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 APPENDICE: IL DIALOGO SOCRATICO IN “PRATICA”.

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 APPENDICE: IL DIALOGO SOCRATICO IN “PRATICA”.

La filosofia non è un’arte che serve a far mostra di sé di fronte alla gente: non consiste nelle parole, ma nei fatti (…) forma e plasma l’animo, dà ordine alla vita, dirige le azioni (…) siede al timone e regola la rotta attraverso i pericoli di un mare in tempesta.

Seneca, Lettere a Lucilio, XVI.

Questa frase di Seneca mette in evidenza come la filosofia non possa essere centrata solo sulla trasmissione di motivi teorici. Sempre più spesso oggi si sente parlare di Consulenza filosofica e della possibile e diretta dipendenza da una delle più grandi figure della filosofia antica: Socrate. In questa appendice voglio presentare questo moderno e antico modo di “fare filosofia”, mettendo in risalto l’importanza del metodo socratico, di cui abbiamo già discusso nella prima parte di questo lavoro. Due sono i filosofi della “svolta”: Socrate nell’antichità e Achenbach oggi.

Fra tutte le forme di sapere umano, la filosofia è quella che meno ha rapporti con la pratica essa è infatti, fin dalla sua denominazione, “amore per il sapere” fine a se stesso e il suo lavoro è esclusivamente speculativo e teoretico. Platone, per esempio, sosteneva nell’Eutidemo (289 b) che la filosofia consiste nel «sapersi servire di quello che si fa» e che per tal motivo le spetterebbero compiti superiori a quelli delle altre forme di sapere. Si ritiene che l’utilità della filosofia sia verificabile sui tempi lunghi ma il punto è: cosa e quando qualcosa è praticamente utile? Si è d’accordo nel riconoscere che la matematica, la fisica,

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l’astronomia, la chimica etc., siano “praticamente” utili perché grazie a queste conoscenze l’umanità può agire in modo efficace ed efficiente; in questi casi si pensa all’utilità di qualcosa come strumento che ci aiuta nel nostro agire sul mondo esterno. Se le cose stanno così, è vero che la filosofia non fa nulla di tutto ciò, ma anche questa affermazione è da analizzare perché, basta pensare ad esempio, alla filosofia politica, che in larga parte si può identificare con l’etica. Chi si occupa di questo ambito ritiene di poter mettere a punto un insieme di conoscenze che possono essere applicate alla realtà, ma in questi casi non è la filosofia ad essere applicata ma quell’insieme di conoscenze che essa contribuisce a mettere insieme. Un sistema di valori o per esempio un sistema di governo, vengono affidati ad altri, quali il politico o il giurista, che si occupano di applicarli alla comunità. A questo punto il filosofo esce di scena. Perciò anche la filosofia pratica si conclude quando produce qualcosa di pratico e diventa morale, politica, diritto.

La filosofia, essendo amore per il sapere è qualcosa di per sé continuamente in movimento e il suo è quindi un ri - cercare, un ri - tornare sempre di nuovo sul problema. E filosofare in questo senso vuol dire non essere più gli stessi che si era prima di questo modo di agire: solo in questo senso la filosofia è “pratica” e lo è sempre, senza dover pensare a mille modi per farla diventare tale. Che la parola filo - sofia significhi amore per il sapere è ormai chiaro, mentre che cosa sia non è domanda alla quale rispondere facilmente. Si può definire il filosofare come il tentativo da parte dell’uomo di pervenire alla realtà, ponendo e ponendosi domande per risalire all’origine delle cose, analizzando quanto è

