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Cenni biografici su Joel-Peter Witkin nella storia culturale americana degli anni Ottanta del XX secolo 1

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Cenni biografici su Joel-Peter Witkin

nella storia culturale americana degli

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In un articolo edito nel 1999 sull’ “European Journal of American Culture” e intitolato European American Studies and American American Studies, Paul Giles – professore e studioso di cultura e letteratura americana – nota come l’approccio europeo allo studio della storia culturale americana sia stato dominato da quella che lui definisce “illusion of syncronicity” 1. L’espressione fa riferimento a come l’analisi dei fenomeni culturali

ame-ricani sia sempre stata relegata ai margini delle storiografie, come una macro-sintesi degli aspetti culturali nazionali più evidenti e noti, dentro l’onnicomprensivo calderone delle generalizzazioni tematiche.

Il riferimento di Giles può trovare riscontro in una lunga tradizione europea di studi sulla cultura americana, a partire dalle riflessioni dell’attivista inglese Henry Stephens Salt nel XIX secolo e da quelle dello scrittore David Herbert Lawrence negli anni ’20 del XX sec.

A partire dagli anni ’70 del XX secolo sono state proprio le “narrazioni marginali” a ridefinire con maggiore precisione la nozione di “cultura americana”, quale crocevia di esperienze storiche e culturali tra le più eterogenee. Non fu più possibile trascurare le vicende storiche legate ad africani, asiatici, nativi americani, alle donne e alle cosiddette “subculture” sessuali, alle comunità religiose, regionali ed etniche, infine alla globalizza-zione. È proprio durante l’ottava decade del XX secolo che nasce l’esigenza di avviare un distinguo tra i termini “nazionale” e “culturale”: sul piano semantico e nella direzione di ricerche che ambissero a stabilirne le referenze linguistiche, individuando le rappre-sentazioni delle due categorie nella dimensione extra-linguistica della realtà. È possibile individuare e soffermarsi su alcuni argomenti topici in qualche modo connessi con le narrazioni marginali di cui sopra e che si riveleranno utili per l’analisi e l’approfondi-mento dell’opera artistica del fotografo americano Joel-Peter Witkin.

Le immagini di Witkin sono analizzabili su più livelli di lettura ma è possibile individuarne alcuni temi principali: la morte; la spiritualità; la sessualità; il citazionismo; la frammentazione e il freak. In tutti i casi si tratta di immagini etichettabili come “per-verse” e apparentemente “blasfeme”, dove i canoni estetici del bello sono sovvertiti, per raccontare visioni decisamente inusuali ed eterodosse.

1 Giles, Paul, European American Studies and American American Studies, in European Journal of

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Witkin fotografa immagini apparentemente surreali, quasi sempre esito di una vera e propria mise-en-scène, che tuttavia ha, come fonte, le informazioni di una narra-zione reale e documentata. Le ampie potenzialità espressive del linguaggio fotografico vengono declinate per mostrare l’occorrenza di comportamenti che sfuggono ai processi di controllo dell’organizzazione sociale, divenendo evidenza di “a-normalità”.

Sotto la firma di Witkin, le iconografie della tradizione cattolica subiscono un processo di distorsione dei significanti, quasi sempre accostati per contrasto, dando vita ad immagini dov’è possibile la coesistenza di un uomo crocifisso e accessori propri delle pratiche sadomasochistiche, come nel caso dell’opera Penitente (1982) [fig. 1], dov’è rappresentato un uomo nudo crocifisso, mascherato e trafitto da piume. Alla base della croce centrale ci sono due teschi umani e in secondo piano, alla destra e alla sinistra del soggetto principale, sono rappresentate due scimmie crocifisse. Penitente risulta la sintesi rappresentativa di varie iconografie della tradizione storico-artistica: la crocifissione di Cristo, San Sebastiano trafitto dalle frecce, i teschi della vanitas seicentesca e la scimmia, che nella tradizione iconologica cristiana rappresenta gli istinti sessuali primordiali e pec-caminosi degli uomini. L’iconografia witkiniana della scimmia crocifissa potrebbe costi-tuire una variante a quella legata, come nella Madonna col bambino e la scimmia (1498) di Albrecht Dürer [fig. 2], dove la scimmia rappresenta il peccato tenuto a freno grazie alla virtù divina.

Per la realizzazione dell’opera, Witkin utilizzò il cadavere di un uomo morto di AIDS reperito nell’obitorio di Città del Messico. L’uomo, che in vita aveva posato per l’opera di Witkin My Prince Imperial (1981) [fig. 3], era solito avere rapporti sessuali sadoma-sochisti, per questa ragione il fotografo decise di “onorarlo” rappresentandolo nei panni di un Cristo contemporaneo, munito di una maschera sessuale e messo in croce dalla so-cietà insieme ai suoi peccati (rappresentati dalle scimmie). L’utilizzo delle piume al posto delle frecce rappresentò una scelta estetica, oltre che funzionale: dato che l’immagine risultava già abbastanza forte, Witkin scelse di controbilanciarla inserendo un elemento più “poetico” nelle ferite che il corpo presentava già2.

2 Fonte: Witkin, Joel-Peter, Eugenia Parry, Joel Peter Witkin. Photographies de Joel-Peter Witkin, Paris,

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In tal senso il linguaggio di Witkin recupera la grammatica della religiosità scardinandone i contenuti iconologici e offrendone una nuova visione, basata su una personale ricerca dell’esistenza di Dio: soprattutto laddove c’è sofferenza, incomprensione, dolore e per-versione.

«Quando la gente guarda la mia opera la reazione non è mai neutrale: o la amano, oppure la odiano. Quelli che la odiano, odiano anche me: devono pensare che io sia un demone o uno stregone malefico. Quelli che la capiscono, apprezzano la determinazione, l’amore e il coraggio che ci vuole nel trovare meraviglia e bellezza in coloro che la società giudica come compromessi, immondi, non produttivi o sciagurati. La mia arte è il modo attraverso cui io percepisco e definisco la vita. Si tratta di arte sacra, dal momento che quello che realizzo sono le mie preghiere. Queste opere rappresentano la mia indole, la trasfigura-zione dell’amore e del desiderio e, infine, la qualità della mia anima. Con quest’opera mi rimetto al giudizio di me stesso, dei miei contemporanei e infine di Dio. La mia vita e la mia opera sono inseparabili, sono tutto quello che ho, tutto ciò di cui ho bisogno»3.

Come spesso accade affrontando lo studio di personalità autoriali eccentriche e straordinariamente uniche, sarebbe pressoché impossibile pensare di intraprendere uno studio sull’opera di Witkin tralasciandone le indicazioni biografiche.

Nel caso di Witkin vita e arte sono aspetti complementari di un lungo percorso di ricerca che non è mai cauto né tracciato seguendo rigide premesse. Le due dimensioni si fondono in un medley visivo estremamente travolgente e visionario, dall’apparenza per-versa e sacrilega, la cui origine ha molto a che vedere con il contesto socio-culturale delle comunità italo americane del quartiere di Saint Cecilia, a Brooklyn, dove Witkin nacque il 13 settembre del 1939, secondo di tre gemelli4, figlio di madre cattolica di origine na-poletana e padre ebreo ortodosso di origine lituana.

3 Celant, Germano, Joel-Peter Witkin. A Retrospective, Zurigo, Scalo Publishers Éditions, 1995, p. 249,

[t.d.r.].

4 La terza sorellina gemella morì durante un aborto spontaneo. Witkin descrisse questa esperienza come il

primo rapporto di vicinanza alla morte, condizione esistenziale che conobbe già dal grembo della madre, prima ancora di nascere.

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Testo imprescindibile per chiarire le vicende biografiche e le origini della ricerca artistica di Witkin è la tesi di laurea che il fotografo statunitense scrisse nel 1976 conse-guendo il Master of Arts presso il dipartimento di arte della University of New Mexico5. Nell’elaborato – dedicato alla nonna6 – viene chiarita fin da subito la necessità di una

suddivisione del testo in tre parti, corrispondenti ai tre periodi di quello che potremmo identificare come periodo di formazione dell’artista, fino al 1976: «Iniziazione», «Indu-zione» e «Insurre«Indu-zione».

