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topoi significativi La fotografia di Joel-Peter Witkin: alcuni 2

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La fotografia di Joel-Peter Witkin:

alcuni topoi significativi

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L’opera fotografica di Joel-Peter Witkin è articolata su molteplici livelli di significazione e potrebbe essere paragonata ad una visione “caleidoscopica” della realtà, dove l’accu-mularsi delle infinite prospettive e possibilità di lettura provoca nell’osservatore esterno un senso di iniziale smarrimento. In Witkin la narrazione visiva è affidata ad un continuo

entrelacement, di narrazioni, dettando un ordine compositivo apparentemente scomposto

e disordinato, ma caratterizzante di un’estetica estremamente soggettiva e perfettamente riconoscibile.

Al centro dell’arte fotografica di Joel-Peter Witkin c’è il tentativo di comprendere e rivelare la “sacralità” nascosta dietro la sofferenza. Da un punto di vista iconografico, la fotografia di Joel- Peter Witkin può essere avvicinata ad una tradizione che affonda le radici agli albori della tecnica fotografica stessa e che non trascura mai il debito nei fronti delle grandi opere d’arte del passato. La fotografia di Witkin si relaziona alla con-temporaneità e la condensa dentro immagini apparentemente frammentate e confusiona-rie, la cui piena comprensione è lontana dal fare rapido e approssimativo che ci impone la nostra epoca, permettendoci la riscoperta del piacere di osservare, capire e rielaborare proprio delle epoche storiche passate: «Credo che il mondo di oggi sia un mondo migliore, più giusto. Il mondo di oggi permette cose come mandare la gente su altri pianeti, ma ogni 3 secondi un bambino muore di fame. Quindi, è un dato di fatto che non sappiamo quale sia il modo più giusto di vivere e non lo sapremo mai. Il mio lavoro è basato su questo problema, che ritroviamo lungo tutta la storia: nella civilizzazione occidentale, nella narrazione della storia di questa civiltà, nella storia dell’arte e in tutto ciò che carat-terizza l’essere umano. Resta da capire quali siano le cose belle e le sofferenze della vita: l’amore, la paura, il male, il bene, queste cose. Tutto questo fa sì che noi siamo disorien-tati. Siamo confusi ma abbiamo le capacità per poter cambiare il mondo»1.

All’interno della produzione artistica del fotografo statunitense è possibile individuare alcuni topoi in stretta relazione tra loro, tra cui: la reiterazione di opere appartenenti alla tradizione storico-artistica del passato, il perturbante, la morte e la sessualità. Nel corso del seguente capitolo e del successivo analizzerò lo sviluppo dei suddetti argomenti, al fine di fornire un ordine di lettura certamente non completo, ma significativo dell’opera in esame.

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2.1 Teoria della citazione visiva: opere nuove che parlano di altre opere

Tra le opere di Witkin è possibile distinguerne alcune che, ad un primo sguardo, risultano familiari nella composizione e che non tarderanno a rivelarsi come reiterazioni visive di opere d’arte appartenenti alla tradizione storico-artistica del passato.

Concentrandosi sulla necessità di fornire una definizione del processo citazionistico vi-sivo in epoca contemporanea, la semiologa Maria Rosaria Dagostino lega la citazione visiva ad una concezione di spazialità: «Citare deriva dal termine latino citare, usato per “mettere in movimento”, far passare da uno stato di riposo a uno di azione. Non è forzato, allora, pensare a questa dislocazione del dettaglio come a una forma di azione sul e nel discorso, a un risveglio dal torpore del senso a cui il bombardamento d’immagini ci abi-tua, passando proprio attraverso l’immagine, questa volta attiva»2.

La temporalità della citazione visiva è data dalla giustapposizione di due momenti opposti (il passato dell’opera già nota e il presente della nuova opera creata), che incontrandosi, danno forma ad una terza dimensione temporale definita da Dagostino come «tempo im-mobilizzato, quasi astorico, che mischia passato e presente in una sorta di babele visiva temporale. Tutto vive in un eterno presente che è quello della rappresentazione del mes-saggio visivo»3.

Dal punto di vista semiotico la pratica della citazione visiva è identificabile come una traslazione di significato attuabile tra testi visivi. Come conseguenza dell’atto citazioni-stico, l’immagine prodotta sarà un’immagine nuova, che esprime il suo potenziale signi-ficativo attraverso un processo di «ri-attualizzazione» successivo alla decontestualizza-zione dal sistema segnico di riferimento originario4.

Dal punto di vista della pragmatica, la buona riuscita della citazione visiva – retta da un processo di rimandi segnici meno diretto rispetto a quella letteraria – è riscontrabile nella risposta dello spettatore finale. Ad una prima sensazione di confusione davanti al mancato

2 Dagostino, Maria Rosaria, Cito dunque creo: forme e strategie della citazione visiva, Roma, Meltemi,

2006, p. 23.

3 Ivi, p. 31. 4 Ibidem.

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riconoscimento di un’immagine familiare si alternerà un senso di «piacere» visivo e di stupore5.

Guardando alla sua lunga tradizione, la storia dell’arte è costellata di opere che sono citazioni di altre opere. Sebbene in epoca rinascimentale e per tutto il XVII secolo la pratica fosse legittimata senza metterne in discussione il valore artistico, con il diffon-dersi del positivismo, dalla seconda metà dell’Ottocento, si assistette ad un suo decadi-mento.

