastica, abolendo alcune compagnie religiose che rappresentavano un punto di riferimento per numerosi lavoratori dei ceti popolari, già vessati dal carovita e da una flessione dei commerci marittimi dovuta alla concorrenza di altri porti del Mediterraneo (cfr. FRANCESCHINI 2008a, 88-89). Questo intervento acuì l’animosità tra plebe cristiana ed ebrei, che si manifestava periodicamente con manifestazioni anche violente; la situazione si ulteriormente a partire dalla seconda metà del Settecento, a causa di una nuova ondata di immigrazione di ebrei provenienti dall’Africa che ruppe gli equilibri preesistenti anche all’interno della stessa Nazione Ebrea (cfr.

FRATTARELLI FISCHER 2008,204).Questi ebrei magrebini, che spesso parlavano e scrivevano solo in arabo o giudeo-arabo rifiutando di assimilarsi alla comunità livornese, si distinguevano nella lingua e nei comportamenti sia dai sefarditi italiani che da quelli di origine portoghese; a ciò si aggiunga che la presenza nel quartiere ebraico di “turchi” (cioé musulmani in genere) che vivevano secondo le proprie usanze, è documentata sin dal 1749 (FRATTARELLI FISCHER 2008,205).

15 Per approfondimenti e riferimenti si veda FILIPPINI 1997,1058.

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Quando, nel 1790, Pietro Leopoldo lasciò la Toscana per salire al trono di Vienna, il malcontento popolare si manifestò in numerosi luoghi della regione (cfr. TOAFF Renzo1990,13-29);

a Livorno scoppiò una rivolta proveniente dal quartiere della Venezia Nuova, che si indirizzò contro la sinagoga e alcune abitazioni di ebrei. La folla, che subì il fuoco della truppa intervenuta a protezione delle comunità, si disperse solo dopo una mediazione tra un rappresentante del quartiere della Venezia e i massari (cfr. TOAFF Renzo1990,25).

Gli ideali propagati dalla Rivoluzione francese furono accolti soltanto da una parte della comunità livornese e i pochi «giacobini» erano quasi tutti ebrei appartenenti al popolo minuto (cfr.

FILIPPINI 1992,240-243): molti, infatti, furono i privilegi che cessarono assieme all’antico regime.

Quando la Toscana nel 1808 venne annessa all’Impero napoleonico gli ebrei acquisirono piena cittadinanza e Livorno fu nominata capoluogo della Sinagoga concistoriale del dipartimento del Mediterraneo in virtù del primato demografico della comunità cittadina (cfr. FILIPPINI 1982,63). Una nuova élite di notabili scelti per censo prese il posto della ben più numerosa aristocrazia dei governanti, ponendo in secondo piano i sefarditi.

In generale, nonostante questi cambiamenti, l’atteggiamento della comunità ebraica livornese nei confronti del governo francese fu positivo, tanto da suscitare l’ostilità dei popolani cristiani animati da forti sentimenti antifrancesi16.

La riforma del concistoro ebbe vita breve: nel 1814, dopo il crollo dell’impero e il ritorno a Firenze di Ferdinando III di Lorena, la giurisdizione autonoma fu abbandonata per volontà del governo stesso della comunità e gli antichi privilegi furono ripristinati (cfr. PUNTONI 2006,38).

Riguardo all’aspetto demografico, il censimento del 1841 fornisce un quadro abbastanza esauriente: la comunità era composta da 4771 persone (2985 in grado di leggere e scrivere) impiegate prevalentemente nel commercio, ma anche nell’industria alimentare, in quella tessile, nell’abbigliamento, nell’edilizia e nella meccanica, nonché in attività creditizie e finanziarie, nell’insegnamento e nei servizi domestici. I poveri costituivano il 16,8% del totale della popolazione (SERCIA GIANFORMA 1990,38-53). Nell’Ottocento, secondo Guido Bedarida, questa «classe meno abbiente di proletari» ebrei era presente così massicciamente solo a Livorno (cfr. Bedarida, Ebrei, XVIII).

16 I moti antiebraici in funzione antifrancese giunsero a costare la vita nel 1799 ad un merciaio ebreo, Moisè Giuseppe Orvieto. Cfr. SONNINO 1937e FILIPPINI 1992, 1061.

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Durante i primi decenni del secolo XIX a Livorno i traffici commerciali internazionali subirono una crisi e le case commerciali ebraiche diminuirono per numero e importanza (cfr. TOAFF

Renzo1990,28).