Dalla prima parte emerge come già dall’infanzia la traccia biografica abbia inciso sull’immaginario artistico di Witkin, che non esclude di individuare l’origine dell’inte-resse per la fotografia nel ricordo di un incidente occorso all’età di sei anni:

«era domenica, io e mio fratello gemello, accompagnati da nostra madre, scendevamo le scale del caseggiato dove vivevamo per recarci in chiesa. Ci trovavamo ancora nel corri-doio d’ingresso quando sentimmo un terribile schianto, insieme a grida d’aiuto acute. Un incidente aveva coinvolto tre automobili cariche di famiglie. Intanto, nella confusione, io avevo lasciato la mano di mia madre e dal luogo in cui mi trovavo vidi rotolare sul mar-ciapiede, fuori da un’auto capovolta, qualcosa che si fermò proprio davanti ai miei piedi: era la testa di una bambina. Mi chinai per toccare quel viso, per sapere… ma qualcuno mi portò via»7.

Witkin identifica questa esperienza visiva come momento traumatico forte che «lasciò in me tracce profonde che hanno segnato la mia opera, nell’uso di teste recise e maschere, e che hanno influito sulla mia percezione della violenza, del dolore e della morte. Ora non sono più quel piccolo, inerme spettatore ma colui che concretizza e sceglie

5 Witkin, Joel-Peter, Una rivolta contro l’oscurità, Department of Art, University of New Mexico, 1976,

in Celant, Germano (a cura di), Joel-Peter Witkin, Milano-Rivoli-New York, Edizioni Charta-Castello di Rivoli-Solomon R Guggenheim Museum, 1995 (catal. mostra, New York, Rivoli).

6 All’inizio dell’elaborato Witkin scrive: «To my grandmother Maria Antonia Pellegrino immigrant, holy

woman, invalid, Witkin». La figura della nonna fu determinante nello sviluppo della sensibilità artistica di Witkin, che fin da bambino, facendo fronte alla separazione dei genitori, dovuta a forti contrasti religiosi, fu cresciuto dalla nonna cattolica. La donna era invalida e in alcune interviste Witkin descrisse l’odore acre della gamba incancrenita che lo accompagnò per tutto il periodo dell’infanzia, determinando un rapporto di familiarità a tematiche e percezioni sensoriali vicine al gusto del macabro.

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di condividere visivamente l’“inferno” della propria confusione, o di confrontarsi diret-tamente con la qualità intrinseca che distingue un essere vivo e funzionale da un corpo morto»8.

Il secondo momento biografico significativo viene individuato intorno alla metà degli anni Cinquanta, quando, all’età di diciassette anni, spinto da un senso di incertezza sulla condizione esistenziale dell’uomo e dalla curiosità di indagare sull’essenza della vita e della morte, nonché dalla volontà di comunicare direttamente con «il Creatore di tutte le cose: Dio […]»9, Witkin diede il via ad una ricerca fotografica che prosegue an-cora oggi, animata dagli stessi intenti originari. La prima fotocamera fu una Reflex Rol-leicord a doppia focale di seconda mano – che imparò ad usare da autodidatta, leggendo manuali di fotografia – e il primo progetto fotografico su un rabbino che in un articolo del New York Daily News aveva dichiarato di aver visto e parlato con Dio («Decisi co-munque che avrei fotografato quell’uomo perché, anche se non ero riuscito a vedere ciò che mi aspettavo, avevo la speranza che forse la fotografia l’avrebbe rivelato, forse Dio sarebbe apparso una volta sviluppata la pellicola»)10.

Durante questo primo tentativo di stabilire un contatto con Dio attraverso la foto-grafia, Witkin rende manifesta la sua posizione rispetto al medium fotografico, capace di trascendere la contingenza, rivelando esperienze extrasensoriali non visibili all’occhio umano.

L’incontro con il rabbino deluse le aspettative, ma l’anno dopo Witkin mostrò i suoi primi esperimenti fotografici al fotografo e pittore Edward Steichen, che al tempo era direttore della collezione fotografica al Museum of Modern Art di New York. Stei-chen apprezzò il portfolio di Witkin e una delle sue fotografie venne inclusa nell’esposi-zione Great Photographs from The Museum Collection, organizzata dal Museum of Mo-dern Art nel 195911.

Il primo incarico come fotografo arrivò dal fratello gemello, il pittore Jerome Witkin, che sul finire degli anni Cinquanta aveva iniziato a lavorare a un dipinto dove

8 Ibidem, [t.d.r.]. 9 Ibidem, [t.d.r.]. 10 Ivi, p. 50, [t.d.r.].

11 Si tratta di una fotografia scattata con pellicola Kodak Kodachrome 35 mm e che rappresentava

l’astra-zione di una grande macchia di catrame trovata sul lucernaio della stal’astra-zione ferroviaria di Boston, (fonte: intervista a Witkin, agosto 2017).

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sarebbero stati rappresentati alcuni fenomeni da baraccone, prendendo ispirazione dai freak show del Luna Park di Coney Island, a Brooklyn. Witkin puntò il suo obiettivo su un uomo con tre gambe, una nana soprannominata “The Chicken Lady” e su Albert Al-berta, un ermafrodita con cui il fotografo dichiarò di aver avuto la sua prima esperienza sessuale.

Nel tentativo di definire l’area della sua ricerca artistica, verso gli ultimi anni Cin-quanta, Witkin si avvicinò allo studio dei grandi nomi della tradizione storico-artistica, ammirando con particolare considerazione lo sviluppo dei soggetti religiosi nelle opere di Cimabue, Giotto e Rembrandt, la sfida dei simbolisti nella consacrazione della dimen-sione onirica e del satanismo ( attraverso le opere di Félicien Rops, Gustav Klimt e Alfred Kubin), la visione erotica e voyeurista di Balthus e la ricerca espressionista legata ad argomenti come il dolore, la perdita e la morte di Max Beckman.

Tra il 1958 e il 1967 Witkin alternava i corsi serali in scultura della Cooper Union School of Art di New York ad una serie di esperienze lavorative come tecnico di stampa fotografica a colori presso gli studi di vari fotografi commerciali. Sono di questo periodo opere come Woman (1970) [fig. 4]: un torso femminile in gesso poggiato su una base con delle ruote fisse, per suggerire il paradosso di una mobilità fisica soltanto apparente. Il rapporto tra i grandi seni e la testa piccolissima evidenzia una deformazione delle propor-zioni anatomiche voluta per enfatizzare un punto di vista soggettivo sulla donna come oggetto del “desiderio romantico”.

Altra opera scultorea dei primi anni Settanta è Corpus (1971) [fig. 5], una scultura “mobile” realizzata come tabernacolo in gesso, tempera e chiodi. L’opera, alta più di due metri, raffigura un Cristo morto con la testa trafitta da chiodi di fattura artigianale, realiz-zati in Spagna. Secondo il disegno iniziale di Witkin, la scultura era progettata per abbas-sarsi al livello dello sguardo umano durante la funzione eucaristica, così da permettere al sacerdote di aprire il torace per estrarre dalla cavità addominale le ostie consacrate e il vino. Al termine della funzione, dopo che i simboli dell’eucarestia sarebbero stati riposti, il sacerdote avrebbe potuto chiudere la cavità e la scultura “ascendere” attraverso un mo-vimento verticale fino al raggiungimento della sospensione sui fedeli, simboleggiando la resurrezione.

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Nel 1961 Witkin fu chiamato a prestare servizio militare per la guerra in Vietnam, durante quest’occasione ottenne una ferma di tre anni, durante i quali venne addestrato come fotografo di guerra e viaggiò tra venti degli Stati Uniti d’America e l’Europa con diverse divisioni dell’esercito americano (tra cui l’aeronautica). Il suo obiettivo era di documentare le manovre e i decessi causati da incidenti durante le esercitazioni o i suicidi provocati dagli altissimi livelli di stress psico-fisico a cui erano sottoposti i militari.

Avendo sviluppato una notevole insensibilità al tema della morte, Witkin chiese di essere addestrato come fotografo volontario per la guerra in Vietnam. In attesa dell’or-dine per partire, però, tentò il suicidio. La forte pressione psicologica a cui era stato sot-toposto aveva ferito la sua profonda sensibilità, trascinandolo nel vortice degli effetti cau-sati dalla guerra, tanto da invalidarlo agli occhi dell’esercito americano, che lo congedò nel 1964.