La pratica citazionista ri-trovò la sua ragione d’essere durante il XX secolo, attraverso alcune avanguardie storiche, che la proposero con valore rigenerativo di critica anticon-formista mossa al sistema artistico dell’epoca. Ad esempio, nel 1919 Marcel Duchamp mise in crisi il concetto di “originalità” disegnando dei baffi su una riproduzione foto-meccanica (una cartolina) della Gioconda di Leonardo da Vinci, creando un ready made rettificato, che trova ulteriore spiegazione del suo significato nel titolo: L.H.O.O.Q., let-teralmente “lei ha caldo al sedere” (ovvero “è eccitata”). Inizialmente l’intento dissacra-torio di Duchamp venne letto come critica mossa all’adulazione cieca e passiva che il pubblico riservava ai grandi capolavori del passato, incoraggiando l’utilitarismo della so-cietà moderna. La critica più recente ha attribuito all’opera di Duchamp significati sempre nuovi, dimostrando la complessità semiotica della pratica citazionistica visiva in epoca contemporanea e individuando in questa la possibilità di arricchire il senso delle imma-gini.

Diversamente dall’ambito dei testi scritti, dove la citazione è universalmente riconosci-bile attraverso una codificazione semantica (l’uso delle virgolette o del corsivo e la pre-cisazione del riferimento autoriale in nota), nella produzione visiva l’individuazione del processo citazionistico non è sempre immediato e diretto, ed è oltremodo complessa l’in-dividuazione, sul piano concettuale più che formale, delle varie tipologie: gli omaggi, i

d’après, le rivisitazioni e le citazioni pure. In ogni caso, come osserva la professoressa

Lucilla Meloni in riferimento al fenomeno citazionistico visivo nell’arte contemporanea: «la citazione è assunta […] come un’operazione critica di scarto linguistico, sia che operi ‘alla maniera di’, sia che prelevi direttamente alcune iconografie, o parte di esse, che

5 Steinberg, Leo, The Glorious Company, in Lipman, Jean, Richard Marshall and Whitney Museum of

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vengono trattate quindi come innesto testuale, sia che rivisiti delle forme dell’antico o del contemporaneo»6.

Non è un caso che il professore belga Antoine Compagnon abbia definito la citazione come «la più potente figura postmoderna»7. Tra gli anni Settanta e gli Ottanta del XX secolo la cultura del postmodernismo orientò la sua attenzione verso una definizione dei confini teorici e critici della pratica citazionistica. In Italia fu significativa la mostra del 1974 La ripetizione differente: Livello iconico, Livello concettuale, Livello

comportamen-tista, curata da Renato Barilli presso lo Studio Marconi di Milano. Alla mostra fece

se-guito la pubblicazione di un saggio dove Barilli spiega il ricorso alla citazione in epoca contemporanea come unica strada percorribile dagli artisti, costretti a «dover tornare in-dietro» per poter creare qualcosa di nuovo, dato che «le riserve del nuovo vanno via via assottigliandosi… le riserve di novità formale, pittorica, iconica consentite all’arte ap-paiono già oggi largamente esaurite»8. Sul rapporto tra le due opere, Barilli chiarisce «Le posizioni dell'imitato e dell’imitatore sono ben distinte». Vorrei soffermarmi su questo punto per evidenziare il debito di Barilli nei confronti di Differenza e ripetizione (1968) del filosofo Gilles Deleuze, un testo chiave nel dibattito estetico e teorico sul postmoder-nismo.

Deleuze esprime l’idea secondo cui l’atto del ripetersi non è il susseguirsi di un discorso sempre identico a sé stesso, ma l’affermazione del diverso. Partendo dalla filo-sofia hegeliana, il filosofo francese afferma che le vecchie nozioni platoniche di “identità” e “contraddizione” sono state sostituite da quelle nuove di “differenza” e “ripetizione”.

In linea con lo strutturalismo francese degli anni Sessanta, che contemplava la coesistenza di elementi differenziali, ovvero eterogenei, dentro uno stesso discorso, De-leuze si apre alla possibilità della coesistenza di due dimensioni temporali diverse: il pas-sato e il presente possono coesistere attraverso le forme di rappresentazione del pensiero (arte, letteratura, musica etc.). Secondo il filosofo francese la «differenza», intesa non

6 Meloni, Lucilla, Arte guarda arte. Pratiche di citazione nell’arte contemporanea, Milano, Postmedia

Books, 2013, p. 16.

7 Compagnon, Antoine, I cinque paradossi della modernità, Bologna, Il Mulino, 1990 [ed. orig. Les cinq

paradoxes de la modernité, Paris, Seuil, 1990], p. 132.

8 Barilli, Renato, Informale oggetto comportamento. La ricerca artistica negli anni 70, Milano, Feltrinelli,

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come negazione ontologica, ma come atto creativo originale (nuovo), è coinvolta nel pro-cesso di ripetizione di un discorso già noto9.

Traslando il pensiero di Deleuze su Witkin, possiamo dedurre che le sue citazioni siano opere sempre nuove: perché “differenti” dal loro precedente storico. Come si vedrà più avanti, nell’esegesi di alcune opere di Witkin assunte a modello, l’operazione citazioni-stica del fotografo non rimane un mero esercizio di copia: Witkin innesta un dialogo dia-cronico con le opere del passato, dove gli elementi sono parafrasati e attualizzati, talvolta mantenendo vivo un parallelismo tra le vicende storiche e quelle della nostra contempo-raneità.

Witkin riesce nel processo di attualizzazione di un contenuto storico ricorrendo agli ele-menti “differenziali” personalizzati secondo la sua poetica. Infatti, secondo Deleuze, ab-biamo percezione della «ripetizione» soltanto di fronte al processo sottrattivo della «dif-ferenza». Questo concetto, definito «paradosso della ripetizione», viene chiarito facendo riferimento alla tesi del filosofo inglese David Hume, per il quale «la ripetizione […] non muta nulla nell’oggetto [ripetuto] […] tuttavia si verifica un mutamento nello spirito che contempla: una differenza, qualcosa di nuovo nello spirito»10. In altre parole, abbiamo percezione della ripetizione soltanto grazie al paradosso della “differenza”: ci accorgiamo di trovarci davanti ad una citazione quando, andando alla ricerca dei dettagli familiari e noti, li troviamo sostituiti da nuovi elementi, oppure non li troviamo affatto.

