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2. Tempo e linguaggio

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Academic year: 2021

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2. Tempo e linguaggio

2.1. Il linguaggio della teologia

Rosenzweig rivaluta la teologia, al pari del processo condotto nella Parte Prima nei confronti della filosofia. Proprio fra loro cerca di far sussistere un ponte, perché, vedremo, il linguaggio teologico varca i limiti del linguaggio filosofico. Si supera così l’archetipa lotta che si è perpetrata nel corso della storia del pensiero per la supremazia dell’una sull’altra.

Nella Parte Prima della Stella Rosenzweig ha mostrato in che modo la vecchia filosofia sia giunta al termine: spintasi «alla conoscenza pensante del Tutto, […] non le rimane più nulla da comprendere»1. È necessaria non solo una nuova filosofia, ma anche un nuovo linguaggio che permetta di rivelare ciò che l’impostazione idealistica della filosofia, in quanto unidimensionale, non riesce ad esprimere. Dopo Hegel, infatti, per poter continuare a filosofare, era necessario un cambiamento: la filosofia diviene «concezione del mondo»2. Scardinando la pretesa onnicomprensiva della filosofia del Tutto, ora si viene a creare la filosofia del punto di vista: «in luogo del vecchio tipo di filosofo, professionalmente impersonale, il quale è soltanto un luogotenente stipendiato della storia della filosofia, naturalmente unidimensionale, ne entra ora in scena un tipo personale al massimo grado»3. È chiaro che entrambi gli approcci, tanto quello unidimensionale e totalizzante, che quello relativistico e personale, falliscono. Come conciliare allora il sé soggettivo e personale con l’obiettività della scienza? «Dove si trova il ponte che collega la soggettività più estrema, si potrebbe dire la ipseità cieca e sorda, con la chiarezza luminosa dell’obiettività infinita»4?

La risposta che Rosenzweig adduce a tali domande rimanda al concetto teologico di rivelazione: «l’uomo come colui che accoglie la rivelazione, come

1 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 106. 2 Ivi, p. 107.

3 Ibidem. 4 Ivi, p. 108.

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colui che esperisce il contenuto della fede, porta in sé l’uno e l’altro»5, l’obiettività e la ipseità. Dunque per liberarsi dalla filosofia che si esprime per aforismi, bisogna attingere alla teologia perché, a dispetto dell’ancillarità, «esse rimandano l’una all’altra e così generano insieme un nuovo tipo di filosofo o di teologo che si pone tra teologia e filosofia»6.

Bisogna però specificare di che tipo di teologia si sta parlando. Nell’introduzione alla Parte Seconda intitolata Sulla possibilità di esperire il miracolo, Rosenzweig mostra appunto una parabola del miracolo: inizialmente esso era «l’alleato più combattivo e fidato della teologia»7, mentre oggi non si può dire la stessa cosa. Infatti prima vi era una concezione del tutto diversa del miracolo inteso non come un’anomalia rispetto alle leggi della natura, ma come segno perché il miracolo veniva predetto8. La predizione ed il conseguente

adempimento formavano il vero carattere del miracolo, cioè il suo essere segno. Dunque la particolarità del miracolo sta nella sua capacità di gettare uno sguardo sul futuro, perciò «miracolo e profezia sono strettamente connessi»9.

Ma come potrebbe esistere una previsione del futuro se non ci fosse la provvidenza divina? La provvidenza cioè «il fatto che realmente non cade un capello del capo dell’uomo senza che Dio lo voglia, è il concetto di Dio che la rivelazione ci reca»10. Rosenzweig mostra come paradossalmente il miracolo così concepito comprova proprio ciò per cui oggi viene negato, ovvero la determinabilità delle leggi del mondo.

Il singolo miracolo, in quanto evento particolare, aveva però bisogno di essere testimoniato cioè attestato da coloro che vi avevano assistito. Dovremmo allora chiederci se basta semplicemente la parola del testimone per attestare un miracolo.

5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 95.

8 Nel versetto Es 7,8-9 viene esemplificata la visione del miracolo come predizione: Il signore disse a Mosè e ad Aronne: «Quando il faraone vi chiederà di fare un prodigio a vostro sostegno, tu dirai ad Aronne: “Prendi il tuo bastone e gettalo davanti al faraone e diventerà un serpente”». 9 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 97.

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Nell’interrogatorio sotto giuramento ha un peso sia la credibilità personale del testimone, che il numero di testimoni che affermano la veridicità del miracolo come accadde alla resurrezione di Cristo che raccolse oltre 600.000 testimoni oculari11. Molti di loro furono torturati e nonostante ciò continuarono ad affermare la testimonianza del miracolo del Sinai. Il testimone veridico è dunque colui che mantiene salda la propria testimonianza anche durante le più atroci torture, «così la dimostrazione più forte del miracolo consiste nel richiamarsi ai martiri, ed innanzitutto a quei martiri che ebbero a corroborare con il loro martirio una testimonianza oculare»12. In tal modo però la fede nel miracolo si trasforma «in una fede nel testimone»13: una fede storica.

Per tal motivo Rosenzweig indaga il rapporto tra fede e sapere delineando non uno, bensì vari tipi di illuminismi, ovvero i modi in cui in base alle epoche il sapere si è confrontato con la fede. Il primo è quello filosofico dell’antichità contro il mito pagano. Ad esso segue l’illuminismo del rinascimento «basato sulle scienze della natura. Esso combatte, alleato non richiesto della fede, la battaglia contro il sapere razionale della scolastica»14. Infine l’illuminismo propriamente detto, cioè quello settecentesco in cui «si cerca di dimostrare la non-credibilità della tradizione, l’insufficienza delle ragioni fin qui addotte a favore della sua credibilità»15. Rosenzweig cita Voltaire, Reimarus, Lessing e Gibbon16. In questo momento il miracolo è inserito in una zona d’ombra: non si afferma la sua credibilità, ma nemmeno si contesta in linea di principio la sua possibilità. Invece dalla fine del diciottesimo secolo fino agli inizi del diciannovesimo, si prende una precisa posizione in merito: si afferma in modo inequivocabile «l’interpretazione liquidatoria razionalistica del miracolo»17. Non a caso l’illuminismo propriamente

11 Ivi, p. 99. 12 Ibidem.

13 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 97. 14 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 100. 15 Ivi, p. 101.

16 Stupisce l’assenza di Spinoza. Per approfondimenti A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 126, nota 3.

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detto «può essere definito il processo di totale razionalizzazione del reale esteso sino allo stesso problema teologico»18. L’illuminismo ottocentesco rende «inattendibile la testimonianza oculare del miracolo e perciò il miracolo stesso come fatto storico»19. Tale presa di posizione mette in gioco anche la fede perché, venuto meno il miracolo, essa ha ora bisogno di un altro sostegno e incredibilmente questo gli viene fornito proprio da tale illuminismo nel concetto di “progresso”. In tal modo la fede compie una vera e propria svolta legando «saldamente l’istante dell’irruzione intima della grazia alla fiducia nel suo futuro ripercuotersi sulla vita»20. Anche la fede adesso è tesa tra passato e futuro. Se in Lutero vi era in nuce questo nuovo senso di fede, in realtà è con Schleiermacher che giunge al culmine: «questo sistema che nega il valore durevole del passato, e che àncora la viva esperienza, sempre attuale, del sentimento di fede al futuro eterno del mondo morale, ha trovato in Schleiermacher il suo esponente classico»21. La teologia liberale è alla ricerca dell’essenza della religione cristiana che, come un diamante racchiuso nella pietra, rappresenta il suo nucleo fondamentale, l’imperituro da mantenere rispetto al contingente. Questo nucleo nella teologia liberale è assegnato all’etica. Analogamente alla ricerca dell’essenza in ambito filosofico, Rosenzweig non può che criticare l’approccio della teologia liberale: assegnando l’essenza della religione cristiana all’etica, dunque al comportamento umano, inevitabilmente perde il contatto con Dio. Il tentativo di Schleiermacher per quanto criticato, è diventato in ogni caso il modello con il quale l’intera teologia cristiana si è poi dovuta confrontare. Rosenzweig ha di mira anche la ricerca dell’essenza in ambito ebraico, in particolare il bersaglio polemico è Leo Baeck che nonostante risponda a Harnack proponendo un dialogo tra ebraismo e cristianesimo, egli comunque assegna all’essenza dell’ebraismo una prospettiva etica22. L’esito paradossale di questa

18 Subilia, V., Il protestantesimo moderno tra Schleiermacher e Barth, Claudiana, Torino, 1981, p. 9.

19 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 101. 20 Ivi, p. 102.