Nel 1967 Witkin iniziò a lavorare come fotografo freelance per la City Walls Inc. (oggi Public Art Fund), un’organizzazione no profit che commissionava ad artisti astratti la decorazione dei muri urbani nelle strade di cinque quartieri di New York, ma l’espe-rienza nell’arma aveva lasciato un segno profondo: durante anni del “letargo creativo” come fotografo militare, Witkin era entrato in contatto per la prima volta con camere della morte e obitori, percependo quella realtà come un sistema di organizzazione sociale con-trollata, dove perfino l’identità dei cadaveri deve attenersi ad un processo di istituziona-lizzazione12.

Accanto al sentimento di estraniazione rispetto ai discorsi istituzionali di organiz-zazione della morte e della violenza, il fotografo prese maggiore consapevolezza degli argomenti della sua ricerca artistica, individuandone l’obiettivo finale: «Quando, anni prima, avevo chiuso alle mie spalle la grande porta dello studio del rabbino, ero ancora convinto che la realtà significasse una sola cosa: l’apparizione di Dio davanti a me. Fino a quel momento non avrei potuto avere identità né scopo. A questo punto ero un uomo quasi trentenne con l’unica ambizione di vedere Dio e la coazione a fare fotografie. Nell’impazienza di conoscere la realtà e quindi capire me stesso, decisi di combinare am-bizione e coazione: se non riuscivo più ad aspettare l’apparizione, io avrei creato

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magine di Dio! Per sapere se ero realmente vivo, avrei reso visibile l’invisibile e la foto-grafia sarebbe stato lo strumento per portare Dio sulla terra, per farlo esistere ai miei occhi nelle immagini create»13.

Spinto dal delirio della creazione artistica, Witkin decise di “incarnare” la sua vi-sione di Dio nella figura di Cristo, dando il via alla serie Contemporary Images of Christ, con fotografie ispirate alle storie di Cristo. Come cifra comune per tutte le fotografie della serie, Witkin scelse un linguaggio visivo molto articolato e ricco di riferimenti simbolici e ambientazioni in luoghi inusuali per il genere di rappresentazione, studiati per intensi-ficare la forza delle immagini. I soggetti sono ritratti quasi sempre frontalmente e su uno sfondo nero utile a neutralizzare qualsiasi senso di proporzione. Il formato molto piccolo scelto per le stampe è da collocare, secondo le indicazioni di Witkin, all’altezza dello sguardo dell’osservatore, così da permettere lo stesso punto di vista del fotografo nella frazione di tempo dell’esposizione, facilitando la condivisione della realtà interiore dell’artista. In questo contesto l’iconografia della maschera fa la sua prima apparizione nell’opera di Witkin come elemento oggettivante della visione: coperto dalla maschera, il soggetto ritratto è privato della sua identità e serve come referente oggettuale della “visione mistica” dell’artista.

Per la realizzazione della prima opera della serie, dedicata alla rappresentazione della nascita di Cristo, Witkin dichiarò di essersi ispirato all’opera di una dei maggiori esponenti del pittorialismo fotografico durante l’epoca vittoriana: la fotografa inglese Ju-lia Margaret Cameron, che nella sua opera The Return “after three days” (1865) [fig. 6] rappresentò la vicenda biblica del ritorno di Gesù dal tempio riservando maggiore cura all’espressione dei sentimenti umani, che alla fedeltà letteraria della rappresentazione (Cameron scelse come modello un bambino di quattro anni, anziché un ragazzino di do-dici, come indicato nelle Sacre Scritture)14.

Allo stesso modo, il Gesù Bambino di Witkin non è un neonato ma il nipotino di cinque anni, immortalato in una via dello slum di Philadelphia, dopo aver subito una serie di esperienze psico-fisiche: essere stato spogliato dei suoi vestiti, essere stato sottoposto all’incipriatura del viso di bianco e spinto a giocare con un uccello morto tra le mani.

13 Ibidem, [t.d.r.]. 14 Ibidem, [t.d.r.].

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L’interesse di Witkin era volto a cogliere le reazioni sincere del bambino nei confronti dell’ambiente e quelle di chi, spinto dalla curiosità, osservava la scena dalla finestra o dal marciapiede («Allora io non mi rendevo conto del danno psicologico che potevo arrecare ai miei modelli, non m’interessavo affatto all’esistenza altrui, ma solo alla mia, e il mo-dello era un mero strumento per penetrare la mia realtà, niente altro»15).

Jesus and His Mother Mary: Photographed by an Anonymous Galilean Photog-rapher (1974) [fig. 7], è il titolo di un’altra opera della serie Contemporary Images of Christ. Lo scatto rappresenta il corpo di un bambino che indossa una maschera con l’im-magine di Cristo adulto, posizionato in piedi tra le gambe di una Vergine Maria nuda e col capo coperto da un cappuccio bianco con i fori per gli occhi, simbolo iconografico che nella tradizione religiosa spagnola simboleggia la condizione del penitente. La pro-spettiva frontale dell’immagine fotografica suggerisce la stessa rigidità delle icone bizan-tine e, al tempo stesso, è un riferimento ai primi ritratti su dagherrotipo. Il rapporto tra questi elementi simbolici, insieme al titolo, intende fornire una chiave di lettura parodi-stica sul carattere letterario e pretenzioso assunto da molti fotografi e su atteggiamenti sociali della sua contemporaneità.

L’ Ecce Homo (1974) della serie è un Cristo omosessuale che ironizza sulla posizione della chiesa nei confronti della libertà d’espressione sessuale dei fedeli, indossando gli occhiali che portavano gli aviatori kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mon-diale e un paio di scarpe da donna con tacchi a spillo.

Il lavoro alla serie Contemporary Images of Christ durò un anno e aprì le porte ad una seconda serie fotografica, il cui lavoro durò fino al 1975: Images of Woman. Questa seconda serie, dedicata alla visione personale sul tema della donna, fu definita da Witkin «metamorfosi fotofisica»16, espressione con la quale il fotografo intende esprimere la sua particolare condizione rispetto al processo di creazione delle fotografie, suddiviso in un primo momento di prefigurazione durante il quale Witkin traccia gli schizzi su carta delle sue visioni mentali, un secondo momento, vissuto come esperienza voyeuristica, dedicato alla ricerca dei soggetti femminili per le vie di New York; infine il momento dello scatto fotografico, vissuto come rito sacro di figurazione delle fantasie perverse dell’artista.

15 Ivi, p. 54, [t.d.r.]. 16 Ivi, p. 56, [t.d.r.].

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La scelta del tema scaturì da una serie di approfondimenti sull’archetipo della “Dea Ma-dre”, inteso come origine simbolica della vita che può attuarsi soltanto attraverso il dolore e riconducibile a gran parte delle narrazioni mitologiche di cultura mediterranea. In par-ticolar modo, furono gli scritti sulla mitologia dello storico statunitense Joseph Campbell ad influenzare Witkin:«Possiamo persino domandarci se la Vergine Maria non sia la stessa dea Venere-Afrodite o Cibele, Hathor, Ishtar, Iside. Nessun buon cattolico si ingi-nocchierebbe di fronte all’immagine di Iside ma tutti gli elementi mistici ora dogmatica-mente attribuiti alla Madonna come essere umano e storico appartengono anche a quella dea di cui Maria e Iside sono locali manifestazioni: la madre-sposa del dio morto e ri-sorto»17.

Il corpo femminile viene approcciato come luogo di ambivalenza, dov’è possibile la con-vivenza di gioia e dolore, persona e mito, sensualità e prigionia dell’uomo. Witkin rap-presenta la condizione femminile filtrandola attraverso l’atmosfera delle sue visioni men-tali di quel periodo, tese tra un’atmosfera rassicurante e una sinistra.

