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CAPITOLO TERZO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO TERZO

Orientalismo e il suo rapporto con Foucault

3.1:Molteplici influenze per un progetto foucaultiano

Orientalismo, come si è accennato, è un’opera che viene elaborata sotto il segno di molteplici influenze.

La trattazione del tema di un rapporto tra culture come un rapporto essenzialmente di dominio, posto in una visione fenomenologica di identità e alterità, dove l’Occidente è il polo-Ego, attivo, l’Oriente il polo-Altro, passivo, rimanda immediatamente, per affinità, alle opere di Fanon. Un altro contributo impossibile da ignorare per la sua forza è quello di Gramsci e dei suoi Quaderni dal carcere, in particolare per quanto riguarda il Quaderno XI. Qui infatti si può ritrovare enunciato in poche righe esattamente quanto verrà poi ripreso e argomentato da Said nel suo lavoro più conosciuto.

Ponendo il problema su una possibile oggettività della scienza rispetto al reale, quello che viene chiamato “il problema della realtà nel mondo esterno”, Gramsci parte proprio dalla corrispondenza tra lo statuto arbitrario e immaginifico delle definizioni geografiche e i luoghi reali. Vale la pena di citare qui il brano quasi per intero: “Per intendere esattamente i significati che può avere il problema della realtà nel mondo esterno, può essere opportuno svolgere l’esempio delle nozioni di ‘Oriente’ e ‘Occidente’, che non cessano di essere ‘oggettivamente reali’, seppure all’analisi si dimostrano nient’altro che una ‘costruzione’ convenzionale, cioè ‘storico-culturale’ (spesso i termini ‘artificiale’ e ‘convenzionale’ indicano fatti ‘storici’, prodotti dallo sviluppo della civiltà e non già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente artificiose”. Gramsci cita quindi I problemi della filosofia di Russell, per poi continuare: “Cosa significherebbe Nord-Sud, Est-Ovest senza l’uomo? (…) Ciò si può vedere più chiaramente dal fatto che questi termini si sono cristallizzati non dal punto di vista di un ipotetico e malinconico uomo in generale, ma dal punto di

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vista delle classi colte europee che attraverso la loro egemonia mondiale li hanno fatti accettare ovunque. Il Giappone è Estremo Oriente non solo per l’Europeo, ma forse anche per l’Americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale attraverso la cultura politica inglese potrà chiamare il Prossimo Oriente l’Egitto. Così attraverso il contesto storico che si è andato agglutinando al termine geografico, le espressioni Oriente e Occidente hanno finito con l’indicare determinati rapporti tra complessi di civiltà diverse (…). Eppure questi riferimenti sono reali, corrispondono a fatti reali, permettono di viaggiare per terra e per mare e di giungere proprio dove si era deciso di giungere, di ‘prevedere’ il futuro, di oggettivare la realtà, di comprendere la oggettività del mondo esterno”1.

Del resto il suggerimento finale non è molto distante dal punto di arrivo di Said: la proposta di un superamento, o meglio di una risoluzione, di una filosofia rigorosamente separata in idealismo e materialismo meccanico per “un nuovo modo di filosofare più concreto e storico di quello precedente”, si può tradurre nei termini di una ricerca continua per una nuova critica, più aderente, come si è visto, al testo e alle problematiche connesse alla sua ‘storicità’.

Sull’apporto di Gramsci si rende però necessaria una precisazione.

Se nelle righe qui citate si ritrova un primo spunto per lo sviluppo delle argomentazioni saidiane, e se si può riconoscere un’affinità di fondo per quanto riguarda l’approccio allo studio della filosofia e della scienza, non sarebbe corretto classificare il pensiero di Said come ‘neogramsciano’, come non di rado viene fatto; è una visione forzata probabilmente dalla diffusa ricezione che il pensiero di Gramsci ha conosciuto negli sviluppi degli studi di Relazioni Internazionali, soprattutto per quanto concerne America Latina e Medio Oriente. La connessione con Said riguarda soprattutto la questione del dominio, parola chiave che viene vista come la versione attualizzata del concetto gramsciano di ‘egemonia’.2

1

A. Gramsci, Quaderno 11 (XVIII) 1932-33 <Introduzione allo studio dela filosofia>, in Quaderni dal carcere, vol. secondo Quaderni 6-11, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana. Einaudi 2007.

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Cfr. a questo proposito Studi gramsciani nel mondo. Le relazioni internazionali, a cura di G. Vacca, E. Baroncelli, M. Del Pero, G. Schirru, ed. Il Mulino 2009; in particolare, per un riferimento a Said, il contributo di M. K. Pasha, Islam, orientalismo “morbido” ed egemonia. Una rilettura gramsciana.

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Gramsci, dunque, ha senza dubbio un ruolo fondamentale nella formazione saidiana, soprattutto per via delle sue riflessioni sulle nuove figure di intellettuali; ma né i Quaderni né La Questione Meridionale, che viene citata saltuariamente, rientrano come apporto specificamente programmatico nella critica del professore3.

Più che di influenza, dunque, è forse appropriato parlare di idea riflessa, poiché da una lettura del testo viene estrapolata una propria e autonoma elaborazione, senza l’utilizzo di una terminologia prettamente gramsciana, e neppure di ciò che nello stesso Gramsci verrebbe ancora definito come “soprastruttura”; lo stesso genere di apporto rappresentato dalla filosofia di Adorno, Vico e Foucault, che come si è visto a proposito della critica attraversano la critica saidiana in tutto il suo svolgersi.

Nel caso di Orientalismo, tuttavia, Foucault assume una particolare rilevanza, al di là del semplice stimolo di riflessione filosofica. Non pochi elementi, infatti, potrebbero indurre ad una sua lettura in senso foucaultiano, arrivando ad ipotizzare che, al di là dell’impostazione fenomenologica, nei fatti puramente formale, la struttura stessa dell’opera sia stata pensata come un’applicazione del metodo del filosofo francese, in un campo da lui mai toccato se non superficialmente.

Certamente la sua figura, oltre ad essere di costante riferimento, era oggetto di grande fascino e stima intellettuale da parte di Said; è quanto traspare nel ritratto formulato per ricordarlo a pochi mesi dalla morte: “Non era uno storico in senso stretto, né un filosofo, né un critico letterario, ma le tre cose insieme, e molto di più. (…) In sintesi, era un autore ibrido, dedito ai (ma negli scritti al di sopra dei) generi della letteratura, della storia, delle sociologia, dell’analisi politica e della filosofia, in lui si manifestava però la tendenza ad una deliberata extraterritorialità.”4.

Colpisce quanto queste parole potrebbero allo stesso modo adattarsi alla sua persona, e allo stesso tempo evidenziano ciò che più ammirava nell’intellettuale francese: quella capacità di spaziare nei più diversi ambiti, e quindi adoperare una grande varietà di fonti, senza mai cadere in superficialità.

3

Ciò che viene rilevato anche da J. A. Buttigieg, Prefazione a Cultura e imperialismo

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È uno dei tratti in comune tra i due studiosi: una metodologia che si può definire “azzardata” nel suo mettere insieme documenti di vario genere; un atteggiamento culturale onnivoro che produce lavori tra loro diversi ma sempre riconducibili e ricollegabili l’uno all’altro; inoltre, una grande importanza dell’esperienza personale tradotta e riversata nelle opere stesse. Un’influenza senza dubbio avvertita dallo studioso palestinese, che costituisce un primo elemento per poter pensare al suo Orientalismo come tentativo di continuazione del lavoro foucaultiano, colmando lo spazio bianco in esso lasciato da un’apparente mancanza di interesse nei confronti di un contesto che fuoriesca dai confini europei, contesto cui allude, senza però mai trattarlo: non in termini di scienza, se non per fuggevoli accenni all’etnologia, e non in termini di potere, ovvero di occupazione coloniale. Del resto la stessa Europa pare non essere precisamente al centro dell’interesse foucaultiano; come viene giustamente osservato, essa “appare generalmente soltanto come una cornice, un parergon, un antipasto; se l’Europa fornisce il contenitore nel quale si inseriscono minuziose analisi (sul Panopticon, sulla Polizei-wissenchaft, sulla confessione ecc.), è raro che essa sia nominata e chiarita in quanto Europa: la si direbbe incuneata tra l’individuo, l’istituzione e l’Occidente universalista di cui si tratta di smontare le violenze”5.

