Capitolo II. Ipotesi genetiche ed evoluzione del giudeo-livornese
2.1 Condizioni iniziali, contesto e riflessi linguistici
Le pagine che seguono non hanno l’obiettivo di sviluppare una storia linguistica del giudeo- livornese e della sua comunità di parlanti, percorso già intrapreso con efficacia in F
RANCESCHINI2005, 2006b, 2008a, 2009, 2013, bensì di ricollegare le informazioni utili a comporre un quadro ipotetico delle originarie condizioni etnoculturali, sociali e ambientali che hanno prodotto questa varietà dialettale, e dei loro riflessi linguistici.
Secondo Wexler (1981, 102-103) i fattori principali per la nascita e lo sviluppo di una lingua giudaica sono la segregazione sociale e spaziale, il separatismo religioso e le migrazioni. A questa triade di concause si debbono sommare gli “atti di identità” del gruppo ebraico in reazione alle pressioni sociali esterne, capaci di provocare una compattazione della norma e la conservazione di elementi difformi rispetto alla realtà linguistica circostante (cfr. M
ANCINI1992, 64).
Come già rilevato in O
RFANO2008, 45, questo modello causale, forse soddisfacente per i parlari giudeo-italiani nel complesso, appare poco adatto a leggere le circostanze che hanno condotto alla formazione del bagitto. Sebbene uno degli effetti dell’atteggiamento dell’ethnos ebraico di fronte allo sbarramento dell’interazione sociale sia la discontinuità linguistica (cfr. M
ANCINI1993, 58), questa dinamica pare opaca se applicata allo specifico contesto livornese, ove, come è noto, la segregazione non ha mai ispirato la volontà politica e l’attività legislativa dei governanti medicei e dei loro successori. Come già illustrato in §1.1, gli ebrei livornesi godettero sin dalla fondazione della città di un sistema di concessioni, privilegi, libertà civili e religiose senza pari rispetto alle altre comunità d’Italia, permanendo dunque in una condizione di apertura verso l’esterno che sembra contraddire il nesso causale tra separazione sociale e alterità linguistica.
Anche Guido Bedarida si interrogò sull’incoerenza tra assenza di ghetto e forte autonomia linguistica, trovandone spiegazione nell’esistenza di un’ampia fascia proletaria e nella pluralità di comunità straniere (Bedarida, Ebrei, XVIII). Ciononostante, pur considerando il peso demografico
1,
1 Secondo alcune stime i cittadini ebrei raggiunsero al proprio apice il 10% del totale della popolazione urbana (§1.1).
la diffusa attività commerciale, il potere economico e la fiorente produzione culturale della comunità ebraica
2, si ha la sensazione di una comprensione incompleta del fenomeno.
Se, da un lato, la libertà di azione nello spazio e nella società può spiegare in qualche modo l’influsso ebraico sulla lingua dei non ebrei, dall’altro avrebbe dovuto provocare un parallelo indebolimento della parlata giudaica italo-romanza, che appare invece estremamente vitale e diffusa, nonché caratterizzante a livello identitario e culturale; al contrario, questo fenomeno investì invece le lingue (giudeo)iberiche. Contrariamente a ciò che accadde in altre comunità levantine, a Livorno l’integrazione quasi totale degli ebrei nella vita cittadina provocò di fatto la scomparsa prematura dello spagnolo e del portoghese (cfr. B
EDARIDAG
ABRIELE1992, 86 e §1.2.2, §1.2.3, §1.2.4).
Inoltre, il declino delle lingue iberiche come varietà orali di uso quotidiano sembra in qualche modo connesso cronologicamente alla diffusione del bagitto (cfr. Bedarida Gabriele 1992, 85-86). Se ciò fosse dimostrabile con elementi più solidi, il giudeo-italiano potrebbe essere considerato una
‘varietà-serbatoio’ utile agli ebrei sefarditi in cui riversare l’antico e vasto repertorio linguistico iberico, oramai relegato in spazi via via più ristretti e socialmente desueto. In questa prospettiva, il vigore e la diffusione del bagito ricco di elementi iberici troverebbero una ragione in più: l’imponente processo di ‘immersione’ nel dialetto giudaico a base italiana di contributi da lingue di antica e grande tradizione come lo spagnolo sefardita, il giudeo-spagnolo e, in misura minore, il giudeo-portoghese (cfr. M
ODENAM
AYER, 1997, 959-961).
Detto ciò, la presunta incongruenza tra assenza di ghetto e robusta autonomia dialettale può essere ridimensionata decostruendo il mito di una Livorno che forse fu davvero a lungo una “piccola Gerusalemme” (B
EDARIDA1957, 77-89), ma che mai fu per gli ebrei che la abitarono una Gerusalemme celeste. Escludere l’effetto della segregazione sulla comunità ebraica di Livorno e, di conseguenza, sull’identità linguistica dei suoi membri, sarebbe infatti profondamente sbagliato. E’
bene ricordare che, a Livorno come altrove, essere ebreo significava vivere in una condizione di perenne emarginazione e persecuzione, anche e soprattutto di fronte alle plebe cristiana, come testimoniato dalla sommossa antiebraica del 1790 nel giorno di Santa Giulia, patrona cittadina
3,
2 Guido Bedarida, elencando le Nazioni straniere presenti a Livorno, definisce quella Ebrea «la più numerosa, la più facoltosa e la più autonoma» (Bedarida, Ebrei, XIX).
3 La vicenda è narrata in Anonimo, Bravure, un poemetto scritto in vernacolo livornese alla “veneziana”; per approfondimenti: TOAFF 1991, 25 e FRANCESCHINI 2008a, 80-92.
oppure dalle scene di ordinaria intolleranza ben descritte da Guido Bedarida nel sonetto Il dindolino (Bedarida, Ebrei, 14-15). A proposito, Primo Levi, riferendosi al giudeo-piemontese, descrive con efficacia la relazione tra giudeo-lingua e antisemitismo:
«La funzione dissimulativa e sotterranea, di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando dei gojim in presenza dei gojim, o anche per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non comprendersi, al regime di clausura da essi instaurato» (Levi, Sistema periodico, 8-9)
Di conseguenza, come ribadisce Angelo Beccani, autore di un saggio storico-linguistico sul bagitto e della prima raccolta lessicografica, il circuito chiuso tra diversità subita, identità autoreferenziale e variazione linguistica si rivela un meccanismo potente anche a Livorno
:«tuttavia la pertinacia di tradizione, caratteristica di tutti gli ebrei, l’uso delle pratiche religiose, la tendenza a rifuggire dalla comunione con altri consorzi hanno lasciato in vita molte voci e costrutti per cui il “bagito” livornese vive ancora con caratteri ben distinti» (Beccani 1941, 3).
Se, infatti, non vi fu infatti segregazione etnica mediante l’imposizione di un ghetto istituito, certamente vi fu concentrazione spaziale all’interno di una zona del centro cittadino dai confini abbastanza precisi, caratterizzata, per un certo periodo, da alta densità abitativa e ospitante le fasce sociali più basse della comunità, il cosiddetto “popolino” ebraico
4. Nel 1603, ad esempio, è già documentato il toponimo “via dei Giudei” per indicare la strada ove l’anno seguente sarà edificata la sinagoga, con l’intento esplicito da parte dell’autorità di concentrare la popolazione ebraica (cfr.
F
RATTARELLIF
ISCHER1984, 584); non a caso, meno di cinquant’anni dopo, il coefficiente stimato per unità abitativa nella zona appare già elevato (F
RATTARELLIF
ISCHER1984, 599). Gli ebrei benestanti, sovente di origine iberica, non abitavano infatti tra il duomo e il bastione del Casone, a volte chiamato
“ghetto” nei documenti, bensì nei quartieri residenziali assieme ai notabili cristiani. Chi viveva, lavorava e commerciava nel quartiere ebraico stretto attorno alla sinagoga erano soprattutto ebrei di basso rango, quotidianamente a contatto e in coabitazione con popolani cristiani e anche immigrati anatolici (§1.1). Tra loro vi erano sicuramente molti degli ebrei italiani di bassa estrazione sociale
4 Per informazioni più approfondite si rimanda a §1.1.
che, in buon numero provenienti da Roma
5, si affiancarono, non senza attriti, ai sefarditi iberici verso la metà del Seicento (§1.1), producendo così le condizioni di contatto linguistico e contaminazione dialettale idonee allo sviluppo della varietà giudeo-italiana di Livorno. Tali condizioni paiono riflettersi in una certa prossimità lessicale con il giudeo-romanesco, fenomeno a cui Mario della Torre ha dedicato un apposito contributo (D
ELLAT
ORRE1990) e che Beccani estende con cautela alla morfologia (B
ECCANI1941, 9). A questa componente vanno aggiunti infine i levantini provenienti dall’Impero Ottomano e dalla Barberia, portatori di idiomi diversi e retaggi dialettali di centri italiani d’immigrazione ebraica come Ancona o Ferrara
6.