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possibile vista la finitezza umana. La filosofia è dunque un lavoro analitico nel senso di scioglimento, di soluzione del problema. Quello che importa non sono le risposte brevi che sintetizzano il senso della domanda ma la domanda in se: la filosofia, in senso generale, non sa ma ama il sapere e dunque analizza la domanda. In questo caso la filosofia è una faccenda erotica: ricordiamo Socrate che nel Simposio platonico ci dice che Eros è filosofo perché non possiede la verità, ma la cerca e la desidera. Il filosofo è dunque un amante del sapere e poiché si ama ciò che non si possiede, il filosofo tende alla sapienza che non possiede e la desidera. Nel Simposio l’amore viene definito come mancanza di qualcosa, cioè si ama ciò di cui si è privi (200 e - 201 c) dunque chi ama è manchevole di qualcosa; nel caso del filosofo egli cerca continuamente di colmare la mancanza di sapienza. La ricerca del sapere da parte dell’uomo è quindi un modo di vivere e la filosofia, che è sempre desiderio di sapere, sapere di sé, è ciò che ci accomuna tutti: chi, infatti, nella vita almeno una volta non ha sentito il bisogno di comprendere alcuni eventi della propria esistenza? In questo senso ogni uomo diventa filosofo poiché desidera conoscere ponendosi delle domande e dall’analisi di ciò tende di arrivare alla conoscenza.

L’idea che la filosofia possa essere d’aiuto nei problemi dell’esistenza non è certo nuova: oggi come ieri, l’uomo cerca di trovare il senso della propria vita e le pratiche filosofiche possono accompagnare ognuno in un cammino di cura di sé attraverso il dialogo, le domande, l’esame. Quanti andavano da Socrate e domandavano, cercavano rimedio alla loro inquietudine? L’ideale ellenico di filosofo era quello di medico compassionevole, la cui arte era in grado di curare

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numerosi tipi di sofferenza umana. Socrate stesso, nel Carmide, ci parla di cura dell’anima attraverso “incantesimi” che altro non sono che i bei discorsi: la filosofia risponde alle domande dell’uomo ed è dunque dialogo, e il dialogo produce una sorta di verità provvisoria. La filosofia si presta ad indossare le vesti di medicina dell’anima. In tal caso, la consulenza filosofica dunque propone un modo, tanto nuovo quanto antico, di aiutare l’individuo a riflettere sulla propria vita: ieri come oggi, rappresenta una parte integrante della vita di tutti i giorni, con lo scopo di instaurare un libero dialogo l’individuo che accompagna nella sua riflessione. Si tratta di esplorare nuove strade della filosofia e si inizia a parlare di Philosopher in residence (figura di filosofo che vuole essere affine a quella del cappellano all’interno degli ospedali americani, con lo scopo d aiutare, con il dialogo, i familiari degli ammalati), di Café Philo (organizzati al fine di discutere di vari argomenti, teoricamente o praticamente considerati validi), fioriscono numerosi studi di consulenza filosofica, dove i filosofi studiano e applicano la filosofia alla vita. Oggi la nostra società, troppo dedita al consumismo e al perbenismo, scarica diverse responsabilità sugli individui che spesso non sono in grado di sostenerle, creando insicurezza e paure. È in questo accumulo di insicurezza che gli individui possono trovare nella consulenza filosofica un sostegno per la propria quotidianità. Il fine della cosiddetta filosofia pratica è la perfezione dell’uomo stesso e tutte le discipline, che racchiudiamo nell’ambito di “pratiche filosofiche”, quali consulenza, educazione e ricerca, sono filosofia in senso proprio.

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Diceva Socrate:

Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. (Plat. Theaet. 150 c - d).

A rileggere Socrate sotto il profilo del dialogo fu Leonard Nelson, filosofo tedesco (1882 - 1927) che vide in Socrate il primo convinto assertore del fatto che l’uomo porti già in sé la conoscenza relativa alle cose importanti della vita, e che ne faccia esperienza nel proprio vissuto quotidiano. Nelson diede molta importanza all’educazione infantile, concentrandosi sui bisogni e le necessità dei bambini, interessandosi dell’apprendimento di tipo attivo e delle abilità sociali. Egli ideò il Socratic Dialogue: obiettivo è la rappresentazione della ricerca comune di una risposta soddisfacente ad interrogativi sensibili. L’idea di Nelson era di fondare un metodo basato sulla logica socratica e orientato a produrre risposte concrete ai quesiti affrontati, diversamente da quanto perlopiù accade nei dialoghi platonici, nei quali le risposte sono spesso critiche o interlocutorie. A partire da una definizione generale deduttiva, per esempio, “cos’è il benessere?” si prosegue ad analizzare i contesti definitori concreti per poi passare ad una definizione generale induttiva ( il benessere è per noi …). Lo scopo del dialogo socratico, secondo Nelson, deve essere quello di afferrare la base universale del giudizio, la visione d’insieme, al fine di aiutare ad esprimere “che cosa è” un preciso oggetto. Nelson fece notare che solo la tacita ragione accompagnatrice,