Certo si ritrova in Foucault molto forte la tematica del razzismo, motore primo per un’analisi del potere inteso come bio-potere, ossia la chiave che permette agli stati un’applicazione per così dire “scientifica” del diritto di vita e di morte, ottenendo una divisione in razze buone e razze cattive, queste ultime divenendo “una sorta di pericolo biologico”6. Questo studio dei meccanismi di dominazione e potere rimane sempre comunque confinato all’interno della società d’Occidente; così il soggetto Altro che vi si crea è sempre un Altro per essa, presente in essa: troviamo quindi il folle, il criminale, l’omosessuale e così via, ma non il colonizzato, non, per esempio, l’arabo.

Ciò appare in linea con la scelta di privilegiare, rispetto all’esercizio di potere tra Stati, quello che si dispiega all’interno del rapporto tra Stato ed individuo. L’interesse è quello di indagare i giochi di

5

Y. Hersant, Michel Foucault e l’Europa, in AA.VV., Foucault, oggi, Feltrinelli 2008

6

M. Foucault, Corso del 28 gennaio 1976. Lezione tratta da Il faut défendre la société, in Antologia. L’impazienza della libertà, ed. Feltrinelli 2006

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verità, come egli stesso li definisce, all’interno di pratiche di potere caratteristiche della società europea, profondamente diverse o inesistenti in altre forme di società: pratiche di controllo o coercitive, quali la psichiatria, la medicina clinica, l’apparato carcerario.

Pur rimanendo questa scelta una considerazione imprescindibile, il silenzio nei riguardi del potere coloniale può forse suscitare qualche perplessità, volendo anche tener conto dell’importanza che il fenomeno del colonialismo ebbe nella sua vita, per esempio nelle battaglie per la decolonizzazione d’Algeria. Difficilmente si può negare il fatto che esso non sia quasi mai tema di centrale importanza, e rimanga invece allusione, accenno sullo sfondo; quasi in attesa di un suo successivo sviluppo.

La divisione originaria tra Oriente ed Occidente, o meglio l’Oriente come “esperienza-limite” dell’Occidente, e anche viceversa, è infatti un presupposto che ritroviamo in lavori come Storia della follia, nella cui prefazione si legge: “Nell’universalità della ratio occidentale c’è questa divisione che è l’Oriente: l’Oriente, pensato come l’origine, sognato come il punto vertiginoso da cui nascono le nostalgie e le promesse di ritorno, l’Oriente offerto alla ragione colonizzatrice dell’Occidente, ma indefinitamente inaccessibile, perché resta sempre il limite: notte dell’inizio, in cui si è formato l’Occidente ma nella quale ha tracciato una linea divisoria, l’Oriente è per l’Occidente tutto ciò che esso non è, anche se deve cercarvi ciò che è la sua originaria verità. Bisognerà fare una storia di questa grande divisione, lungo tutto il divenire occidentale, seguirlo nella sua continuità e nei suoi scambi, ma anche lasciarlo apparire nella sua tragica ieraticità”7. La storia di questo Oriente onirico e immaginifico rimarrà però cornice, limite appunto, sia fisico sia teoretico, per la storia della ratio occidentale.

Nell’ultima fase speculativa, invece, Foucault si dedicherà ad un altro dei progetti espressi nella prefazione di Storia della follia: “Bisognerà anche fare la storia, e non solo in termini di etnologia, dei divieti sessuali: parlare delle forme sempre fluttuanti ed ostinate della repressione nella nostra stessa cultura, (…) per mettere in luce, come limite del mondo occidentale e origine della sua

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morale, la tragica divisione dal mondo felice del desiderio”. Ovvero, il progetto che prenderà la forme delle ricerche della sua Storia della sessualità.

Oggetto di indagine diviene quindi il sé e ciò che riguarda il piacere del corpo, in un’ottica che distoglie il discorso dalla società collettiva per dedicarsi maggiormente al singolo. Rappresenta quindi una svolta, anche se più apparente che reale, poiché si tratta sempre del problema del potere, del suo esercizio sul corpo; si tratta però sicuramente di un cambio di direzione per ciò che riguarda il campo di indagine.

È una volontà di svolta che l’autore stesso tende a sottolineare nei suoi interventi e commenti, in maniera apparentemente casuale ma decisa. Ne sia un esempio l’intervista che diverrà poi L’etica di sé come pratica di libertà : “Sappiamo benissimo che in simili casi (…) la pratica di liberazione non basta a definire le pratiche di libertà che saranno successivamente necessarie affinché quel popolo, quella società e quegli individui possano definire per se stessi le forme ammissibili e accettabili della loro esistenza o della società politica (…). Si tratta del problema che ho dovuto affrontare proprio a proposito della sessualità: ha senso dire liberiamo la nostra sessualità?”8.

La trasposizione da un ambito all’altro, ossia dal problema di una liberazione esterna di una società (l’affrancamento politico irrisolto) ad una liberazione prettamente personale che avviene all’interno della società stessa (la definizione di pratiche di libertà riguardanti la sfera della sessualità) sembra avvenire quasi inconsciamente, ma è in sé un messaggio non privo di ambiguità: significa uno spostamento verso altre tematiche, differenti ma certamente affini, riconducibili insomma alla medesima radice.

Ci si può interrogare circa le motivazioni di quella che alla fine appare come un’elisione elaborando svariate congetture: può essere interpretata come la scelta di parlare della propria società, in quanto inevitabile punto di riferimento; ancora, può aver pesato la consapevolezza della difficoltà di un giudizio analitico lucido per avvenimenti così sconvolgenti e così recenti, difficoltà in cui era incappato per esempio lo stesso Fanon; e così via.

8

M Foucault, L’etica di sé come pratica di libertà, intervista con H. Becker, R. Fornet-Betancourt e A. Gomez-Muller, 20 gennaio 1984; in Antologia, op. cit.

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L’ipotesi di Said, per esempio, allude proprio al suo coinvolgimento nei fatti della rivoluzione iraniana, visti come un’applicazione fattiva, storica, delle pratiche da lui teorizzate; la conseguente delusione potrebbe aver ingenerato “un certo disincanto per la militanza nella sfera pubblica, forse dovuto anche alla maturazione della consapevolezza della propria scarsa possibilità di incidere concretamente su di essa9”, ed il desiderio di ritirarsi nell’osservazione della propria soggettività, conoscibile attraverso i piaceri e la cura di sé.

Al di là dell’elaborazione di congetture che aiutino a comprendere i motivi di questa scelta, è interessante e produttivo capire quanto da essa dipenda l’elaborazione e l’organizzazione dell’opera di Said, quasi una continuazione, un completamento per certi versi doveroso secondo il suo punto di vista. Non a torto infatti si può vedere un suggerimento a lavorare in questa direzione da parte dello stesso Foucault, il quale afferma in Archeologia del sapere: “Alla domanda (…) ; l’archeologia si occupa soltanto delle scienze? È sempre e soltanto una analisi dei discorsi scientifici? adesso possiamo rispondere. E rispondere due volte no. Quel che l’archeologia cerca di descrivere, non è la scienza nella sua struttura specifica, ma il campo del sapere, il che è molto diverso. Inoltre, se si occupa del sapere nel suo rapporto con le figure epistemologiche e con le scienze, può anche interrogare il sapere in una diversa direzione e descriverlo in un altro fascio di relazioni.”10

Nel momento in cui afferma questa possibilità, Foucault ha pertanto già in mente il progetto relativo a ciò che diverrà la sua Storia della sessualità. Il significato è comunque molto chiaro: l’indagine per così dire archeologica può riguardare tutto ciò che ricade sotto l’ambito del sapere, che si può articolare in modalità differenti, almeno all’apparenza, rispetto ad una strutturazione scientifica. A maggior ragione dunque, come è stato possibile indagare i presupposti teorici ed epistemologici delle scienze naturali e filologiche, per esempio, allo stesso modo potrà essere fatto nei confronti della scienza dell’orientalistica, campo di sapere particolare, ma autonomo; ed allo stesso modo in cui si è potuto studiare il processo di esclusione nei confronti del folle, del criminale e di chi manifesta una devianza sessuale, una medesima ricerca potrà essere applicata al colonizzato o, più

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genericamente, all’uomo orientale inteso come antitesi dell’uomo occidentale, nel considerare le modalità di relazione in cui questo campo di scienza si sviluppa.