Secondo Deleuze la predisposizione a (ri)conoscere un discorso già noto, o ad eviden-ziarne eventuali alterazioni, non può essere ricondotto a un processo della memoria, né ad uno intellettivo, ma ad una configurazione “sintetica” del tempo. Il filosofo considera il tempo come un insieme di istanti indipendenti, ciascuno dei quali costituisce una sin-gola “determinazione fluttuante” e che «unito ad altri istanti può formare una sequenza

9 «La differenza è lo stato in cui si può parlare delLA determinazione. La differenza “tra” due cose è soltanto

empirica, mentre estrinseche sono le determinazioni corrispondenti. Senonché, in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa che si distingua, eppure “ciò da cui” si distingue non si di-stingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue. Si direbbe che il fondo sale alla superficie, “senza cessare di essere fondo”». Fonte: Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997 [ed. orig.: Différence et Répétition, Paris, Presses Universitaires de France, 1968], p. 43.

10 Ivi, p. 96. Quando compare A, io mi aspetto la comparsa di B. E viene da chiedersi se non consista in

questo il per sé della ripetizione […] se il paradosso della ripetizione non stia nel non poter parlare di ripetizione se non attraverso la differenza o il mutamento che essa introduce nello spirito che la contempla, forse attraverso una differenza che lo spirito sottrae alla ripetizione

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temporale […] che si fonda sulla ripetizione degli istanti, la quale contrae gli uni negli altri gli istanti successivi indipendenti, costituendo così il presente vissuto, il presente vivente, in cui il tempo si dipana. A questo presente appartengono sia il passato sia il futuro: il passato nella misura in cui gli istanti precedenti sono trattenuti nella contrazione; il futuro, in quanto l’attesa è anticipata nella stessa contrazione»11.

La citazione visiva in Witkin attua il paradosso della ripetizione attraverso la differenza, seguendo un processo che Deleuze chiama «ripetizione nuda»: ovvero una ripetizione simbolica, che agisce «per simulacro, in profondità», svuotando i significanti del passato del loro significato originario e innescandovi i significati del presente12.

Infine Deleuze individua una certa vicinanza tra le pratiche suddette e il fine dell’arte che, secondo il filosofo francese, è «di porre in atto simultaneamente tutte queste ripetizioni […] di inserirle le une nelle altre e […] di invilupparle di illusioni il cui effetto varia caso per caso. L’arte non imita perché anzitutto ripete, e ripete tutte le ripetizioni per conto di una potenza interiore ( se l’imitazione è una copia, l’arte è simulacro, potere di rovesciare le copie in simulacri) […] Ogni arte dispone di tecniche ripetitive che si sovrappongono l'una sull'altra, il cui potere critico e rivoluzionario può toccare il punto più alto, condu-cendola dalle smorte ripetizioni dell'abitudine alle ripetizioni profonde della memoria, quindi alle ripetizioni ultime della morte ove è in gioco la nostra libertà»13.

Dal punto di vista teorico e filosofico, l’opera di Deleuze è certamente identifica-bile come matrice delle posizioni critiche sul postmodernismo, a partire da Jean-François Lyotard che ne La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere14 individua nel postmo-derno il momento della perdita e della fine delle grandi narrazioni, che erano state la base e struttura portante della modernità. La rottura che il postmodernismo intraprende nei confronti del periodo precedente è radicale e, secondo alcuni autori15, imputabile alla lo-gica culturale del capitalismo.

11 Ibidem. 12 Ivi, p.371. 13 Ibidem, p. 375.

14 Lyotard, Jean-François, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2014 [ed.

orig. La Condition postmoderne: Rapport sur le savoir, Paris, Éditions de Minuit, 1979].

15 Vedi Jamerson, Fredric, Postmodernismo: Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi

Editore, 2007 [ed. orig. Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, London, Verso Books, 1991].

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Come scrivono Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois e Benjamin H.D. Buchloh, ci troviamo davanti ad un «nuovo senso dell’immagine come pictures, cioè come palinsesto di rappresentazioni, spesso trovate o appropriate, raramente originali o uniche che complicavano e contraddicevano le pretese di autorialità e autenticità così im-portanti per la maggior parte dell’estetica moderna»16. Gli stessi autori operano una di-stinzione di due correnti all’interno dell’arte postmoderna: il “postmodernismo neocon-servatore” e il “postmodernismo post-strutturalista”. Il primo «predilesse una commi-stione eclettica di stili arcaici e strutture contemporanee» e «fu più antimodernista che postmodernista; come gli antimodernisti del periodo tra le due guerre, cercò stabilità, ad-dirittura autorevolezza, attraverso il rimando alla storia ufficiale»17. Dentro questa tipo-logia gli studiosi individuano opere di artisti che sono il risultato della commistione di citazioni estratte da stili storici eterogenei e assolutamente decontestualizzati: il “pasti-che”.

Il secondo verte, invece, sulla concezione post-strutturalista del "testo frammentato”, ov-vero antitetico rispetto al modello modernista dell’opera unitaria, dove, per dirla con Bar-thes: «[il testo] è uno spazio multidimensionale nel quale si mescola e si scontra una va-rietà di testi, nessuno dei quali originali»18. È in questa seconda corrente che potrebbe essere collocata l’opera di Witkin: certamente per la tendenza a concentrare diversi rife-rimenti iconografici – talvolta stridenti – tra loro; in secondo ordine, per il suo carattere frammentario, che verrà analizzato nel prossimo capitolo.

16 Foster, Hal, R.Krauss, Y-A.Bois, B.H.D. Buchloh, Arte dal Novecento. Modernismo Antimodernismo

Postmodernismo, Milano, Zanichelli, 2010, p. 580 [ed. orig. Art since 1900: Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames & Hudson, 2004].