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non-discorsiva, contiene la verità che noi possiamo portare a coscienza, risvegliati dall'esperienza. Egli credeva che questo potesse essere raggiunto con il metodo socratico solo attraverso un accurato esercizio della nostra volontà.

Secondo Nelson il dialogo socratico è l’arte rivolta non all’insegnamento della filosofia ma al filosofare stesso, non è l’arte con cui si fanno lezioni di filosofia ma con cui si fa degli studenti, appunto, dei filosofi.

L’obiettivo principale del metodo di Nelson era quello di insegnare a filosofare, ed egli lo espresse chiaramente quando scrisse che:

l’insegnante non può fare niente di più che mostrare ai suoi studenti come intraprendere, ognuno per sé, il laborioso regresso che è il solo a raggiungere l’intuizione dei principi basilari. Se esiste qualcosa come l’istruzione in filosofia, può trattarsi solo dell’istruzione a fare il proprio pensiero.1

Con Nelson questa idea inizia a espandersi nel nord Europa grazie anche ad una serie di conferenze. La filosofia inizia così ad uscire dalle aule universitarie verso luoghi ricreativi e in altri luoghi pubblici. A Nelson poi, nella conduzione della scuola, succedette Gustav Heckmann

fino alla chiusura imposta dal Nazismo

nel 1933. Nelson aveva già indicato la possibilità di adoperare il metodo

del dialogo socratico anche con gruppi di adulti, ma solo nel dopoguerra,

soprattutto ad opera di Heckmann,

la pratica fu estesa nella maniera in cui oggi la conosciamo, ed è oggi coltivata particolarmente in Germania, Olanda e Gran Bretagna, nell'ambito delle organizzazioni (aziende, ospedali, carceri, centri

1 L. Nelson, Die Sokratische Methode (1922), trad. ingl. di T. K. Brown, The Socratic Method, Yale

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sociali). Qui, a partire da episodi personali o da questioni connesse con l’esistenza concreta, si dialoga con la sessione della comunità di pratica: cosi si chiama questa riunione di dialoganti, che va avanti per ore, finché non si giunge a una conclusione che non deve essere per forza definitiva, anzi, può essere un accordo su cui poter tornare a confrontarsi.

Dopo il lavoro di ricerca svolto da Nelson e dal suo allievo Heckmann, un’altra pratica filosofica basata sull’educazione è la Philosophy for Children ( P4C ) che riattualizza il dialogo socratico. Nasce negli anni ’70 con il filosofo americano Matthew Lipman, all’epoca docente di logica presso la Columbia University, che notando le evidenti difficoltà degli studenti ad affrontare la sua materia, si pose il problema di come favorire nei giovani studenti l’uso riflessivo del pensiero. Dalle sue riflessioni è nata questa nuova disciplina, la Philosophy for Children che ha come obiettivo lo sviluppo di abilità di pensiero nei bambini di età variabili dalla prima età scolare fino ai primi anni dell’insegnamento superiore, attraverso un metodo che coniuga l’attività ludica a quella di studio. Si tratta praticamente di racconti scelti appositamente da Lipman per condurre i ragazzi a riflettere su questioni filosofiche; proprio per la particolarità della loro composizione, i racconti fungono solo da stimolo per l’avvio di un dialogo comunitario, entro il quale gli insegnanti hanno il ruolo di stimolare gli alunni alla riflessione. L’idea è quella di trasformare la classe in una comunità di ricerca, proprio come quella che si creava intorno a Socrate per le strade di Atene. La P4C non tende dunque all’insegnamento disciplinare della filosofia, non mira ad insegnare il pensiero, ma piuttosto pone l’accento sulla possibilità di insegnare a