21 Ivi, pp. 102-103.

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impostazione teologica è la perdita di Dio: «l’atteggiamento di fede dell’uomo nei confronti del contenuto della fede stessa diviene spiegabile, e spiegabile in modo “puramente umano”»23.

L’obiettivo di «buttare a mare il passato oberato dai miracoli»24 per sostituirlo con i comportamenti etici radicati nell’esperienza vissuta non si può realizzare, perciò la teologia non potendosi liberare dal passato, cerca quanto meno di fare in modo che «non fosse di peso alla fede»25. Come raggiungere questo obiettivo? La soluzione della teologia liberale è quella di far assumere al passato i tratti del presente, detto altrimenti: «il passato dell’azione di Dio viene paradossalmente neutralizzato nel presente dell’esperienza vissuta»26. Il problema della teologia diviene il rapporto tra fede e sapere «poiché, alla fin fine, è l’obiettività del sapere ciò che si cela dietro al concetto di passato»27. Per tal motivo negando il passato si nega al contempo l’obiettività del sapere rendendo la fede «totalmente indipendente»28 rispetto ad esso. In ogni caso anche questa impostazione è destinata al fallimento: perché «nella misura in cui àncora la fede unicamente al presente soggettivo dell’Erlebnis […] trascura perciò, “in tutto il peso della sua oggettività” e del suo carattere fattuale, il presupposto del Dio creatore»29. Inoltre se si raggiunge tale indipendenza della fede rispetto al sapere, si nega di conseguenza anche il suo valore scientifico con il risultato che «oggi nessuno può aver più fiducia in lei»30.

Dunque l’esergo «in theologos!» che si legge nella Parte Seconda della Stella è un preciso bersaglio polemico: la teologia che paradossalmente perde di vista Dio.

23 F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 235.

24 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 103. 25 Ibidem.

26 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 97. 27 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 104. 28 Ibidem.

29 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 97. 30 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 104.

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Analogamente alla critica alla filosofia, Rosenzweig non intende rigettare la teologia tout court, ma solo quella che diventa paradossalmente atea.

Emerge una simultaneità singolare tra teologia e filosofia:

Nello stesso momento storico, da un lato la filosofia si vide in un punto in cui non le restava più alcuna possibilità di fare anche solo un passo avanti, anzi, dove ogni tentativo di procedere oltre poteva solo voler dire precipitare nell’abisso, e la teologia, per parte sua, si sentì improvvisamente defraudata del sostegno che fino a quel momento aveva avuto più saldo, il miracolo31.

Questa simultaneità mostra «l’infondatezza della diffidenza reciproca»32 e dunque smonta la separazione tra teologia e filosofia tipica della scuola di Ritschl. Quest’ultima trascura la creazione e pone troppo in risalto la rivelazione in quanto esperienza vissuta. Di contro Rosenzweig delinea il compito di ristabilire il ruolo della creazione. Appunto è la creazione «il punto a partire dal quale la filosofia può riedificare di bel nuovo l’intero edificio della teologia»33, essa è «il portale attraverso il quale la filosofia entra nella casa della teologia»34.

La creazione mostra bene il nesso tra sapere e passato: mentre la teologia liberale, come si è visto, non consentiva al sapere «di essere immutabile come lo è appunto il passato»35 perché esigeva che esso guardasse all’esperienza vissuta del presente; Rosenzweig propone invece di edificare «il sapere sopra il concetto di creazione»36, ovvero fare «della fede in tutto e per tutto il contenuto del sapere»37. Da questo punto di vista quindi la fede non è più contrapposta al sapere, non è, né può essere, una credenza priva di razionalità che esiste solo oltre la soglia della

31 Ivi, p. 106. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 105. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37 Ibidem.

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ragione. Nell’ambito della Stella, la fede è il contenuto del sapere perché anch’esso è fiducia, è atteggiamento relazionale e quindi pratico.

Per ristabilire il ruolo della creazione, la teologia ha bisogno della filosofia che diventa sibilla, profezia: essa è il ponte che dalla creazione conduce alla rivelazione e poi dalla rivelazione alla redenzione. La filosofia è ponte perché «contiene l’intero contenuto della rivelazione, ma lo contiene non già come rivelazione, bensì come una condizione preliminare alla rivelazione, come un “prima” della rivelazione, dunque non come un contenuto rivelato, ma creato»38. Proprio per questa condizione preliminare, la filosofia è profezia perché nella creazione è già prevista la rivelazione e quindi anche la redenzione. È per questo che la rivelazione assume il carattere di vero e proprio miracolo: è «l’adempimento della promessa profetica avvenuta nella creazione»39 e la filosofia in quanto sibilla, rende tale miracolo un segno.

Filosofia e teologia devono necessariamente dialogare perché l’una ha dunque bisogno dell’altra. Non si tratta tanto di sottolineare una specie di nuova disciplina, la teosofia, come Rosenzweig la chiama (non senza essere contrariato) nella Cellula originaria40, ma di sottolineare l’importanza del dialogo tra le due per dare ragione dei rapporti, delle relazioni che esistono tra Dio, mondo e uomo.

Emerge però una differenza considerevole tra le due parti della Stella:

Nella parte prima […] le questioni teologiche relative all’essenza e alla potenza di Dio erano affrontate in un’ottica di teologia filosofica – all’interno della quale era la filosofia, pur nella nuova configurazione antihegeliana, a costituire l’orizzonte dell’indagine intrapresa –, nella seconda parte dell’opera l’impostazione dominante diviene prettamente teologica, e la filosofia può contribuire ad una ridefinizione del concetto di teologia solo accettandone gli assunti di base41.

38 Ivi, p. 110. 39 Ibidem.

40 F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 255.

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È infatti l’uomo che accoglie la rivelazione «l’unico possibile soggetto filosofante della nuova filosofia»42, ciò perché secondo Rosenzweig senza la rivelazione la filosofia non sarebbe in grado di dare ragione della relazione, ma solo dei concetti, rimanendo dunque ancorata all’essenza. È invece una filosofia narrante quella che Rosenzweig cerca di delineare sulla scia dei Weltalter di Schelling43, in cui si narra «com’è “propriamente” stato, ma com’è realmente andata»44. Ed è per la decisione di basarsi sulla realtà e non sull’essenza che il nuovo pensiero deve inevitabilmente riconsiderare il linguaggio: esso non s’incentra più sui sostantivi che fissano ed indicano appunto la sostanza, ma sui verbi, parti della frase che si radicano nel tempo. Essi sono Zeit-wort.

Mentre «l’essenza non vuole saperne del tempo»45, la realtà invece non può essere separata dalla temporalità: «conoscere Dio, mondo e uomo significa conoscere che cosa essi fanno o cosa accade loro in questi tempi della realtà. Fanno l’uno all’altro o accade di uno rispetto agli altri»46. È per questo che l’indagine si sposta sulle relazioni che intercorrono tra loro: «la rivelazione, proprio perché nel sapere è fondata sulla creazione e nel volere è diretta alla redenzione, è al tempo stesso rivelazione della creazione e della redenzione»47, in tal modo creazione, rivelazione e redenzione sono colti «come evento [Ereignis] (cioè non come vita, ma come esperienza di vita [Erlebnis])»48.

Rosenzweig nell’Introduzione alla Parte Seconda assegna al linguaggio il ruolo di organon della rivelazione, esso è «il filo sul quale si allinea tutto l’umano che avanza sotto lo splendore miracoloso della rivelazione e della sua, sempre

42 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 108.