17 Ivi, p. 597.

18 Barthes, Roland, Il piacere del testo, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1975, p. 36 [ed. orig. Le plaisir du

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2.1.1 Dalla pittura alla fotografia: la citazione intermediale

Nel precedente paragrafo la pratica citazionistica visiva è stata analizzata da un punto di vista teorico generale. Quando ci troviamo davanti ad opere fotografiche che citano opere pittoriche o plastiche, le dinamiche della pratica citazionistica diventano più complesse e possono essere articolate su più livelli di valutazione: la citazione diviene intermediale, ovvero corrisponde alla traduzione del significato da un sistema discorsivo ad un altro.

È anzitutto necessario partire da alcuni lineamenti teorici della fotografia, troppo spesso affrontata da storici e critici come appendice della storia dell’arte. Rosalind Krauss ha dedicato un ampio corpus di studi sulle specificità del medium fotografico, inteso come linguaggio delineato da un proprio profilo identitario.

Nel saggio Gli spazi discorsivi della fotografia (1984)19, Krauss riflette sulle possibilità di spiegare la fotografia attraverso gli strumenti dell’estetica, arrivando alla conclusione che la fotografia non è riconducibile ad un unico discorso, dato che essa può riferirsi ad ambiti e a spazi discorsivi molto vari e distinti. Sarà quindi necessario adattare di volta in volta i criteri e i metodi d’indagine al contesto di riferimento.

Il rapporto che intercorre tra la fotografia e la realtà non è basato sulla verosimiglianza, come accade in altre forme artistiche (come la pittura), ma su un rapporto di connessione referenziale. L’immagine fotografica è assolutamente imprescindibile dalla realtà, della quale costituisce traccia di un processo fotochimico, di doppio interesse: indagabile sia da un punto di vista fisico-chimico che da uno psicoanalitico-filosofico. Krauss propone quindi una nuova indagine storica della fotografia che, grazie alla sua specificità semio-logica, diviene un oggetto teorico: il fotografico20.

Nel saggio Reinventare il medium (1999)21, la Krauss prova a tracciare un per-corso storico, individuando il momento in cui arte e fotografia si incontrarono, soprattutto dagli anni Sessanta del XIX secolo. Krauss basa la sua analisi su alcuni concetti tratti

19 Krauss, Rosalind, Photography’s Discursive Spaces: Landscape/View, in Art Journal, vol. 42, n. 4, 1982,

pp. 311-319. Consultabile al link: www.jstor.org/stable/776691 , accesso del 23/04/2017.

20 Le Photographique: pour une théorie des écarts è il titolo originale della raccolta di saggi pubblicata

dalla Krauss nel 1990 (Paris, ed. Macula), tradotta poi in italiano col titolo di Teoria e storia della fotografia (Milano, Mondadori, 1996).

21 Krauss, Rosalind, Reinventing the Medium, in Critical Inquiry, vol. 25, n. 2, 1999, pp. 289-305.

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dalle riflessioni sulla fotografia che Walter Benjamin espresse nel saggio Piccola Storia

della Fotografia (1931): il rapporto tra l’obsolescenza della fotografia e la possibilità di

riscattarsi come bene fruibile data la particolare condizione di essere “fuori moda”; l’in-conscio ottico (ovvero la vicinanza tra l’occhio fotografico e quello dello psicanalista); infine l’allontanamento della fotografia dalle condizioni che ne facevano un mezzo este-tico e l’analisi della fotografia come oggetto teorico, concetti espressi da Benjamin qual-che anno dopo, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936)22. Indagando la fotografia sotto quest’ultima prospettiva, Krauss prende in prestito un con-cetto maturato dal semiologo Charles S. Pierce, che nel suo testo Semiotica23 distingue

tre tipologie di segno: il simbolo, l’indice e l’icona. Krauss prende le distanze dalla posi-zione dei critici che si approcciano alla fotografia utilizzando i criteri propri della storia dell’arte: la fotografia non può essere identificata come icona, rientrando più propria-mente nella definizione di indice, che (seguendo Pierce) è «un segno o una rappresenta-zione che rinvia al suo oggetto non tanto perché è associato con i caratteri generali che questo oggetto si trova a possedere, ma perché è in connessione dinamica e con l’oggetto individuale da una parte e con i sensi o la memoria della persona per la quale serve da segno dall’altra»24.

Per adattare quanto sopra all’indagine di Witkin, bisogna capire in quale spazio discorsivo operasse la fotografia degli anni Ottanta del Novecento, ovvero la dimensione spaziale a cui erano destinate le fotografie, gli scopi perseguiti e i limiti teorici dentro i quali gli artisti si servivano del medium fotografico per realizzare immagini che fossero o meno opere d’arte. Durante questi anni Witkin crea i suoi primi d’après fotografici a partire da opere d’arte pittoriche. Nel suo caso, è possibile considerare la fotografia sia come tecnica utilizzata per perseguire un fine artistico, sia come strumento d’indagine

22 Per l’obsolescenza della fotografia e l’inconscio ottico vedi: Benjamin, Walter, Piccola storia della

Fo-tografia, Milano, Skira editore, 2014 [ed. orig. Kleine Geschichte der Photographie, Die Literarische Welt,

a. VII, n. 38, September 18 1931, pp. 3-4; n. 39, September 25 1931, pp. 3-4; n. 40, Oktober 2 1931, pp. 7-8], pp. 16 (inconscio ottico) e 41(obsolescenza);

per la fotografia come oggetto teorico vedi: Benjamin, Walter, L’opera d’arte nell’epoca della sua

ripro-ducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1976 [ed. consultata: Torino, Einaudi, 2011]; [ed. orig.: Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit - L’œuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécani-sée, trad. Pierre Klossowski, in Zeitschrift für Sozialforschung, a. V, n. 1, pp. 40–66, 1936], pp. 15-17.