A partire dalla metà del Seicento, si è formato in questo contesto urbanistico un blocco relativamente omogeneo per condizioni socio-economiche, eterogeneo per origini etnico-culturali ed egemonizzato dal gruppo ebraico. In seno a questo ambiente si è sviluppata successivamente una varietà dialettale giudaica che, pur assorbendo gli apporti iberici, si fondava su elementi strutturali dialettali italo-romanzi in buona parte extratoscani, almeno in una prima fase. Inoltre, come emerge dalle fonti, l’eccezionale promiscuità abitativa, lavorativa e relazionale con i non ebrei ebbe come riflesso linguistico l’immissione nella parlata di una rilevante quota di lessico puramente gergale, funzionale alla comunicazione ‘furbesca’ durante i traffici e il commercio di piazza. Parallelamente, la convivenza tra ebrei e cristiani provocò l’immissione di prestiti giudaici nel comune vernacolo toscano livornese (all’epoca in gestazione) e alla diffusione della parlata giudaica anche tra i non ebrei, fenomeno già osservato in M
ASSARIELLOM
ERZAGORA1980, 109; S
COTTO1985, 11-14;
F
ORNACIARI1983, 432; O
RFANO2008, 51, 52, 57 e dimostrato dalle recenti interviste ai parlanti
7.
Guido Bedarida individua nel Settecento il secolo di formazione e diffusione del bagitto inteso come “gergo” tipico degli ebrei livornesi, composto da elementi fraseologici e lessicali spagnoli e portoghesi, ebraici e infine toscani (B
EDARIDA1957, 78); ad eccezione di Marchi, che ne anticipa la
5 L’insediamento di banchieri ebrei romani in Toscana risale addirittura al Duecento (TOAFF 1983, 183) e fra la prima metà del secolo XVII e la seconda metà del XVIII sono numerosi gli ebrei provenienti a Livorno da Roma e dallo Stato della Chiesa (cfr. DELLA TORRE 1990, 118).
6 L’impronta culturale e linguistica di questa componente etnica ha lasciato traccia di sé anche nelle fonti letterarie. Si pensi ai già menzionati Sonetti di Giacobbe Attias, levantino di Bedarida (Ebrei, 52-59) oppure al popolare personaggio stereotipato (con ogni probabilità realmente esistito) noto come Bellaroba, Bela Roba o Bela Robba, citato ancora dal Bedarida (Intermezzo, 85) e protagonista di un sonetto di Mario della Torre (Sonetti, 11-40), la cui storia e origine è descritta in FORNACIARI 2005, 144-145.
7 Si veda ORFANO 2008, 60,292,313,314,329.
nascita di un secolo (M
ARCHI1993, 259), gli altri esperti concordano sostanzialmente con questa indicazione cronologica. Effettivamente, durante il secolo XVIII la presenza ebraica a Livorno subisce dei mutamenti demografici densi di conseguenze sociolinguistiche: l’ingresso di una robusta componente italiana, soprattutto di origine centro-meridionale, all’interno della comunità locale e il conseguente lento declino dell’egemonia sefardita; la cospicua immigrazione di ebrei di origine levantina e nordafricana; la crescita demografica (quasi duemila unità), che comportò parallelamente una forte concentrazione abitativa all’interno di una zona poco estesa della giovane città di Livorno
8.
Secondo Bedarida, la formazione di una vera e propria parlata giudeo-italiana a Livorno fu impossibile prima del Settecento poiché «i primi arrivati parlavano necessariamente il loro linguaggio di origine» (Bedarida 1957, 78), ossia lo spagnolo e il portoghese o, meglio, le corrispettive varianti giudaiche. Come assodato (cfr. O
RFANO2008, 54; F
RANCESCHINI2008a 198, 206), l’arrivo di sefarditi italiani verso il secolo XVIII fu dunque determinante per la formazione del bagitto, che pur mantenne numerosi elementi lessicali, fonomorfologici e intonativi di provenienza iberica, oltre a termini ebraici, aramaici (e finanche arabi e turcheschi), introdotti per bocca di marrani giudeo-ispanofoni (cfr. M
ASSARIELLOM
ERZAGORA1977, 16), secondo le complesse dinamiche di immissione reciproca di ebraismi tra le varietà di giudeo-spagnolo e i parlari giudeo-italiani illustrate in A
PRILE2010. Ciò spiegherebbe, ad esempio, la temace trasmissione in ambito giudeo-livornese di materiale lessicale cristallizzato con tratti morfologici dialettali non toscani, come dimostra la filastrocca che segue, ignota alle fonti, ma ancora viva nel repertorio orale della famiglia di più schietta origine bagitta tra quelle intervistate, i Bueno-Sitri. Pronunciata con cadenza e lessico giudeo-livornese, essa presenta tuttavia anche evidenti marche morfologiche di retaggio meridionale:
AS1939: la gnóra bertulósa, affacciata a lu balcóne, na bucchja di limóne in tèsta li c̶ascò. e llèi tutta stizzósa c̶ór sangue riscaldà tto, dičèndo le hai macchjà to la cuffia de sciabbà!
D’altro canto, è lecito supporre anche l’esistenza di differenze e tratti ricorrenti nella variante dialettale giudeo-livornese nota alle benestanti famiglie sefardite di più antico lignaggio iberico,
8 Si veda al riguardo il paragrafo §1.1 e §2.1.
residenti, come già si è detto, assieme agli altri notabili livornesi, in zone della città più o meno distanti dal quartiere ebraico o addirittura dal centro
9.
Tra questo originario bagitto comunitario, parlato dai discendenti dei primi mercanti ispano- portoghesi orgogliosamente attaccati alle proprie tradizioni, e quello gergalizzato e fortemente vernacolare degli ebrei più umili e meticci, non c’è una reale discontinuità linguistica, bensì una evidente variabilità sul piano prosodico, fonomorfologico e lessicale. Le dinamiche che producono questi mutamenti sono in sostanza assimilabili a quelle che caratterizzano la variazione dialettale interna in genere, come ampiamente osservato anche in comunità linguistiche ridotte dal punto di vista demografico (cfr. T
ERRACINI1922, C
OMO2007, 94-95), proprio per l’assenza dell’azione uniformante della norma (cfr. B
ERRUTO-A
CHILLE2011, v. ‘variazione linguistica’). Queste varianti, difficili da isolare e collegare, si possono dunque spiegare con la diversa estrazione sociale incrociata all’origine etnica dei parlanti, due fattori sovente sovrapponibili.
Per farsi un’idea dell’intolleranza tra i due gruppi - capace di eruttare anche in violenza collettiva a partire da banali episodi (cfr. P
ERA1899, 227) - e, dunque, della loro plausibile distanza nel modo di esprimersi, si riportano qui alcuni stralci di un documento intitolato «Dell’odio che passa tra gli Ebrei di origine spagnuola e gli Ebrei italiani», che riprende lettere e motupropri granducali emessi tra il 1693 e il 1767:
«Gli Ebrei di origine Spagnuola e quelli di origine Italiana si odiano scambievolmente fra di loro. Nasce questa avversione da un punto di Religione per una parte e di superbia per l’altra. [...] E gli Spagnuoli all’incontro non possono soffrire di essere eguagliati agli Ebrei Italiani, che riguardano come gente vile, rappezzatori di vesti rotte e rivenduglioli. [...] Le discordie dei detti due partiti erano cresciute a segno nel 1693, che dovè il Gran Duca dare un nuovo Provvedimento [...] Ma con tutto ciò non è stato possibile di estinguere affatto il cattivo umore che veglia ancora tra i due partiti. [...] Gli Ebrei Spagnoli, il numero dei quali prevale anco presentemente nelle Adunanze, vogliono distinguersi dagli Italiani [...]» (T
OAFFRenzo 1972, 206)
Se ipotizzare l’esistenza di vere sottovarietà all’interno del dialetto giudeo-italiano di Livorno è una speculazione infondata, non lo è però immaginare, in prospettiva sia diacronica che diastratica, due antipodi linguistici all’interno dei quali tale dialetto si è sviluppato, con numerose varianti da
9 Per i dati e le fonti si rimanda a §1.1.
famiglia a famiglia e da gruppo sociale a gruppo sociale. Ai poli di questa sorta di “micro-continuum”
dialettale possiamo dunque ipotizzare: ad un estremo, una varietà parlata di giudeo-spagnolo e/o giudeo-portoghese fortemente contaminata da italianismi, toscanismi e giudeo-italianismi (non solo sul piano lessicale) adoperata principalmente per scopi identitari; all’altro, una varietà vernacolare
‘ibridata’ a base toscano-occidentale arricchita di ebraismi, iberismi, altri esotismi di derivazione giudaica e gergalismi, impiegata spesso, ma non solo, con finalità criptico-gergali connesse alla protezione e al commercio
10. Nel mezzo, tutta la variabilità dialettale che può prodursi in una comunità eterogenea e soggetta continuamente a flussi immigratori ed emigratori.