43 F. W. J. Schelling, Le età del mondo, tr. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli, 1991. Per un approfondimento sulla presenza di Schelling nel pensiero di Rosenzweig, si veda anche: C. Belloni, La presenza di Schelling negli scritti di Rosenzweig attraverso i testi citati esplicitamente, in «Annuario Filosofico», XVIII (2000) pp. 275-310.

44 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 53. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 267. 45 Ivi, p. 54. Cfr. anche Ivi, p. 268.

46 Ivi, p. 56. Cfr. anche Ivi, p. 269.

47 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 113. 48 Ivi, p. 110.

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rinnovata, attualità di esperienza vissuta (Erlebnis)»49. Vedremo più specificatamente che non si tratta più del linguaggio muto degli elementi matematici, «linguaggio antecedente al linguaggio»50 utilizzato nella Parte Prima. Il linguaggio matematico ha infatti dei precisi limiti che non varcano la soglia del mondo reale: essa rimane la scienza del pre-mondo, mondo che antecede il mondo. Nel mondo reale il linguaggio da bisbiglio non udibile, pensiero che non si fa parola, deve divenire parola udibile, suono vivo, ed è per questo che Rosenzweig utilizza la grammatica. Infatti si comprende solo ora il vero ruolo delle parole originarie che Rosenzweig aveva descritto nella Parte Prima: esse sono come oscuri fondamenti delle parole vere, da parole inudibili solo nella lingua viva e reale diventano udibili:

Quel linguaggio della logica è la profezia di una lingua reale della grammatica; il pensiero è muto in ogni singolo preso a sé solo, e tuttavia comune a tutti; da questa comunanza esso fonda la comunanza reale del parlare: ciò che nel pensiero era muto diviene sonoro nel parlare, ma il pensare non è parlare, […] bensì un parlare che precede il parlare, il segreto fondamento del parlare. Le sue “parole originarie” non sono parole reali, bensì profetiche promesse della parola reale51.

Chiarito il ruolo delle parole originarie come fondamento sotteso al linguaggio reale, diventa ora anche chiaro il passaggio dal concetto all’esperienza sulla base della parola perché «parlare è legato al tempo»52 dunque: «la logica matematica e il muto linguaggio della filosofia del nulla trovano il loro completamento nella logica grammaticale e nella parola reale, viva e sonora, che sole sono in grado di rendere ragione delle relazioni poste nel tempo, ovvero, meglio, che fanno accadere nel tempo»53. Il ruolo del tempo è dunque fondamentale perché non solo

49 Ivi, p. 113. 50 Ivi, p. 111. 51 Ivi, pp. 111-112.

52 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 57. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 271. 53 L. Bertolino, Il nulla e la filosofia, cit., p. 150.

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il parlare, ma tutto ciò che appartiene all’ambito della realtà è legato alla sfera della temporalità.

Bisogna ora capire come avviene il passaggio dalla chiusura dei tre elementi in un pre-mondo perenne, all’apertura di una dimensione relazionale che si radica nel tempo in un mondo incessantemente rinnovato. Infatti nella Parte Prima della Stella, Rosenzweig aveva mostrato i tre elementi chiusi ed isolati e quindi inconoscibili a livello concettuale: «Dio stesso, se vogliamo afferrarlo concettualmente, si cela; l’uomo, il nostro sé, si chiude; il mondo diviene un evidente enigma»54. Ora, nella Parte Seconda, viene mostrato invece il percorso che dal concetto conduce alla realtà vissuta ovvero il modo in cui Dio, mondo e uomo entrano in relazione tra loro. Si gettano dunque dei ponti «e tutte le nostre esperienze sono esperienze di questi ponti gettati […]. Soltanto nelle loro relazioni, nella creazione, nella rivelazione, nella redenzione essi si dischiudono»55.

2.2. Il passato della creazione

La creazione riguarda specificatamente il rapporto tra Dio, creatore, e mondo, creatura: «Der Anfang ist: Gott schuf»56. Rosenzweig sul calco di Genesi 1,1 designa la creazione come l’inizio. Al contrario della Parte Prima in cui la vitalità di Dio rappresentava la fine ovvero l’arrivo al Dio meta-fisico, nella Parte Seconda la vitalità «si inverte in un inizio»57. È appunto una vera e propria

54 F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, cit., p. 56. Cfr. anche F. Rosenzweig, La Scrittura, cit., p. 270. 55 Ibidem.

56 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 115. Nel progetto iniziale di traduzione della bibbia in tedesco, Rosenzweig più di Buber sembra essere convinto della necessità di un confronto con la tradizionale traduzione luterana. È proprio l’analisi di Genesi 1 che però fa cambiare idea ai due, i quali si resero ben presto conto di quanto la traduzione di Lutero fosse improntata sul cristianesimo. Per tal motivo occorre sottolineare brevemente che proprio «in principio» di Gn 1,1 è tradotto da Rosenzweig e Buber con «Im Anfange» al pari di Mendelssohn, e non «Am Anfang» come nella versione luterana. Per approfondimenti rimando a: M., De Villa,

Una Bibbia tedesca. La traduzione di Martin Buber e Franz Rosenzweig, Cafoscarina, Venezia,

2012. 57 Ibidem.

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inversione (Umkehr, Umkehrung, Verkehrung)58 che Rosenzweig compie sulla base del capovolgimento delle due parole originarie: «ciò che sfociava come “sì”, scaturisce come “no”, e viceversa, proprio come si possono estrarre le cose contenute in un baule nell’ordine inverso a quello in cui sono state riposte»59. La negazione del nulla, il “no” originario, diventa qui il “sì” dell’affermazione del mondo, cioè la creazione; l’affermazione di ciò che nulla non è, quindi il “sì” dell’essenza divina, diventa qui il “no” perché Dio si manifesta. Dunque è l’inversione, compiutasi all’interno della fattualità di Dio, che dischiude la possibilità della creazione60. Le cose in un baule si possono estrarre solo in modo inverso rispetto a come sono state riposte, per questo Dio nell’esternarsi diventa figura visibile. La potenza, «che proveniva dalla libertà divina, ossia dal suo “no” originario»61, diviene ora “sì”, attributo, anzi unico attributo, non «più singolo atto, non più arbitrio, ma essenza. Dio creatore è essenzialmente potente»62.

Ponendo la potenza come attributo, si risolve il problema insito nell’idea di creazione tra onniscienza e onnipotenza di Dio: come può Dio essere onnipotente se la sua sapienza lo limita nel fare ciò che vuole? Secondo Rosenzweig chi si pone tale domanda concepisce erroneamente la potenza come atto. Il problema viene invece risolto nella formula: «il creatore può tutto ciò che vuole, ma vuole soltanto ciò che deve, per sua essenza, volere»63. Per eliminare il contrasto tra

58 L’inversione riguarda l’intera Parte Prima della Stella, ma non rappresenta il passaggio ad uno stadio ulteriore: l’orizzonte precedente non viene decisamente superato. È stata rinvenuta una parentela strutturale con la Umkehrung des Bewußtseins selbst dell’Einleitung alla

Fenomenologia di Hegel, ma il concetto di Umkehrung a differenza dell’Aufhebung, «implica il

mantenimento di un rapporto sullo stesso piano con le relazioni interne a Dio, mondo e uomo che subiscono l’inversione». Si veda A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 127, nota 13. Va inoltre sottolineato che «il vocabolo “Umkehr” abbraccia anche il significato della parola ebraica teschuvah, vale a dire il “ritorno” a Dio attraverso il “pentimento”. Pertanto, quando, con riferimento all’uomo, il termine “innere Umkehr” si presenta con questa doppia valenza spaziale e spirituale, Bonola ricorre, in maniera felice, alla traduzione “conversione interiore”». (L. Bertolino, Il nulla e la filosofia, cit., p. 159, nota 41)

59 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 115. 60 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 101. 61 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 116. 62 Ibidem.