23 Peirce, Charles Sanders, Semiotica, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980 [ed. orig. A Letter to Lady

Welby, Semiotic and Significs, London, 1904].

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dell’organizzazione sociale, attraverso cui è possibile distruggere le categorie formali e giungere all’informe.

Le fotografie di Witkin rientrano certamente nello spazio discorsivo dell’opera d’arte, in quanto destinate a canali espositivi come le pareti dei musei e delle gallerie d’arte, oltre che a circuiti di divulgazione commerciali e critici. Di quest’aspetto non è certamente trascurabile la tendenza ad inserire all’interno delle sue fotografie riferimenti ad opere pittoriche e plastiche ampiamente storicizzate e consolidate nel bagaglio storico-artistico comune. Fin dal momento della loro progettazione, le fotografie di Witkin sono create come vere e proprie opere d’arte, la cui composizione è studiata nei minimi detta-gli: attraverso disegni preparatori che ne testimoniano la genesi e il percorso ideativo, che in Witkin, eccezionalmente, inizia con il segno grafico e termina con un processo foto-chimico che reca ancora traccia di quel segno.

2.1.2 Fotografia e Pittura: un rapporto in continuo divenire

Guardando alla storia della fotografia, si può affermare che fin dall’inizio25 il nuovo medium stabilì un dialogo con la pittura. Lo storico dibattito sull’opportunità di considerare la fotografia una forma d’espressione artistica valida (al pari di pittura e scul-tura) trova una sua prima attestazione con la celeberrima osservazione di Charles Baude-laire, espressa in occasione del Salon del 1859: «È sorta in questi deplorevoli giorni una nuova industria che ha contribuito non poco a distruggere ciò che di divino forse restava nello spirito francese […] poiché l'industria fotografica era il rifugio di tutti i pittori man-cati, scarsamente dotati o troppo pigri per compiere i loro i studi […] se si concede alla fotografia di sostituire l'arte in qualcuna delle sue funzioni, essa presto la soppianterà o la corromperà del tutto, grazie alla alleanza naturale che troverà nell'idiozia della moltitu-dine […] bisogna dunque che essa torni al suo vero compito, quello di essere la serva

25 L’invenzione della fotografia è stata ufficialmente stabilita al 7 gennaio 1939, quando il deputato François

Jean Dominique Arago presentò all’Accademia di Francia la dagherrotipia, invenzione del chimico e fisico francese Louis-Jacques-Mandé Daguerre, che, per l’acquisto e la liberalizzazione del dagherrotipo, ottenne un sussidio vitalizio di 6000 franchi dal re di Francia Luigi Filippo. La fotografia portò ad un clima di grande eccitazione generale, senza risparmiare reazioni di perplessità e scandalo.

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delle scienze e delle arti, ma la serva umilissima, come la stampa e la stenografia, che non hanno né creato né sostituito la letteratura»26.

Baudelaire attribuì alla fotografia il merito di aver soddisfatto le esigenze di quegli «insensati» che ricercavano nell’arte la rappresentazione esatta della natura e che, indivi-duando nello strumento fotografico «tutte le garanzie d’esattezza che si possono deside-rare», accreditarono la corrispondenza tra «arte assoluta» e fotografia27.

La critica mossa da Baudelaire può essere sintetizzata in due principali argomenti di di-scussione. La prima posizione riguarda lo stato dell’arte, che, secondo lo scrittore fran-cese, non può determinarsi come copia speculare della natura; la fotografia, pertanto, in quanto strumento “obiettivo” di rappresentazione del reale, non può essere considerata arte. La seconda posizione riguarda l’elitarismo delle tecniche artistiche: secondo lo scrit-tore francese, lo strumento fotografico non richiede un’attitudine per l’attività intellet-tuale ed artigianale propria del “vero” artista, pertanto è una pigra alternativa – alla “vera” arte, inquadrata dentro il processo industriale, e atta a realizzare prodotti industriali adatti ad un pubblico di massa.

Viceversa, la fotografia incontrò il favore di coloro che la intesero come un’innovazione tecnica adatta a trasmettere in maniera innovativa e moderna contenuti tanto artistici quanto quelli espressi attraverso la tecnica pittorica.

Le prime forme di interazione tra pittura e fotografia furono sperimentate da pittori come Charles Nègre, Henri le Secq e Gustale Le Gray, che incuriositi dalla nuova tecnica vi-siva, cominciarono a realizzare i loro quadri a partire da fotografie scattate precedente-mente, attuando, di fatto, un processo di copia. Successivamente furono tanti i pittori che utilizzarono questa tecnica, trovando l’ispirazione per le loro opere a partire da fotografie autografe.

Il grande vantaggio della fotografia fu da subito ravvisato nella grande versatilità del

me-dium, una via espressiva percorribile tanto per fini artistici, quanto per quelli scientifici,

personali o istituzionali; come suggerì la critica d’arte Elizabeth Eastlake nel 1857, «[la fotografia] si può trovare nei saloon più sontuosi e nelle più misere mansarde - nella

26 Baudelaire, Charles e Amos Luzzato (a cura di) Scritti di estetica, Firenze, Sansoni, 1948 [ed. orig.:

Écrits esthétiques, Paris,1868], p. 13.

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solitudine dei cottage nelle Highlands e nello splendore dei gin-palace londinesi, nella tasca del detective, nella cella del detenuto, negli appunti del pittore e dell’architetto, in mezzo ai documenti dei mugnai e degli operai, infine, sui petti freddi e coraggiosi sparsi per i campi di battaglia»28.