Attorno al 1820 e, sporadicamente, durante tutto l’Ottocento, una seconda ondata migratoria da Livorno verso Tunisi cambiò in maniera significativa la vecchia comunità. I nuovi arrivati avevano origini iberiche, come è evidente dai loro cognomi (Moreno, Soria, Cardoso ecc.), ma erano completamente italofoni, e la loro cultura e i loro costumi erano del tutto europei. Rispetto alla comunità giudeo-araba locale, esse si consideravano un élite, ed ebbero un’influenza socio-culturale talmente forte che persino i Twansa cominciarono a parlare e scrivere in italiano.

L’Ottocento fu un secolo cruciale per il destino della Nazione Ebrea di Livorno. A partire dalla seconda metà del secolo, settori emergenti della borghesia ebraica illuminata ebbero accesso alle logge massoniche, ai circoli rivoluzionari della Carboneria e ad altre organizzazioni democratiche e progressiste che, per prime, si aprirono ai non cristiani. Questi ebrei occuparono presto ruoli autorevoli esprimendo posizioni politiche vicine ai mazziniani, cozzando così con le idee di guide del Risorgimento livornese come Domenico Guerrazzi e Giovanni Guarducci (cfr. FRANCESCHINI 2013, 212–216). Molti ebrei politicamente attivi, perseguitati dalla repressione borbonica e, in misura minore, dei Lorena, furono costretti a lasciare la penisola riparando in Nord Africa, specialmente in Tunisia, sfruttando gli antichi legami. Questi nativi livornesi consideravano se stessi «Italiani ancor prima della nascita del Regno d’Italia» e acquisirono tutti la cittadinanza italiana con l’unificazione del paese (Audenino, 2005, 265). Questi nuovi cittadini italiani furono tra i fondatori della prima scuola italiana a Tunisi e si spesero in numerose attività filantropiche, tra cui l’edificazione di ospedali. Per queste persone parlare e insegnare l’italiano aveva un significato ideologico e politico.

La lingua nazionale della madrepatria era associata all’idea di progresso e civiliazzazione, mentre i dialetti e finanche la lingua ebraica erano considerati segno di arretratezza.

Parallelamente, a Livorno il processo di integrazione del nucleo ebraico nel resto della popolazione avanzò fino a divenire totale sul piano giuridico con l’annessione della Toscana al Regno d’Italia. Gli ebrei livornesi, divennero così cittadini italiani e ciò comportò ovviamente l’abolizione formale degli ultimi privilegi. Nel 1847 un migliaio di giovani ebrei e abitanti del quartiere della Venezia Nuova parteciparono alla «Festa della fratellanza», sfilando insieme per le vie del centro cittadino e scambiandosi simbolici gesti di pace proprio nei luoghi che furono teatro della rivolta antiebraica del 1790 (cfr. PUNTONI 2006, 42). L’istituzione del matrimonio civile nel 1865 rese possibili le unioni tra ebrei e non ebrei, fenomeno precoce a Livorno e destinato a diffondersi sempre maggiormente soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale (cfr. PUNTONI 2006,46).

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Intanto a Tunisi, dopo l’occupazione del 1881, il paese passò dall’Imperto Ottomano alla Francia, e le due comunità ebraiche, gli italiani e i nativi, furono sostenuti dal governo coloniale, il primo a garantire piena cittadinanza agli ebrei. Mentre la maggioranza degli abitanti del quartiere della Hara continuò a versare in condizioni di indigenza, alla vecchia borghesia italiana si aggiunse un’emergente classe media e un’embrionale classe operaia.

A Livorno la flessione dei traffici commerciali spinse i cittadini ebrei verso il commercio al minuto, l’insegnamento e le professioni liberali, mentre il sistema assistenziale fondato sulle opere pie perse man mano le proprie disponibilità patrimoniali, con conseguente aggravamento delle condizioni degli ebrei indigenti (cfr. TOAFF Renzo 1990,29). D’altro canto, una élite di letterati, artisti, educatori, insegnanti, giuristi e uomini politici lasciava una profonda impronta sulla vita culturale cittadina nei decenni a cavallo tra il XIX e il XX secolo (cfr. TOAFF Renzo1990,29). Il processo di laicizzazione che investì in questo periodo tutta la società italiana coinvolse anche la popolazione ebraica, a Livorno in misura maggiore che altrove (cfr. PUNTONI 2006,46), ma l’armonia sociale e culturale coltivata in seno all’ideologia liberale ottocentesca subì una battuta d’arresto con l’avvento del fascismo, che alimentò certi pregiudizi antiebraici già presenti in alcuni intellettuali italiani, tra cui il livornese Guerrazzi(cfr.FERRARA DEGLI UBERTI 2003, 73).