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sapere e onnipotenza, Dio è concepito sì come onnipotente, ma tale potenza è non più atto, bensì attributo e al tempo stesso essa rappresenta anche la sapienza di Dio cioè il suo «esser-avviluppato in una necessità interna»64. In tal modo Rosenzweig risolve un altro problema legato alla creazione: Dio crea ad arbitrio o a necessità? Se da una parte Dio non può essere concepito come un creatore capriccioso che arbitrariamente crea o distrugge in base al proprio cangiante volere, dall’altra Dio non può creare solo per necessità, egli non è un «artefice dei mondi»65 né crea come atto d’amore. Tutte queste visioni sono da rigettare. La soluzione che Rosenzweig delinea consiste nel tornare all’arbitrio non come atto creativo, ma come origine della potenza creatrice, evento, fiamma che arde «incessantemente rinnovata nel petto di Dio prima della creazione»66. L’arbitrio allora da incondizionato diventa «potenza feconda di opere»67, l’oscura profezia si fa adempimento: se Dio rimane “nascosto”, può «anche esimersi dal creare […] ma come Dio “manifesto” egli non può altro che creare»68.

Per quanto riguarda la creatura, ovvero il mondo, nella Parte Prima il risultato era un mondo cieco, sordo e fondato in se stesso e su se stesso: il mondo meta-logico. Questo risultato diviene nella Parte Seconda l’inizio: «solo l’idea di creazione strappa il mondo dalla sua chiusura e dalla sua immobilità di elemento e lo immette nella corrente del Tutto, apre verso l’esterno i suoi occhi prima rivolti all’interno, rende manifesto il suo mistero»69. Sembra paradossale che il mondo viene creato dopo essere sorto dal nulla come figura, in realtà questa paradossalità viene meno se si comprende che l’affermazione «Dio creò il mondo» riguarda solo la relazione Dio-mondo, e non la relazione contraria, cioè mondo-Dio. Il verbo al passato indica infatti l’una-volta-per-tutte della creazione di Dio, ma dalla parte del mondo esso non è creato una volta per tutte: «ciò che per Dio è passato, passato immemorabile, ossia realmente “in principio”, per il mondo può

64 Ibidem.

65 Ibidem. Il riferimento esplicito è a Schiller. 66 Ivi, p. 119.

67 Ibidem. 68 Ibidem. 69 Ivi, p. 122.

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essere senz’altro ancora presente»70. Il mondo diviene creatura, un continuo «erompere della coscienza della sua creaturalità, del suo venir-creato»71. Questo suo venir-creato, e non esser-stato-creato, dal punto di vista del mondo dunque è un rivelarsi della propria creaturalità, cioè la presa di coscienza da parte del mondo di esser-creatura, è al contempo un venir-creato che perennemente si rinnova. Se nella Parte Prima «la durevole essenza del mondo configurato era l’universale, più esattamente la specie, la quale contiene in sé, sia pure in modo universale, l’individuo, anzi di continuo lo genera dal proprio seno»72; nella Parte

Seconda avviene un’ulteriore inversione: «nel mondo che si rivela come creatura quest’essenza durevole viene capovolta in una essenza istantanea, “sempre rinnovata” e tuttavia universale»73. Dunque l’essenza del mondo creaturale non è più sempre e dovunque perdurante, ma «nasce nuova ogni istante, con l’intero contenuto del particolare che essa include in sé»74. Proprio per tal motivo Rosenzweig la designa come esserci (Dasein), «un’essenza in-essenziale»75, contrapposto all’essere perché quest’ultimo è statico, semplice fattualità, mentre l’esserci è universale ripieno di particolare «affetto dal bisogno di essere»: influenzato dal particolare, «deve incessantemente divenire nuovo per conservare la propria esistenza»76. Dunque l’esserci aspira all’essere assoluto ed universale, ma non può mai raggiungerlo perché per quanto compatto ed universale, esso include ogni particolarità, per tal motivo l’essere gli è ormai alle spalle, lo possedeva prima di divenire creatura «nell’apparenza priva di essenza del pre-mondo»77. 70 Ivi, p. 123. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 124. 73 Ibidem. 74 Ibidem. 75 Ibidem. 76 Ibidem. 77 Ibidem.

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La coscienza del venir creato del mondo «si oggettiva nell’idea della provvidenza divina»78 la quale pur essendo rivolta all’universale (come mostra Rosenzweig citando il versetto biblico «a ciascuno secondo la sua specie»79) riesce ad afferrare anche le singole cose80:

La propensione divina sull’esserci non avviene nella creazione che ha avuto luogo una volta per tutte, bensì momento per momento, come una provvidenza che è certamente universale, ma in ogni minimo istante particolare si rinnova per l’intero esserci, cosicché Dio “giorno dopo giorno rinnova l’opera dell’inizio”. Questa provvidenza di ogni mattina è quindi ciò cui propriamente allude l’idea di creatura81.

La creazione è dunque evento che grazie alla provvidenza si rinnova, ma è anche profezia che rinvia al compimento del miracolo della rivelazione. La provvidenza ha dunque un ruolo decisivo: «è l’adempimento di quanto era disposto essenzialmente nella creazione»82, essa rinsalda anche il rapporto tra Dio ed il mondo e tra Dio e l’uomo. In definitiva la relazione tra Dio e mondo è reciprocamente attiva e passiva: «Dio che chiama all’esserci il mondo con la sapienza della sua potenza creatrice; il mondo che, tramite il suo esserci, si rivela nella sua creaturalità di fronte alla provvidenza di Dio»83.

Il capovolgimento che Rosenzweig compie dalla Parte Prima alla Seconda si esplica anche nell’abbandono della matematica: la scienza che era stata fondamentale nel passaggio dal nulla al qualcosa è ormai incapace di esprimere l’inversione delle parole originarie, proprio perché non sono più pure, appunto originarie, ma «hanno già sperimentato la loro reciproca, scambievole

78 Ivi, p. 123. 79 Gn 1,11.

80 In questo caso il riferimento esplicito è a Maimonide. 81 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 125. 82 Ivi, p. 126.

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influenza»84. Il particolare stesso è «il singolo in quanto esponente della sua specie»85 perciò le lettere algebriche non danno più ragione di questa sua singolarità. Rosenzweig afferma che per l’inversione si potrebbero utilizzare i simboli geometrici, strada che però decide di non intraprendere sia perché ciò comporterebbe una previa anticipazione della figura, cioè della stella di David che può essere svelata solo successivamente, sia perché in fin dei conti anche svelandola la geometria non rende conto di ciò che realmente essa rappresenta: essa non è una mera figura geometrica [Figur], ma una vera e propria figura [Gestalt]86.

Rosenzweig preferisce utilizzare la grammatica: «scienza di suoni vivi»87. Essa infatti permette di dar conto della realtà delle parole che dunque da originarie e mute diventano udibili, diventano parole-matrici [Stammworte]. La grammatica si sottrae ad una rappresentazione genealogica, la forma che qui si esige è invece sinottica, ovvero un ordine proveniente dall’esterno cioè «dal ruolo che il linguaggio riveste nei confronti della realtà»88. Detto altrimenti, la forma sinottica permette alle parole-matrici di avere un significato univoco una volta che esse si siano unite nella proposizione, che in questo caso diventa proposizione-matrice, «poiché non le parole, ma la proposizione è il linguaggio»89. Con “parola-matrice” però Rosenzweig non intende ad esempio la parola “cane”: essa può essere sia soggetto che oggetto in una proposizione. Piuttosto Rosenzweig è alla ricerca della «parola-matrice che conduce dal “sì” originario inudibile, alla realtà udibile del linguaggio; innanzitutto a partire dal “sì” originario perché qui noi ci troviamo nell’ambito della creazione, la quale, in quanto movimento di Dio verso il mondo è caratterizzata dal modo dell’attività divina, non già da quello della passività del mondo, e quindi dal “sì”»90.