A più di sessant’anni dall’invenzione di Daguerre, i fotografi statunitensi Alfred Stieglitz e Fred Holland Day s’impegnarono in una campagna per il riconoscimento della fotografia come forma d’arte valida attraverso il movimento della cosiddetta

Photo-Se-cession. Il movimento secessionista intendeva prendere le distanze dalla concezione

se-condo cui una fotografia dovesse mostrare con assoluta oggettività ciò che appariva da-vanti all’obiettivo e, promuovendo il pittorialismo, considerò la possibilità di manipolare l’immagine fotografica per raggiungere una personale visione del mondo, con immagini che potessero esprimersi come metafora visiva sulle condizioni del genere umano. Nel 1905 Stieglitz inaugurò al 291 di Fifth Avenue di Manhattan la Little Gallery of the Photo-Secession, alla quale collaborò Edward Steichen, che divenne presto un punto di riferimento per il riconoscimento dell’arte fotografica al pari di pittura e scultura. Stieglitz approfittò degli spazi della galleria per introdurre nel panorama – e nel mercato – artistico americano le opere dei più importanti artisti dell’avanguardia europea (Constantin Brân-cuși, Auguste Rodin, Paul Cézanne, Henri Matisse, Pablo Picasso, Henri Rousseau) e, tra i dadaisti, Francis Picabia e Marcel Duchamp.

Intorno alla galleria di Stieglitz, gravitarono altri importanti nomi della fotografia ameri-cana, tra cui Walker Evans e Ansel Adams. Il loro lavoro fu utile a stabilire le linee guida della materia fotografica, portando avanti sperimentazioni sulla tecnica e consolidando generi specifici.

Durante gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, il dibattito avanguardista sulla reciproca relazione tra arte e vita contribuì alla definizione di un nuovo ruolo per la foto-grafia. La pittura iperrealista è una dimostrazione di come la fotografia cominciasse ad essere assimilata negli ambienti artistici di quegli anni. Con la loro opera pittorica, artisti come Richard Estes, Denis Peterson, Audrey Flack e Chuck Close non ottennero sempli-cemente una simulazione dell’azione meccanica dello scatto fotografico, ma intervennero

28 Lady Elizabeth Eastlake, Photography, in London Quarterly Review, April 1857, p. 442. Consultabile al

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nel vecchio dibattito sullo scopo della rappresentazione della realtà attraverso il medium fotografico. Con l’iperrealismo si sovvertirono i vecchi ruoli: da una parte la pittura am-mise il linguaggio fotografico come referenza utile a garantire la credibilità di un’imma-gine e si proponeva di assumerla come modello; d’altro canto era evidente che esistessero ancora alcuni residui della convinzione che la fotografia fosse un mezzo realistico e affi-dabile di rappresentazione della realtà.

La critica degli anni Settanta sovvertì questa prospettiva, estendendo la visione postmoderna al sistema discorsivo della fotografia. Oltre ai già citati Deleuze, Lyotard e Krauss, in ambito fotografico furono importanti le ricerche di Susan Sontag, che nel suo libro Sulla Fotografia (1977) costruì il suo pensiero sulla nozione di fotografia come vi-sione del mondo arbitraria e slegata dall’ oggettività: «La suprema saggezza dell’imma-gine fotografica consiste nel dire: Questa è la superficie. Pensa adesso, o meglio intuisci, che cosa c’è di là da essa, che cosa deve essere la realtà se questo è il suo aspetto […] La conoscenza raggiunta attraverso la fotografia sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico. Sarà una conoscenza a prezzi di liquidazione, un’apparenza di cono-scenza, un’apparenza di saggezza; come l’atto di fare una fotografia è un’apparenza di appropriazione»29.

In linea con le idee della Sontag, a settembre-ottobre del 1977 il critico Douglas Crimp curò l’organizzazione della mostra Pictures, una collettiva dedicata alle opere de-gli artisti Jack Goldstein, Sherrie Levine, Robert Longo, Philip Smith. Nel saggio critico d’accompagnamento, Crimp si sofferma sul modo in cui l’esperienza mediatica abbia contribuito al distacco generazionale tra i nati nell’era della televisione, dei film e dell’in-formazione fuori controllo, e coloro cresciuti prima della Seconda Guerra Mondiale, fatta di poche immagini, quasi sempre in bianco e nero: «La nostra esperienza è governata dalle immagini, immagini nei giornali e nelle riviste, in televisione e al cinema. Messa a confronto con queste immagini, l’esperienza vissuta in prima persona fa un passo indietro, appare sempre più banale. Mentre un tempo si era dell’idea che le immagini fotografiche avessero la funzione di interpretare la realtà, adesso sembra che l’abbiano usurpata»30.

29 Sontag, Susan, Sulla fotografia: realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einaudi, 1978 [ed. orig.:

On Photography, London, Penguin Books, 1977], p. 22.

30 Crimp, Douglas, Pictures, New York, Artists Space, Commettee for the Visual Arts, 1977 (catal. mostra,

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Durante quegli anni, la sfida del medium fotografico andò oltre il semplice atto meccanico e abbracciò una nuova visione: immagini montate e costruite per favorire una lettura su più livelli. Un esempio interessante a dimostrazione di questi orientamenti cri-tici è l’opera di Sherrie Levine, che consisteva nel ri-fotografare le stampe su libro di opere d’arte o di fotografie molto note, realizzate da fotografi famosi come Edard Weston, Walker Evans e Eliot Porter [figg.1-2]. La tecnica citazionistica messa in uso da Levine, detta “riappropriazione”, metteva in evidenza il carattere ubiquitario della copia e la inu-tilità di stabilire lo status di originalità dell’opera d’arte. Levine creò, di fatto, nuove im-magini, stampate da negativi originali. A partire dalla fine degli anni Novanta, le opere di Levine vennero citate a loro volta da altri artisti.