Negli anni Trenta la comunità livornese costituiva uno dei poli dell’ebraismo nazionale ed era terza per popolazione (2235 abitanti censiti nel 1938)17. Si trattava di una comunità giovane, nell’insieme forse più agiata della media dei livornesi, ma comunque più povera della media degli ebrei italiani: i ceti popolari costituivano infatti quasi la metà della popolazione (ORSI 1990,2013- 223). La celere applicazione delle leggi razziali, accompagnata per mezzo stampa, fu uno choc per Livorno: già nel dicembre del 1938 alcune persone furono arrestate e confinate. Dal 1938 al 1943 gli ebrei di Livorno furono tutti costantemente sorvegliati, alcuni confinati, altri ancora internati18 e una parte consistente emigrò tra il 1938 e il 1939 (PUNTONI 2006,54); secondo Beccani, nel 1942 gli ebrei presenti in città erano circa millecinquecento (BECCANI 1941,10).

Le morti, le deportazioni, gli internamenti, gli sfollamenti e l’emigrazione forzata causati dalle leggi razziali e dalla Seconda Guerra Mondiale causarono il dimezzamento della popolazione della comunità (cfr. TOAFF Renzo1990,29), oltre alla distruzione della sinagoga, che sarà ricostruita solo nel 1962.

17 Il dato è tratto dalla tabella 1 in ORSI 1990,215.

18 Sulla base della documentazione rinvenuta ad oggi gli ebrei livornesi catturati e deportati furono almeno 119, di cui solo 11 riuscirono a tornare (ORSI 1990, 212).

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Nel 1941 gli ebrei italo-tunisini erano circa 3000, in gran parte residenti nella capitale.

Impiegati nel commercio, nella navigazione e nelle libere professioni, spesso inviavano i propri figli a studiare in Italia. Il regime fascista, ufficialmente antisemita, per ragioni di convenienza scese di non perseguitare gli italiani ebrei della Tunisia, finché, paradossalmente, dopo la capitolazione del fronte italo-tedesco, la situazione precipitò con l’adozione di misure persecutorie come i lavori forzati o addirittura l’internamento; nel 1944 l’antica comunità ebraica portoghese di Tunisi era ormai dissolta. Nel 1962, a seguito dell’esodo prodotto dall’indipendenza del paese, la comunità risultava dimezzata.

Anche a Livorno l’andamento demografico seguì un trend negativo; se si eccettua l’arrivo di sei famiglie di ebrei libici nel 1967 fuggite a seguito della Guerra dei Sei Giorni, durante il secondo dopoguerra la comunità ebraica si è ridotta per numero e importanza: dai circa 1000 iscritti nel 1948 (BEDARIDA 1950,293), si è passati ai circa 700 del 2006 (PUNTONI 2006,46). Il calo demografico non ha tuttavia interrotto la rilevante influenza degli ebrei livornesi nella vita culturale, politica ed economica della città, che si protrae dalla sua fondazione, avvenuta quattro secoli or sono, fino ai giorni nostri.

1.2 Il repertorio linguistico della comunità ebraica di Livorno

Il plurilinguismo della comunità ebraica di Livorno è un fenomeno esteso e stratificato che abbraccia oltre cinquecento anni e che è conoscibile al momento solo attraverso studi circoscritti e ricostruzioni ellittiche, anche a causa della mole di fonti e documenti d’archivio non ancora analizzati dal punto di vista linguistico. Un primo passo in direzione di un sistematico lavoro di ricerca sull’eccezionale condizione di contatto linguistico che ha caratterizzato la città di Livorno è stato compiuto da Franceschini(2006b) e sviluppato successivamente in FRANCESCHINI 2008a, 8-16; 2009.

Questo paragrafo si propone esclusivamente di tracciare un profilo sintetico delle principali varietà linguistiche usate dagli ebrei di Livorno per parlare e scrivere nel corso della loro storia comunitaria, con lo scopo di fornire elementi propedeutici alla comprensione dell’oggetto di questo lavoro, cioé la parlata giudeo-livornese nella sua dimensione lessicale.