Le ultime opere fotografiche della serie Images of Woman esprimono visioni molto forti, quasi sempre risultato di esperienze psico-fisiche reali a cui erano sottoposte le modelle in comune accordo con Witkin: «La donna che accettava di farsi fotografare sarebbe ve-nuta in un luogo isolato scelto da me, all’esterno o in studio, poi si sarebbe spogliata per diventare l’oggetto fisico del mio Odio-Amore. Con il suo consenso, io ponevo la “Donna” in bare, le incollavo foglie sul corpo, la facevo reagire a feticci fallici, la legavo e la mascheravo; tutto questo con la stessa speranza che mi muoveva per la serie Cristo [Contemporary Images of Christ], poiché quella speranza era la mia personale “Rivela-zione”, la fine del dubbio, del dolore e della confusione»18.

Nel 1974 Witkin conseguì il Bachelor of Arts Degree della Cooper Union e nello stesso periodo vinse una borsa di studio in poesia dalla Columbia University. Spinto dalla curiosità di approfondire la conoscenza delle religioni orientali, viaggiò fino in India per studiare Yoga fotografando i luoghi sacri e vendendo le fotografie per autosostenersi eco-nomicamente fino all’ammissione, nel 1975, al corso di fotografia della University of

17 Campbell, Joseph, The masks of God, New York, Viking Press, 1970, p. 271, [t.d.r.].

18 Witkin, Joel-Peter, Una rivolta contro l’oscurità…, p. 56, [t.d.r.]. Witkin puntualizza spesso che dietro i

suoi scatti c’è un lavoro di conoscenza preliminare tra lui e i suoi modelli, mirato a stabilire una fiducia reciproca.

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New Mexico. Questo momento segnò uno spartiacque nella vicenda biografica di Witkin, il quale, abituato a vivere nella realtà urbana di New York, si trovò catapultato per la prima volta negli ampi spazi soleggiati del New Mexico. Il contatto con l’ambiente acca-demico e lo studio della storia della fotografia ampliarono le prospettive del fotografo americano, pur senza ingentilirne la vocazione artistica verso immagini violente e per-verse: «Il risultato fu però che quelle fotografie […] presentavano immagini ancora più violente di quelle newyorkesi ed erano prive di riferimenti iconografici. L’atmosfera del New Mexico non ebbe alcun effetto su questo lavoro (io ero un “animale urbano” fino in fondo. Da bambino credevo persino che i fiori nascessero nei negozi dei sarti perché avevo visto rose e garofani sugli abiti delle donne, crocefissi tra i loro seni, o sul cuore degli uomini, appuntati al bavero della giacca). Il buio del mio animo e l’estraniazione dalla natura mi facevano odiare il sole, di cui però sfruttavo l’intensità per illuminare le mie immagini»19.

Le sperimentazioni fotografiche di questo periodo hanno a che vedere con la libera manifestazione delle emozioni da parte dei soggetti fotografati, che venivano sottoposti a pratiche estreme, funzionali a provocare forti reazioni psico-fisiche: «legavo, incappuc-ciavo e inchiodavo al muro un uomo claustrofobico o una donna appena uscita dal vicino manicomio […] sperimentavo e documentavo una vera sensazione in tempo reale […]. La realtà di queste situazioni conferiva alle immagini un’insistenza e una velocità che le trasformavano in assalti, simultaneamente, ai sensi e allo spirito. Esprimevano grande forza poiché provenivano da condizioni di sofferenza reale, apparivano silenti ma il si-lenzio era fatto di grida represse che, attraverso l’immobilità della fotografia, diventavano così potenti da oltrepassare la vista dello spettatore per raggiungerne la mente»20.

L’opera Leo (1976) [fig. 8] può essere considerata esemplificativa della prima se-rie fotografica realizzata dopo il trasferimento in New Mexico: Evidences of Anonymous Atrocities. Nella stampa fotografica è rappresentato un uomo muscoloso di colore, nato senza gambe e inserito all’interno di una gabbia, con il volto nascosto da una maschera-tura della pellicola, per mostrarne la vulnerabilità e documentarla attraverso la spietatezza

19 Ivi, p. 57, [t.d.r.]. 20 Ivi, p. 58, [t.d.r.].

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dell’obiettivo fotografico. Il nuovo interesse di Witkin per i soggetti con evidenti malfor-mazioni fisiche esprime la volontà del fotografo di facilitare l’inquadramento della sua produzione all’interno del filone dell’«industrial folk art»21.

Altra serie elaborata durante l’esperienza di formazione presso la University of New Mexico è Objects Held and Thrown, dove Witkin abbandonò la fotografia in studio e mise a punto una nuova tecnica di produzione delle immagini fotografiche, scattate senza cavalletto, alla luce del sole, con obiettivo grandangolare di 28 mm montato su una pratica 35 mm e pellicola Kodak tri-X Panchromatic che permetteva un’ampia gamma dei tempi di esposizione. La mano destra lavorava sullo scatto con la regolazione dell’obiettivo su infinito, ottenendo la sfocatura degli oggetti in primo piano, immortalati nell’istante in cui venivano letteralmente lanciati, dalla mano sinistra, contro la perfetta messa a fuoco dello sfondo: contesti urbani quasi sempre isolati.

Questo nuovo utilizzo della macchina fotografica permise a Witkin di considerare – in linea con le teorie di Marshall McLuhan dei primi anni Sessanta22 – l’apparecchio foto-grafico un’estensione del corpo e della mente e fu utile nell’immortalare lo svolgersi di «un’esperienza reale, in tempo reale […] il mondo come sfondo, il soggetto come oggetto del mondo, la macchina fotografica e l’obiettivo come strumenti di percezione meccanici e ottici e, infine, me stesso come “attivatore”, immerso tanto in un’azione nuova e in continuo mutamento, quanto in un processo interamente fotografico che rispondeva so-prattutto ai moti del sentire e non a quelli del pensiero […] Anche il caso aveva un ruolo importante in questo nuovo metodo e solo dalla stampa finale poteva emergere il risultato delle mie reazioni all’azione sotto i miei occhi, essendo accaduti contemporaneamente molti eventi visivi nell’istante dell’esposizione»23.

21 Ibidem. Espressione utilizzata da Witkin: probabilmente l’artista fa riferimento ad una variante

industria-lizzata della “folk art”, definita come: «un’arte per lo più decorativa creata da classi sociali più povere, come amatori, artigiani e commercianti, che vivono in aree rurali civilizzate ma non altamente industrializ-zate […] il termine “folk art” può anche comprendere la produzione artistica delle minoranze etniche inse-rite in società più sviluppate, che sono riuscite a preservare le loro tradizioni vivendo in comunità separate». Fonte: www.visual-arts-cork.com , [t.d.r.].

22 «Nelle ere della meccanica, avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi,

dopo oltre un secolo di impiego tecnologico dell'elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che […] abolisce tanto il tempo quanto lo spazio». Fonte: McLuhan, Mar-shall, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 9 [ed. orig.: Understanding Media: The Extensions of Man, Toronto, New American Library of Canada, 1964].

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I risultati di stampa del nuovo processo fotografico mettevano in evidenza un soggetto costruito attraverso la luce, elemento primario della tecnica fotografica, e l’atto del lan-ciare in aria qualcosa nel tentativo di ridare vita agli oggetti abbandonati, talvolta animali privi di vita, per riflettere la perdurante ricerca di Witkin della manifestazione di Dio attraverso il mirino della sua macchina fotografica («Era un atto che rappresentava da un lato un’atrocità e dall’altro una parodia dell’intima essenza della verità cristiana: la Re-surrezione di Cristo!»)24.

Le vacanze estive di quell’anno proseguirono sulla costa occidentale del Paese, a Los Angeles, dove Witkin ebbe modo di affinare la ricerca della serie Objects Held and Thrown attraverso l’utilizzo di filtri di contrasto per ottenere una gamma tonale più ri-stretta e il ricorso al ritaglio degli angoli del negativo, con l’effetto di creare immagini dall’atmosfera onirica. L’atmosfera di Los Angeles, unita ad alcune settimane trascorse ad Hollywood, apportarono un cambiamento significativo nell’opera di Witkin, che so-stituì gli oggetti trovati casualmente per strada con due giocattolini in gomma: una testa di donna e un alligatore uniti insieme per formare una chimera.