84 Ivi, p. 128. 85 Ibidem. 86 Ivi, p. 265. 87 Ivi, p. 129. 88 Ivi, p. 130. 89 Ibidem. 90 Ibidem.

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Il “sì” non può essere rappresentato da un sostantivo perché esso «necessita della determinazione del suo “come” e senza questa è amorfa “cosa in sé”»91. Il “sì” infatti libera un consenso, un “così” che è proprio la risposta alla domanda circa il “come”. Tale domanda vuole in risposta un aggettivo che esprime «solo asserzione e null’altro che questo»92. In particolare è l’aggettivo che esprime qualità (l’aggettivo “buono!”) che «a differenza di sostantivo e verbo, è correttamente l’espressione per il libero esser-così»93. È una qualità che esprime semplice qualità perché comparativo e superlativo scaturiscono solo in seguito, una volta che «la qualità sia divenuta qualità di una cosa»94. A questo punto subentra il pronome («assai più pre-nome che pro-nome»95) che non indica la “cosa” in quanto conosciuta, ma come «percepita soltanto nelle sue qualità»96.

La “cosa” va dunque ancora cercata: mentre l’articolo indeterminativo indica che questa “cosa” è esponente di una specie; è solo con l’articolo determinativo che dichiara ufficialmente conosciuta “la cosa”, ovvero è ora conosciuta come singola cosa. Il processo però non è ancora finito perché «la cosa non è individuo»97 e anche se l’articolo indeterminativo aveva mostrato l’appartenenza alla specie ora si deve affermare con più forza il suo essere membro di una pluralità: «solo la molteplicità dà a tutti i suoi esponenti il diritto di sentirsi come individui, come singolarità; essi lo sono non già in sé, come l’individuo singolo destinato dal nome proprio, bensì in rapporto alla molteplicità»98. Forse si può intravedere qui una anticipazione di quello che sarà il ruolo della comunità nel prosieguo della Stella.

91 Ibidem. 92 Ibidem. 93 Ivi, p. 131. 94 Ibidem. 95 Ivi, p. 132. 96 Ibidem. 97 Ibidem. 98 Ibidem.

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Ora la singola cosa può a tutti gli effetti essere designata come oggetto, anzi diventa complemento oggetto nella frase e da qui si muove attraverso gli altri casi. Il dativo tra tutti sembra avere una posizione di particolare rilievo: esso «è il caso che lega, che connette»99 soggetto e oggetto.

Arrivato a questo punto Rosenzweig esamina un altro processo: «dopo che il mondo, apparsoci all’inizio pura qualità, un caos di qualità, si è riempito di cose ed è quindi divenuto oggetto, noi ci rivolgiamo di nuovo all’inizio, alla qualità. Noi finora avevamo sviluppato il suo esser-affermato solo nella direzione del suo “come”. Ma nel “sì” non si cela soltanto il “così” bensì anche il “che”»100. Infatti nella qualità è già implicita la copula (“è buono!”) che, in quanto legame, permette «di superare l’equiparazione sin qui rigidamente mantenuta tra l’oggetto e la cosa»101. Poiché le cose sono soggette al movimento, e quindi al tempo, il legame «sta a metà strada tra aggettivo e verbo, quindi tra cosa e accadere»102, perciò Rosenzweig in prima battuta sceglie la forma verbale del participio. Esamina però anche gli altri tempi verbali al fine di mostrare come, nel processo di specificazione, il verbo assume prima la forma della terza persona e quindi la sua oggettività con l’indicativo posto in simmetria con l’articolo determinativo. Analogamente al processo precedente però anche qui non basta: è la forma del passato che «compie l’oggettività dell’accadere»103.

Con queste articolazioni Rosenzweig vuole mostrare come la grammatica in realtà sottenda la logica della creazione: «il mondo, sulla base della sua creaturalità, sulla base del suo sempre-nuovo poter-esser-creato è già fatto; Dio, sulla base della sua eterna potenza creatrice, lo ha già creato e solo per questo esso è “qui” e si rinnova ogni mattina»104. È dunque chiaro perché il processo culmina con la forma verbale del passato: la conoscenza può avvenire soltanto su qualcosa già accaduta e il narrare può avvenire soltanto su un fatto già successo, come

99 Ivi, p. 241. 100 Ivi, p. 133. 101 Ibidem. 102 Ibidem. 103 Ivi, p. 135. 104 Ibidem.

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accade con la creazione. Infatti Rosenzweig riprende Genesi 1,1: «Dio creò il cielo e la terra» e da qui interpreta il libro della Genesi trovando la «conferma della successione delle forme linguistiche da lui descritte, della funzione oggettivante della parola di Dio e dal fatto che, per il creatore, dire è agire, erompere dalla muta qualità della propria autoaffermazione»105.

Proprio il riferimento al passato era ciò che mancava al mondo meta-logico e di conseguenza esso veniva a collocarsi in un imprecisato qualche parte. Il mondo come creatura è «un reale esserci, creazione creata»106, che, a dispetto della sua unità, consta di una molteplicità di cose: infatti ogni cosa è una singolarità solo perché inserita in connessione spazio-tempo con altre cose, la cosa è soltanto nelle sue relazioni. Perciò Rosenzweig mostra una singolare unione di particolarità ed universalità: la cosa è singolarità, ma tale singolarità o individualità non esisterebbe se non fosse in relazione con le altre cose. Da sola non ha consistenza. Ma per appartenere alla relazione e dunque alla specie essa deve essere qualcosa, cioè deve essere ostensibile in senso spaziale. Lo spazio però «non è il primogenito della creazione»107, esso in quanto “qui” è preceduto dalla determinazione dello stesso “qui” vale a dire “questo”: “questo qui”. Per tal motivo «il mondo è l’abbondanza del “questo” la quale, nella sua continua spumeggiante novità è espressa soltanto mediante il puro, informe aggettivo»108. È dunque l’abbondanza il primogenito della creazione il cui esserci si rinnova continuamente, ma appunto primogenito e non prima di essa. Rosenzweig può così riaffermare: «l’inizio è “in principio”»109.

La creazione così posta dà un’idea di Dio come semplice creatore. Ma Dio è molto più di questo: «è anche Colui che rivela»110, per questo dev’essere di-mostrato. Riemerge la vena polemica di Rosenzweig nei confronti di coloro che assumono l’idea di creazione dal punto di vista scientifico: non è soltanto perché

105 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 116. 106 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 137. 107 Ibidem.

108 Ibidem. 109 Ivi, p. 138. 110 Ibidem.

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il mondo c’è che si può allora desumere la creazione. Perché come si è detto precedentemente la creazione è «profezia che viene confermata soltanto dal segno miracoloso della rivelazione»111 e perciò l’uomo che non accoglie la rivelazione, che non è stato raggiunto dalla sua voce, non può parlare di creazione.

La creazione soddisfa la necessità di trovare un punto stabile a partire dal quale la molteplicità si ordina in unità, ma questa unità non è un Tutto. Emerge un’ulteriore critica che Rosenzweig esplica nei confronti della filosofia idealista perché aveva rimpiazzato la creazione con il concetto di produzione. Entrambe puntano allo stesso risultato, ma con una differenza: mentre la creazione soddisfa appieno tale necessità facendo sì che creatore e creatura non si confondano e nello stesso tempo ponendo tra loro un punto di connessione, cioè «che il creatore ha creato e il mondo, in quanto creatura, preme verso il suo venir-creato»112; l’idea di produzione «ritiene di dover istituire, tra il punto di unità e la realtà da unificare, una connessione coglibile razionalmente, e di essere in grado di farlo»113. Detto altrimenti, l’idea di produzione o anche quella precedente storicamente di emanazione, presuppongono una proporzionalità tra produttore e prodotto. Rosenzweig si chiede anche se la sostituzione del Dio creatore in dio producente possa effettivamente soddisfare la ragione stessa che ha posto tale sostituzione. In questo quadro non solo il mondo, ma anche Dio doveva essere conosciuto. Per tal motivo l’idealismo assegna l’origine di entrambi al sé, il soggetto, che diventa l’origine della conoscenza: «l’ “io”, il “soggetto”, l’ “appercezione trascendentale”, lo “spirito”, l’ “idea”, tutti questi sono nomi che il “sé”, il solo elemento ancora disponibile al di fuori di mondo e Dio, assume dopo essersi risolto a prendere il posto del producente»114. Una volta che il mondo è divenuto comparabile, il soggetto può produrlo: «il mondo è suo pari»115. Si avvia un processo discendente di produzione che porta l’io ad afferrare il non-io: infatti per l’idealismo «l’intero mondo delle cose come oggetto del conoscere si estende tra