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Le più importanti varietà linguistiche19 impiegate dai membri della Nazione Ebrea di Livorno sono state nel corso dei secoli, oltre all’italiano, al toscano e al bagìtto, l’ebraico, il giudeo- portoghese, il giudeo-spagnolo20, il ladìno e la cosiddetta lingua franca (o degli scali del Levante).

1.2.1 L’ebraico

La diffusione dell’ebraico, in primo luogo come lingua scritta, fu garantita a Livorno già dalla fine del Cinquecento, con la promulgazione della Livornina. Grazie alle Lettere Patenti del 1591 e del 1593, fu infatti permesso il possesso di libri di ogni sorta e in qualunque lingua, compresi libri ebraici come il Talmud (cfr.TOAFF Renzo 1990, 46).

La lingua ebraica è la lingua del culto, dei testi sacri e dell’istruzione scolastica, che il governo della Comunità garantì sin dal 1664 istituendo la cosiddetta Talmud Torà, scuola obbligatoria sino ai quattordici anni per i maschi, estesa alle femmine nel 1771 (TOAFF Renzo 1990, 337-343).

Alcuni dati sul livello di istruzione aiutano a valutare il livello di comprensione della lingua ebraica tra gli ebrei di Livorno; il tasso di alfabetizzazione, molto alto21, è uno di questi. La grande maggioranza degli uomini e un buon numero di donne sapevano leggere e scrivere in caratteri ebraici, non solamente grazie all’opera delle istituzioni comunitarie in campo scolastico, ma anche per

19 In virtù dell’immigrazione a Livorno di ebrei provenienti da tutta l’area mediterranea e oltre, è ragionevole supporre che si siano formati, in epoche diverse e anche per brevi periodi, gruppi e microcomunità di ebrei arabofoni e giudeo-arabofoni (cfr. FRANCESCHINI 2008a,28-38), germanofoni, parlanti yiddiš, greco, turco, giudeo-provenzale ecc., dei quali poco è noto. Già l’articolo 34 delle Lettere Patenti del 1591 faceva riferimento alla nomina per la Dogana di Pisa di interpreti «della lingua turchesca, moresca, schiavone, todesca, italiana et altre necessarie et opportune»

(FRANCESCHINI 2008a,28). In questa sede saranno tuttavia brevemente descritti solo gli idiomi che nel corso dei secoli hanno lasciato rilevanti tracce storico-documentali.

20 Sotto questa etichetta si indicano qui le varietà di spagnolo sefardita più o meno giudaizzate, che vanno dal djudezmo all’antico castigliano di Spagna, impiegate sia come lingua scritta che come lingua orale. Sephiha individua lucidamente quell’insieme di varietà linguistiche di comune base spagnola che furono vitali a Livorno:

«Mais je sui certain qu’ici à Livourne il devait y avoir […] des juifs hispanophones qui parlaient l’espagnol comme en Espagne […] et des Juifs espagnols ou ici des Judéo-Espagnols qui parlaient l’espagnol comme les Levantins.».

Per approfondimenti: SEPHIHA 1983a, 421-31 e SEPHIHA 1983b, 743-59.

21 Secondo Toaff nel corso del Settecento non c’erano analfabeti tra i maschi ebrei nati a Livorno, grazie alla grande opera di istruzione obbligatoria della Nazione Ebrea (TOAFF Renzo1990,337-341).

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spontanee esigenze di prestigio sociale, legate a momenti importanti come la lettura collettiva delle preghiere (cfr. SERCIA GIANFORMA 1990,37).

Grazie al consolidamento progressivo della Comunità, furono fondate e potenziate scuole, accademie e altre istituzioni culturali (cfr. SERCIA GIANFORMA 1990,37), con ricadute positive sulla diffusione della conoscenza dell’ebraico nella popolazione. Secondo il censimento del 1841, l’87,6%

della popolazione sapeva leggere e scrivere22; considerando che il sistema scolastico prevedeva anche l’insegnamento della lingua ebraica, da questi dati si può desumere che una conoscenza almeno parziale della lingua fosse discretamente diffusa anche nelle fasce più basse della popolazione, anche se in proporzione maggiore tra gli uomini rispetto alle donne (cfr. BEDARIDA 1957,77).