Come già anticipato, riguardo alle componenti dialettali non toscane, si possono ragionevolmente evidenziare gli apporti giudeo-romaneschi, considerando il peso demografico degli ebrei romani in seno all’immigrazione ebraica di provenienza italica e, in genere, i costanti scambi tra ebrei di Livorno e Roma.
2.2 Variazione diastratica e percezione esterna
Osservando il fenomeno da questa angolatura, e cioé tenendo conto della variazione interna su base socio-culturale e del contesto sociolinguistico in cui si è prodotto, si comprende perché molti esperti, tra cui anche specialisti (cfr. Duclou B
EDARIDA, Ebrei, XIII, XX; B
EDARIDA1957, 77, 78
11; M
ODENAM
AYER1978
12, 166-167; S
COTTO1986, 9, 11; D
ELLAT
ORRE1990, 116; F
ORNACIARI1999, 277; D’A
NGELO2012, 124) abbiano utilizzato agevolmente il termine “gergo” (alternandolo a dialetto, vernacolo o parlata) per definire la varietà giudeo-livornese. Al tempo stesso, si capisce
10 Come sarà illustrato più avanti, le inchieste tra i parlanti e gli studi sulle fonti ci spingono a ipotizzare un quadro ben più sfumato e ‘ macchia di leopardo’ rispetto alla tesi della separazione diastratica sostenuta da SCOTTO (1985, 29), FORNACIARI (1983, 454; 2005, 4) e, implicitamente, da altri (BEDARIDA 1956, XIII; MASSARIELLO MERZAGORA 1977, 55, 60), secondo cui il bagitto sarebbe un socioletto esclusivo del basso popolo livornese rigettato dagli ebrei colti, adusi ad esprimersi solo in italiano o spagnolo.
11 Per Guido Bedarida, tuttavia, la definizione rimane incerta: «[...] una parlata, che non è dialetto né vernacolo e forse neppure gergo» (BEDARIDA 1957, 85).
12 All’epoca in cui scrive, La linguista milanese specifica che il giudeo-livornese si presenta «allo stato attuale soprattutto come un “gergo”, cioé come un linguaggio usato in una determinata cerchia di persone» (MODENA MAYER 1978, 166-167), individuando così nella gergalizzazione della varietà un fenomeno involutivo che agisce in diacronia.
perché parecchi testimoni e cultori ammettano la sopravvivenza del “gergo” ebraico, ma considerino ormai estinto il bagitto.
A chiosa di queste osservazioni, l’eco di questa variabilità dialettale interna si riflette anche nelle recenti testimonianze di quattro parlanti distanti per origine, estrazione socio-culturale ed età. Il primo informatore è un livornese di origine sefardita nordafricana da lato materno e cristiana fiorentina dal lato paterno, nato nel 1949:
PS1949: ché ppòi tra l’altro vésto zzucchéro néro c’avéva varché, ciè varche strasscìo.. di véstee.. / I: ah! / PS1949: di vésto idiò idiòma inizzjale / I: e ccóme lo sapéte quésto? / PS1949: e llo sò! ddé lo so / I: ve l’hanno détto / PS1949: sa, ssì / I: é ccóme dicévano? ché llui ché tipo di.. / PS1949:..
nó nó nón nón ti saprèiii / SS1974: còsa? / PS1949: spiegare.. v .. ciè quélo ché pecché parlavaa in mòdo strétto diciamo unn unaa un un idiòma diciamo ché.. ché nnón èra capito.. dagli altri. némmeno dalle su nipóti..
Il secondo è Giacomo Nunez, giudeo-livornese di Tunisi nato nel 1927:
GN1927: ma é u lèi ve dève pà dire ché l bagìto classico, dirèi, éh? / I: sì. / GN1927: il fatto sémpre ché contiène paróle ebraiche, oh, e parole spagnòle! sopratuto, e pportoghéṡi, s ha un significato sull'oriṡgine della gènte che lo parlava. / I: cèrto, però ccuéste / GN1927: io quésti paròle di quésti déntri del popolino ch'è venuto dòpo, vorèi sapére se ci sóno paròle spagnole / I: ci sóno, alcune či sóno, sì / GN1927: fòrse l'han l'avono préṡe anche perché anche cristiani avévano paróle spagnòle a a livòrno, e͂h! atenziòne ché.. biṡògna s capire ché ché gl i nóon ebrèi di livòrno in generale quélli della venézia nuòva, lavoravano nelle dittee ché avévano sa sul fòsso.. c'éra la caṡa dei nùnes sul fósso. […]
I: méntre.. il quésta parlat̶a / GN1927: sì / I: ché llèi definisce gergale, mi sbaglio? / GN1927: sì. ècco, sì. / I: perché ddi perché uṡa pròpjo la paròla gèrgo? còsa intènde lèi? / GN1927: perché è simile al gèrgo ché conósco de la da la génte del popolino livornéṡe.
La terza è un membro della piccola comunità di ebrei livornesi residenti a Viareggio, nata nel 1933:
I: il baṡgìtto véro.. sec̶ondo lèi / GC1933: nón lo parla più nessuno / I: ma ccos'èra, sec̶ondo
lèi? / GC1933: n l bagìtto è un linguaggio. è una lingua. véra e pròpria. però, ché è andata a dispèrderzi
perché qquésti cóme sóno arrivati fra ddi lóro parlavano il bagìtto, quésti spagnòli. una pàrte arrivava
dall'affrica, dalla spagna, parlavano quésto bagìtto, pói si è s dispèrzo quésta lingua, e è rimasto quést
quésto.. imbastardiménto... ma nó͂n mm nón nón è l bagìtto, la debóra, mia nuòra me l'ha détto. […] èra
un linguaggio probaménte importato dalla spagna. quando sono arrivati quésti dalla spagna, nel
millecinquecènto, lèi pènzi in tutti quésti anni coṡa è succèsso di quésta lingua: gli èbrei sóno andati a
finire nón c'è guasi più nessuno.. pòchi ché són rimasti pói quéste paròle són cambiate [...] GC1933: o io èh, nón è ché [ride] ne sappia mólto, però il véro bagìtto è divèrso. són ricavate dal bagìtto. ma il bagìtto si è d si è dispèrzo, é éh c e i livornéṡi l'hanno pói cambiate quéste paròle. nón nón è ppiù il bagìtto véro perché sh a͂nche la dèbora me l'ha détto, dice: guarda che ll quéllo ché parli té, nón è il bagìtto. quésto è un'imbastardiménto, perché són cambiate quéste paròle. cé sarà una partènza. ma, in realtà nón è il bagìtto véro, èh!
Infine, un livornese non ebreo di origine ebraica da lato materno, nato nel 1950:
MF1950: dičiamo la parlat̶a ebraic̶a / I: èh! / MF1950: e l l me si c̶hiama? me ló disse a mménte la mi sorèlla, baṡgìt̶o, baṡgì o ccóme o chiaman o ccóme si c̶hiama? / I: sì, ba baṡgìtto o baṡgìto, però / MF1950: sì, il baṡgìit̶o, ma nnói si c̶hiamava ṡgèrgo. / I: ṡgèrgo uṡavat̶e? / MF1950: èh! nói ṡgèrgo, g̶uando si parlava: gèrgo ebraic̶o. nvéče c’è c’è l nóme baì ma io l’hò ssaput̶o óra preṡèmpio di v̶ésto ||
MF1950: sì! pér definire la parò quando parlavanoo ée llóro si dičéva: parlano in gèrgo, perché dičiamo éh sóno paròle c̶hé nón...