111 Ibidem. 112 Ivi, p. 139. 113 Ibidem. 114 Ivi, p. 141. 115 Ibidem.

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questi due poli»116 cioè l’io-in-sé e la cosa-in-sé. Il concetto di dedizione chiude infine il cerchio dell’idealismo. Tale concetto è il corrispettivo di quello di produzione perché se quest’ultimo, abbiamo visto, è la via verso il basso che dall’universale conduce al particolare, la dedizione è la via contraria che va verso l’alto, cioè che dal particolare conduce all’universale. Questa via parte dall’ethos dell’Io, massima della sua volontà, e conduce al principio di una legislazione universale, e poi una volta assunto il principio a massima, di nuovo la dedizione deve rimettersi alla prova diventando principio di una legislazione universale e così via inglobando universalità sempre più ampie. La produzione dunque ha come presupposto la particolarità, al contrario la dedizione ha l’universalità. Entrambe sono alla ricerca della purezza nel senso che la prima «non vuole essere legata ad alcuna materia estranea, mentre la dedizione non vuole essere sottoposta ad alcuna legge estranea […]; là come qui deve essere “salvata la libertà”»117. La conseguenza è che, anziché essere salvata, la libertà nel primo caso «defluisce nell’oscuro grembo della materia infima, nell’altro caso, nella dedizione, essa si smorza entro all’abbacinante raggio della legge suprema»118. È chiaro dunque che in entrambi i casi si sfocia in qualcosa di indefinito, di sconosciuto. Chi è allora Dio in questo quadro? «Dio è divenuto oggetto, oggetto assoluto, non però del conoscere, bensì del volere»119. L’idealismo lo chiama Spirito Assoluto, esso però non è altro che a sua volta un indefinito, un illud, poiché «l’oggetto rimane oggetto anche dopo essere divenuto Dio»120. In questo senso allora «Dio come Spirito non è altro che il soggetto della conoscenza, l’ “io”. Ed ora diviene chiaro il senso ultimo dell’idealismo: la ragione ha vinto, la fine risale all’inizio, l’oggetto supremo del pensiero è il pensiero stesso, non c’è nulla di inaccessibile alla ragione; l’irrazionale stesso è soltanto il suo limite, non un aldilà»121.

116 Ivi, p. 144. 117 Ivi, p. 146. 118 Ibidem. 119 Ivi, p. 148. 120 Ibidem. 121 Ibidem.

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Dunque ancora una volta la critica si rivolge al fatto che l’idealismo pone un rapporto razionale tra mondo e sapere, soggetto e oggetto: «Dio e uomo si sono volatilizzati nel concetto limite di un soggetto della conoscenza; mondo e uomo, d’altro lato, nel concetto limite di un puro e semplice oggetto di questo soggetto»122. Le fattualità originarie sono così annichilite nel vortice dell’universale, del Tutto. Proprio in quanto sistema razionale non stupisce che esso sia ancora legato ai simboli matematici, perché «il mondo idealistico non è creato dalla parola, bensì dal pensiero»123. Al contrario Rosenzweig propone una grammatica del logos, cioè del linguaggio della conoscenza, grazie ad una caratteristica del linguaggio a cui la logica non arriva: «la sua ovvia comprensibilità, per cui esso è sì radicato con le parole originarie nei fondamenti sotterranei dell’essere, ma già con le parole-matrici germoglia alla luce della vita di superficie»124. Dunque i simboli algebrici vengono superati, gli elementi non sono considerati più interi-terminati, ma nella creazione, con cui l’idealismo si è messo in competizione e ha fallito, essi escono fuori di sé si allontanano e si scompongono nei loro singoli pezzi. Viene dunque salvaguardata la loro fattualità del pre-mondo a partire dalla quale essi possono dischiudersi:

Detto in termini meno formali: noi sviluppiamo l’idea di creazione alla luce della rivelazione; gli elementi del Tutto antecedentemente alla rivelazione non possono fare il loro comune ingresso nella creazione così come sono, bensì devono aprirsi, disfarsi della loro chiusura e rivolgersi l’uno all’altro; in questo rivolgersi-l’uno-all’altro, tuttavia, avviene che in un singolo concetto, com’è il concetto di creazione preso di per sé, non possa raccogliersi tutto quanto il contenuto di quegli elementi; l’uno e l’altro elemento, nel loro balzar fuori tengono in serbo altri contenuti che possono entrare in azione soltanto in altre direzioni, come per Dio il suo rivelarsi e per il mondo il suo venir-redento125.

122 Ibidem. 123 Ivi, p. 145. 124 Ivi, p. 149. 125 Ivi, p. 143.

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Vi è dunque un’eccedenza rispetto alla creazione che confluisce nella rivelazione e nella redenzione. Nell’evento della creazione, abbiamo già visto che da parte di Dio esso è già compiuto nel passato, mentre da parte del mondo esso si compie ogni giorno nel presente, inteso come consapevolezza della propria creaturalità. È questo l’aspetto rivelativo insito nella creazione, perché la rivelazione, come vedremo successivamente, «vive costantemente nell’attimo, costituisce davvero l’aprirsi di qualcosa che era chiuso»126.

Prima di passare alla rivelazione però bisogna specificare la portata del linguaggio nell’analisi di Rosenzweig, ma soprattutto il ruolo che assume l’aggettivo “buono”.

Abbiamo visto che egli cerca, «attraverso le forme grammaticali, l’oggettività e, attraverso di questa, la concretezza reale di ciò che accade»127. L’idealismo, sottomesso ormai alla logica, si rese conto ad un certo punto che gli mancava proprio la concretezza che paradossalmente «aveva presunto di fondare e di cogliere»128, perciò rigettando il linguaggio divinizzò l’arte. Essa però non può essere assunta come organon perché si esprime in forma genealogica e non sinottica e, anche se può essere vista come un linguaggio, rimane sempre inesprimibile, linguaggio che non è ancora linguaggio, e quindi linguaggio del pre-mondo perché il linguaggio dell’arte non è parola viva. Per tal motivo Rosenzweig fa dell’arte «soltanto un arto. Un arto senza il quale l’uomo sarebbe, è vero, storpio, ma rimarrebbe pur sempre un uomo. È soltanto un arto accanto ad altri arti. L’uomo è di più»129. Questo sovrappiù dell’uomo si esprime invece nella parola, «testimonianza visibile della sua anima»130, senza la quale l’uomo non sarebbe tale. La parola non è soltanto la lingua degli uomini, essa è soprattutto il ponte tra Dio e l’uomo: infatti ciò che l’uomo sente come linguaggio umano

126 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 105. 127 Ivi, p. 103.

128 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 150. 129 Ivi, p. 151.