L’ebraico, oltre a essere la lingua delle principali attività di culto e delle letture sacre nella sinagoga23, fu anche la lingua dello studio nelle accademie talmudiche. Nelle cronache sette- ottocentesche dei visitatori di Livorno si fa riferimento ai gradevoli canti uditi nella sinagoga, in una varietà ebraica che «n’avoit rien de dur et de désagréable», a differenza dei canti ebraici di altre parti d’Europa24. Questa pronuncia peculiare, priva delle asprezze della pronuncia ashkenazita, è tipica delle comunità di rito sefardita come la Qahàl Qadosh Livorno, fondata da ebrei sefarditi e interprete di una tradizione che giunge ininterrotta fino ai giorni nostri (cfr. TOAFF Renzo 1990,15). Tra i maggiori compositori di musica liturgica cantata in lingua ebraica sono da ricordare il rabbino Refael Emanuel Hay Ricchi (attivo a Livorno nel 1723), il compositore Michele Bolaffi (1768-1842),

22 Percentuale elaborata sulla base dei dati demografici presenti in SERCIA GIANFORMA 1990, 38.

23 Un importante contributo allo studio dei canti sinagogali sefarditi livornesi è rappresentato dall’articolo Livorno: a Crossroads in the History of Sephardic Religious Music di Edwin Seroussi, professore presso la Bar-Ilan University di Ramat-Gan, Israele (ringrazio Paolo Edoardo Fornaciari per la segnalazione). Circa l’importanza di questa tradizione musicale liturgica Seroussi sottolinea: «melodies from the Italian-Sephardi synagogal tradition as practiced in Livorno were transmitted to other Sephardi communities in Italy and around the Mediterranean in the early-twentieth century»; il paragrafo si conclude con il seguente auspicio: “the Livornese influence in the shaping of the twentieth- century Sephardi liturgical music in certain locations in and outside Italy, an issue treated here in brief, deserve the a dettaled study” (SEROUSSI 2003).

24Cfr. FRANCESCHINI 2008a, 29. Per i canti sinagogali adottati a Livorno si faccia invece riferimento a CONSOLO 1882.

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protagonista dello sviluppo della musica corale e strumentale della Grande Sinagoga di Livorno e infine David Garzia, suo contemporaneo (cfr. SEROUSSI 2003)25.

Per avere un’idea di questo ambiente intellettuale fondato sulla conoscenza e lo studio della lingua biblica, basterà considerare che nell’ultimo quarto del Seicento operavano e insegnavano a Livorno non meno di ventidue rabbini e che già nel 1650 nacque la prima tipografia ebraica (cfr.

TOAFF Renzo1990,334). La pubblicazione midrascica Yalkut Shimoni sulla Toràh con il commentario Berit Avraham è databile 165026, mentre dopo il 1658 cessarono le pubblicazioni in ebraico, per riprendere nel 1742. Alla fine del secolo le tipografie ebraiche attive erano nove, per una produzione totale, nel corso del Settecento, di centodieci opere, molte delle quali in lingua ebraica. Oltre ad essere l’unica città d’Italia ove un ebreo aveva il permesso di aprire e gestire una stamperia, ben presto Livorno diventò nel Seicento uno dei maggiori centri editoriali del Mediterraneo aperti al mondo orientale27, attirando così rabbini di grande levatura (cfr. FRATTARELLI FISCHER 2008,159-161).

Tra le maggiori figure intellettuali del rabbinato labronico spicca il dottor David Nieto, medico veneziano, che diresse l’accademia talmudica Reshit Hokhmà fino al 1701 (TOAFF RENZO 1990,357), dando il via al secolo d’oro della cultura ebraica a Livorno. E’ nel corso di questo periodo che furono composti festosi cantari in ebraico e versi in lingue alternate in ebraico e in italiano, in ebraico e in spagnolo e in ebraico e provenzale, come i lis obros degli Ebrei del Comtat Venaissim nel 170028. Il più grande e famoso rabbino del secolo XVIII fu Haim David Joseph Azulài, nato a Gerusalemme, mentre, nell’Ottocento, il massimo esponente tra gli studiosi ebraici è il rabbino, filosofo e cabbalista Elia Benamozegh, morto nel 1900, autore di importanti opere in ebraico. Nel 1815 a Livorno erano presenti quindici rabbini, escludendo i soggiorni temporanei di coloro che provenivano dal Nord Africa e dalla Terra Santa per stampare le proprie opere (cfr. PUNTONI 2006, 10).

25 La maggiore collezione di canti sinagogali livornesi è costituita dai tre volumi dal titolo Musica sacra di Livorno ridotta da Moise Ventura, menzionata da Seroussi nel citato articolo.