Oltre alla stratificazione socio-culturale della comunità ebraica, l’attitudine migratoria dei suoi membri, individuata da Wexler come terzo presupposto per la genesi di una giudeo-lingua, ha avuto nel nostro caso un peso determinante. Livorno, popoloso porto franco, fu infatti per secoli meta e approdo di singoli, famiglie e gruppi di ebrei provenienti dai maggiori centri costieri del Mediterraneo o diretti verso di essi, sia sulle sponde cristiane che su quelle musulmane. Questo continuo afflusso non ha influito solo sulla composizione del ricco repertorio lessicale dei bagitti di Livorno, ma ha anche provocato, caso unico in ambito giudeo-italiano, la nascita di nuclei e comunità di giudeo-livornesi in località lontane. Quando questi insediamenti furono abbastanza coesi e consistenti dal punto di vista demografico, in essi si è conservato per generazioni il dialetto giudeo- romanzo di Livorno – o almeno parte del suo originario repertorio lessicale - in autonomia dal centro di diffusione, come dimostra il caso dei Grana di Tunisi e dei loro discendenti
13, ma anche, in tempi molto più recenti, la vicina comunità bagitta di Viareggio.
13 Per maggiori ragguagli si rimanda a NUNEZ 2013 e ORFANO 2014.
2.3 Il bagitto e il dialetto toscano di Livorno
Dopo aver profilato il contesto comunitario e i diversi apporti linguistici che hanno contribuito a generare il bagitto, resta da indagare il rapporto tra dialetto toscano-occidentale e giudeo-livornese, sia durante la “gestazione” che nella successiva fase di massima autonomia dialettale, cioè il Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Mentre la Massariello Merzagora (1977, 56) considera il pisano e il livornese “naturalmente” influenti sul piano genetico, Franceschini pone l’accento precisamente sull”alterità bagitta” (F
RANCESCHINI2008a 198, 213) rispetto al toscano:
«la diversità linguistica del bagitto rispetto al pisano-livornese è molto elevata, paragonabile e anzi superiore a quella che separa dal romanesco moderno la parlata ghettaiola.» (F
RANCESCHINI2008a, 198).
Lo spoglio e l’esame sistematico delle fonti sette-ottocentesche operati in F
RANCESCHINI2005, 2006a, 2006b, 2008a, 2008b, 2013 dà in effetti conto a Guido Bedarida della presenza di materiale lessicale di origine ebraica ‘toscanizzato’ (Bedarida, Ebrei, XII; B
EDARIDA1957, 77-78), ma rivela, in primo luogo, l’assenza dei tratti più tipici del pisano-livornese sul piano fonomorfologico e la presenza di fenomeni extra-toscani, in parte dipendenti dal contatto con le lingue giudeo-iberiche, e, in parte provenienti dalle varietà centro-meridionali parlate dagli ebrei italiani emigrati a Livorno (cfr. F
RANCESCHINI2008a, 198). Questa fisionomia del passato non corrisponde allo stato attuale della parlata, ritenuta da molti degli informatori, a differenza di quelli già citati, una semplice variante vernacolare caratterizzata da lessico di provenienza ebraica adattato alla pronuncia e al sistema derivativo del livornese:
LO1946: il bagitto è pròprio di qui, di di di quésta forma ché di di di.. di di storpiare délle paròle ebraiche, da e e e quindi l il significato è quéllo della paròla ebraica, però éh èra un po’ storpiata, capito?
LP1958: prevaléva l livornése, èh! I: quindi lèi un accènto divèrzo / LP1958: l mì nònno ti sparava n livornése, la mì mamma lo stésso [ride] nón è cché.. nél mèzzo c’èran quéste paròle / I: ho ccapito, quindi la lóro pronuncia èra pròpjo livornése / LP1958: èra pròpjo livornése, sì / I: di tutti?
nón zì rihòrda / LP1958: di tutti, di tutti […] LP1958: non è ché cc’èra pròprio delle frasi faatte,
complète. èrano paròle ché venivano éeh mm mésse nzième al livornése, gapito? […]
Alla luce di quanto già detto sullo sviluppo del bagitto, forse le cause di questo mutamento non sono da ricercarsi, come affermato in precedenza (cfr. O
RFANO2008, 182, 205-218), esclusivamente nella naturale erosione e convergenza sulla “lingua-tetto” dominante nell’area, e cioè il toscano e la sua variante vernacolare pisano-livornese. Vi sono sufficienti elementi per ritenere corresponsabili anche l’effetto disuniformante della variazione diastratica e della scissione etnico- culturale dentro la comunità ebraica livornese; due fattori, come noto, a lungo intrecciati. Oltre a ciò, prima di considerare la locale varietà di toscano parte del patrimonio genetico del bagitto, c’è da porre una questione cronologica, e cioè se il vernacolo tipicamente livornese, la cui espressione più evidente è il cosiddetto “veneziano”
14, fosse già una realtà linguistica concreta nel periodo di formazione del giudeo-livornese.
Livorno vive all’inizio del secolo XVI un brusco mutamento: la promulgazione della Leggi Livornine provoca un’esplosione demografica che stravolge la composizione socio-etnica della nascente città. Ai pochi villici nativi di origine e dialetto pisani si aggiungono lungo il secolo nutrite comunità e individui provenienti da diverse regioni della penisola, dell’Europa e del Mediterraneo, tra cui, sin dai primi decenni, numerosi ebrei (§1.1). Come illustrato in F
RANCESCHINI2008a, 44-66, tra la seconda metà del Seicento e i primi decenni del Settecento alla «Livorno cosmopolitica e multilingue si intreccia e si confronta un’altra Livorno di carattere marcatamente popolare»
(F
RANCESCHINI2008a, 44) concentrata nel quartiere della Venezia Nuova, dove appunto si svilupperà la peculiare varietà vernacolare a cui si è già accennato.
Lo scenario illustrato permette di ipotizzare una sovrapponibilità storica, parziale o forse totale, delle fasi di incubazione e fissazione della varietà vernacolare livornese e del bagitto, come già sostenuto da Bedarida (1957, 88 n.3). Potrebbe dunque essere il corso del XVIII secolo il periodo in cui le due varietà dialettali, parlate in zone urbane densamente popolate e confinanti da parte di comunità conviventi ma ben distinte, si coagularono e diffusero nell’areale cittadino, giugendo poi a contaminarsi lentamente e reciprocamente nel corso dei secoli, come dimostra il gran numero di gergalismi e toscanismi nella parlata giudaica e le immissioni di iberismi ed ebraismi adattati nel vernacolo comune di Livorno
15, fatto ignoto al pisano e al toscano in genere.
14 Questa variante vernacolare, certamente difforme dal pisano coevo e dal pisano-livornese attuale, presenta tratti peculiari che necessiterebbero di una trattazione a parte. Per un quadro esaustivo si rimanda ancora a FRANCESCHINI 2008a, 171-196.
15 Vocaboli come sciagattare, gadóllo, roschétta, bóbo sono quotidianamente sulla bocca dei livornesi, senza distinzioni di età, quartiere o discendenza familiare. Alcune di queste parole sono percepite dai parlanti vernacolari
Cercando nel presente le vestigia linguistiche di questi “incontri e scontri di lingue e culture”
(F
RANCESCHINI2008), i repertori lessicali dell’informatrice ebrea LGM1929 e dell’informatore non ebreo ML1967, entrambi ricchi di francesismi e gergalismi, appaiono emblematici:
LGM1929: nàina lo żżò, mi d̶ičéva, quésto vì dičév̶a: hh ŋàina lo żżò perché ttardissce le ᵽaròle àc̶re. cóme ddire: ti d̶iče vòr sapére c̶òsa ni pare e ʃó e sa, li ppér llì un ci si rispondéva nemméno. però dičéva naina lo żżò, perché t e tartissce le ᵽaròle, e vór dire c̶uéste ᵽaròle in ebraic̶o. […] spartisscìni l’arṡgià! / I: [ride] / LGM1929: è ssèmpre lučid̶o sì! è ffatto per qquésto! / I: [ride] spartìsce l’arṡgià? / LGM1929: è è è npò t̶irc̶hio, è è avaro / I: ah! spartìsce l’arṡgià. spartisci? / LGM1929: spartisce:
prèndi l’arṡgiàa! gu gguarda lo żżò! ha nnainàt̶o, ɬtà attènto g̶anav̶éa! ŋanav̶éa: ᵽòrta via, un pacchétto di biscòtti, c̶aramèlle. e anav̶éa.