Questo significa pertanto studiarne il sistema di ordinamento e controllo su molteplici livelli, secondo, per seguire sempre Foucault nella sua Archeologia, istanze di delimitazione, griglie di specificazione, nonché quelle che lui chiama “superfici della loro emergenza”, in riferimento alla formazione di oggetti di discorso.

Proprio il concetto foucaultiano di discorso risulta di centrale importanza nel saggio Orientalismo, come viene del resto dichiarato dall’autore fin dall’Introduzione: “Ritengo infatti che, a meno di concepire l’orientalismo come discorso, risulti impossibile spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare- e persino creare, in una certa misura- l’Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo”.

Il fatto che la centralità di questo riferimento non sempre sia stata compresa, o molto spesso venga sottovalutata come un goffo tentativo, per dirla con Irwin11, ha più di una motivazione.

La principale è che l’autore stesso, nonostante ammetta più volte e in diverse occasioni il grande debito nei confronti di Foucault per molti dei suoi lavori, non esplicita mai del tutto quanto esso in realtà sia un riferimento per lui diretto. Questo si può in parte spiegare con il fatto che molto diversa è la direzione in cui l’autore vuole spingere la propria ricerca: partendo da premesse foucaultiane, Said mira soprattutto a mostrare la parentela tra essa e tutta una rete di riferimenti al di fuori dell’ambito epistemologico, espressi principalmente a livello semantico; la sua storia dell’orientalismo non necessita di scavare nelle profondità dei testi, ma incontra già ad un livello di superficie, nelle parole e nel loro significato implicito, l’oggetto proprio del suo studio. Oggetto la cui percezione è più lontana, indistinta, ma soprattutto interposta; viene conosciuto indirettamente, attraverso ciò che parla di lui, che forma la sua immagine.

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Lo scopo è quello di ripercorrere la storia di una visione tutta occidentale dell’Oriente, attraverso le immagini presenti nei documenti storici, nella letteratura, e in tutte quelle discipline ad esso attinenti: una storia in questo senso archeologica dell’immagine orientale.

Attraverso il concetto di rappresentazione, essa può venire presentata in una dimensione fenomenologica, come già avevano fatto Abdel-Malek e Fanon, dove la parola appartiene sempre al soggetto attivo: colui che studia, osserva, e inevitabilmente parla, in vece del suo oggetto passivo. Nell’opera di Said questa premessa viene applicata alla percezione del mondo arabo da parte della cultura occidentale; non tanto di un mondo fisicamente colonizzato, ma di quell’ “Est” che si contrappone più sul piano ideologico e immaginifico al blocco dapprima solo europeo, in seguito, e potentemente, anche nordamericano.

Si tratta di interrogarsi sull’orientalistica soprattutto in termini di autorità e legittimità, che le spettano in quanto scienza. Tuttavia, essa deve fare i conti con i suoi presupposti inindagati, esattamente come accade per le altre scienze, come esemplarmente mostrato da Foucault.

Ma per chi voglia approfondire le conseguenze di questa ricerca, diviene un’urgenza portare alla luce una scomoda parentela tra questi presupposti, pressoché immutati ed incastonati nel blocco del sapere accademico, e un tipo di cultura generale, definibile oggi come mediatica, che si caratterizza per la sua sommarietà di giudizi.

La tesi che si vuole sostenere, ancora una volta tanto semplice da apparire disarmante, è che tutta la costruzione teorica riguardante l’Oriente si sia sviluppata in un contesto non, come si vorrebbe, di neutralità, ma al contrario continui in maniera sotterranea a promulgare una visione parziale.

Nonostante -ed è bene ricordarlo- i lavori dei due autori rimangano profondamente diversi, poiché diversi sono gli intenti, nell’organizzazione e nell’impostazione che Said sceglie di dare alla sua opera si riconoscono dunque evidenti rimandi al pensiero di Foucault, non limitati ad un particolare lavoro, ma che spaziano nell’intero suo corpus. Sono soprattutto i due concetti di rappresentazione e discorso a divenire una sorta di filo rosso da seguire attraverso l’articolazione della sua tesi di fondo.

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Si apre inoltre in questo modo la possibilità di una nuova lettura per un’opera troppo spesso schiacciata semplicemente nella dimensione di una polemica politica e culturale dal tentativo di trasformare opera ed autore in uno stereotipo di “controcultura”, e che invece offre più di un’interessante interpretazione, proprio grazie alla vastità e varietà di riferimenti, e al modo in cui vengono rielaborati.

3.2 Orientalismo come discorso

“L’orientalismo non è soltanto un fatto politico riflesso passivamente dalla cultura o dalle istituzioni, né è l’insieme dei testi scritti sull’Oriente, e non è nemmeno il frutto di un preordinato disegno imperialista ‘occidentale’, destinato a giustificare la colonizzazione del mondo ‘orientale’. È invece il distribuirsi di una consapevolezza geopolitica entro un insieme di testi poetici, eruditi, economici, sociologici, storiografici e filologici; ed è l’elaborazione non solo di una fondamentale distinzione geografica (il mondo come costituito da due metà ineguali, oriente ed occidente), ma anche di una serie di ‘interessi’ che, attraverso cattedre universitarie e istituti di ricerca, analisi filologiche e psicologiche, descrizioni sociologiche e geografico-climatiche, l’orientalismo da un lato crea, dall’altro contribuisce a mantenere.”

Con questa definizione Said tenta di precisare, nella maniera più chiara e sintetica possibile, cosa voglia intendere parlando di ‘orientalismo’.

In questa particolare ottica, non si vuole significare semplicemente una disciplina o un ambito di studi, ma qualcosa di molto articolato, che incorpora al suo interno svariate modalità di espressione. Sarebbe un errore dunque individuare una completa identificazione da parte dell’autore tra movimento orientalista e movimento coloniale: i due termini, se pure spesso interdipendenti, e anzi non raramente l’uno espressione dell’altro, si trovano ad essere accomunati da una convergenza di eventi, il che significa che lo sviluppo coloniale ha certamente contribuito ad uno sviluppo ed un incremento degli studi che riguardassero i territori colonizzati, specialmente in una certa direzione;

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tuttavia era ad esso preesistente, nelle sue varie forme. Con il termine ‘discorso’ si vuole esattamente indicare questa complessità. Il problema è ora capire se sia veramente possibile l’applicazione di questo concetto in un tale contesto, e se sì, in che modo.

La divisione in due tipi di orientalismo, latente e manifesto, cui si è accennato in precedenza, rivela già in parte la direzione che interessa prendere all’autore: si tratta naturalmente di interrogarsi su autorità e legittimità.

Per orientalismo manifesto Said intende tutto ciò che dell’Oriente parla in veste scientifica: ovvero come disciplina accademica, o in ogni caso tutto ciò che possa essere incluso sotto il nome di scienza. Esso è, genericamente, il corpus di conoscenza epistemologica.

Se già in questo caso siamo di fronte ad una sorta di macro-campo concettuale, orientalismo latente è di ancor meno facile definizione: indica tutto ciò che all’Oriente si riferisce per riflesso, ossia con vago riferimento allo studio dell’Oriente, senza averne, per così dire, lo status ma partecipandone indirettamente, e secondo determinate modalità. Qui vanno ad incunearsi tutti i riferimenti propri della propaganda imperialista, le leggende sul “bizzarro Oriente” riportate dagli scrittori, tutto ciò insomma che possa ricadere sotto il nome, anch’esso dai labili e incerti confini, di “luogo comune”; qui il termine ‘orientalismo’ assume quella valenza negativa che infine ha prevalso e contro cui abbiamo visto mobilitarsi Gabrieli.

In questo senso esso diviene discorso: campo referenziale di tutto un ambito di sapere, molto al di là del suo semplice significato scientifico.

Ma la tesi che si vuole sostenere è ancora più categorica: la divisione tra le due tipologie è di fondo puramente fittizia. Esse sono parte di un tutto unico, in un ciclo di creazione (di verità, o luogo comune) e rimando (il riferimento accademico come modello di autorità).

Questa suddivisione perde così la sua iniziale banalità di dualismo per divenire schema di produzione del sapere.