Dopo uno studio dei provini della nuova serie di scatti, Witkin scelse di stampare tre negativi intitolando le stampe: The Rapture; The Attack e The Death. Durante la fase di sviluppo il negativo intitolato The Death (Los Angeles Death, 1976) [fig. 9] conteneva la figura di una donna che passando su un sentiero coperto da alcune siepi, era rimasta im-mortalata nel fotogramma. Witkin interpreta in maniera molto soggettiva l’accaduto, identificandolo come «un “incidente” che avevo creato» e di cui la donna sarebbe stata «“testimone”», avendo colto il fotografo «nell’azione simbolica di infliggere dolore al mio oggetto, nel momento in cui cercavo di strangolarlo. Quindi l’oggetto diventava sim-bolo non solo dell’immagine ma anche del mio sadismo. Ero stato colto nell’atto di cau-sare sofferenza. In passato lo spettatore non aveva mai potuto rendersi conto del dolore provocato o rinnovato che appariva nella stampa fotografica. Questa immagine invece ne era la prova»25.

24 Ivi, p.60, [t.d.r.]. 25 Ivi, p. 61, [t.d.r.].

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Volendo cancellare ogni prova della testimonianza di quella passante, Witkin intervenne per la prima volta attraverso dei graffi esercitati sull’emulsione della pellicola, “cancel-lando” il viso della donna e liberandola dalla condizione di “testimone” del suo atto di “sadismo fotografico”. Da quel momento i graffi esercitati sulla parte emulsionata della pellicola divennero uno stilema dell’opera di Witkin, rappresentando il «simbolo della mia partecipazione immanente all’immagine, anche dopo che l’evento stesso aveva ces-sato di esistere, consentendomi di modificarla a secondo dei miei fini emotivi ed este-tici»26.

Per dirla in termini barthesiani, sul piano della ricezione delle fotografie di Witkin, l’ele-mento ricorrente del graffio potrebbe leggersi come possibile punctum: l’elel’ele-mento di di-sturbo dello studium, «quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)»27. In Witkin il graffio costituisce la testimonianza visiva (e visibile) della

presenza dell’operator barthesiano, definendo il punto d’incontro tra quest’ultimo, lo spectrum e lo spectator all’interno del momento fotografico.

La serie Objects Held and Thrown segnò un punto fondamentale nella ricerca ar-tistica di Witkin, stabilendo un punto di confine tra il periodo delle sperimentazioni gio-vanili e la definizione del suo «processo di autorivelazione»28. Durante l’autunno del 1976, Witkin decide di sostituire agli oggetti modelli umani, costruendo ancora una volta immagini che rappresentassero le sue paure più intime: solitudine, castrazione, amore. Attraverso le immagini della nuova serie, Anonymous Atrocity Witnesses, la fotografia di Witkin si orienta verso la riscoperta e il superamento delle sue paure. La nuova tecnica di sviluppo prevedeva l’applicazione sulla carta da ingrandimento di una porzione di tessuto trasparente leggero strappato e forato in alcuni punti, su cui il fotografo americano spruz-zava alcune gocce d’acqua sparse, creando effetti mirati di sfocatura dell’immagine e rappresentando simbolicamente quel «“velo” che credo si sia sempre sovrapposto tra me

26 Ibidem, [t.d.r.].

27 Barthes, Roland, La camera chiara. Note sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 28 [ed. orig.: La

chambre claire: Note sur la photographie, Paris, Seuil, 1980].

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e tutti gli altri esseri viventi»29. Inoltre, con un effetto finale simile alle fotografie di re-portage di guerra, le nuove immagini suggerivano la visione metaforica del campo di battaglia e della “morte” dello spirito del fotografo30.

Nel 1981 Witkin conseguì il Master of Fine Arts presso la University of New Mexico, ad Albuquerque. Durante il suo percorso di studi ebbe modo di confrontarsi con i maestri della storia della fotografia, curando un rapporto con il linguaggio fotografico estremamente complesso e legato alla volontà di “ri-generare” una visione primordiale «in cui tutte le metamorfosi convivono, ogni trasformazione e ogni visione sono possibili, senza alcuna paura o diniego dell’enigma del diverso e dell’ignoto, del mostruoso e dello strano»31. Sotto questa particolare condizione l’artista si pone davanti al medium

fotogra-fico come demiurgo capace di mettere in scena una realtà visionaria dove ogni elemento iconografico viene scelto con estrema cura, come unità di significato minima di un lin-guaggio estremamente articolato e al tempo stesso paratattico, non dissimile dalla realtà storico-culturale degli anni Ottanta negli Stati Uniti d’America, caratterizzata dalla voca-zione per la costruvoca-zione di immagini spettacolari come sipario calato su quinte scomode.

29 Ivi, p.63, [t.d.r.].

30 È probabile che, attraverso la fotografia, Witkin rivivesse e cercasse di superare i momenti difficili

dell’esperienza come fotografo dell’esercito americano durante la Guerra del Vietnam.

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1.1. L’America di Ronald Reagan e il mercato dell’arte

Nel 1987 lo storico americano Gary Wills coniò l’espressione “Ronald Reagan’s America”, identificando il governo Reagan con gli anni ’80, non soltanto dal punto di vista meramente cronologico, altresì riflettendo su un processo che viene definito come la “great American synecdoche”, ovvero la comunicazione dello spirito culturale dell’epoca, attraverso l’uso figurato dell’immagine del Presidente. La peculiarità del go-verno Reagan fu quella di non limitarsi a sostenere i valori nazionali con la pura retorica verbale, ma di incarnarli in prima persona: attraverso la divulgazione controllata della propria immagine, che divenne massimo comune denominatore della cultura americana dagli anni ’80 in poi. La sua produzione e divulgazione fu affidata al sistema-spettacolo, secondo uno schema ispirato a quello proposto dalla politica dell’orgoglio nazionale por-tata avanti da Jimmy Carter a partire dal 1976.

La letteratura critica ha posto attenzione ai trascorsi professionali del presidente Reagan come attore cinematografico e ipotizza un nesso di causalità tra quelli e il grande consenso popolare riscosso alle urne32. Durante la campagna elettorale del 1980 Reagan sfoggiava una retorica puntellata con citazioni tratte dal copione dei personaggi da lui interpretati, ispirando una fiducia istintiva nei suoi elettori e avviando un processo comu-nicativo incentrato proprio sul culto dell’immagine. Nello scenario socio-politico il di-scrimine tra realtà e finzione divenne sempre più esiguo e insieme a questo diminuì anche la sensibilità critica: la percezione del reale vacillò davanti ad una crescente urgenza nella produzione di immagini che fossero verosimili, ma anche rassicuranti.

A facilitare questo processo d’identificazione massiva fu certamente la diffusione dei nuovi media tecnologici e della trasmissione via cavo. Nonostante un evidente cambio di rotta nello scenario politico americano, è doveroso evidenziare anche differenti processi di sviluppo mediatico nelle varie aree del paese (illusion of synchronicity). Secondo il professore Richard King gli anni Ottanta in America furono caratterizzati da continue tensioni dialettiche: tra “omogenizzazione” e “diversificazione”, tra “uniformità” e “di-versità”, e le varie culture nazionali cominciarono a muoversi in diverse direzioni, seppur contemporaneamente.

32 Ronald Reagan The Movie: And Other Episodes in Political Demonology, Dir. Michael Paul Rogin, film,

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Il Reaganismo – ovvero l’impatto che le scelte economiche e politiche ebbero sul sistema culturale degli Stati Uniti durante gli anni Ottanta – è il quadro in cui si situò la parte di produzione artistica di Witkin non più sperimentale, ma destinata al mercato dell’arte. Tanto negli Stati Uniti quanto in gran parte delle economie occidentali, gli anni Settanta erano stati segnati da profonde incertezze economiche; l’industrializzazione delle economie asiatiche, insieme alla crisi petrolifera del 1973 e alla guerra del Vietnam, contribuirono ad alimentare il fenomeno noto come stagflazione (l’affermarsi contempo-raneo di recessione e inflazione). Fu in questo scenario che Reagan emerse come politico con capacità di proporre delle risposte economiche radicali volte alla risoluzione dei pro-blemi ereditati dalle politiche precedenti. La sua nuova retorica ricostruì il mito ameri-cano per la platea contemporanea, sfiduciata dai recenti insuccessi del Paese.