Altra opera degna di nota, quella di Cindy Sherman, una delle personalità artisti-che degli anni Ottanta e Novanta più celebrate. La sua serie di fotografie in bianco e nero, intitolata Untitled Film Stills sembra una derivazione dalle pellicole dei drammi del ci-nema degli anni Cinquanta [figg. 3-4]. Il soggetto delle immagini fotografiche è sempre la stessa Sherman, ogni volta auto immortalata con look diversi, per imitare o evocare immagini o personaggi iconici popolari. Come notò Crimp, i ritratti di Sherman non rive-lano mai la personalità dell’artista: sono piuttosto espressione esemplificativa del con-cetto postmoderno di simulacro e l’opposizione alle idee di invenzione e genio creativo. I lavori che Sherman produsse a fine anni Ottanta e primi anni Novanta si orientarono verso immagini di formato più grande, con colori molto saturati che la ritraevano nei panni di pin-up, personaggi delle fiabe e dipinti dei grandi maestri del passato. Qualche volta Sherman sostituiva la sua immagine con protesi o modelli anatomici in plastica uti-lizzati in ambito medico, combinando insieme gli elementi per creare corpi grotteschi vicini all’opera del fotografo surrealista Hans Bellmer.

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2.2 La citazione visiva nella fotografia di Joel-Peter Witkin: tre esempi

di d’après

Joel-Peter Witkin iniziò i suoi studi approcciandosi prima alle opere pittoriche, poi alla scultura e dagli anni Settanta orientò la sua produzione verso un’estetica legata alla tradizione artistica, mescolando la conoscenza dei grandi artisti del passato (Mirò, Goya, Canova, Rubens, Arcimboldo, Courbet, Bosch) con il carattere della sua ricerca, orientata verso interessi spirituali ed esistenziali. A partire dal 1975, durante gli anni di approfondimento della materia fotografica alla University of New Mexico, il bagaglio visuale di Witkin si amplia sempre di più attraverso la conoscenza della cultura fotogra-fica. Assecondando un processo di appropriazione e trasposizione delle opere pittoriche, scultoree e fotografiche della tradizione, Witkin investì molte delle sue opere di rimandi più o meno espliciti, creando dei d’après che, a partire dai primi anni Ottanta, continuano ancora oggi a caratterizzare la sua produzione. Di seguito analizzerò tre esempi di d’après appartenenti rispettivamente agli anni Ottanta, Novanta e alla prima decade dei Duemila.

2.2.1 Las Meninas (Self Portrait), 1987

Quando il critico francese Théophile Gautier si trovò davanti a Las Meninas (1656) [fig. 5] di Diego Velázquez, esclamò: «Dov’è il quadro?»31. La celebre opera pit-torica, oggi conservata al Museo del Prado di Madrid, non ha mai smesso di affascinare gli artisti e la critica, proprio per la genialità della sua componente costruttiva, che po-tremmo definire straordinariamente moderna per l’epoca in cui fu concepita. La scena apparentemente quotidiana si apre ad una complessità interpretativa che trova sintesi nell’espressione del pittore Luca Giordano: «Questa è la teologia della pittura»32.

L’opera rappresenta il momento in cui l’infanta Margarita, accompagnata dalle sue damigelle e da alcuni nani di corte, irrompe nello studio del pittore, intento a ritrarre la coppia reale: il re di Spagna Filippo IV e la regina Marianna d’Austria, la cui immagine appare confusamente riflessa su uno specchio alle spalle del pittore. Collocando in primo

31 Domínquez Ortiz, Antonio, Alfonso Emilio Pérez Sánchez e Julián Gállego, Velázquez, Madrid, Museo

del Prado, 1990 (catal. mostra, Madrid, 1990), p. 420, [t.d.r.].

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piano il ritratto dell’infanta Margarita, Velázquez, situa lo spettatore nel punto di vista del soggetto ritratto, svelando l’articolazione del sistema discorsivo pittorico. L’esercizio compiuto dal pittore andaluso rivela il processo di proiezione concettuale che l’artista compie nella realizzazione della sua opera. Las Meninas è l’esplicitazione del sistema di codifica che la pittura opera sulla realtà e non la semplice imitazione, né l’esibizione di una tecnica manuale e virtuosismo tecnico.

Sembra che osservando i suoi genitori, l’infanta Margarita osservi anche lo spettatore, invitandolo ad essere parte attiva della rappresentazione. Non a caso, nel corso dei secoli successivi, come si può notare dalla tabella che segue [tab.1], l’opera coinvolse numerosi artisti che furono spinti ad un approccio di tipo citazionistico.

La prima retrospettiva europea di Witkin venne presentata nel 1987 presso il Mu-seo Reina Sofía di Madrid. A cinque mesi dall’inaugurazione della mostra, il ministro della cultura spagnolo chiese a Witkin di realizzare un’opera fotografica sulla base di uno dei capolavori dell’arte spagnola e il fotografo scelse di confrontarsi con Velázquez, pit-tore che aveva sempre stimato.

Ci vollero cinque settimane per lo scatto finale, che richiese una preparazione molto lunga, articolata tra lavoro di costruzione della fotografia, ricerca della modella e svi-luppo.

Nell’operazione di citazione visiva de Las Meninas di Velázquez [fig. 6], Joel-Peter Witkin punta l’accento sulla figura centrale dell’Infanta Margarita e le conferisce una nuova condizione fisica: le gambe sono amputate e il corpo è ridotto al busto, sostenuto da una struttura metallica molto simile ad una crinolina, che da un lato ci ricorda le fogge degli abiti del dipinto originario, dall’altro conferma una costante dell’estetica witkiniana: la coesistenza tra organico e inorganico. La modella scelta per l’interpretazione del ruolo è una bambina invalida proveniente da Detroit, che Witkin accolse nel suo studio di Al-buquerque, dove fu allestito il set dello scatto. Nell’opera di Witkin il cane, legato alla mano dell’Infanta Margarita attraverso una corda, è accasciato al suolo in una condizione a metà tra il sonno e la morte.