Said doveva senz’altro tenere presente ciò che viene detto nelle prime pagine di Ordine del discorso: “Suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata,

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selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità”12.

Una supposizione simile a quella formulata da Said a proposito dell’orientalismo e del suo ambito di sviluppo, perlomeno nell’ottica della sua definizione.

Un’altra affinità risulta nel voler giocare sul doppio significato della partizione tra discorso vero e discorso falso, i quali termini sono discriminatori sia per quanto riguarda l’aderenza o meno alla realtà sia in termini di effettiva corrispondenza (ove il segno sia indice effettivo del suo significato) sia in termini di finzione (ove il vero sia il verosimile, ma non il reale, e si accomuni pertanto al falso). In questo modo, la tragedia dell’escluso si lega inesorabilmente ai suoi termini di rappresentazione, e così il suo discorso: “Tutto l’immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non gli era data che simbolicamente, sul teatro in cui si faceva avanti, disarmato e riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità colla maschera”13.

Questo sistema che ha la funzione di un teatro per l’escluso poggia su un sistema di istituzioni, che Foucault intende come sistema prettamente culturale, anche e soprattutto nella sua presenza fisica: certo prigioni, cliniche, ospedali; ma altresì biblioteche, archivi, laboratori, senza dimenticare scienze come la pedagogia, la psicologia.

Per lo studioso arabo-palestinese queste pratiche passano da un sistema di studi ad un’applicazione pratica, talvolta militare, come nel caso della campagna napoleonica in Egitto del 1798, esempio di particolare rilevanza e su cui torneremo, o nell’istituzione di un sistema di governo coloniale che si basi su un controllo capillare, volto ad osservare e fornire materiale utile attraverso tribunali, aule, manuali, la cui funzione è principalmente quella di osservare.

È attraverso l’osservazione che viene mantenuto il discorso, questo sostrato di sapere utilizzato come terreno di conferma, e in questo sempre autoreferenziale. In questo modo, nell’osservazione

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L’ordine del discorso p. 5

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scientifica l’occhio dello studioso sa già esattamente quali segni cercare, quali comportamenti, quali reazioni; il riscontro è sempre inserito in una dialettica autoconvalidante.

Lo stesso avviene negli osservatori estemporanei, quali esploratori, viaggiatori, artisti: Flaubert incarna perfettamente questa tipologia. In questo caso l’osservazione è mossa non da scopi di controllo ma da semplice interesse personale; tuttavia l’atteggiamento con cui costoro si accostano alla loro esperienza straniera è già in gran parte predeterminato, e loro stessi, in differenti maniere, contribuiranno a mantenerlo.

Si vengono in questo modo a creare differenti modalità di espressione di questo discorso, parallele ma interdipendenti, accomunate da un ambito di produzione di rappresentazioni.

La rappresentazione diviene quindi il concetto chiave: prodotto diretto di una storia che nasce dall’osservazione e dal confronto di un mondo ‘altro’.

La prima necessità è tuttavia quella di capire il modo in cui viene posta la questione da parte di Said, e le motivazioni; un suggerimento può essere trovato ancora nell’ Archeologia.

Si pensi alle tre domande che formano una sorta di schema compilato da Foucault a proposito della formazione degli enunciati di un discorso, in questo caso medico: “Prima domanda: chi parla? Chi, nell’insieme di tutti gli individui che parlano, è autorizzato a tenere questo tipo di linguaggio? Chi ne è titolare? Chi riceve da esso la sua singolarità, il suo prestigio, e da chi esso a sua volta riceve in cambio se non la sua garanzia, perlomeno la sua presunzione di verità? Qual è lo statuto degli individui che hanno- e sono i soli ad averlo- il diritto regolamentare o tradizionale, giuridicamente definito o spontaneamente accettato, di profferire un simile discorso?”14.

Prosegue quindi Foucault: “Bisogna descrivere anche le posizioni istituzionali da cui il medico tiene il suo discorso, e dove quest’ultimo trova la sua legittima origine e il suo punto di applicazione (…). Per le nostre società queste posizioni sono: l’ospedale, luogo di osservazione costante, codificata, sistematica, garantita da un personale medico differenziato e gerarchizzato (…); la pratica privata (…); il laboratorio (…); infine quella che si potrebbe chiamare la ‘biblioteca’ o il campo

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documentario che comprende non soltanto i libri o i trattati, tradizionalmente riconosciuti come validi, ma anche l’insieme dei resoconti e osservazioni pubblicati o trasmessi, ma anche la massa delle informazioni statistiche”.

Il terzo ed ultimo punto allarga quest’ultima prospettiva in una visione quasi logica: “Le posizioni del soggetto vengono definite ugualmente dalla situazione che può occupare in rapporto ai diversi campi o gruppi di oggetti (…). A queste informazioni percettive bisogna aggiungere le posizioni che il soggetto può occupare nella rete delle informazioni (nell’insegnamento teorico o nella pedagogia ospedaliera; nel sistema della comunicazione orale o della documentazione scritta: come emittente e ricevente di osservazioni, di resoconti, di dati statistici, di tesi teoriche generali, di progetti o decisioni)15”.

L’indagine ereditata da Nietzsche sul soggetto, questo soggetto mimetizzato, rimosso, ma la cui presenza è ben certa, si incentra ora sulla sua traccia più visibile, la sua autorità; autorità del medico, per esempio, e della sua diagnosi, all’interno di un discorso medico, così come era stato posto già in precedenza in Storia della Follia e ancor di più in Nascita della clinica.

Più che l’autorità in sé, a venire indagate nell’Archeologia sono le condizioni in cui essa può manifestarsi: il costituirsi di una rete di relazioni in cui sono implicati anche gli altri due termini: le posizioni istituzionali, i luoghi in cui e attraverso cui quest’autorità viene mantenuta ed esercitata, e le posizioni del soggetto, il ruolo assunto nel particolare sistema di rapporti che si viene a creare. Non è un caso che Orientalismo avvii la propria ricerca proprio partendo da questa stessa domanda, chi parla?, da cui la possibilità di un’impostazione fenomenologica per la questione dell’autorità e della legittimità, i diversi modi in cui si manifestano e si esercitano, il loro mantenimento attraverso dei ruoli assegnati, infine come questi stessi elementi mutino nella formazione di una scienza orientalistica in senso moderno. Poiché infatti la risposta alla domanda di Said non scomoda la metafisica, ma è evidente dopo una prima riflessione: a parlare è l’uomo che ha il ruolo dominante. L’interesse si sposta quindi nell’indagare in che modo si costituisca il suo discorso.

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Questa costituzione per Said può essere sintetizzata in circa sei punti: “L’opera di de Sacy, Renan e Lane consistette nel dotare l’orientalismo di una base razionale e scientifica (…). Resero possibile una terminologia scientifica; misero al bando le formulazioni oscure, introducendo (…) una forma specifica di comprensione intellettuale; fecero dell’orientalista l’autorità decisiva per tutto ciò che riguardava l’Oriente; legittimarono un tipo particolare e specificamente coerente, di studio del mondo orientale, misero in circolazione nella comunità culturale gli elementi di un discorso, grazie alla cui esistenza, da allora in poi, sarebbe stato possibile parlare in nome dell’Oriente; soprattutto, la loro opera di pionieri delimitò un campo di indagine e un patrimonio di idee”16.

È in questa organizzazione strutturale che viene identificato il passaggio da una conoscenza dell’Oriente ad un discorso orientalista. Se lo studio dell’Oriente è ad esso anteriore, ed è così poco strutturato da rendere possibile includervi, per esempio, le tragedie di Eschilo e i poemi omerici, è in questo momento del suo farsi disciplina scientifica che diviene campo del sapere chiuso.