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pensare, con la precisazione che il pensare in questione può riguardare qualunque situazione. Il programma di Lipman è dunque un esempio di applicazione della ricerca all’educazione; invece di lasciare i ragazzi alla semplice memorizzazione di ciò che viene riportato nei manuali, li indirizza ad una riflessione autonoma, a tal riguardo afferma Lipman:

Essere ricercatori - afferma Lipman - equivale ad indagare attivamente e domandare instancabilmente, essere sempre attenti a connessioni e differenze mai percepite prima, costantemente pronti ad operare confronti, ad analizzare e a costruire ipotesi, a sperimentare e ad osservare, a misurare e a mettere alla prova.2

Così facendo gli studenti sono dei soggetti attivi responsabili loro stessi della propria educazione, imparando a pensare in maniera autonoma. Si tratta di un metodo di formazione più che di informazione, che rivela i suoi limiti all’interno di un’istituzione scolastica volta a valutare gli studenti e a consegnare titoli di riconoscimento. È comunque innegabile l’importanza e la ricchezza di questo metodo dal punto di vista pedagogico, soprattutto perché incoraggia un atteggiamento attivo nei confronti della conoscenza, piuttosto che un atteggiamento passivo di ricorso all’autorità. Socrate ha spesso utilizzato il suo metodo ai fini della definizione di concetti morali quali virtù, pietà, saggezza, temperanza, coraggio e giustizia, non prendendo mai posizione a favore o contro una certa opinione, ma sforzandosi di condurre l’interlocutore a riconoscere che le sue non erano altro che supposizioni. Socrate riteneva, infatti, che non si

2 M. Lipman, P4C e pensiero critico, in Filosofia e formazione, a cura di A. Cosentino, Liguori Editore,

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potesse accedere alla verità se non ci si fosse prima liberati dalle false opinioni ed egli per arrivare a ciò si serviva della maieutica.

Fin qui abbiamo visto il metodo socratico applicato all’insegnamento della filosofia ma può anche essere applicato fuori dal proprio campo filosofico. Ad esempio è applicato a problemi di fisica da Silvia Knappe a Berlino, o ancora in Olanda e in altri paesi del Nord Europa, si usa il Socratische gespreksvoering o Socratically inspired dialogue, una variante del dialogo socratico, per questioni economico-aziendali. Un altro meraviglioso esempio di applicazione del dialogo socratico sono i Café Philo.

Siamo nel 1992 quando sorgono in Francia i primi Café Philo, ad opera del filosofo Marc Sautet , il primo ad aprire anche uno studio di consulenza filosofica in Francia. Solitamente quando si pensa ai caffè filosofici sembra qualcosa di elitario, impegnativo, dove si riuniscono persone di un certo livello culturale che discutono su alcuni temi, invece si tratta di discussioni pubbliche su svariati argomenti, perché ogni argomento può essere trattato filosoficamente, per dar vita ad uno scambio di idee tra individui che si incontrano per filosofare insieme. Il filosofo qui si sveste dell’abito da insegnante e si immerge nella sfida della quotidianità.

Per quanto riguarda tuttavia la Consulenza filosofica come disciplina scientifica che è relativamente giovane, nasce in Germania nel 1981 ad opere di Gerd B. Achenbach che diede vita, l’anno successivo, alla prima associazione mondiale per la Consulenza filosofica, la Gesellschaft für die Philosophische Praxis. Da allora si è diffusa in altri paesi come l’Olanda, la Gran Bretagna, USA, Canada,