ML1967: ma anche fórze spètta n pò: pà ssàu, pà ssàu: sòrdi. pà ssàu varcòsa dér gènere.. pà..
a pparte pà mi sémbra è lla fórma negat̶iva / I: sì. la negazzjóne / ML1967: pà ssàu. aà vòr ddì ssàu sì...
sì ssì sì mé lo riòrdo sì. || ML1967: uando fačév̶a: te l’ha doné? li ssàu? li ssàu sóno i sòrdi, no? te l’ha doné li ssa? sì sì me l’ha doné. quésto č’è ssèmpre, èh? fra r mi babbo, r mi zzìo, nzómma […]. nélla mì famiglia, davvèro, osì.. dato djànzi me ne só sscordat̶o.. si uṡava ṡmorfìre! dóve ssi v’a ṡṡmorfìre?a mmangià, capit̶o? quéllo si uṡava, me lo riòr dè! ó dičéva anche mi babbo: via! van s’andava a lavorà ffòri dóve ssi v’a ṡṡmorfì òggi? dé.. cerchjamo un pósto, da quarche pparte.. smorfì èra mangiare. quéllo sjù.. n’avé ppaura! quello me n’èro scordat̶o, vèd̶i?
Un’altra conferma in questa direzione giunge dalla storia della letteratura vernacolare livornese: non sono infatti noti testi in vernacolo livornese anteriori al 1790
16, e, inoltre, le primissime
come tipicamente livornesi e la loro origine giudaica è pressochè sconosciuta ai più (cfr. FORNACIARI 2005, 42; DELLA TORRE 1990, 115-126; FRANCESCHINI 2006a).
16 La prima pubblicazione in vernacolo livornese potrebbe essere il poemetto Le bravure dei Veneziani, ossia la riaprizione di S. Anna, forse scritto da Natale Falcini e stampato tra il 1790 e il 1818 (Anonimo, Bravure). Per quel che riguarda Le ottave di Giovan Battista Fagiuoli del 1832, come sostiene Polese, «non hanno nulla di livornese», ma sono scritte nel vernacolo rusticano fiorentino ad imitazione della Nencia da Barberino, eccezion fatta per quel buscato che appare in un verso, vocabolo tra l’altro di gergo furbesco e non eminentemente labronico (POLESE 1926, 10-11). Risale invece al 1796 un componimento manoscritto di Falcini intitolato Sonetto in dialetto de’ Veneziani, composto da Falcini livornese in occasione che la città languiva per il ristagno totale del commercio, essendo occupata dalle truppe francesi (cfr. FRANCESCHINI 2008a, 72-73).
attestazioni di letteratura dialettale riflessa contengono parti dedicate all’imitazione della parlata bagitta, posta volutamente a contrasto con il vernacolo dei cristiani
17.
La marcata alterità bagitta del primo secolo di diffusione dipende probabilmente dall’inconsistenza di un’areale dialettale toscano tra le mura di Livorno in questo periodo. Una situazione socio-linguistica molto particolare, naturale conseguenza dell’eccezionale composizione etnica e multiculturale della Livorno delle Nazioni
18, in grado di conferire uno status di straordinarietà - se non di unicità - al porto franco toscano rispetto ad altre città costiere. Ciò spiega in parte l’originalità, la diffusione e la longevità della parlata dei bagìtti
19, i quali, entrando a contatto con il resto dell’eteorgenea popolazione cittadina, non abbandonarono mai la propria identità linguistica (cfr. D
ELLAT
ORRE1990, 123) nonostante l’assenza di un regime istituzionale di segregazione coatta.
In sostanza, due meccanismi diversi potrebbero aver agito in direzione di una compattazione della varietà giudaica: la necessità di proteggere e mantenere coesa la comunità, a contatto obbligato con altri gruppi socio-etnici molto diversi per cultura, religione, lingua e costumi e, in certi casi, apertamente ostili (cfr. F
RANCESCHINI2008a, 1991; 2013, 68, 68 n.195), ma anche la scarsa capacità da parte del vernacolo locale di inglobare ed erodere linguisticamente la componente ebraica. Il vernacolo livornese alla “veneziana” fu infatti una varietà dialettale coeva o forse posteriore al bagitto, che, di fatto, identificava sola una delle diverse componenti della tumultuosa Livorno dell’epoca: l’umile ma orgoglioso proletariato cattolico impegnato perlopiù nei traffici portuali, di cui ci parlano sovente le cronache.
17 Le prime tre opere in vernacolo livornese sono: il già citato poemetto Le bravure dei Veneziani, forse del 1790 (Anonimo, Bravure); il sonetto anonimo Al tempo della presa di Livorno operata dall’Armata francese repubblica, scritto dopo il 1799 e il poemetto La Molte d’Ulufelne ossia la Britulica Liberata, ancora di Natale Falcini e pubblicato nel 1805 (Falcini, Molte). Entrambe le composizioni presentano versi volti a emulare beffardamente la parlata degli ebrei livornesi (cfr. POLESE 1926,11-39).
18 Un quadro denso di informazioni sulla pluralità di lingue e culture a Livorno è sviluppato in FRANCESCHINI 2008°, 16-44 e FRANCESCHINI 2009.
19 Non a caso, nel melting pot livornese il nome della parlata giudaica valeva anche come etnico. Lo dimostrano la dichiarazione identitaria del personaggio di Giuditta in Duclou, Betulia, 208. Molto tempo dopo, anche Guido Bedarida confermerà che il glottonimo si era esteso fino ad identificare l’appartenenza al gruppo degli ebrei di Livorno (BEDARIDA 1957, 78). Fornaciari ha toccato nuovamente questo aspetto attribuendo l’estensione semantica ad ambienti esterni alla comunità (FORNACIARI 2005, 37).
Le indagini sul campo dimostrano come l’eredità di questo antico e profondo astio tra livornesi ebrei e livornesi ‘veneziani’ sia giunto fino ai nostri giorni. Al riguardo, la testimonianza che segue è di estremo interesse:
SS1974: te ppènza hé r baṡgìtto è na lingua di jusùra, nò d’aᵽertura / DS: sì, sì, nón ti facévan sentire pròoᵽjo.. / SS1974: ché méno méno lo sai mèglio è, ècco / PS1949: sᵽečialménte ɦó venezzjani, ᵽòi si són mescolat̶i. la mi nònna èra ebrèa venezziana, sig̶g̶hé.. sì / I: ah! èh, perché venezziani èrano visti ɦóme / PS1949: i venezzjani èranoo sì. èrano v̶isti ué n pò c̶óme l nemico, ècco / I: ècco, m me ne può parlare mèglio di quést’aspètto, c̶hé è mportante. èh! / PS1949: [ride] čiè io óra v̶a b̶é io io nón zóno nato in venèzzia, sóno nato n cèntro, in via rihàsoli, ᵽerò èro venezzjano, èro venezzjano pecché c’av̶o uno zzio ché vog̶av̶a né vvenèzzja, la mi mamma è nat̶a lìi in b̶iaa / DS: viale c̶aprèra / PS1949:
b̶iale caprèra, sicché èro venezzjano. ée però hò ssèmpre sentit̶o dire hé.. é ffra l’ebrèi e venezzjani, c’èra s’èra s’èra sèmpre t̶irat̶o... ché l’ebrèi stav̶ano dalla ᵽarte d̶i vj délla pòsta [inc.] / I: icèrto / PS1949: c’èra la sinag̶òg̶a, stav̶ano g̶uaṡi t̶utti lì. ée.. la mi nònna v̶and’èra ṡgiovan ṡgiovinétta ée stav̶a lì, e m m ciè, l il disc la l fattóre c̶hé c’èra poco buòn sangue, ghé mi nònno ée r marit̶o d̶élla mi nònna, èh? èra c̶ristjano e èra venezzjano. éee quandoo si fidanzò ché nón volév̶ano, e uno poblèma fu ché èra pròᵽjo venezzjano / SS1974: [ride] / I: [ride] / DS: ma perché? / PS1949: e nó llo sò! io nó nó llo sò, é ciè č’èra v̶ésta, éh! èeh! ddi venèzzja! / DS: perché prima či stavano le perzóne pòhoo... cólte dičiamo / PS1949: può ddarsi anche pér quéllo, ᵽerò / MS1981: nó, nón crédo, èh. nón credo pecché / DS: in venèzzja sì. è ssèmpre stato / / SS1974: sì ɦomunque / MS1981: nón credo pecché / PS1949: però mi nònno un èra una n poho c̶ólto / DS: sì, ma in linea ṡgenerale, comunque dópo la guèrra [inc.] / PS1949:
èra una perzóna, pòi ha fatto.. l’impresario teatrale, nsóma non è cché fósse / SS1974: counque l venezzjano è ssèmpre stato v̶isto.. l venezzjano, són dóppi / DS: sì, n pò, npò [inc.] / SS1974: [inc.] / MS1981: [ride] / SS1974: [inc.] si diṡge hé v̶enezzjani són dóppi, nò? / DS: èh / I: sì, lóro dihóno, l venezzjano è ddu vòrte livornése / PS1949: sì. nò! nò, nò / SS1974: nò, són dóppi perché són pottajóni / PS1949: ècco! / SS1974: se c’av̶an n tav̶olino diče i sa c’hò n tav̶olino d’un mètro e mméżżo, lóro t̶i d̶ìano: sai hò nn tavolino di tré mmètri. són dóppi, dèvi facci t̶a tara ᵽòi.