26 La fonte è M.J.HELLER, Jediah ben Issac Gabbai and the first decade on Hebrew printing in Livorno, in PUNTONI 2006, 10.

27 L’opera fondamentale per indagare l’attività in questione è SONNINO 1912; a proposito si veda ancheKIRON 2005 e ORLANDO 1995.

28Si veda BEDARIDA, Ebrei,XIII e soprattutto FRANCESCHINI 2008a, 37, n. 52; sarebbero oltre mille i libri pubblicati in lettere ebraiche dal 1805 a oggi solo dall’editore Belforte.

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Morto Benamozegh, la Salomone Belforte & C. rilevò la sua stamperia e le sue edizioni, continuando a pubblicare libri di preghiera in ebraico fino agli anni Cinquanta. Negli ultimi anni la suddetta casa editrice ha ripreso la sua attività in questo ambito (cfr. PUNTONI 2006, 10).

Dal punto di vista delle funzioni comunicative, l’ebraico, lingua “sacra”, ha dunque assunto a Livorno, così come accade a ogni lingua dominante in un rapporto diglossico, il ruolo di “lingua di prestigio”. Una lingua sacra non è però lingua di uso quotidiano e, inoltre, non è una lingua completamente chiara a seconda delle epoche e dei gruppi sociali presi in esame. Ciò ha favorito l’entrata di materiale lessicale ebraico e aramaico nel giudeo-italiano (cfr. MAYER MODENA 1997, 947-948) e la parlata giudeo-livornese, in questo senso, non fa eccezione. Il lessico semitico ha dimostrato grandissima vitalità semantica, solo in parte legata all’interferenza con l’italiano o con i dialetti, ed è stato destinato a soddisfare diverse esigenze comunicative: elevazione socio-culturale del parlante, fini interdizionali, funzione gergale e tabuistica (cfr. MAYER MODENA 1997,947-948).

Come dimostrato da Modena Mayer, l’ebraico, lingua misteriosa per i non Ebrei e oggi poco nota anche agli Ebrei dopo la chiusura della scuola elementare ebraica, negli ultimi decenni potrebbe essersi rivelato un’ottima “lingua rifugio” per i concetti colpiti da tabù linguistico (MAYER MODENA

1978,167).

1.2.2 Il giudeo-spagnolo

Nel corso del Seicento una classe di ricchi mercanti di origine spagnola si insediò a Livorno affiancandosi alla élite portoghese, già al timone della Nazione Ebrea di Livorno. Si trattava quasi sempre di emigrati di terza o quarta generazione, discendenti degli ebrei espulsi dalla Spagna più di cento anni prima (cfr. MILANO 1963, 325), che probabilmente conoscevano la propria patria solo attraverso la struggente narrazione del dramma della geruš cantata nei romances giudeo-spagnoli (cfr.

FORNACIARI 1983,32-34). La maggior parte degli ebrei sefarditi che popolarono Livorno proveniva dunque da città come Venezia, Ferrara, Ancona, Roma, nelle quali erano immigrati nel corso del secolo XVI (cfr. TOAFF Renzo1990,353-354;FORNACIARI 1983,32-34), anche se, come sottolinea Guido Bedarida, l’arrivo periodico di profughi dalla Spagna, attirati dalle opportunità di lavoro e dal favore delle istituzioni, contribuì certamente a “rinfrescare” l’uso quotidiano e la vitalità del castigliano a Livorno (BEDARIDA 1957,78).

Rispetto allo spagnolo di Spagna, lo spagnolo parlato dagli ebrei a Livorno, così come nel resto del mondo sefardita, arrestò il proprio percorso evolutivo allo stadio raggiunto attorno al XVI secolo nel paese di origine. Su questa base, già arricchita di elementi ebraici, si innestarono elementi

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liguistici provenienti dagli ambienti alloglotti che circondavano le numerosissime microcomunità di ispanofoni ebrei sparse da Ponente a Levante. L’accentuata arcaicità e l’ibridismo lessicale, caratteri costanti dello spagnolo sefardita, conferiscono a questa variante una relativa omogeneità soprattutto nell’uso letterario, nonostante la situazione di dispersione e contaminazione locale sopra descritta (cfr. TAVANI 1959, 64). A tal proposito occorre ricordare che la varietà giudeo-italiana parlata a Livorno, particolarmente ricca di elementi iberici, è nota appunto con il nome di bagìto, ispanismo il cui etimo è bajito, con pronuncia fricativa palatoalveolare sonora, secondo le condizioni dello spagnolo arcaico conservatesi in ambito sefardita (cfr. FRANCESCHINI 2008a, 39)29. A ciò si deve aggiungere che i sefarditi livornesi, a seconda della provenienza, affiancavano allo “spagnolo di Spagna” più varianti di djudezmo (il giudeo-spagnolo vernacolare), come ad esempio l’hàketya, parlato in Marocco30.