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Francia e da qualche decennio in Italia; dunque il campo si sta espandendo ma verso dove? Essa è indirizzata a ciò che costituisce il significato originale della parola filosofia. È bene chiarire fin da subito che la consulenza filosofica non ha nulla a che vedere con la terapia: come spiega il suo fondatore, la consulenza filosofica non ha nessun intento di guarire da eventuali disturbi psicologici perché la “pratica filosofica” non mira al raggiungimento di una sanità da recuperare. La Philosophische Praxis è un’alternativa non terapeutica alla psicoterapia; si possono avere anche effetti terapeutici, ma il fine perseguibile è quello di una maggiore comprensione delle dinamiche comportamentali di chi vi fa affidamento. Essa intende sviluppare una “chiarificazione” nelle persone, una comprensione filosofica più ricca del suo sé, una cosiddetta “cura dell’anima”. Per il consulente filosofico il dialogo si rivela uno strumento efficace, perché agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono veramente e così si rivelano. Probabilmente il continuo richiamo alla dottrina socratica da parte della consulenza filosofica è dovuto al fatto che la conoscenza orientata al raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé, è proprio quello che Socrate insegnava ai suoi interlocutori pensando, che quello fosse il modo migliore per imparare loro a vivere bene con se stessi. Socrate dunque insegnava loro a pensare. Proprio questo lavoro dovrebbe essere tipico del consulente filosofico: facilitare attraverso il dialogo aperto l’acquisizione di una capacità di pensare ed agire, in grado di caratterizzare il modo di pensare e di vivere di chi vi ha fatto ricorso. Sempre in riferimento a Socrate e al suo modo di dialogare, il consulente filosofico deve cogliere seriamente il “sapere di non sapere”

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socratico; quindi tacere la propria concezione del mondo. Come Socrate il consulente non è obbligato a fornire una risposta che risolva la domanda; il suo compito non è quello di svelare la verità ma di mettere a disposizione del suo interlocutore una competenza di riflessione. Succede così quello che succedeva all’interlocutore di Socrate dopo aver terminato il dialogo con lui: non sa più nulla ma prende coscienza liberandosi dalle false conoscenze.

Ma come funziona una consulenza filosofica? Secondo Achenbach la consulenza filosofica non ha dei metodi standard da seguire. Essendo un work in progress e non una tecnica, non ci sono modi per insegnarla né per impararla ma ha a disposizione la millenaria tradizione filosofica. Lo scopo di Achenbach quando avviò la prima Associazione era quello di “rinnovare” la filosofia applicandola alla vita: secondo l’autore la condizione contemporanea in cui versa la filosofia è una specie di auto ghettizzazione perché divenuta ormai accademica, vivendo sempre all’interno delle università, perde il contatto con la realtà. Alla domanda: lei dunque critica nella filosofia accademica il fatto che non riesca a vivacizzare (…)?, Achenbach risponde:

io non critico. Constato e procedo per un’altra strada: una strada che parte da Socrate, che viene alla luce di nuovo nella filosofia romantica, che viene imboccata da Kierkegaard e da Nietzsche, e che poi nel nostro secolo viene seguita per esempio da Benjamin, da Georg Simmel (…). Io mi riallaccio cioè – in nome di una pratica non violenta – a una filosofia che è divenuta schietta, che resiste alla seduzione dell’ambizione sistematica del grande pensatore e che si concentra sul concreto, per rimanere enfaticamente vicina alle cose più piccole e minime.3

La novità sta quindi nel ritorno alle origini della filosofia, in direzione del

3 G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, Apogeo, Milano,

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dialogo socratico, il cui ambiente naturale era la polis.

La consulenza di Achenbach vuole tenersi a distanza da eccessivi schematismi che bloccano il pensiero invece che aprirlo, e se ci si lascia sedurre dalla voglia di definire esattamente cosa sia la Philosophische Praxis, ci si mette in ridicolo e si finisce per ridicolizzare la filosofia stessa.

La pratica è azione comunicativa, esplorazione e organizzazione dialogica dei problemi, critica della comunicazione distorta e di ogni trattamento. Essa, non disponendo di nessuna teoria positiva non è una nuova terapia, anzi non lo è affatto. Questa “professione” risulta paradossale perché esiste grazie alla richiesta di aiuto che le viene rivolta, ma non pensa a sé stessa come una professione d’aiuto e non è esplicitamente finalizzata a dare risposte a quella domanda, né ad alleggerire il carico dei problemi che la producono.

Così facendo la consulenza di Achenbach restituisce unicità al singolo individuo:

la consulenza filosofica non lavoro con i metodi, ma sui metodi, per cui è la riflessione con il consulente che crea di volta in volta, a seconda del caso che si presenta, il suo modo di procedere.4

Solo a partire da questa iniziativa si è cominciato a parlare di questa materia e del rinnovato interesse per la figura del filosofo in quanto “elaboratore di problemi”, esperto di visioni del mondo e di questioni esistenziali. Da questo punto di vista Achenbach è realmente il padre della consulenza filosofica.