Nella sua pretesa di scientificità, esso espunge tutto ciò che pare non essere attinente ad uno studio rigoroso; non è più, da questo momento, “uno scrigno fatato ricolmo di ogni tipo di conoscenza”; eppure, lo è ancora. Ha assunto lo stato di scienza incorporando in sé quelle conoscenze letterarie, sia empiriche sia antiempiriche che costituivano la sua origine, attraverso il meccanismo dell’accumulazione, ed in modo del tutto analogo al processo che viene descritto da Foucault per quanto riguarda il passaggio alla nozione di episteme descritto in Le parole e le cose, con la sua delicata nozione di a priori storico: definire le condizioni a partire dalle quali diviene possibile concepire una ‘storia’ di conoscenze e teorie, nella loro positività. Una nozione in piena contrapposizione con la separazione kantiana di trascendentale ed empirico, separazione che viene vista come non attuabile a proposito dell’antropologia, a meno di non generare il paradosso di rendere le esperienze come concreto e reale proprio in virtù della loro negatività rispetto all’ideale ‘Scienza’. Una sorta di stallo il cui superamento può essere dato solo riscoprendo la storicità delle

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scienze umane, per evitare che in esse ci si occupi dell’uomo come astratto; ripristinare, in altre parole, la concretezza dei soggetti.17

Nel momento in cui si struttura come scienza, l’orientalistica partecipa della sua sospensione tra empirico e trascendentale, nella ricerca di un progresso di conoscenza, non diversamente da quanto accade in una storia della natura.

Questo momento formalmente ha inizio con “i grandi sistematizzatori” de Sacy, Renan, Lane, presi come massimi esponenti di una categoria di studiosi che si occupano storicamente e linguisticamente dell’ Oriente; essi sono “gli artefici della disciplina, i creatori di una tradizione”: la fase denominata orientalismo moderno. In queste figure di studiosi, nelle loro biografie e nei loro scritti, viene identificato quell’esempio di scienza compilatoria, la tendenza a classificare, a creare per un nuovo campo di sapere una nuova tassonomia; ne deriva un sapere dove erudizione e pregiudizio razziale sono intrinsecamente connessi, tra loro inscindibili.

Lo studio dell’Oriente viene condotto, da un certo momento in poi, secondo un approccio prevalentemente testuale, costituito senza distinzioni da ricerche filologiche e considerazioni personali, pure queste ultime talmente diffuse da potersi riconoscere come pensiero generale dell’epoca, parificate sul piano dell’autorevolezza e del valore scientifico. Non vi si può mirare ad altro che a fornire una particolare interpretazione del suo oggetto di studi: una rappresentazione, secondo i dati conosciuti e la personale compilazione di essi da parte dell’autore in questione, il quale viene inserito a sua volta in una rete di riferimenti e citazioni.

In questo risiede la motivazione che spinge Said a ricostruire la storia del rapporto conoscitivo tra Occidente ed Oriente attraverso le immagini, le rappresentazioni; unilateralmente, poiché questo tipo di rapporto si è sviluppato principalmente come approccio da parte degli studiosi europei. Si è già evidenziato come gli stessi termini di “Oriente” ed “Occidente” sono vaghi, volti ad indicare proprio qualcosa di immaginifico: concetti astratti.

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Con il termine discorso, si vuole indicare il momento in cui ogni studio, ogni dissertazione riferiti a questo particolare oggetto muovono da un punto di vista autoreferenziale, sono immessi in un contesto di reciproci rimandi, senza preoccuparsi che per essere conosciuto di quella conoscenza certa e completa che si vuole ottenere, l’oggetto debba senz’altro essere un’astrazione. Questo significa l’immobilismo ad esso attribuito; questo la frequenza di una somma generalità nei giudizi. Ad apparentare le ricerche filologiche e letterarie alle affermazioni imperialistiche di capi coloni come Balfour e Cromer, nonostante la considerevole diversità di contesto d’apparizione e delle modalità dei discorsi, è però la possibilità per questi ultimi di potersi riferire ai testi accademici come ad un retroterra comune.

Si prendano in esempio i testi di Renan: non è possibile negare la grandezza dei suoi studi e l’apporto dato dal suo lavoro in termini di filologia e studi comparativi, e tuttavia i suoi testi sono disseminati di osservazioni ben poco ortodosse su semiti ed arabi, entrambi da lui ben poco amati; più in generale, tutta l’ottica del suo lavoro poggia su una divisione molto forte di nazioni e civiltà, spesso presentate in maniera sommaria, e in cui il concetto di razza ha un forte peso.

Ecco un esempio che chiarisce piuttosto bene il connubio tra studio dotto e giudizio sbrigativo: “Le straordinarie civiltà che si svilupparono in quei tempi remoti in Cina, a Babilonia e in Egitto, fecero compiere alla religione qualche progresso. La Cina raggiunse presto una specie di mediocre buon senso che la preservò da grossi traviamenti. (…) In ogni caso, proprio per questo, la Cina non ebbe nessuna influenza sulla direzione del gran fiume dell’umanità. Le religioni babilonesi e della Siria non seppero mai liberarsi da un fondo di strana sensualità; queste religioni, fino alla loro estinzione nel IV o V secolo della nostra era, rimasero delle scuole di immoralità, nelle quali, a volte, grazie ad una specie di intuizione poetica, si aprivano luminosi sprazzi sul mondo divino. L’Egitto, nonostante una specie di apparente feticismo, riuscì ad aver presto dei dogmi metafisici e un raffinato simbolismo. (…) Il grande difetto delle religioni di cui parliamo era il loro carattere superstizioso; esse sparsero per il mondo milioni di amuleti e talismani. Non poteva certo nascere

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un gran pensiero morale da razze umiliate da un dispotismo secolare e abituate a istituzioni che soffocavano quasi del tutto l’esercizio delle libertà individuali”18.

L’espunzione di questo tipo di opinioni personali, qualora sia avvenuta, non ha però comportato l’eliminazione di un sistema valutativo tassonomico, fondato sulla comparazione tra le società. Questo retaggio permette così a studiosi contemporanei come Bernard Lewis, per esempio, di illustrare una mancata modernizzazione dell’Islam utilizzando tabelle e classifiche senza preoccuparsi di fare chiarezza sui parametri valutativi cui si vuole fare riferimento riportando quegli specifici dati statistici, e neppure del resto di riportare adeguatamente le fonti da cui quei dati sono stati estrapolati: una sola citazione da The Arab Human Development Report 2002 è ritenuta sufficiente per affermare che “Quasi tutto il mondo musulmano è afflitto dalla povertà e dalla tirannia. (…) Secondo tutti gli indici delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e di altre autorità, i Paesi arabi sono sempre più indietro rispetto all’Occidente. Peggio ancora, le nazioni arabe sono indietro anche rispetto alle più recenti reclute della modernità di tipo occidentale, come la Corea, Taiwan e Singapore”19.

Se l’ambito è cambiato, e dalla religione si è passati all’economia, l’autorità, ancora una volta, è quella data come scientificamente fondata del numero, della statistica in virtù di se stessa e del grado di variazione dal modello dominante, in questo caso quello statunitense.

L’introduzione del metro di giudizio avviene non tanto nel constatare un’eventuale arretratezza di alcuni Paesi rispetto ad altri (anche se questo porrebbe certo il problema dei parametri da utilizzare), quanto nel fatto che si viene indotti a creare un collegamento diretto tra la religione musulmana di questi Paesi e l’arretratezza di cui si discute.

Non si tratta dunque di intervenire sulle competenze, ma di sottolineare come sia profondamente radicato un determinato tipo di atteggiamento, al punto da venire accettato senza avvertire alcun bisogno di problematizzazione alla base.

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E. Renan, Vita di Gesù, BUR 2001

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In fondo niente di nuovo; ma aiuta a comprendere il passaggio nei termini di rappresentazione, come vengono intesi da Orientalismo, senza che questo sembri più un suggestivo volo pindarico da parte dell’autore.

3.3 Orientalismo come “rappresentazione”

“Non possono rappresentare se stessi; devono essere rappresentati”.

Orientalismo si apre con questa citazione da Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx, ed è significativo: si vuole efficacemente mettere in rilievo come il perno del saggio sia proprio il concetto di rappresentazione.

Questo termine, rappresentazione, è dispiegato in tutta l’ambiguità del suo duplice significato. Frequenti sono le metafore riferite ad un Oriente “palcoscenico”, su cui si muovono degli orientali “personaggi”, stereotipati come nelle commedie latine: il riferimento è ad un Oriente finzione, teatro per un occhio europeo, il che si riferisce ad un certo tipo di produzione letteraria, più narrativa appunto. Ma si vuole intendere rappresentazione anche nel suo significato più scientifico: diventa quindi osservazione analitica, clinica, tableau historique, il cui materiale si accumula attraverso l’istituzione di reti e sistemi di controllo, interrogatori, inchieste, dove il soggetto in questione è sempre analizzato attraverso le sue parole, i suoi atteggiamenti, le sue reazioni, in una struttura (il riferimento è in questo caso alla struttura dell’impero coloniale) che ricorda molto da vicino l’idea del Panopticon benthamiano, e rimanda al paragone con l’entomologo che Said predilige per descrivere questo tipo di atteggiamento.