Alla luce di questi elementi, si comprende meglio perché Guido Bedarida, tra le ragioni della capacità di autoconservazione del giudeo-livornese, annoveri esplicitamente l’esistenza di altre
“Nazioni”, ciascuna «gelosa dei suoi privilegi e desiderosa di vivere e di mantenersi in un ambiente proprio» (Bedarida, Ebrei, XIX). Pertanto, durante i primi due secoli e mezzo di storia cittadina, il vernacolo livornese non fu capace di livellare il territorio a livello linguistico, neanche tra gli strati popolari. Al riguardo, il resoconto di un governante francese del primo Ottocento è illuminante: «[…]
comme una espèce de colonie compose d’un ramassis de toutes les nations, plutôt que comme une ville
proprement toscane» (F
RANCESCHINI2008a, 27).
Le tracce di questa particolare condizione si ritrovano nei vari elementi forestieri penetrati stabilmente nel livornese, ancora oggi vividi e provenienti sia dal giudeo-livornese che da altri idiomi, dialetti e gerghi dell’area euro-mediterranea; inoltre, giova ribadire che l’esordio della letteratura dialettale in vernacolo coincide sostanzialmente con quello del bagìtto. Non è un caso se i primi scrittori dialettale livornesi avvertirono la necessità di dare risalto parodico al volgare vernacolo della plebe cristiana proprio ponendolo in comico contrasto con la “fottutissima lingua” (Duclou, Betulia, 180) degli ebrei, una realtà evidentemente forte e ben radicata nella percezione collettiva.
Riassumendo, è possibile che la scarsa forza omologatrice del vernacolo locale e la polarizzazione causato dalla forzata convivenza e competizione con altri gruppi socioetnici stiano alla base del vigore del bagitto. Questo scenario sociolinguistico è tratteggiato, ancora una volta, da Guido Bedarida:
«Il gergo si poté formare col sopravvenire di Ebrei italiani e a causa della sempre più facile convivenza con la popolazione non ebrea sempre anch’essa in aumento e rappresentò non solo una forma di difesa, ma una necessità spontanea in quel bailamme di linguaggi che doveva essere la Livorno di quei secoli.» (B
EDARIDA1957, 78)
La visione di Mario della Torre è ancor più netta e si spinge a considerare il caso della difformità del giudeo-livornese dal vernacolo locale addirittura come un unicuum nel quadro delle parlate giudeo-italiane moderne (concetto ribadito, in toni più sfumati, anche in F
RANCESCHINI2008a, 198):
«Il processo di formazione della parlata giudeo-livornese che è il risultato della fusione di tre lingue, lo spagnolo, l’italiano, e l’ebraico, è contemporanea o di poco posteriore alla nascita del nuovo dialetto toscano-livornese, molto vicino al dialetto pisano. Una analisi sistematica, che ancora non è stata fatta, del rapporto reciproco tra i due dialetti potrà portare a interessanti rilievi: gli ebrei finirono per parlare italiano, ma non riuscirono mai ad assimilare il dialetto locale come lingua di fondo della loro parlata, a differenza delle altre comunità ebraiche più antiche, i cui membri usavano il dialetto locale ebraicizzato. D’altro canto nel dialetto livornese penetrarono molti vocaboli ebraici, in misura maggiore che altrove, sia per la percentuale elevata di ebrei che vivevano nella città, sia per i legami commerciali e sociali più liberi e più aperti che nelle altre città d’Italia, e ciò date le circostanze storiche che avevano portato alla nascita contemporanea di Livorno e della sua Comunità ebraica.» (D
ELLAT
ORRE1990, 123).
Le penetrazione di lessico di provenienza giudaica nel vernacolo comune a tutti i livornesi
non deve essere confusa con la capacità dei non ebrei di padroneggiare la parlata giudeo-livornese,
soprattutto come gergo e linguaggio in codice per gli affari. Questo fenomeno, rilevato anche in altri centri (cfr. M
ENARINI1943, 509; M
ASSARIELLOM
ERZAGORA1980, 105-136; F
RANCESCHINI2006a, 215, O
RFANO2008, 60, 292) e ancora attivo a Livorno, è da ricondurre prioritariamente alla comunanza di spazi e relazioni dedicati all’esercizio del commercio e, soprattutto in passato, dei traffici tra portolani (cfr. F
RANCESCHINI2008a, 110-132), attività in cui non sono rare situazioni comunicative che necessitano riservatezza, scaltrezza e affabulazione. A complicare il quadro si inserisce il lessico dei gerghi veri e propri, comuni sia al bagitto (cfr. M
ENARINI1943, 505-509) che al comune vernacolo, soprattutto nella variante “veneziana” (cfr. F
RANCESCHINI2008a, 110-132), nonchè, per converso, le immissioni di ebraismi nei gerghi dei non ebrei, anche al di fuori di Livorno (cfr. M
ENARINI1943, 215). Elementi del furbesco, del gergo dei malviventi e dei girovaghi, dei venditori ambulanti e del linguaggio marinaresco (cfr. F
RANCESCHINI2008a, 132-140) si sono diffusi grazie al porto franco e hanno seguito percorsi incrociati di immissione e diffusione, creando un dedalo difficile da districare per il dialettologo.
Un altro parametro fondamentale per comprendere al fisionomia della varietà e la sua evoluzione è l’analisi contrastiva delle anomalie prosodiche e intonazionali rispetto alla fonetica soprasegmentale del toscano. Molti autori e studiosi hanno evidenziato l’originalità dell’ “accento”
degli ebrei livornesi, caratterizzato da un’inconfondibile cadenza sefardita “cantante e strascicata”, simile all’orecchio all’intonazione infantile (B
EDARIDA1957, 82). Un fenomeno evidentemente marcato e diffuso, se fu addirittura ritenuto capace di influenzare la pronuncia dei cristiani livornesi e persino dei pisani (B
EDARIDA1957, 82). Menarini, a proposito, allarga addirittura a Firenze il raggio di azione del fenomeno, individuandone senza esitazioni il centro di diffusione in Livorno (Menarini 1943, 215). Beccani, riferendosi a questo aspetto, vi accenna invece utilizzando il termine “calata” e l’aggettivo “musicale”, augurandosi futuri studi comparativi su un elemento ritenuto
“importantissimo” (B
ECCANI1942, 3), ma estremamente sfuggente per l’ovvia assenza dalle fonti a stampa. Altre opinioni hanno posto infine l’accento sulla lentezza del ritmo prosodico giudeo- livornese, aggiunto all’inflessione nasalizzata comune a tutti i giudeo-parlari (cfr. F
ORNACIARI2005, 37). Affermazione isolata e incerta per stessa ammissione dell’autore, è invece quella di Gabriele Bedarida sulla presunta origine portoghese di tale inusitata “cadenza” (Bedarida Gabriele, 85-86).
Attributi come “cantante” e “musicale”, usati da Beccani e Bedarida, potrebbero anche alludere a un
fenomeno diverso, cioè la scelta volontaria di un’intonazione melodiosa con lo scopo di dissimulare il messaggio di fronte a persone ostili.
20.