Reagan promosse la cosiddetta “voodoo economics”, un’economia caratterizzata dall’ab-bassamento delle tasse e del numero di rappresentanti governativi per stimolare la crescita economica del paese e coinvolgervi in maniera più diretta e attiva la partecipazione della popolazione. Ma il reaganismo ebbe successo perché si proponeva anche come una vi-sione morale conservatrice, che affondava le proprie radici negli antichi miti sul valore della famiglia, dell’individualità, sull’orgoglio e la forza nazionale e l’imprescindibilità dal progresso tecnologico. Erano queste le risposte di cui aveva bisogno una nazione messa a dura prova dagli scandali politici degli anni Settanta, che furono conseguenza della visione politica liberale degli anni Sessanta, portata avanti dal Partito Democratico.

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1.1.1. Le ripercussioni del nuovo indirizzo politico sull’ambito artistico

Per introdurre il nuovo ruolo che le produzioni artistiche e culturali cominciarono a ricoprire a partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti, vorrei citare una riflessione di Tom Wolfe circa l’inaugurazione di una mostra su opere della collezione vaticana, al Metropolitan Museum of Art: «Oggi la gente colta considera le confessioni tradizionali – cattolici, episcopali, presbiteriani, metodisti, battisti, ebrei – una questione di pedigree sociale. Soltanto l’arte è considerata religiosamente. Se affermo che l’arte è la religione delle classi istruite, non uso il termine in senso esclusivamente metaforico, come quando si dice di chi segue una dieta o pratica uno sport religiosamente. Non considero “reli-gione” un sinonimo di “entusiasmo”. Mi riferisco piuttosto a ciò che Max Weber identi-ficava alle funzioni oggettive di una religione: l’abnegazione o il rifiuto del mondo e la legittimazione della ricchezza»33.

La devozione con cui il ceto alto borghese americano cominciava a veicolare il proprio interesse e ingenti flussi di denaro, a sostegno delle produzioni artistiche, mette in evidenza l’elezione dell’arte a bene di lusso, nonché a segno distintivo d’appartenenza ad un preciso status sociale, portatore di un «capitale culturale incorporato» di qualità34. Quando Wolfe afferma un’analogia tra arte e religione fa riferimento al cambio di rotta degli investitori, il cui interesse per l’opinione pubblica – prima e durante la Guerra del Vietnam – si estrinsecava nella consuetudine di devolvere grosse somme di denaro ad attività legate ad istituti religiosi, mentre a partire dal dopoguerra le aziende americane cominciarono a veicolare i loro flussi di denaro a sostegno del mercato dell’arte, con ini-ziative di valore culturale conclamabili ad alta voce, per poter meglio assicurarsi il con-senso dell’opinione pubblica: «I guai di una società finanziaria sono direttamente propor-zionali alla sua tendenza nel supportare le arti assicurandosi che lo sappiano tutti»35. Seguendo il ragionamento di Wolfe, l’interesse delle compagnie americane nel promuo-vere l’arte sarebbe stato finalizzato alla legittimazione della loro ricchezza e al controllo di potenziali scandali politico-economici derivabili dagli ingenti profitti.

33 Wolfe, Tom, The Worship of Art: Notes on the New God, in Harper’s Magazine, October 1984.

Consul-tabile al sito: http://www.memelyceum.com/documents/kchu323/wolfe_reading.pdf , accesso del 23/01/2017.

34 P. Bourdieu,

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Le fluttuazioni del mercato dell’arte, accessibile soltanto a pochi ricchi, erano in funzione della crescita economica generale. Dalla crescita dei flussi economici durante gli anni Ottanta si deduce un rapporto di stretta interdipendenza tra arte e mercato finanziario, con conseguenze dirette sulla qualità della compravendita degli oggetti d’arte, il cui valore cominciò a dipendere più dalla capacità dei discorsi critici che dalla qualità della tecnica esecutiva. Basti pensare che nel settembre del 1980 il Whitney Museum investì un mi-lione di dollari sull’acquisto di Three Flags (1958) [fig. 10] di Jasper Johns, che era stato acquistato per la prima volta nel 1959, nella Leo Castelli Gallery di New York, dai signori Burton Tremaine, per novecento dollari. Per un artista vivente non era usuale assistere ad un tale incremento del valore di mercato della sua opera, per cui lo stesso Johns dichiarò: «Sono stato lanciato nel mercato dell’arte durante la depressione e un milione di dollari sono davvero tanti per uno che è cresciuto in quell’epoca. È una cifra che suona sicura-mente bene, ma non ha niente a che vedere con la pittura»36.

Dalle sue colonne della rivista Time, il critico d’arte Robert Hughes tratteggiò l’atmosfera di quegli anni notando come «perfino il più inesperto imprenditore miliardario di titoli spazzatura sa che, se vuole pavoneggiarsi ostentando un rischioso ma allettante potere economico, non esiste un investimento migliore dell’arte»37.

Con la crescita progressiva del mercato dell’arte, nacque l’esigenza di nuove figure pro-fessionali: aumentò il numero delle gallerie d’arte, si affermarono i nuovi businessman d’arte:consulenti e mercanti che giocarono un ruolo fondamentale nei processi di media-zione tra gli artisti e il mondo della finanza. La loro capacità di convertire gli artefatti in somme di denaro diventò requisito imprescindibile per il riconoscimento della buona pro-fessionalità, molto più che l’intuito nell’individuazione del talento “meramente” artistico. In qualche misura, il mercato dell’arte si avvicinava sempre più ai sistemi di produzione dell’industria dello spettacolo: i vernissage erano eventi attrattivi per le celebrità, era quindi possibile stabilire i presupposti per un’assidua copertura mediatica. Le nuove con-nessioni instaurate tra arte e finanza influirono non soltanto sulle modalità di acquisto e vendita delle opere, ma anche su quelle per il raggiungimento del favore della critica da

36 Thompson, Graham, American Culture in the 1980s, Edinburgh, Edinburgh University Press, 2007, p.

63, [t.d.r.].

37 Hoban, Phoebe, Basquiat: A quick Killing in Art, London, Penguin, 1998 [ed. consultata: London,

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parte degli artisti: il binomio artista-celebrità stabilito da Andy Warhol negli anni Ses-santa scivolò verso un nuovo processo di riconoscimento della personalità artistica, gio-cato quasi sempre sulla necessità del “prossimo grande nome” da svelare.

Alcuni artisti dell’epoca, come Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, avevano raggiunto il successo da giovani, rendendo popolare anche il background culturale da cui provenivano ed erano riusciti a finalizzare in breve tempo vendite da decine di migliaia di dollari. Tutti questi dettagli contribuirono ad animare uno scetticismo generale che si potrebbe sintetizzare attraverso alcune parole di Robert Motherwell, esponente dell’espressionismo astratto: «Al giorno d’oggi dobbiamo ammettere una mancanza di sensibilità, una certa indifferenza rispetto agli ultimi argomenti di discussione. La ten-denza è quella di improvvisare anziché portare avanti un pensiero con lucidità e coerenza. Quando abbiamo iniziato c’erano persone come [Piet] Mondrian, che consideravano l’arte un richiamo interiore, qualcosa che permettesse l’espressione del mondo spirituale. Adesso sono tutti cinici, hanno dimenticato che cosa sia davvero l’arte»38. L’accusa

prin-cipale mossa alla nuova generazione di artisti fu di voler raggiungere la fama attraverso un lavoro considerato superficiale. A tal proposito Robert Hughes ironizzò dichiarando che: «Se paragonassimo Pollock a John Wayne, Haring e Basquiat sarebbero paragonabili a due anonime comparse in Miami Vice»39.

Il modernismo a cui fa riferimento Motherwell sembrava essere molto lontano dal nuovo scenario di produzione artistica e i “nuovi” artisti popolari non sembravano interessati ad aprire un dialogo con la generazione precedente. Si riteneva che la direzione adottata sa-rebbe stata quella di abbattimento delle frontiere tra arte e cultura popolare, soprattutto per assecondare le nuove esigenze del mercato di riferimento, dove la destinazione d’uso e il processo di compravendita delle nuove opere d’arte rispondeva più alle logiche dell’economia finanziaria che a quelle del rigido intellettualismo.