Quest’ambiguità mira ironicamente a mettere in dubbio la nettezza del confine che separa le due modalità di osservazione (la contemplazione di un’opera artistica e la decifrazione di un’analisi scientifica). Anche lo stesso concetto di “Oriente” estremamente indefinito che si vuole prendere in considerazione è sintomatico di questa interpretazione. Per Oriente vengono qui intesi soprattutto i territori del Medio e Vicino Oriente, ma anche l’India e l’Africa mediterranea; una scelta che per la

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sua imprecisione è stata vista come poco coerente con ciò che si vuole sostenere, generando il sospetto di una confusione tra la storia dell’orientalismo e quella delle dominazioni coloniali, a dispetto di quanto dichiarato a proposito di questa coincidenza.

Se talvolta si può avere l’impressione di una certa tentazione nel seguire questo filone, bisogna sempre tenere presente che il progetto è quello di tracciare la storia di un’immagine dell’Oriente, concetto la cui evanescenza è uno dei presupposti dichiarati. Il generico “Oriente” diventa quindi tanto più generico, quanto più si vuole mostrare la sua arbitrarietà, la sua presenza più come opposizione che come ente reale.

La storia di questa rappresentazione viene articolata in tre momenti, che si riferiscono a tre diverse fasi dello studio orienalista: la fase che si può definire pre-moderna, costituita da materiale letterario e studi di singole personalità di eruditi, dove è molto forte l’idea di antitesi da sempre presente nelle rispettive culture; la fase più moderna, in cui si può cominciare a parlare di una vera e propria disciplina epistemologica; infine, la fase contemporanea, eredità e continuazione delle due precedenti. Nello sviluppo sembra non esserci una vera soluzione di continuità, ma piuttosto, da un certo momento in poi, una diversa volontà organizzativa: momento coincidente con l’articolarsi di quell’orientalismo moderno di cui la maggior parte degli storici pongono come inizio emblematico l’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 179820. Anche per Said questo evento assume convenzionalmente valore di spartiacque, ma per motivazioni differenti.

L’esempio della campagna in Egitto è esplicativo in quanto si prefigge il duplice obiettivo di conquistare una terra e contemporaneamente tentarne una comprensione: partendo da una conoscenza del territorio formata su testi che trattano dell’Oriente, come il Voyage en Egypte et en Syrie di Volnay, e traendo da quest’esperienza la possibilità di un arricchimento enciclopedico. Il progetto è di una conquista territoriale, ma non solo: lo dimostra la corte di studiosi che l’imperatore ha portato con sé.

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Un’attenzione particolare viene rivestita dall’impatto culturale di questa conquista, in cui il territorio deve essere conosciuto, ogni suo elemento compreso e catalogato, in un duplice impulso di curiosità e controllo. Attraverso questo tentativo si manifesta la volontà di un potere razionale, catalogatore; non di natura meramente politica, ma che partecipa del fascino per un mondo percepito come diverso, misterioso.

La conoscenza che viene così a crearsi diviene essa stessa dominio: “Possedere la conoscenza di un ente di questo tipo equivale a possedere l’ente stesso, a dominarlo, ad avere su di esso piena autorità21”; il dominio puramente fisico non è ritenuto sufficiente, per essere completo esso deve esercitarsi su piano teoretico.

È in quest’ottica di dominio che l’atto di rappresentare perde la sua neutralità- analitica o giocosa- per divenire uno strumento di potere. Riportando la realtà e semplificandola, produce un certo tipo di conoscenza utile, che in un circuito di potere si cerca di mantenere: nella conferma delle rappresentazioni antecedenti, conferma che si rivela puntuale per l’occhio che la ricerca, essa assume lo status di autorità, in una continua tautologia che si convalida da sé. Non si tratta di inventare, poiché senza dubbio essa si attiene ad una realtà verosimile; ma di limitare, di contenere entro uno status prefissato.

Diviene in questo modo anche una sorta di ordine: tutto ciò che viene rappresentato assume, come in un quadro, una sua posizione prima di tutto fisica, identificabile nello spazio, e secondariamente gerarchica, nella quale può venire ricercato o controllato, l’uno o l’altro a seconda di quale sfumatura si intenda adottare.

Questo meccanismo risulterà così funzionale da rimuovere il fatto che tutto si basi appunto su rappresentazioni, la cui origine primaria è spesso da ricercare in una distinzione semplificatrice quale può essere quella tra Est ed Ovest. Da essa, cui si sono aggiunti in epoca successiva i lavori di personalità di studiosi tra i più eccentrici e disparati come Guillaume Postel ed Edward Pococke, è stato creato un corpus di studi efficiente e colto, suscettibile di progressi nelle sue conoscenze; ma

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sempre invariabilmente legato a queste sue radici poco razionali, la cui traccia è anche più presente in confronto ad altre scienze. Questa traccia è la presenza di un soggetto nascosto, o meglio, dimenticato; ma che nonostante questa sparizione esercita inevitabilmente la sua funzione di filtro. Said tenta di rendere una sensazione visiva di questo rapporto al principio della propria dissertazione, proponendo come riferimento una rappresentazione vera e propria: I Persiani di Eschilo.

Di questa tragedia, egli innanzitutto ribalta l’ottica usuale: nel presentare l’immagine di un’Asia sconfitta e piangente non si vuole rendere omaggio ad un glorioso nemico, compatendolo nella sua sventura; prevale invece un sentimento di superiorità, accennato dal contrasto tra le due potenze, la greca e l’asiatica, raffigurate in situazioni diametralmente opposte, da vincitrice e da sconfitta. In questo si può vedere un primo esempio, magnifico nella sua forma artistica, delle modalità di sviluppo di questo rapporto: “Eschilo rappresenta l’Asia, la fa parlare per bocca dell’anziana regina persiana, madre di Serse. È l’Europa a dare forma, intelligibilità all’Oriente. Il modo in cui lo fa non è quello del burattinaio, ma piuttosto quello dell’artista, guidato da un autentico ingegno creativo, il cui potere di dare vita raffigura, anima e costituisce lo spazio altrimenti vuoto, silenzioso e temibile al di là dei confini, oltre il mondo a lui familiare. Vi è un’affinità tra l’orchestra eschilea, in cui l’Asia immaginata dal drammaturgo è (…) contenuta, e il dotto involucro del sapere orientalista che pure avvolge l’immenso, amorfo universo orientale, sottoponendolo a uno scrutinio non di rado simpatetico, e però sempre dominatore”.

L’effetto è di grande immediatezza: evocando l’immagine del coro che attornia “l’Asia” piangente, si rende senza possibilità di equivoco il senso del discorso che si sta andando a sostenere e, insieme, una prova della potenza dell’immagine, che trascende di gran lunga la dimensione della parola. Tuttavia, il rapporto che si vuole descrivere è più complesso.

Il paragone eschileo risponde nell’immediatezza alle esigenze dell’autore, ossia quelle di porre con estrema chiarezza i pilastri su cui poggia la propria argomentazione, ed i termini entro i

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quali essa verrà discussa, ma, proprio per via della sua efficacia evocativa, non approfondisce la relazione che tra questi termini sussiste.

Più calzante potrebbe allora essere richiamarsi ad un altro paragone, anch’esso riguardante una raffigurazione, ed un riferimento a Foucault: la descrizione di un quadro, il celeberrimo Las Meninas di Velazquez con cui si apre Le parole e le cose.

La descrizione è attenta nel riportare fedelmente le posizioni dei soggetti raffigurati: la centralità dell’Infanta e della sua piccola corte personale; il pittore, decentrato ma ben visibile nella sua attività lavorativa; lo sconosciuto sulla porta, spettatore casuale ed estemporaneo, immortalato nel suo momento di passaggio, nella sua occhiata curiosa; e naturalmente il Re e la Regina, assenti nella scena, ma inclusi in essa per mezzo dello specchio posizionato sullo sfondo.