Nel corso del secolo XVII, la classe dirigente portoghese e l’alta borghesia spagnola si integrarono fortemente, al punto da risultare, nel Settecento, difficilmente distinguibili a uno sguardo esterno; già nel 1697 la comunità sefardita di Livorno si appellò “Nazione Ebrea portoghese e spagnola” (PUNTONI 2006; cfr. TOAFF Renzo 1972, 208 e FORNACIARI 2005,32-34). I due gruppi linguistici coesistettero per poco meno di due secoli, a differenza di ciò che accadde nelle colonie sefardite di lingua spagnola, dove il portoghese scomparve presto in favore del castigliano. Oltre alla funzione di lingua domestica per le famiglie appartenenti ai due gruppi sefarditi, le due lingue iberiche occuparono a lungo sfere comunicative distinte. Nel corso dei secoli XVII e XVIII il castigliano divenne la lingua della letteratura sacra e profana, sia in prosa che in versi, grazie alla prestigiosa tradizione letteraria giudeo-spagnola mediterranea e balcanica e fu percepito come lingua alta in quanto veicolo di un secolare apparato liturgico31. Altro indicatore importante dell’impulso culturale veicolato da questa lingua fu la fondazione nel 1675 dell’Accademia letteraria de los Sitibundos, sorta per promuovere la diffusione del sapere sulla base di precetti biblici (cfr. BEDARIDA 1957,88n.3)e

29 Altro esempio di fonologia arcaica dello spagnolo dei sefarditi livornesi può essere osservato nel proverbio giudeo-spagnolo riportato da Bedarida: «Muger ermoza – con mucho dinero – a mi forastero – a mi me la dan? – Trampa hay» (BEDARIDA 1957, 88 n. 10). Riguardo al rapporto tra giudeo-spagnolo e giudeo-italiano a Livorno, la notevole influenza delle lingue iberiche nella formazione del giudeo-livornese è riconosciuta da tutti gli studiosi come uno dei principali caratteri distintivi di questa varietà rispetto alle altre parlate giudeo-italiane: un peso talmente rilevante da indurre Guido Bedarida a parlare di «isola linguistica semi-iberica» (BEDARIDA 1957, 89 n.16).

30 Per approfondimenti si veda SEPHIHA 1983a, 421-31.

31 Il rito pasquale Haggadah de Pesah, ad esempio, era celebrato in castigliano.

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di stampo arcadico (cfr. BEDARIDA GABRIELE 1992,85). Inoltre, furono molte le opere stampate in ladino diffuse dal prestigioso centro tipografico di Livorno e composte canzoni a versi alternati in ebraico e castigliano.

L’«arcaico e nostalgico» (BEDARIDA 1957,78) castigliano degli Ebrei livornesi fu dunque lingua parlata e familiare per una determinata fascia di popolazione, ma, in primo luogo, fu lingua colta, adatta all’erudizione, alla letteratura, alle prediche, alle traduzioni di preghiere, ai rituali, al folclore, impiegata persino in alcuni documenti ufficiali e nelle iscrizioni funerarie di alcune tombe sefardite, peraltro presenti solo nei cimiteri di Livorno, Pisa, Portoferraio e Venezia (cfr. BEDARIDA

1957,78). Secondo alcuni studiosi, a metà Seicento nella scuola ebraica l’istruzione era impartita in lingua spagnola fino all’età di 14 anni (cfr. ROTH 1946, 347; Milano 1963, 325 e TOAFF Renzo 1972, 208).

Secondo il Bedarida, nelle Sinagoghe si tennero sermoni in spagnolo talora tradotti e stampati in ebraico «fino al principio del secolo XIX» (BEDARIDA 1957, 78), ma la longevità dello spagnolo sefardita come lingua letteraria giunse a lambire la seconda metà dell’Ottocento, come si evince dalla notizia di un volume di poesie per il Purim, Sefer Alegrias de Purim, pubblicato nel 1875 (cfr. TAVANI

1959, 68) da un giudeo-spagnolo il cui pseudonimo fu Yoseph Shabbetai Fharhi. Alcune testimonianze di sermoni spagnoli risalenti alla seconda metà dell’Ottocento sono conservate inoltre nel poema Gli Ebrei venuti a Livorno di Raffaello Ascoli, pubblicato a Livorno nel 1886 (Ascoli, Gli Ebrei). Dopo l’Unità d’Italia, il processo di assimilazione culturale e linguistica in atto nel paese sancì definitivamente l’abbandono dell’uso dello spagnolo, difficile da giustificare e mantenere in quell’atmosfera politico-culturale.