È probabile che il clima di improvvisa crescita del mercato dell’arte abbia favorito l’opera di Witkin, i cui contenuti risultavano il perfetto compromesso tra gli argomenti dibattuti dalla cultura popolare e i rimandi formali all’“arte alta” della tradizione storica.

38Brenson, Michael, Artists Grapple with New Realities, in New York Times, 15 May 1983. Consultabile

al link: http://www.nytimes.com/1983/05/15/arts/artists-grapple-with-new-realities.html , accesso del 30/10/2016. [t.d.r.].

39 Hughes, Robert, Careerism and Hype Amidst the Image Haze: American Painters of the ‘80s are Buffeted

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Altro elemento a favore per Witkin fu la scelta del medium fotografico, che già dagli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta si affermò come forma d’arte legittima, andando in-contro alle esigenze di una nuova generazione di artisti «coinvolti in un dialogo critico sulla natura della rappresentazione fotografica. Molti tra questi artisti […] sentivano che le immagini avrebbero definito il mondo più dell’esperienza reale»40. Gli artisti di quegli

anni avevano capito il grande potenziale comunicativo delle immagini e della rappresen-tazione, che il critico Craig Owens definì «l’atto di potere fondante della nostra cultura»41. Allo stesso modo in cui i politici dell’epoca si avvicinavano al pubblico attraverso la diffusione mediatica della loro immagine, alcuni artisti scelsero di sfruttare la crescente popolarità della fotografia: talvolta per veicolare il loro pensiero, incentrato sulla natura della rappresentazione fotografica (come nel caso di Barbara Kruger, Sherrie Levine, Cindy Sherman, Richard Prince, Robert Longo etc.); talaltra come supporto efficace su cui rappresentare e avvalorare la loro interiorità artistica, attraverso la costruzione di sce-nari immaginifici, come nel caso di Joel-Peter Witkin.

40 Phillips, Lisa, The American Century. Art & Culture 1950 - 2000, New York, Whitney Museum of

American Art – W.W. Norton & Company, 1999 (catal. mostra, New York, 1999-2000), p. 274, [t.d.r.].

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1.2. Censura e opinione pubblica

Nel 1985 Reagan incaricò il membro del partito repubblicano Ed Meese di portare avanti un’inchiesta governativa sui danni e gli effetti della pornografia negli Stati Uniti. Lo scopo era di mettere in discussione il rapporto della commissione che negli anni Set-tanta aveva già indagato sul tema, dichiarando di non aver riscontrato relazione tra por-nografia e violenza sessuale. Meese concluse la sua relazione attestando, invece, una nessione tra i due fenomeni: nonostante il programma politico della neo-eletta destra con-servativa, era stato impossibile prevenire e tenere sotto controllo la produzione e la distri-buzione della pornografia, soprattutto in un’epoca di crescita della comunicazione video. In mancanza di legislazione specifica, il governo adottò alcune misure restrittive per la fruizione di materiale considerato blasfemo, pornografico e osceno – ampiamente diffuso nel contesto culturale – e vennero organizzate campagne e proteste. I primi ambiti presi di mira dall’opinione pubblica furono quelli dell’arte e della fotografia, perché erano que-sti i settori che maggiormente beneficiavano del sostegno economico e del patrocinio di agenzie federali indipendenti come il National Endowment for the Arts (NEA), che verso la fine della decade, a causa delle numerose pressioni, si trovò costretto a rifiutare qual-siasi fondo pubblico a sostegno dell’opera di artisti o mostre considerati potenzialmente offensivi.

Alcuni episodi occorsi alla fine degli anni Ottanta ricordano quasi la paranoia del mac-cartismo. Nel 1988 l’artista americano di origine onduregna e afro-cubana Andres Ser-rano fu uno dei sette vincitori degli annuali Awards in the Visual Arts conferiti dal Sou-theastern Center for Contemporary Art, grazie alla fotografia Piss-Christ (1987) [fig. 11], che rappresenta l’immagine di un crocifisso immerso in un bicchiere colmo di urina dell’artista. A Serrano fu conferito il premio per un valore di quindicimila dollari, finan-ziati da una serie di fondazioni benefiche (la Ford Foundation, la Rockefeller Foundation, oltre che da aziende e donatori privati) e dalla NEA. La vincita di Serrano non scatenò che qualche piccolo disappunto, ma l’anno seguente il nome dell’artista fu legato indis-solubilmente a quello del fotografo Robert Mapplethorpe, che Dai primi lavori degli anni Settanta (per lo più ritratti che avevano come soggetto amici e conoscenti e nature morte con tema floreale) verso la fine della decade, esplorava tematiche vicine all’erotismo e

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all’omosessualità. Sono di questo periodo le raccolte fotografiche X Portfolio e Z Portfo-lio, che indagano rispettivamente il sadomasochismo e la nudità maschile di colore, con opere come Man in a Polyester Suit (1980) [fig. 12], che divisero la critica tra alcuni detrattori che leggevano in quelle immagini un’interpretazione oggettivata, degradante e stereotipata del corpo maschile di colore, e sostenitori, come lo scrittore omosessuale Ed-mund White, che trovava la rappresentazione dell’ “uomo nero” di Mapplethorpe forte-mente apprezzabile per la carica passionale intrinseca.

La vicenda di Serrano occorse in un periodo di forte censura nei confronti dei progetti artistici che sviluppavano tematiche ritenute oltraggiose e, seppur indirettamente, riconducibili all’ipersensibilità nella percezione del tema dell’AIDS, sindrome che in-fluenzò in maniera significativa l’ambiente artistico americano a partire dalla metà degli anni Ottanta (non sono pochi gli artisti noti che contrassero il virus: Keith Haring, David Wojnarowicz e Mapplethorpe soltanto per citarne alcuni). Se durante gli anni Settanta si assistette alla progressiva affermazione e stabilizzazione della subcultura omosessuale maschile in gran parte delle città americane, gli anni successivi l’emergenza AIDS deter-minò un periodo storico che lo studioso e attivista per i diritti LGBT, Dennis Altman, definì con le seguenti parole: «la generosità della società [americana] verso i suoi outcast sta scendendo a livelli mai visti prima»42.

Se durante gli anni Settanta e i primi Ottanta lavori come quello di Mapplethorpe erano passati praticamente inosservati agli occhi di chi si professava tutore della moralità na-zionale, durante gli anni Ottanta si configurarono una serie di nessi causali che argomen-tarono l’interdipendenza tra sottocultura omosessuale ed emergenza AIDS. Innanzitutto la comunicazione dei media, che, insieme ai «molti sedicenti rappresentanti della moralità cristiana»43, sottolineava la connessione tra HIV/AIDS l’ambiente omosessuale maschile. La produzione culturale e l’attivismo che rappresentavano o promuovevano l’orienta-mento omosessuale furono stigmatizzate non solo come azioni che favorivano comporta-menti ritenuti perversi e immorali, ma anche come uno stile di vita i cui effetti si sarebbero potuti ripercuotere su tutta la società.

42 Altman, Dennis, AIDS and the New Puritanism, London, Pluto Press, 1986, p. 28, [t.d.r.]. 43 Ivi, p. 3, [t.d.r.].

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Nonostante le intenzioni di Mapplethorpe fossero scevre da messaggi attivisti, le sue opere passarono come tali. Prodotte durante gli anni che precedettero l’esplosione dell’epidemia, vennero interpretate alla luce della nuova emergenza sanitaria internazio-nale secondo un principio di retroattività che le riteneva epidemiche, in quanto portatrici di valori culturali che era necessario controllare e non più convenienti da sponsorizzare (soprattutto con fondi pubblici). Sebbene non esistesse una volontà esplicita di portare alla luce argomenti legati all’AIDS, la profonda natura omosessuale delle immagini di Mapplethorpe sembrava inquadrabile dentro il ruolo di “imputato popolare”, in linea con le argomentazioni portate avanti ad alta voce dalle accuse dell’opinione pubblica. D’altro canto, come dichiarò Douglas Crimp, non ammettere un collegamento tra arte e valori culturali sarebbe stato come sollevare l’arte stessa dalla sua funzione sociale, riducendo dichiaratamente il suo ruolo alla mera destinazione merceologica, nonché a pretesto per la libera circolazione e il riuso di ingenti somme di denaro altrimenti difficilmente giusti-ficabili44.