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proviene dalla bocca di Dio ed in particolare dalla «parola della creazione, che in noi riecheggia e parla dal nostro interno, a partire dalla parola-matrice che sale direttamente dal mutismo della parola originaria, fino alla forma narrativa perfettamente oggettivante tipica del passato, tutto questo è anche la parola che Dio ha pronunciato e che noi troviamo scritta nel libro dell’inizio»131. Difatti «la Torah parla secondo la lingua degli uomini»132. Ed è qui che emerge l’importanza dell’aggettivo “buono!”, a partire dall’analisi di Genesi 1, esso rappresenta la «sonora parola conclusiva di ciascun giorno della creazione […], muta parola originaria del suo inizio»133. Com’è stato giustamente sottolineato, questa constatazione non corrisponde «esattamente al dettato del testo biblico (dal momento che ciò vale, a ben vedere, soltanto per il terzo e quarto giorno)»134, ma in generale, inteso come assenso divino, l’aggettivo “buono!” si può attribuire all’intera opera della creazione. Infatti «l’esserci viene affermato quando Dio dice “buono!” del proprio operato; egli lo ha fatto, è buono»135. Proprio perché Dio ha già operato egli può affermare “è buono!” e perciò la forma narrativa delle Scritture è il passato in terza persona: «egli creò, egli disse, egli separò, egli vide e così via»136. Il passato oggettivizza l’accadere insieme alla terza persona indicata da “egli” perché «il creatore non può neppure avere un nome, è solo “Dio” in assoluto»137. Anche per la creatura nelle Scritture viene utilizzato il passato, ma

131 Ivi, p. 155.

132 Sifre a Num 15,31 (R. Jishmael) in ibidem, nota 2. 133 Ibidem.

134 L. Bertolino, Il nulla e la filosofia, cit., p. 211.

135 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 155. 136 Ibidem.

137 Ivi, p. 156. In un breve scritto in memoria di Mendelssohn del 1929, Rosenzweig discute la sua scelta di chiamare Dio “L’Eterno”. Una scelta questa che anche se sembra avere origini cristiane, sarà poi adottata in tutte le successive traduzioni ebraiche. L’adozione di questo nome è ricondotta al commento di Es 3,14: infatti «nel creatore il tempo passato e quello futuro sono del tutto un presente […], perciò in Lui tutti i tempi vengono chiamati con un unico nome che comprende il passato il presente e il futuro. Mediante questo nome accenna alla necessità dell’esistenza e nel contempo alla provvidenza che dura ininterrottamente» (F. Rosenzweig, La

Scrittura, cit., p. 102). Se l’esistenza necessaria rimanda all’essere e quindi qualcosa di statico, la

provvidenza rimanda invece al senso «dinamico del divenire, del presentarsi, dell’accadere» (Ivi, p. 104). Ed è proprio su questo che deve cadere l’accento poiché, come Rosenzweig sottolinea,

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mentre in seguito le cose create si presentano al plurale, diverso è lo statuto di “cielo” e “terra” che si presentano al singolare e vengono oggettivati ulteriormente dall’articolo determinativo che li precede e che dona loro «la forma spaziale, ancor prima di ogni altra singola determinazione»138. La terra «era deserta e vuota», forma aggettivale indicante qualcosa di indefinito139, finché Dio non pronunci «sia fatta luce!». Dunque sia tenebra che luce non sono cose, ma qualità, perciò «il mondo è semplicemente qualità, e lo è fin dall’inizio»140.

L’analisi di Genesi 1 continua: Dio ora «“separa” il groviglio delle qualità e quando la separazione è compiuta e nella visibilità delle singole qualità si è compiuto l’inizio della creazione, allora quanto era già divenuto-visibile nella luce risuona per la prima volta come suono squillante e si sente la parola: “buono!”»141. Rosenzweig ripercorre le tappe di successione linguistica che ha già esplicitato e mostra che «la parola che esprime l’azione emerge dalla parola che esprime l’accadere in forma aggettivale, come participio»142. Abbiamo visto che il participio, a metà strada tra cosa ed accadere, non va oltre l’articolo indeterminativo: è infatti lo spirito di Dio che cova sulle acque, e non Dio, segno questo di una spersonalizzazione. Anche nel momento in cui Dio comincia a parlare attraverso l’imperativo «è ancora come se parlasse qualcosa in lui, non lui

«che senso avrebbe per degli infelici e degli avviliti una lezione sull’esistenza necessaria di Dio? Essi […] hanno bisogno di una rassicurazione sull’essere-presso-di-loro di Dio, ne hanno bisogno nella forma di un’illuminazione dell’antico nome oscuro, in modo che l’origine divina della rassicurazione sia confermata» (Ibidem). Per tal motivo la traduzione non deve puntare all’eternità, ma all’esser-presente ora e in futuro: «Colui che è presente a loro, esistente presso di loro, quindi: EGLI» (Ivi, p. 105).

138 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 156.

139 Fra Buber e Rosenzweig ci sarà un fitto carteggio su come rendere tohu wavohu in tedesco: contro la traduzione «wüst und leer» di Lutero, opteranno per «wirrnis und wüste», invertendo l’ordine dei termini. Molta attenzione è data anche alla traduzione delle acque primordiali: mentre Buber propone «Wirbelschlund» accentuandone la concretezza, Rosenzweig cerca un termine che faccia sembrare quest’acqua ancora indistinta e dunque senza articolo determinativo perché priva di determinazione. Sceglie perciò «Abgrund» al pari di Mendelssohn «per la sua insondabilità» (De Villa, M., Una Bibbia tedesca, cit., pp. 408-410).

140 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 131. 141 Ivi, p. 157.

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stesso»143. L’incantesimo della obiettività si rompe nel momento in cui il tempo verbale cambia alla terza persona dell’indicativo presente: «facciamo un uomo»144. Secondo Rosenzweig, con questa affermazione compare qualcosa di nuovo: il “noi” è l’indice della maestà assoluta, è un “io” che «contiene il tu immediatamente in se stesso, un “io” che parla solo con se stesso e soltanto con sé può parlare»145. Dunque è un “io” che ancora non si rivela che rimane come il Dio meta-fisico del pre-mondo. Questo “uomo” creato è Adam perché «nel testo originale risuona già il nome proprio […], primo nome proprio in mezzo a tante creature che appartengono semplicemente ad una specie»146. Egli è dunque diverso rispetto alle altre creature, separato da esse, creato ad immagine di Dio, e quindi fin dall’inizio investito di «quella dignità che il creatore aveva negato persino ai luminari del cielo»147. Anche in questo caso compare qualcosa di nuovo: un “sé”, che però è anche molto più di un “sé”: anima perché questo uomo ha il soffio della vita, ma ancora non può emetterlo: «è creato muto»148. È a questo punto che Dio non pronuncia più la semplice qualità con l’aggettivo “buono!”, ma esprime una gradazione, una comparazione: “molto buono!”. Adesso «la parola-matrice della creazione esce da se stessa»149 ovvero non designando più la semplice qualità, esprime una eccedenza presente nella creazione, «una transcreazione entro la creazione stessa, un ultraterreno entro la dimensione terrena, qualcosa di altro dalla vita che tuttavia appartiene alla vita e solo alla vita […]: questo qualcosa è la morte»150.

143 Ivi, p. 158. 144 Gn 1,26.

145 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 159. 146 Ibidem.

147 Ibidem. 148 Ibidem. 149 Ibidem. 150 Ivi, p. 160.

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Abbiamo visto che Rosenzweig compie un percorso di oggettivazione volto a mostrare la concretezza del reale. Proprio perché parla di realtà, non può esimersi dal parlare di uno degli aspetti più importanti dell’esser-creatura: la morte. Essa è coronamento della creazione e «marchio incancellabile della creaturalità»151, anzi è in fin dei conti ciò che rende la creaturalità tale. Ma non è solo questo. Rosenzweig compie un passo in avanti nella Parte Seconda: la morte è il “molto” pronunciato da Dio. Essa apre un varco che, pur rimanendo all’interno della creazione, va oltre la creazione stessa: essa profetizza il miracolo della rivelazione.

2.3. Il presente della rivelazione

«Forte come la morte è amore»152. È con questo incipit che Rosenzweig presenta al lettore il secondo libro della Parte Seconda: la rivelazione o la nascita incessantemente rinnovata dell’anima. Subito viene affermata la potenza dell’amore, chiave di volta dell’intera rivelazione, come ciò che dichiara battaglia alla morte, punto cardine invece della creazione. Infatti abbiamo visto come la morte imprima «a tutto il creato il marchio incancellabile della creaturalità: la parola “(è) stato”»153, al contrario l’amore «conosce unicamente il presente, vive del presente, ardentemente desidera il presente»154. L’amore a cui Rosenzweig si sta riferendo è quello di Dio nei confronti dell’uomo amato: con un preciso riguardo alla temporalità, la rivelazione è per l’anima «l’esperienza vissuta di un presente il quale certo riposa sull’esserci del passato, ma non dimora in esso, bensì cammina nella luce del volto di Dio»155.