Il significato della tela risiede non tanto nelle posizioni spaziali dei singoli soggetti, quanto nell’incrocio di sguardi, gioco barocco ed asimmetrico di allusioni ed apparenze che da queste posizioni può dispiegarsi.

Se l’oggetto indiscusso sembra essere l’Infanta con i suoi compagni accessori, ella lo è solo per chi guarda la tela da una posizione frontale; non lo è direttamente per l’uomo sullo sfondo, che contempla la scena nella sua interezza, ma da lontano e fuggevolmente; non lo è per il pittore, che fissa dinanzi a sé trascinando nel gioco di sguardi colui che osserva la scena, a sua volta da lui osservato. Chi è questo soggetto che entra nella tela pur non essendo direttamente presente? Forse le due figure rese visibili dallo specchio, riquadro di luce posizionato sul fondo, il cui compito è essenzialmente di restituire di queste due figure l’immagine senza che null’altro vi venga riflesso; immagine verso cui del resto non viene rivolto nessuno sguardo da parte dei personaggi della tela, eppure si presuppone che sia percepita da qualcuno. Ma da chi?

Forse dallo stesso soggetto che viene inevitabilmente coinvolto nella rappresentazione, trascinato dallo sguardo del pittore: il soggetto spettatore, colui che da un campo esterno alla tela la osserva. Noi, in questo caso, ma in maniera del tutto instabile, temporanea: si avranno tanti soggetti quanti spettatori della tela, in un gioco di non reciprocità.

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Poiché infatti, pur partecipando del gioco di sguardi, non è possibile una vera interazione con i personaggi del quadro, eternamente fissati nell’atto di rivolgere avanti a sé il loro sguardo attento: “La fissità opaca che regna da un lato, rende per sempre instabile il gioco delle metamorfosi che al centro si stabilisce tra spettatore e modello. Per il fatto che vediamo soltanto questo rovescio, non sappiamo chi siamo, né ciò che facciamo. Veduti o in atto di vedere?”.22

Non c’è una reale risposta a questa domanda, poiché le uniche attività possibili sono quelle di osservare ed essere osservato, ogni qual volta ci si ponga davanti alla rappresentazione. Se i soggetti spettatori sono certamente i sovrani, o meglio: le due figure riflesse nello specchio e raffigurate in fondo alla tela, in un rovesciamento della prospettiva, noi- chi compie l’azione di guardare il quadro- diveniamo così una sorta di meta-soggetto, espunto eppure sempre referente per la rappresentazione nel momento in cui volgiamo lo sguardo ad essa, poiché essa è per noi.

“Un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce- di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto – che è il medesimo- è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione”.23

Said non parla di Velazquez, né cita direttamente questa descrizione di Las Meninas; tuttavia Le parole e le cose è più volte citato in Orientalismo, di conseguenza egli doveva senz’altro conoscere la sua apertura. E ci sono pochi dubbi che sia così, perché il significato di Orientalismo ricalca esattamente ciò che vuole intendere Foucault ponendo all’inizio del suo saggio la descrizione di questo particolare quadro.

A metà della sua analisi, il filosofo francese si ferma un momento per dire: “Ma è forse tempo di dare un nome infine a quest’immagine che appare in fondo allo specchio e che il pittore di qua dal quadro contempla. È forse meglio definire una buona volta l’identità dei personaggi presenti o indicati, al fine di non trovarci più intricati all’infinito in queste designazioni fluttuanti, un po’

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M. Foucault, Le parole e le cose, BUR 2007

23

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astratte, sempre suscettibili di equivoci e sdoppiamenti: il pittore, i personaggi, i modelli, gli spettatori, le immagini.”

Possiamo immaginare che Said si sia divertito ad assegnare non nomi propri, ma ruoli, adattandoli alla propria ricerca, senza del resto forzarli in alcun modo; Las Meninas può diventare così efficace metafora per ciò che Orientalismo sostiene.

L’Oriente diviene in questo modo il soggetto del quadro, eternamente fissato in una immobilità irreale, artificio di chi pazientemente ha contribuito alla sua ideazione: il pittore, orgoglioso della sua opera al punto di raffigurarsi con essa nell’atto stesso di crearla, non potrebbe forse esser visto come lo studioso, o chi detiene l’autorità di scrivere e dissertare sull’Oriente? L’uomo sulla porta, nel suo fuggevole e frettoloso sguardo di chi pare arrivato per caso ed è indeciso se andare via o entrare, non senza prima volere cogliere un’impressione generale di ciò che sta accadendo, ma da lontano, potrebbe essere identificato come lo scrittore viaggiatore alla Flaubert, Nerval e così via. Infine, il soggetto nascosto del quadro, i sovrani, detengono già nel loro ruolo l’autorità per eccellenza: loro stessi hanno commissionato il quadro e, nei margini della rappresentazione, esso è per loro, assenti fisicamente ma la cui presenza è ben rimarcata dalla centralità del rettangolo luminoso sullo sfondo.

Rimane un ruolo, forse il più importante, quello che si può definire del meta-soggetto; ed è, come nel caso del quadro vero e proprio, quello del pubblico reale cui l’opera si riferisce. Vasto o ristretto che sia, esso è in continua evoluzione, al contrario dell’oggetto del suo sguardo, che altro non è che “pura rappresentazione”.

La relazione di reciprocità in cui pare essere inserito (“Veduti o in atto di vedere?”) è in realtà solo apparente, poiché non c’è reale attività, né comunicazione. L’oggetto rappresentato è lì solo per essere visto, non vede né comunica con il suo spettatore; questi a sua volta lo vede in un ritratto eterno e immutabile, senza poter in alcun modo interagire con esso se non attraverso l’osservazione. Anche qualora il soggetto spettatore si trovasse a coincidere con l’oggetto raffigurato, in nessun

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caso essi sarebbero i medesimi: vi sarebbe tutt’al più somiglianza, se il ritratto fosse verosimile, ma mai identità.

E tuttavia, questo soggetto così difficilmente definibile, meta-soggetto, pur senza comparire mai è essenziale per l’essere della rappresentazione; esso è solo fintamente eliso, si può solo fingere che non esista e che la rappresentazione sia di per sé; ma essa è innegabilmente per lui, poiché esiste per essere osservata da uno sguardo esterno. Esterno, naturalmente, a coloro che sono dentro al quadro: i soggetti rappresentati.

3.4 Orientalismo come quadro concettuale

Alla luce di queste considerazioni, si apre la possibilità di leggere Orientalismo seguendo una suddivisione, più che in fasi storiche, in tre quadri concettuali, approfondendo ognuno di essi una particolare visione dell’Oriente rappresentato, ed attribuendo a ciascun modo una diversa sfumatura interpretativa del concetto di rappresentazione.

La prima parte, Il campo dell’orientalismo, è dedicata quindi a portare in luce ciò su cui si intende lavorare: quella “visione orientalista” che è culla del futuro campo disciplinare che si strutturerà soprattutto a partire dall’età classica. Questa visione è quella che accomuna, pur nelle loro diversità, l’ottica di Dante, Eschilo e Flaubert; ma ugualmente Balfour e Napoleone. Si tratta dell’oriente “orientalizzato”: non-luogo, o meglio luogo immaginario, anacronistico e sempiterno.

Said vuole mostrare come, a dispetto di una distanza secolare, poco sia soggetto al cambiamento nelle concezioni di questo oggetto “Oriente”, in “oscillazione perenne tra familiare ed estraneo24” dai tempi di Dante, il quale esemplifica tale ambivalenza nella figura di Maometto: collocato come impostore nell’Inferno e sottoposto ad una pena particolarmente cruenta, diviene allo stesso tempo figura familiarizzata come antitesi di Gesù, ma nello stesso tempo, in virtù proprio della sua falsità, viene mantenuta e sottolineata la sua estraneità.

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Con lo svilupparsi della conoscenza sull’Oriente negli studi europei, questa oscillazione risulta essere una caratteristica: aumentando la conoscenza e la familiarità con la materia, ne aumenta al contempo la schematizzazione, che rende l’oggetto piatto e senza vita propria. La tentazione dell’atteggiamento testuale come metodo di approccio è sempre molto forte: vi è, azzarda Said, qualcosa di donchisciottesco nel riportare e conservare l’immagine di un luogo percepito come lontano e diverso, evocato nei suoi aspetti più romantici: la sua bizzarria; la sua crudeltà; la sua sempre pericolosa sensualità.