Gli intervistati hanno dichiarato in più occasioni di ricordare tale inflessione, rammentandone la musicalità e l’andamento prosodico cantilenante; taluni la ritengono simile all’accento spagnolo, altri al portoghese o al genovese. In alcuni casi, hanno tentato di imitarla, producendo enunciati con caratteristiche prosodiche omogenee. L’unica parlante che presenta ancora una flebile traccia di questa speciale intonazione nel parlato spontaneo è ancora una volta Anna Sitri, mentre è possibile ascoltare la riproduzione di questa cadenza bagitta nel dialogo recitato tra il sor Rabà e la sora Rebecca, mandato in onda nel 1974 durante la trasmissione RAI “Sorgente di Vita”.
Alcuni informatori ritengono addirittura che il termine bagitto indichi proprio questo peculiare intonazione prosodica, e non il “gergo” inteso come repertorio lessicale:
EL1925: i vécchi liv̶ornési parlav̶ano n pò c̶ón una hadènzaaa ché ddičevano hé si c̶hiamav̶a baṡgìtto. maa.. n tròv̶a nessuno hé lloo.. parla
I riferimenti a un ritmo prosodico immediatamente riconoscibile (cfr. F
ORNACIARI2005, 37) non sono esclusivi dell’area livornese: è descritta dal Terracini l’intonazione del ghetto ferrarese, a momenti “strasciscata” e a momenti “rotta e febbrile” (T
ERRACINI1962, 260-295)
21, mentre la Massariello Merzagora, concordemente con gli altri esperti, afferma l’esistenza a Roma di una speciale intonazione che alternerebbe toni alti e bassi (M
ASSARIELLOM
ERZAGORA1970, 121). Queste brevi descrizioni, pur sommarie e a tratti impressionistiche, sembrano assimilabili a quelle riferite alla caratteristica pronuncia bagitta.
Infine, i fenomeni prosodici e intonativi sono indicatori privilegiati per studiare gli stadi evolutivi della parlata in diacronia, ma anche per aggiungere un tassello in più alla complessa
20 Una delle più anziani informatrici, RL1921, ha esemplificato questa strategia comunicativa, a cui si faceva ricorso durante i rastrellamenti nazifascisiti. Forse non è casuale che la “musicalità” del giudeo-livornese sia stata evidenziata da due studiosi che vissero in prima persona questo drammatico periodo storico, durante il quale il giudeo- livornese assunse nuovamente il ruolo di lingua segreta di difesa e protezione.
21 Nel corso del Cinquecento, Ferrara costituì assieme a Venezia e Ancona, una delle mete preferite dagli ebrei spagnoli provenienti dai paesi musulmani, dalle quali successivamente migreranno per popolare Livorno e Pisa (cfr.
FORNACIARI 2015, 33).
questione della variabilità interna in senso diastratico e interetnico. Al riguardo, Guido Bedarida aprì uno spiraglio che non deve essere sottovalutato:
«Il bagito, che veniva usato e pronunciato in modo diverso a seconda della classe sociale, oggi lo si ritrova sulle labbra dei più vecchi membri della Comunità livornese, o della parte più popolare di essa, sempre più modernizzato, vale a dire italianizzato. Fra qualche anno sarà spento del tutto.»
(B
EDARIDA1957, 83).
Per proseguire su questa traccia è necessario spostando il focus dalla genesi della parlata alla sua percezione dall’esterno e per l’esterno. A tal proposito, la connotazione negativa che è stata sovente conferita da ebrei e non ebrei al giudeo-livornese emerge nitidamente dalle fonti scritte (cfr.
B
EDARIDAG
ABRIELE1992, 89-91; F
ORNACIARI2005, 101-107; F
RANCESCHINI2011, 199, 200;
F
RANCESCHINI2013, 197, 217, 218) e può essere condensata con efficacia nelle lapidario giudizio di Enrico Levi, un intellettuale ebreo livornese vissuto alle fine del XIX secolo:
«Lo chiamano il pittoresco bagito, e fa schifo a sentirlo parlare!» B
EDARIDAG
ABRIELE1992, 91.
Già indagate altrove in profondità (F
ORNACIARI1983, 1984, 2005; F
RANCESCHINI2005, 2008a, 2008b, 2013), le ragioni di questa svalutazione o aperta denigrazione, qui solo accennate, dipendono da fasi storico-politiche distinte, ma contigue e in buona parte sovrapposte: la già menzionata giudeo-fobia e l’aperta ostilità della plebe cristiana verso gli ebrei in età medicea, asburgica e napoleonica; l’assimilazione culturale degli stessi in età risorgimentale. Infine, l’antisemitismo di matrice nazionalista e sciovinista esploso a cavallo tra XIX e XX secolo e sfociato nelle persecuzioni nazifasciste, un sentimento mai eradicato dalla società italiana del dopoguerra neppure nei territori di più salda tradizione democratica, come, appunto, Livorno e la Toscana. Nel corso dei secoli, la bislacca – e perciò sospetta - parlata giudaica, con la sua inconfondibile pronunzia cantilenante, è stata ritenuta, a Livorno come altrove, un evidente marchio di ebraicità utile a individuare i bersagli da deridere o attaccare
22.
Questo stigma, variamente declinato e sovente interiorizzato dagli stessi ebrei, specialmente se colti e appartenenti ai ceti elevati, ha spinto cultori e studiosi a identificare il giudeo-livornese
22 Tuttavia a Livorno, grazie all’ampia diffusione della parlata tra i venditori cristiani, è stato vero anche il contrario: come risulta da alcune testimonianze dirette (ORFANO 2008, 313), certe formule criptiche di allerta in giudeo- livornese venivano pronunciate dai non ebrei per avvertire gli ebrei delle retate e dei rastrellamenti nazifascisti e consentire la fuga.
soprattutto come un socioletto (cfr. S
COTTO1985, 29, F
ORNACIARI1983, 454; 2005, 4; B
EDARIDA1956, XIII; M
ASSARIELLOM
ERZAGORA1977, 55, 60). In sostanza, il parlar bagitto - e dunque l’esser bagitti, come la Giuditta della Betulia liberata in dialetto ebraico (cfr. Duclou, Betulia, 208, F
RANCESCHINI2005; F
RANCESCHINI2008a, 146-150) - significava far parte di un gruppo collocato in basso dal punto di vista sociale. Questa prospettiva ha influenzato a lungo il dibattito sul significato dell’etimo iberico bajito
23a favore dell’intepretazione di Guido Bedarida, secondo cui il “basso” in questione indicherebbe lo status socio-culturale dei parlanti (cfr. B
EDARIDA1957, 82), ipotesi cautamente ripresa da Massariello Merzagora (1977, 55) e sostenuta nuovamente da Fornaciari in tempi più recenti (F
ORNACIARI2005, 35-36). Aldilà della correttezza dell’interpretazione etimologica, l’opinione di Bedarida, pur autorevole, rischia di essere fuorviante: concepire il bagitto come un semplice “socioletto” è riduttivo. Come si è visto, il dialetto giudaico italo-romanzo era parlato a Livorno anche nelle altolocate famiglie di antico lignaggio sefardita, ed inoltre era - ed è ancora - conosciuto e compreso da vari ceppi familiari della media e alta borghesia professionale
24. Del resto, sarebbe ingenuo credere che uomini di cultura come Raffaello Ascoli, Cesarino Rossi, lo stesso Guido Bedarida e, giungendo ai giorni nostri, Mario della Torre e Gabriele Bedarida, sicuramente non appartenenti al “basso popolo”, abbiano scritto in e sul bagitto solo per nozione riflessa e non, come è evidente, per diretta competenza dialettale radicata nella tradizione familiare e comunitaria. Come è logico suppore, e come traspare anche dalle testimonianze raccolte, in una città in cui buona parte delle famiglie socialmente più influenti avevano origini ebraiche, l’uso del giudeo- livornese negli ambienti più elevati fu progressivamente limitato alle mura domestiche ed altre rare occasioni per tutelare il proprio prestigio di fronte ai pari non ebrei.