Nella storia della filosofia la funzione del filosofo non aveva mai avuto queste

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connotazioni, sebbene oggi gli stessi consulenti filosofici, per legittimare dal punto di vista storico la loro attività, facciano leva sul recupero dell’antica tradizione sapienziale della filosofia come elemento di connessione tra la loro attività e quella “accademica”.

La consulenza filosofica altro non deve essere che riflessione, mettere in questione ciò che per gli altri è ovvio.

Ma colui che si dedica ad un’attività come la Filosofia Pratica è filosofo? O questo titolo spetta ai “grandi pensatori” che hanno prodotto ricerche teoriche o critiche originali? A seguito dell’assenza nel nostro sistema professionale di un ruolo di “filosofo”, si fa fatica a ritenerci tali; prendendo coscienza di chi sono e dunque della mia vita, essa va avanti e si ravviva. Perciò in base a questo, “filosofo” è colui che deve conoscere perché vive ed è quindi qualunque individuo che filosofa.

Negli ultimi anni Achenbach ha insistito su un aspetto in particolare: la saggezza. La saggezza a cui fa riferimento Achenbach non ha a che fare con contenuti sapienziali, e perciò egli la distingue dall’arte del vivere che presuppone una concezione estetica della vita, mentre la saggezza filosofica ha di mira una vita vera con la giusta determinazione. La saggezza è la parola chiave della capacità di saper vivere: il saggio inteso in questo senso usa la propria conoscenza per comprendere, giudicare, scegliere e fare e non è felice della sua intelligenza ma usa la sua intelligenza per essere felice. Della saggezza non c’è scienza, perché non possono esistere regole o metodi per gestire la mutevolezza della vita. Ciò ci fa comprendere che noi possiamo sempre e soltanto sapere “qualcosa” ma non

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conosciamo il tutto: la totalità della nostra vita rimane al di là delle nostre capacità conoscitive e preventive. Non sappiamo cosa ci aspetta, come affrontare la vita in base a determinate regole ma possiamo però sapere di non sapere. È su questo punto che Achenbach si collega esplicitamente al motto socratico “so di non sapere”; non sapere qualcosa non è comico, dice Achenbach, ma credere di sapere qualcosa che non si può sapere è il massimo della comicità. Possiamo “ascoltare la vita” imparando dalle narrazioni che di essa ci vengono fatte nei libri, dalle persone, dalla nostra esperienza; su tutto possiamo fare affidamento ma sempre provvisoriamente, perché niente si presta ad avere il valore di una regola. Per cui la capacità di vivere o saggezza, così come Achenbach l’ha intesa, consiste nel condurre la propria vita padroneggiandola e così realizzando il meglio di ciò che è in se. Questo è esattamente ciò che fece Socrate, vivendo con impareggiabile serenità persino la propria ingiusta ma necessaria condanna a morte.

È opinione comune quella che riconosce in Socrate le radici della moderna consulenza filosofica:

Il mio girovagare ha la sola funzione di persuadervi, giovani e vecchi, di non curarvi del corpo né delle ricchezze più o altrettanto che della perfezione dell’anima (…). (Plat. Apol. 30b).

Socrate viene riconosciuto come modello del moderno consulente filosofico, innanzitutto per il suo disconoscimento della conoscenza, il “non sapere” socratico. Socrate, messo sotto processo, cerca di spiegare il significato delle parole dell’oracolo di Delfi che lo ha indicato come il più sapiente tra gli uomini;

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Socrate si recò dunque presso uomini ritenuti tali e si accorse che il loro problema non era tanto quello che, in realtà, non erano sapienti, quanto che essi erano illusi di possedere sapienza. La conclusione di Socrate fu quella che per l’oracolo il più sapiente tra gli uomini era colui che “sa di non sapere”. Questo “non sapere” socratico è connesso al concetto stesso di filosofia, la quale è un atteggiamento di ricerca, un “amore per”. La missione di Socrate è di svelare il filosofo che è in ogni uomo; egli si rifiuta, così facendo, di rispondere alle domande dei suoi discepoli rivolgendo loro nuove interrogazioni e ciò spinge l’interlocutore a tirare fuori di sé, da solo, la risposta.