Nel Novecento, la più grande testimonianza letteraria della memoria linguistica dello spagnolo dei sefarditi livornesi è riflessa in Ebrei di Livorno. 180 sonetti giudaico-livornesi di Guido Bedarida, pubblicato a Livorno nel 1956 (Bedarida, Ebrei). In particolare, nei sonetti 2, 3, 4 e 5 l’autore fa rivivere la parlata giudeo-spagnola attraverso personaggi stereotipati di ebrei spagnoli giunti da poco a Livorno o comunque portatori di modi di dire ed espressioni tipiche (cfr. Bedarida, Ebrei, 2-11)32. Ѐ lo stesso Bedarida a rivelare in una nota che “vecchi canti in spagnolo” erano ancora conosciuti dagli ebrei livornesi fino a “qualche decennio” (BEDARIDA 1957, 88 n.8) prima della data in cui scrive, il 1957, lasciando supporre che l’ultima onda di questa tradizione orale potrebbe aver lambito il ventesimo secolo.

32 Un’analisi quantitativa del rapporto tra iberismi ed ebraismi elaborata in parte sulla base dei sonetti di Bedarida è sviluppata in FRANCESCHINI 2006a.

(21)

La lunga influenza della componente sefardita, esercitata fino alla prima metà dell’Ottocento, si riflette nell’acquisizione di materiale lessicale di origine spagnola all’interno della parlata giudeo- livornese e addirittura dello stesso vernacolo comune a tutti i livornesi: alcuni spagnolismi possono essere ascoltati ancora oggi nelle piazze dei mercati rionali e, in certi casi, risultano addirittura vitali nel linguaggio giovanile (cfr. FRANCESCHINI 2006a).

1.2.3 Il giudeo-portoghese33

A differenza dell’analogo provvedimento dei reali di Spagna del 1492, il decreto di espulsione degli Ebrei dal Portogallo promulgato da Manuel I nel 1496 non provocò una migrazione di massa, la quale avrebbe comportato gravi danni per l’economia del regno a causa della perdita di buona parte della borghesia mercantile e artigiana.

Il decreto sarà applicato attraverso vari espedienti, tra cui la brutale e sistematica conversione forzata al cristianesimo, che investì persino gli ebrei portoghesi desiderosi di espatriare pur di non abiurare. Ai neoconvertiti, inoltre, fu imposto il divieto di lasciare il paese senza autorizzazione.

Dopo un periodo di relativa tranquillità sotto il regno di Manuel I, sin dai primi decenni del Cinquecento, un numero crescente di ebrei portoghesi convertiti, detti “marrani” o cristãos novos, furono costretti alla fuga a causa delle continue vessazioni e dell’introduzione del Tribunale dell’Inquisizione. La clandestinità dell’espatrio conferì all’emigrazione degli ebrei portoghesi un carattere familiare, individuale e diluito lungo tre secoli, contrariamente all’esodo massiccio e immediato degli ebrei spagnoli. Dal punto di vista linguistico ciò comportò nella maggioranza delle colonie una condizione di inferiorità numerica e una conseguente assimilazione del gruppo giudeo- portoghese rispetto a quello giudeo-spagnolo, accresciuta dal fatto che i marrani portoghesi tendevano a stabilirsi laddove già fossero presenti colonie di profughi del 1492.

L’assimilazione dei profughi portoghesi era inoltre facilitata dall’affinità tra le due lingue e dalla comune origine spagnola, in quanto molti di loro si erano rifugiati in Portogallo a seguito delle

33 Il giudeo-portoghese di Livorno è stato oggetto di studio da parte di Giuseppe Tavani in due saggi successivi, Appunti sul giudeo-portoghese di Livorno e Di alcune particolarità morfologiche e sintattiche del giudeo-portoghese di Livorno (TAVANI1960,283-288). Il lavoro di Tavani, prezioso ma datato, è stato verificato e approfondito recentemente da Viola Fiorentino (2008, 2013).

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