Infine, secondo chi scrive, alla luce dei sondaggi tra gli ultimi testimoni, molta della reticenza e dell’imbarazzo nell’ammettere di parlare e capire la parlata giudeo-livornese, letta un po’ troppo spesso in chiave socio-culturale, dipende invece banalmente dalla sua funzione comunicativa più diffusa, cioè l’uso criptico che se ne fa nel commercio. E’ più che comprensibile, infatti, che un negoziante o un commesso abbiano difficoltà ad ammettere in pubblico o durante un’intervista di utilizzare quotidianamente un “codice segreto” con l’intento di non farsi comprendere dai clienti o dai fornitori. E’ ancora un dialogo tra l’informatrice AS1939 e il figlio MB1965 a darci la misura e
23 Per maggiori approfondimenti si rimanda alla voce baṡgìtto del Glossario (§6.1).
24 Per un quadro statistico dello status socio-economico degli intervistati si veda §3.5.
il senso di questo disagio, che, inevitabilmente, si traduce in autocensura di fronte alla curiosità linguistica del raccoglitore:
AS1939: pér far capiree sì.. il valóre di una hòsa e nvéče è un’altra / I: ah e ma ma ssi uṡavano déi tèrmini? / MB1965: èh! perché sec̶óndo me s c’èra n mòd̶o di ᵽarlare in mòd̶o... pér / AS1939:
io ll’hò ssentit̶o dìre indirettamentee nzómma ɦuandoo contrattavano, ᵽerò io nùn.. non hò mmai partečiᵽa nnòn nòn mi interessav̶a / MB1965: sì ma nnón avé rrèmore dal punto di v̶ista c̶hé uno è onèsto o diṡonèsto perché / AS1939: sì / MB1965: qquélle són tècniche di vèndit̶a / AS1939: sì ma nònn.. sì. / I: ma ssì, pòi anzi c’hanno anche una una c̶ultura èh antichissima he vvjène dal mmondo levantino à éh... / MB1965: appunto, appunto! / AS1939: ma nnóon mi ᵽja nón mi è mmai ᵽjačiut̶o u u llo sò.. / MB1965: cioè ssé ècco, ora indipendenteménte però cché ti sia pjačiut̶o o mméno / I: è un’arte nò? / AS1939: èh. / MB1965: c’èra quésto mòdo di vènd / AS1939: sì! ll’hò sentit̶o dire, sì.
/ MB1965: c’èra èh allóra e hò rraṡgióne io ché non è un qualcòsa di nuòvo? / AS1939: nò nò nò nò! è vvéro hò ssentito io / MB1965: èh allóra.. quindi escludèndo la raṡgióne c̶hé uno deve èsse onèsto quando vènde, c’èra c̶uéste t̶ecniche di vèndita? / AS1939: sì! si ssi ssì. c’èrano / MB1965:
sì. e cc’èrano. / I: è cc’èran délle ᵽaròle, délle espressjoni? / [...] / AS1939: màrcaa vènti màrca t̶rénta pòii èra t èra n’ar èra tutta n’artra òsa / MB1965: ècco. allòra ha v̶isto sjamo arrivati?.. c’è / I: quindi màrca venti màrca t̶rénta voléva diree màrcaa djèči màrca quindiči / AS1939: quindiči sì ssì. / I: la met̶à. / AS1939: èh! è͂h.
2.4 La morte del bagitto? Le valutazioni dei cultori
Come confermano molti studiosi e cultori delle parlate giudeo-italiane, le leggi razziali, la Shoah e la conseguente distruzione demografica e socio-urbanistica delle antiche comunità ebraiche italiane hanno segnato ovunque in Italia una brusca interruzione della trasmissione intergenerazionale e una dispersione pressoché totale di questo patrimonio dialettale, con l’esclusione del giudeo- romanesco, in regressione ma ancora vitale (cfr. M
AYERM
ODENA1997, 963)
25.
25 E sufficiente digitare la parola chiave “giudeo-romanesco” sul popolare motore di ricerca video Youtube per saggiare diversi stralci di parlato spontaneo o di recitato parodistico, anche recentissimi.
In termini di tendenza generale Livorno non fa eccezione, ma i risultati già divulgati in O
RFANO2008, 2010, 2011a, 2014, 2016 e in W
AGEMANS2009, e qui illustrati finora, testimoniano una condizione ben diversa rispetto alle impietose valutazioni dei maggiori studiosi e testimoni sullo stato della varietà giudeo-livornese.
L’esame cronologico di queste affermazioni consente di ripercorrere la storia a noi più vicina dei protagonisti degli studi e della letteratura giudeo-livornese, facendo emergere, con pochi distinguo, una decennale serie di “epitaffi” sul bagitto di ieri e sulla sua ineluttabile scomparsa. Questi giudizi, spesso netti, sono di grande interesse, perché, se da un lato sentenziano in modo affrettato la fine di questo particolare fenomeno linguistico, dall’altro ne colgono al tempo stesso aspetti importanti da varie angolature, aiutando a comprenderne la natura, per così dire, “carsica”, la diffusione nel tempo e l’evoluzione nell’uso.
La prima affermazione, già pessimista, è del linguista Angelo Beccani che, con coraggio, pubblica i suoi lavori sul giudeo-livornese proprio durante gli anni più bui:
«La pressione della lingua letteraria italiana, che irresistibilmente va distruggendo il patrimonio dialettale della nostra penisola, si è fatta sentire anche sul dialetto ebraico-livornese, tanto che al momento attuale ben poco resta in confronto a quello che sarà stato il materiale linguistico di qualche tempo addietro» (Beccani 1942, 4)
26Già Beccani allude dunque a un passato - si suppone ottocentesco - di gran vitalità e diffusione del bagitto, le cui vestigia sono ancora tenuamente percepibili all’epoca in cui egli osserva il fenomeno. Difficile dire se l’unica causa di regressione indicata, cioé l’erosione linguistica, sia frutto di una posizione sincera o, almeno in parte, motivata da autocensura in pieno periodo di leggi razziali.
Appena dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Guido Bedarida, dipingendo con parole lapidarie uno scenario già critico, introduce tuttavia due fattori di grande interesse, e cioé la variabilità diastratica interna e il progressivo adeguamento alla fonomorfologia italoromanza:
«Il «bagito» che veniva usato e pronunziato in modo diverso a seconda della classe sociale, oggi lo si ritrova solo sulle labbra dei più vecchi membri della Comunità livornese, o della parte più popolare
26 In realtà, la seguente affermazione di Mario Della Torre, pur contenuta in una pubblicazione del 1990, sarebbe addirittura antecedente, poiché relativa grosso modo agli anni Trenta: «cercherò di ricordare qualche aspetto della stratificazione lessicale più antica che si era conservato nella parlata giudeo-livornese, ai tempi della mia gioventù già agonizzante» (DELLA TORRE 1990, 117)
di essa, sempre più «modernizzato», vale a dire «italianizzato»: fra qualche anno sarà spento del tutto.»
(Bedarida 1956, 83)
Per avere ulteriori riscontri sullo stato del giudeo-livornese bisognerà attendere il 1974, quando una delle massime autorità intellettuali in seno all’ebraismo italiano, Giuseppe Laras, celebre rabbino di Ancona e di Livorno e autore di una storia della filosofia ebraica, rilascerà un’intervista alla trasmissione RAI Sorgente di Vita sulla storia e le tradizioni della comunità ebraica di Livorno.
A chiosa Laras affronta nello specifico anche il tema del bagitto, definendolo un “modo di parlare o dialetto” caratterizzato dalla “commistione di ebraico e portoghese” e parlato nelle “conversazioni intime e familiari” che «qualche ebreo ricorda, non molti, in verità, e che parla durante le conversazioni domestiche», limitando dunque a questa sfera comunicativa e non altre (per es. il gergo del commercio) l’uso della varietà (S
ORGENTE DIV
ITA, 1974).
Subito dopo la trasmissione prosegue con una scenetta ripresa nei pressi della Sinagoga di Livorno di durata inferiore al minuto, in cui due ebrei livornesi - il sór Rabà e la sòra Rebecca - recitano un finto dialogo di strada che ci restituisce un quadro molto prezioso dei principali tratti linguistici del bagitto, in un’epoca in cui erano ancora vitali sul piano prosodico e morfologico. In particolare, spicca la pronuncia nasalizzata e, a livello soprasegmentale, gli accenti di frase principale e secondario marcati e di intensità ascendente: la famosa “cantilena” scomparsa a cui si riferiscono molte fonti e testimoni. Inoltre, si nota nella parlata di Rabà il residuo fonetico, già morente in quegli anni, del tratto tipico dei vernacolanti livornesi della Venezia Nuova: la “lisca”, cioè la pronunzia laterale fricativa sorda di /s/ preconsonantica. Si offre qui la trascrizione fonetica semplificata
27del dialogo:
Rebecca: βuòn giórno sò rabà! da dóve viène n bon’óra?
Rabà: vèngo di ɬcòla.
Rebecca: c'èra dimórta ṡgènte?
Rabà: nemmén minià! in òggi levat̶o ché l hahàm é il ssciamàs, a la ṡgènte gli piače stare spantacheàt̶i.
27 Per il sistema di trascrizione adottato si veda §3.10x.