151 Ivi, p. 161. 152 Ibidem. 153 Ibidem.

154 Ibidem. È interessante il fatto che inizialmente Rosenzweig parli di “amore” privo di articolo determinativo, e dunque posto come qualcosa di indeterminato, mentre subito dopo diventa “l’amore” che vive il presente (in tedesco è Gegenwart, nella duplice accezione di “presente” e “presenza”).

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Rosenzweig riprende le tappe enunciate nella Stella che hanno condotto dal Dio nascosto al Dio manifesto. Abbiamo visto che per la fede Dio rimane nascosto perché si ammette il nulla del sapere nei suoi confronti, a differenza del paganesimo in cui il Dio è vivo e visibile, ma appunto visibile e non manifesto. Infatti Dio diviene manifesto nella rivelazione perché ciò che era la fine del pre-mondo diviene un inizio nel pre-mondo reale, ma non per questo viene persa la fattualità conquistata, anzi il percorso che traccia qui Rosenzweig è quello che porta tale fattualità ad elevarsi a certezza. Da parte di Dio la creazione è l’inizio non solo come creazione il mondo, ma il modo in cui egli stesso diviene manifesto, cioè si rivela in quanto creatore. Di conseguenza, il suo in principio avviene una-volta-per-tutte, «con semplici atti che non s’accrescono né s’incrementano più […], e quindi, per quanto concerne Dio, non sono atti, ma attributi»156. C’è però qualcosa che cresce e s’incrementa. Dio infatti non può essere semplicemente l’origine della creazione, altrimenti rischia di tornare ad essere un Dio nascosto, «ossia ciò che egli, proprio mediante la creazione, aveva cessato di essere»157. Invece «dall’oscurità del suo nascondimento deve uscire qualcosa di diverso dalla pura potenza di creare»158 così che Dio non possa più ritrarsi nell’oscura origine. Questo qualcosa di diverso è la rivelazione già insita nella creazione, cioè il fatto che tutte le cose create diventano testimonianza di una rivelazione avvenuta:

Ma proprio perché è cosa creata fin dai primordi, il fatto che essa sia testimonianza di una rivelazione avvenuta rimane alle sue spalle, nell’oscurità di un primo inizio; solo quando essa, in un momento qualunque nel tempo, viene colpita dai raggi del bagliore, non già di una rivelazione avvenuta una volta per tutte, ma di una rivelazione che accade proprio in quell’istante, soltanto allora per lei la circostanza di esser debitrice della

156 Ivi, p. 163. 157 Ivi, p. 165. 158 Ibidem.

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27 propria esistenza ad una rivelazione diviene più che una “circostanza / che le sta tutt’intorno” [Um-Stand], diviene l’intimo nucleo della sua fattualità159.

Questo bagliore fa sì che le cose non siano più solo-create, ma vive nel presente, e al contempo fa sì che Dio non ritorni al suo nascondimento. Dio è il Rivelatore, cioè diviene colui che è sempre presente, «presente come l’attimo, come ogni attimo, e così comincia a divenire ciò che, come creatore, non era ancora stato veramente, e ciò che anche adesso comincia soltanto a divenire: “fattuale” come lo erano gli dèi pagani nella ben munita fortezza del loro mito»160. Tale fattualità si acquisisce grazie al fatto che «la libertà divina non si configura più come attributo dell’essenza, condizione fissata in un eterno passato, ma si trasforma in un destino a cui lo stesso essere di Dio si sottomette, erompendo fuori di sé e rivelando sé stesso»161. Questo destino, «la Moira di Dio», è l’evento dell’amore «piantato nell’attimo della sua origine […] esso è quell’attimo»162: perciò deve rinnovarsi di volta in volta, «ogni istante deve divenire per lui il primo sguardo d’amore»163. Emerge una fenomenologia dell’amore164 in cui però tale sentimento non è considerato come qualcosa di fisso, costante e duraturo, bensì come qualcosa che, rinnovandosi ogni giorno, diventa sempre nuovo e dunque paradossalmente la sua stabilità sta nell’instabilità con cui ogni giorno rifiorisce: «ogni giorno l’amore ama ancor di più ciò ch’è oggetto d’amore»165.

In precedenza Rosenzweig aveva già negato che il creatore creasse per amore, per indigenza, perché il suo creare non può essere frutto di arbitrio, necessità di un istante, come quando l’amante è tale solo per un «fuggevole moto del cuore»166. L’amore di Dio nei confronti dell’uomo si rinnova nell’attimo, nell’istante, ma

159 Ivi, p. 166. 160 Ivi, p. 167.

161 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 105. 162 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 167. 163 Ibidem.

164 A. Fabris, Linguaggio della rivelazione, cit., p. 105. 165 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 168. 166 Ibidem.

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non è indigenza perché «l’amore non è un attributo, bensì un evento»167. L’amore di Dio «è sempre nell’oggi e tutto nell’oggi, ma ogni morto “ieri”, ogni morto “domani” viene a suo tempo ingoiato in questo “oggi” vittorioso; questo amore è l’eterna vittoria sulla morte; la creazione, che la morte corona e conclude, non può tener testa all’amore, deve arrendersi ad esso ogni istante e perciò, alla fine, anche nella pienezza di tutti gli istanti, nell’eternità»168. Si potrebbe dunque leggere in queste pagine un ulteriore capovolgimento che Rosenzweig compie a proposito del concetto di amore. Abbiamo visto che esso non è qualcosa di fisso una volta per tutte, ma che si rinnova ogni giorno. In tal modo però agli occhi della fede l’amore di Dio sembra essere limitato perché non afferra con un sol colpo il tutto, esso non è come la luce che va «in tutte le direzioni, bensì con un gesto enigmatico afferra singole realtà: uomini, popoli, tempi, cose, imprevedibile in questo suo afferrare»169. Ed è proprio questa sua imprevedibilità, questo suo rinnovarsi, che fa sì che l’amore sia vero amore: «solo così, immergendosi tutto in ogni istante, anche al punto da dimenticare, nel far questo, tutto il resto, solo così esso può alla fine cogliere tutto realmente. Se afferrasse tutto in un sol colpo in che si differenzierebbe dalla creazione?»170. Abbiamo infatti già visto che proprio per questo la creazione si radica nel passato, in un “in principio” avvenuto una volta soltanto da parte di Dio, mentre l’amore vive nel presente, ed è proprio l’attimo a renderlo vero171.

167 Ivi, p. 169. 168 Ibidem. 169 Ivi, p. 170. 170 Ibidem.

171 Già in precedenza Rosenzweig aveva posto come contraltare delle sue tesi la religione islamica. Essa è religione della ragione perché non desume l’idea di rivelazione dalla creazione, anzi non riconosce nemmeno il legame tra esse. Così il miracolo della rivelazione anziché essere profezia diventa miracolo magico, desunto, al pari del paganesimo, da quelle fattualità che non subiscono inversioni: esse rimangono rivolte verso l’interno anche mentre si rivolgono all’esterno. In questo ambito, in particolare, la polemica si rivolge all’Islam come religione dell’umanità perché Allah è onniamore che dona la sua misericordia su tutti gli uomini e su tutti i popoli. L’amore di cui qui si sta parlando non è quello che vale anche «per i rapporti tra gli uomini, o tra uomini e Dio, o tra Dio e gli uomini […], bensì un amore che può muovere soltanto da Dio all’uomo, cioè appunto soltanto la misericordia» (Ivi, p. 171). Infine si può sottolineare un’ulteriore critica che Rosenzweig rivolge all’Islam: essa si differenzia dagli altri monoteismi perché è fin dal principio religione del libro: Dio quindi non dona sé stesso all’uomo, ma un libro.

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