Dall’immaginazione, un’automatica trasposizione alla realtà: l’Oriente, qualsiasi cosa si intenda per questo nome, è così: “si tratta sempre di enunciati assertivi ed autoevidenti; i verbi sono al presente (…); le ripetizioni danno un senso di forza, di indiscutibilità.”25.

La metafora di uno spazio immaginario, oltre ad essere particolarmente suggestiva, appare anche come la più adatta ad esemplificare questo rapporto: sia esso visto come un palcoscenico vuoto in cui si muovono, o meglio vengono fatti muovere, dei personaggi incomprensibili, stereotipati nella loro stranezza e mai protagonisti, ma solo contorno dell’Ego conoscitore; oppure lo spazio vergine sulla carta geografica su cui punta il dito da bambino il protagonista di Cuore di tenebra, che è poi lo stesso Conrad, manifestando un primo impulso di volontà di sapere e di potere insieme (“Quando sarò grande, ci andrò”)26. In ognuna di queste metafore è contenuta l’idea di un progetto creativo, sentito maggiormente come dovere prima che piacere.

Viene a radicarsi così l’idea di un laboratorio in cui creare o ricreare il proprio Oriente, tramite studi e linguaggio. La volontà di un atto creativo diviene così anello di congiunzione tra i due differenti significati di rappresentazione: dal laboratorio teatrale, si passa al laboratorio medico. La seconda parte, Strutture e ristrutturazioni dell’orientalismo, indaga l’architettura della disciplina, il modo in cui viene organizzata in tableau général dagli esperti come de Sacy, Renan, Lane. Particolarmente in Renan è sottolineata l’attitudine a creare la propria materia, in relazione

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Ibidem

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all’impronta filologica da lui data alle sue ricerche, sempre tenendo come modello un trattato di scienze naturali o di anatomia; in cui, riprendendo direttamente le parole di Said: “Il tono e il tempo dell’esposizione si riferiscono uniformemente al presente contemporaneo, cosicché si riceve l’impressione di una dimostrazione pedagogica, durante la quale lo studioso-scienziato è in piedi di fronte a noi sulla cattedra di un laboratorio, e mostra, analizza, valuta il materiale su cui ci si informa”.27

Tra queste due parti del saggio, non vi è alcuna soluzione di continuità: si tratta di prestare attenzione alle sfumature del significato (più letterario-artistico nel primo, più marcatamente medico-scientifico nel secondo) di un concetto comunque unitario. Narrativa e scienza procedono di pari passo nell’esposizione dell’Oriente, come dimostra il fatto che l’approccio dello “studioso-scienziato” venga introdotto richiamandosi a Bouvard et Pecuchet di Flaubert: realismo ironico della narrativa, aderenza paradossale della realtà alla fantasia, inscindibili, nell’argomentazione di Orientalismo, l’uno dall’altra.

Seguendo il filo rosso dell’orientalismo come sistema di rappresentazioni si viene agevolmente condotti fino alla terza parte, quella conclusiva: l’analisi dell’“archivio” generato da questa definizione, (che, ricordiamolo, diviene in quest’ottica discorso) e le sue conseguenze su più fronti- storico, politico, letterario- che persistono in epoca contemporanea.

È in quest’ultima parte che viene dedicata una maggiore attenzione all’approfondimento del legame tra la disciplina in questione e le invasioni colonialiste.

È importante mettere in risalto fin dal principio come la dimensione in cui si sviluppa il discorso non sia tanto quella temporale, ma piuttosto sia lo spazio ad assumere carattere determinante. Lo spazio, inteso come territorio, e quindi fisico, ma altresì lo spazio immaginario delle cui metafore è disseminato il testo di Said: queste due modalità riunite nella raffigurazione geografica di una mappa atlantica. L’“Oriente” come entità geografica, pertanto esistente e concreto, ma allo stesso tempo astratto e disponibile a creazioni e ricreazioni, politiche o culturali, di una parte di mondo

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“attiva” ed “esterna”. In fondo, la stessa concezione che guidava il napoleonico tentativo di invadere l’Egitto: un approccio testuale, studiato nei minimi dettagli geofisici.

La dimensione temporale viene dunque a ritrovarsi azzerata, significativamente: ciò corrisponde all’a-temporalità che assume il tentativo di stigmatizzare “l’Oriente” in una visione generale, (o, come la chiama Said, “essenzialismo sincronico”28), comune a Lawrence, a Lane, alla Bell, per fare degli esempi; in breve, a tutti coloro che esercitano una funzione di rappresentanza.

In questa parte conclusiva, l’ottica si apre alle tracce che l’orientalismo classico ha lasciato negli studi contemporanei. I riferimenti foucaultiani, così preziosi per la costruzione teoretica del saggio, vengono ora messi in secondo piano, per esaminare la questione in un più ampio contesto.

Se risulta evidente come negli studi accademici manchi molto spesso una problematizzazione di alcuni concetti, ereditati, come si è visto, da un orientalismo di tipo ottocentesco, ciò che è ben visibile in Lewis ed in molti altri, ancora più evidenti sono le conseguenze che questi vecchi concetti assumono nel campo dell’informazione mediatica nonché nella produzione culturale contemporanea, generando un ulteriore paradosso: un autoriconoscimento da parte del pubblico non-occidentale nei cliché proposti. “Il paradosso dell’arabo che si abitua a immaginarsi come arabo di tipo hollywoodiano è uno dei più assurdi, ma anche ovvi, risultati dello stato di cose or ora delineato”29.

Il fatto che lo scopo di Said sia di uscire dalle angustie di una questione accademica è confermato dalle questioni poste nella conclusione: “Il mio progetto era quello di descrivere uno specifico sistema di idee, e niente affatto di sostituirlo con uno migliore. Inoltre, ho tentato di sollevare una serie di interrogativi e questioni: in che modo possiamo rappresentarci culture differenti? Che cos’è un’altra cultura? La nozione di una cultura diversa (…) è davvero utile, o inevitabilmente si impantana nell’autocompiacimento (…) o nell’ostilità e nell’aggressività (…)? Le differenze culturali, religiose e razziali hanno o non hanno maggiore importanza di quelle socio-economiche o storico-politiche? In quale modo le idee acquisiscono autorevolezza, carattere di ‘normalità’, e

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persino lo status di verità ‘naturali’? Qual è il ruolo dell’intellettuale? (…) Quanta importanza deve egli attribuire a una coscienza critica indipendente, a una coscienza critica capace di stare all’opposizione?”.

Ad alcune di queste domande Said ha fornito la propria risposta, lasciandone altre in sospeso per un eventuale dibattito; altre ancora vengono approfondite negli scritti successivi, da cui la possibilità di intravedere la volontà di un progetto, una continuità teorica che unisce la produzione di quest’autore. Continuità talvolta oggetto di aspre polemiche.

La conclusione di Orientalismo è un invito a trascendere la questione della scienza accademica in sé, per aprirsi a quesiti più impegnativi. Invito continuamente reiterato da Said a sottolineare come lo stimolo di riflessione iniziale sia sempre ed essenzialmente l’esercizio della funzione critica, applicato ed applicabile in ogni ambito del sapere.

Questo porta a chiedersi dunque quale sia, in ultima istanza, l’interpretazione di quest’opera che aderisce maggiormente al significato inteso dall’autore.

Accostando i lavori dei due studiosi, si è comunque ben lungi dal rendere il professore della Columbia un allievo di Foucault in senso stretto, anche tenendo conto dell’avversione, ancora una volta condivisa, che entrambi provavano per il concetto di “scuola”.

La volontà di una sorta di completamento dell’opera di Foucault è, insieme, critica e sperimentale: viene operata una rilettura che è applicazione diretta del concetto di Traveling Theory30 che si è riconosciuto come fondamentale nella teoria della letteratura saidiana.

Questo stesso accostamento pone tuttavia una difficoltà: se non vi sia una certa forzatura ed un eccessivo grado di azzardo nel riunificate un’impostazione fenomenologica all’utilizzo di una metodologia foucaultiana, come a non tener conto del deciso allontanamento del filosofo francese

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Un’interpretazione in tale senso è quella di T. Brennan in The Illusion of a Future: Orientalism as “Traveling Theory”, Critical Inquiry, Spring 2000

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