I neo-conservatori della seconda metà degli anni Ottanta elessero come capro espiatorio tutte le opere d’arte che lasciassero trapelare, anche soltanto nella scelta dei temi, un coin-volgimento con le tematiche “calde” di quegli anni, senza la contestualizzazione storica per opere prodotte prima dell’emergenza. La retrospettiva The Perfect Moment inizial-mente allestita all’Institute of Contemporary Art di Philadelphia (dicembre 1988 – gen-naio 1989) divenne il bersaglio di una campagna promossa dall’American Family Asso-ciation (AFA) a censura dell’arte ritenuta blasfema. Il primo obiettivo era il Piss Christ di Serrano, ma quando divenne noto che la NEA aveva sovvenzionato la mostra, la con-testazione dell’AFA raggiunse l’aula del Senato. Il principale capo d’imputazione fu l’oscenità e gli effetti ricaddero in gran parte sulla NEA, della quale furono messi in di-scussione i finanziamenti alle arti. Le conseguenze furono immediate: nel giugno del 1989 la Corcoran Gallery of Art cancellò dal programma The Perfect Moment.

Successivamente la campagna governativa contro la destinazione dei fondi del NEA all’arte ritenuta “shocking”, minacciava il taglio per intero dei fondi stanziati. Seguì un’accesa polemica sui fondi federali destinati alle arti, durante la quale molti esponenti

44 Crimp, Douglas, The Art of Exhibition, in October, n. 30, 1984. Consultabile al link:

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della destra ritenevano che non fosse compito del governo stabilire un sistema di valuta-zione qualitativo sulle arti. Il senatore repubblicano Jesse Helms ottenne un emendamento correttivo sui finanziamenti NEA, sulla scia del quale il Congresso vietò l’assegnazione di borse di studio a progetti che rispondessero all’occorrenza di « promuovere, incenti-vare o produrre contenuti osceni o indecenti, comprese, ma non limitato a, raffigurazioni di sadomasochismo, omosessualità, sfruttamento di minori o individui coinvolti in atti sessuali; o contenuti che denigrano i simboli di fede o i sostenitori di uno specifico credo religioso o non religioso»45. Insieme a queste parole, la mattina del 29 settembre 1989 si consumò uno spettacolo eclatante nell’aula del Senato: Helms distrusse simbolicamente alcune immagini di Serrano e Mapplethorpe, dando il via ad un nuovo clima di conflitto tra le personalità coinvolte nel mercato della produzione culturale e la religiosa destra neo-conservativa, che portò avanti un’azione penale nei confronti di Dennis Barrie, diret-tore del Cincinnati Contemporary Arts Center, dove The Perfect Moment fu allestita nel 1990.

Barrie venne assolto in sede di giudizio ma, come scrisse il professore di storia della Yale University, George Chauncey, «A New York le abitudini omosessuali sono sempre meno tollerate e dichiarate pubblicamente. La loro segregazione è molto più rigida nella se-conda parte del secolo, che nella prima […] il grande rigore del dopoguerra ha accecato il senso di tolleranza reciproca che ci caratterizzava durante gli anni che hanno preceduto la guerra»46.

Nel clima di censura di quegli anni, insieme alle opere di Mapplethorpe e Serrano, anche quelle di Witkin, indubbiamente esplicite nel descrivere tematiche sensibili all’emendamento del 1989, furono oggetto dei commenti sprezzanti di Helms espressi in Senato e divulgati al grande pubblico attraverso le reti televisive. Nel 1980 il senatore repubblicano biasimò che Witkin avesse ricevuto una borsa di studio da 20.000 dollari (la prima delle quattro stanziate quell’anno dal NEA per la sezione di fotografia)47.

45Fonte: http://www.nytimes.com/1989/07/28/opinion/in-the-nation-art-and-indecency.html e

https://de-mocrats.senate.gov/1989/09/29/senate-roll-call-vote-00218-21/#.WLfsvzs182w, accesso del 02/03/2017, [t.d.r.].

46 Chauncey, George, Gay New York: Gender, urban culture, and the making of the gay male world,

1890-1940, New York, Basic Books, 1994, p. 17, [t.d.r.].

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L’opera di Witkin non fu oggetto di una vera e propria censura governativa, tuttavia dopo essere stata inclusa, nel 1970, nella selezione delle opere per la collezione permanente del Museum of Modern Art di New York dal direttore del dipartimento di fotografia, John Szarkowski, ed essere stata esposta più volte tra il 1980 ed i primi anni ’90 (attraverso una serie di mostre tra cui la monografica del 1985 al San Francisco Museum of Modern Art; l’inclusione di una selezione di immagini fotografiche alla Whitney Biennial di New York; la pubblicazione della sua prima monografia durante lo stesso anno e la retrospet-tiva del 1986 al Brooklyn Museum di New York), il pubblico degli Stati Uniti non ap-prezzò mai particolarmente la sua arte, che nel 1993 Helms tornò a definire «degenerate art».

Nel 1995 Germano Celant curò la prima grande retrospettiva dedicata all’opera di Witkin e allestita al Solomon R. Guggenheim Museum di New York. La mostra attirò l’atten-zione di Maria Christina Villaseñor, che nel maggio 1996 pubblicò un articolo sul “Per-forming Arts Journal” soffermandosi sull’evidente insuccesso di pubblico riscosso e de-finendola un «sideshow»48. Villaseñor giustifica lo scarso interesse argomentando: «Sem-bra che l’interesse per le immagini “trasgessive” sia momentaneamente passato di moda […] siamo stanchi di sentire parlare di morte e disinteressati allo scambio delle armi nu-cleari che ci ha ossessionato uno o due decenni fa. Siamo cresciuti abituandoci a vedere i media trarre vantaggi economici dall’AIDS, perfino nelle campagne pubblicitarie. È stato detto abbastanza sulla fobia del corpo umano e del sangue […] per ora sembriamo mag-giormente interessati alle palestre e a centri benessere di ogni tipo. In generale stiamo ricostruendo il mito della perfettibilità del corpo umano»49. Tra le righe di queste valuta-zioni è possibile leggere una spiegazione dello scarso successo di pubblico che l’opera di Witkin riscosse nell’opinione pubblica dei suoi connazionali, giustificando lo scarso in-teresse nel censurarla e rappresentando al tempo stesso la fortuna della sua divulgazione all’estero – soprattutto in Francia – dove riscosse grande successo agli occhi del pubblico europeo, maggiormente sensibile ai suoi contenuti.

A partire dagli anni Settanta, l’opera di Witkin è sempre riuscita ad esprimersi assecondando le sue esigenze radicali e libere. Per la sua eccentricità, in molti l’hanno

48 Villaseñor, Maria Christina, The Witkin Carnival, in Performing Arts Journal, Vol. 18, No. 2, May 1996,

p. 77. Consultabile al link: www.jstor.org/stable/3245851 , accesso del 13/07/2016. [t.d.r.].

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comparata a quella prodotta da Charles Baudelaire, Gustav Klimt, Diane Arbus e Robert Mapplethorpe. Per gli intenti che la animano (la stessa Villaseñor ammise: « l’aspetto affascinante dell’opera di Witkin è la morale dell’immagine […] egli [Witkin] si tuffa nelle insenature più profonde e oscure per sviluppare un’immagine che possa aiutarci a comprendere la nostra interiorità più nascosta»50) sono stati numerosi gli istituti che l’hanno sostenuta attraverso borse di studio e sponsorship: la Ford Foundation, il NEA, il Ministère de la Culture et de la Communication Française e l’International Center of Photography. Le fotografie di Witkin sono entrate a far parte delle collezioni permanenti dei più importanti musei statunitensi, giapponesi ed europei: in Inghilterra, Spagna, Olanda e Francia, dove «lui [Witkin] è stato celebrato molto più che negli Stati Uniti»51.

50 Ibidem, [t.d.r.].

51 Witkin, Joel-Peter, Sublime Horror, Numinous Pain, in The Georgia Review, vol. 58, n. 3, 2004, p. 577.

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