Socrate «è stato il primo a dimostrare che, con ogni tempo e in ogni luogo, in tutto ciò che ci accade ed in tutto ciò che facciamo, la vita quotidiana dà la possibilità di filosofare».5

La filosofia non è interessata a risolvere i problemi ma a comprenderli nei dettagli, a contestualizzarli, a trovare loro un senso. Per tal motivo, a volte, la filosofia è ritenuta inutile, perché non ha una tecnica e rifiuta ogni modalità operativa lineare problema - soluzione. Quella di Socrate si è rivelata una pratica della filosofia che richiede la partecipazione diretta di un dialogante, il quale viene investito della responsabilità di ricercare in proprio la conoscenza sulle cose del mondo, delle quali non c’è una scienza certa ma solo una conoscenza mutevole.

Socrate è il filosofo del quotidiano e filosofa insieme ai suoi compagni senza far riferimenti ad autorità o saperi. Questo atteggiamento elimina il problema della

5 Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Apogeo, Milano,

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filosofia del consulente così come quello della sua personale formazione nozionistica: non importa quali filosofie o pensatori ritenga più importanti, perché questi devono essere relegati nel “non sapere” di una ricerca che verte su un discorso, che nella consulenza è quello del consultante e sul quale non si dà scienza certa. Grazie ad una lettura socratica del filosofare, il lavoro di consulenza non rischia di trasformarsi in insegnamento sapienziale, e viene garantito che il problema dal quale si avvia il dialogo sia affrontato senza l’unica intenzione di risolverlo. Il filosofare socratico ci appare, ricordando Hadot, come «un esercizio spirituale praticato in comune che, invita all’esercizio spirituale interiore, cioè all’esame di coscienza, all’attenzione a sé, insomma al famoso “conosci te stesso”»6.

Secondo Hadot, se la filosofia è l’attività per mezzo della quale il filosofo si esercita alla saggezza, questo esercizio consisterà nel parlare e discorrere in un certo modo, nel vedere, nell’essere e nell’agire nel mondo in un certo modo. Molti filosofi hanno avanzato teorie senza far seguire ad esse una vita coerente, e questo perché si limitavano alla sola sfera astratta della loro teoria, cioè non pensavano filosoficamente nell’ambito della vita e dei problemi quotidiani. Non si è socraticamente filosofi se non si ricomprendono nel proprio pensiero anche il proprio agire e la propria sfera emozionale, e se non si pensa di “non sapere” anche nelle vicende più banali. Fare questo può portarci ad usare delle tecniche di tipo psicoterapeutico, ma sarà solo una scelta che effettueremo come conseguenza di quell’esame a cui ci sottoponiamo quotidianamente nella nostra

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vita e che ogni volta ci dirà se certe tecniche siano necessarie e adeguate. Sarà la nostra capacità di sottoporre la vita a esame e rimanere nella condizione del “non sapere” che potrà costituire la saggezza filosofica e non quelle norme che, come abbiamo avuto modo di vedere, da Socrate sono definite inutili per la conduzione della vita. Anche perché né noi né il mondo in cui viviamo siamo mai gli stessi ma cambiamo di momento in momento.

Socrate nel Carmide (157a) ci parla di terapia dell’anima attraverso incantesimi che altro non sono che “i bei discorsi”. Cosa vuol dire? Ha senso parlare di una terapia dell’anima? Socraticamente non è possibile diagnosticare la malattia della psiche né identificare nessuna tecnica per curarla, dato il preuspposto del non sapere. Quello di Socrate dunque è un semplice “aver cura” dell’anima attraverso l’esame della vita che essa conduce, curando il proprio sé. Il “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi impone di conoscere l’anima umana e la sua esistenza, per poter intraprendere un processo di cura di sé che faccia perseguire la saggezza (phrònesis) e che liberi dall’infelicità. Dunque il famoso motto delfico invita all’esercizio esistenziale per eccellenza, ossia all’esame di coscienza, all’attenzione di sé. Il significato di questa formula invita ad un rapporto di sé con sé:

Conoscere se stesso significa o conoscersi come non sapiente (vale a dire non come sapiente, ma come un filo-sofo che in quanto tale cammina verso la sapienza), o conoscersi nel proprio essere essenziale (ossia saper ciò che non è noi da ciò che è noi stessi), oppure conoscersi nel proprio stato morale autentico (vale a dire esaminare la propria coscienza).7

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Socrate fa dell’arte di conoscere sé stessi il punto centrale della saggezza filosofica e quando parla della possibilità che ognuno ha di conoscere sé stessi fà riferimento alla consapevolezza dei propri sentimenti nel momento stesso in cui essi si presentano. Così conoscere se stessi vuol dire conoscere in modo particolare le proprie emozioni, per non esserne schiavi. Questa padronanza di sé, ossia la capacità di resistere alle tempeste emotive senza esserne schiavi, è una virtù elogiata da Socrate, la sophrosyne, che è cura e intelligenza nel condurre la propria vita, temperanza, il cui obiettivo non è la soppressione dell’emozioni quanto il loro equilibrio. Nell’Alcibiade Primo, Socrate dà finalmente la spiegazione del motto delfico e lo fa a partire dalla distinzione tra anima e corpo: l’anima rappresenta il vero sé dell’individuo, mentre il corpo è qualcosa che appartiene all’uomo e quindi alla sua anima. (Plat. Alc. Ma., 129 e – 130 c). Dunque se l’uomo è essenzialmente la sua anima, conoscere se stessi significa sostanzialmente conoscere la propria anima e prendersi cura di essa. Ma come avviene questa conoscenza di sé ? Secondo Socrate, servendosi del modello della visione allo specchio, per sostenere che l’anima può conoscere se stessa solo guardandosi allo specchio, ossia solo rivolgendo lo sguardo ad un’altra anima:

(…) anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza (…) (Plat. Alc. Ma., 133 b).

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conoscere se stessa solo guardando un’altra anima: tale immagine esprime bene quel punto cardine della filosofia socratica che è la concezione del dialogo come strumento di conoscenza di sé. La conoscenza di sé non è immediata, ma opera per via indiretta tramite un oggetto che svolge il ruolo dello specchio, e questo altro è un’anima simile alla nostra. Solo rivolgendo lo sguardo verso un altro individuo, o meglio verso ciò che c’è di divino o intelligente nell’altro, verso la parte intellettiva della sua anima, si può conoscere se stessi. Questa interpretazione ha il merito di recuperare il valore universale della dialettica, intesa come dialogo universale tra uomini razionali.

Nella pratica della filosofia, il dialogante può e deve essere chiunque, dato che la virtù si apprende attraverso il continuo esame che prende avvio dalla consapevolezza della propria ignoranza. L’ approccio di Socrate ha gettato in effetti la base filosofica dell’agire del filosofo consulente, che non è mai strumentale ed implica sempre la partecipazione consapevole di ogni individuo. Al termine di questa presentazione della moderna Consulenza filosofica intendo concludere citando il filosofo e scrittore spagnolo Fernando Savater, autore del libro Le domande della vita, il quale si rivolge a coloro che non vedono la filosofia solo come un’antica tradizione ma come una nuova pratica di vita:

mi rivolgo soprattutto a coloro che non si preoccupano della filosofia in quanto venerabile tradizione, bensì come forma di riflessione ancora valida, che può essere di qualche utilità per risolvere le loro perplessità quotidiane. Fondamentalmente, non si tratta di sapere come se la cavava Socrate, nell’Atene di venticinque secoli fa, per vivere meglio, ma di come noi, contemporanei di Internet, dell’AIDS e delle carte di credito, possiamo comprendere e utilizzare al meglio la nostra esistenza.8

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Potremmo quindi riassumere in questo modo: Socrate ha di mira il mi- glioramento del proprio interlocutore e per fare questo ritiene che sia neces- sario che egli si liberi