Nel quadro inizialmente intitolato La Familia, Velázquez inserì il suo stesso autoritratto con l’intento autocelebrativo della propria nobiltà (attestata dalla croce dell’ordine di San-tiago). Nel suo d’après, Witkin si sostituisce al pittore andaluso (come suggerito dal titolo

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dell’opera), rafforzando un altro tema dominante nella sua opera: quello dell’artista de-miurgo.

La figura del cortigiano alla porta viene sostituta da quella di Cristo che porta in mano una corona di spine. Sulla destra appare con evidente contrasto stilistico una figura cubi-sta, omaggio a Pablo Picasso che nel 1957 realizzò una serie di cinquantotto dipinti ad olio ispirati a Las Meninas di Velázquez.

L’ordine interno della versione witkiniana de Las Meninas si regge su sottili equi-libri giocati tra forti contrasti iconografici. Ne deriva un senso di immobilità soltanto ap-parente: dove la possibilità di movimento del soggetto centrale è vincolata dalla sua strut-tura complessa e pesante, l’unica possibilità di movimento sembra essere suggerita dallo specchio che riflette le immagini dei reali di Spagna: Witkin ci eleva alla condizione di re e regine, dandoci la possibilità di entrare nel suo universo spirituale. Possiamo scegliere di rimanere semplici osservatori, oppure di prenderne parte come attori.

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2.2.2 Woman Once a Bird, 1990

Nel 1924 Man Ray realizzò Le Violon d'Ingres [fig. 7], fotografia di una serie nata per omaggiare l’opera del pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres. Il significato dell’opera surrealista suggerisce un tono velatamente ironico già dal titolo, che fa riferi-mento ad un’espressione idiomatica della lingua francese traducibile come hobby. Man Ray trasformò il corpo della sua modella Kiki in uno strumento musicale, dise-gnando con dei tratti di pennello i due fori di risonanza del violino. L’apparente mancanza di braccia della modella suggerisce una dimensione inquietante e accompagna l’osserva-tore verso l’analogia suggerita dal titolo: così come l’hobby di Ingres era quello di suonare il violino, il passatempo preferito di Man Ray era il divertimento con la sua modella Kiki. Come si può notare dalla tabella n. 2, l’opera fotografica di Man Ray fu oggetto di alcune citazioni visive, tra cui Woman Once a Bird (1990) di Joel-Peter Witkin [fig. 8], che si distacca del tutto dalla visione oggettivante della forma femminile in Man Ray.

La genesi del d’après di Witkin si spiega con un incontro che Witkin fece a New York, partecipando ad un convegno di cultori del corpo chiamato Dressing for Pleasure. La vincitrice del concorso della categoria “piccola vita e corsetto” attirò subito l’atten-zione del fotografo, che le propose di posare per un nudo fotografico.

Come sempre nell’opera di Witkin, la fase progettuale è imprescindibile per la messa a punto delle linee guida dell’opera, che viene studiata in ogni suo minimo dettaglio, anche attraverso l’uso di bozzetti preparatori. Come si può notare dal bozzetto di Woman Once

a Bird, Witkin immaginò fin dall’inizio di far posare la modella di spalle, per renderla

ancora più misteriosa e per facilitare il riconoscimento referenziale – tra le righe – dell’opera di Man Ray.

La cintura metallica stretta intorno alla vita era stata costruita dal marito della donna, che la utilizzava quotidianamente, con la duplice conseguenza di mantenere un girovita dalla circonferenza di 18 pollici (45 cm) e, al tempo stesso, compromettere lo stato di salute generale, favorendo la dislocazione di alcuni organi vitali in altre parti del torace.

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Seguendo la necessità di adattare i codici surrealisti all’epoca contemporanea, definita da Witkin «our post-romantic age»33, il fotografo statunitense sostituì i fori di risonanza del violino con delle “ferite” (si tratta di un trucco realizzato da un make-up artist cinemato-grafico di New York) impresse sul corpo della donna, come conseguenza della perdita delle ali della libertà. La rappresentazione della libertà perduta vuole essere un omaggio alla condizione sociale della donna, anche da un punto di vista storico. Come suggerito dal titolo, la donna era un tempo un “uccello”, simbolo di libertà ormai perduta. Witkin spiegò la scelta di porre delle piume d’uccello sulla testa della donna dicendo che «mo-strarla senza capelli l’avrebbe resa grottesca»34. Ma quello che rimane va ben oltre il grottesco: è soltanto una traccia della donna rappresentata, che risulta un oggetto ibrido, a metà tra l’umano e l’animale, fatta allo stesso tempo di materia organica e inorganica, superando la soglia della definizione nominale e divenendo un trionfo di «materia non formata […] flussi deterritorializzati […] segni a-significanti»35.

2.2.3 The Raft of George W. Bush, 2006

Nel 1995 la retrospettiva di Witkin al Guggenheim Museum di New York ebbe poco successo tra il pubblico (stanco di essere sottoposto alle visioni tragicamente visio-narie e moralizzanti dell’opera del fotografo americano, secondo Villaseñor36). Verso la fine della decade molti galleristi, che da quasi un ventennio avevano venduto le opere di Witkin, cambiarono rotta, orientando il loro interesse verso fotografi maggiormente in linea con l’andamento vertiginoso del nuovo mercato finanziario, influenzato dalle rapide variazioni dei valori azionistici e dall’esplosione della bolla speculativa delle dot-com37. Come dichiarò il mercante d’arte Harry Lunn: «Tutti possiedono già un Witkin. È giunto il momento di acquistare McDermott e McGough!»38.

33 Witkin, Joel-Peter e Pierre Borhan, Disciple and Master, New York, Fotofolio Inc, 2000, p. 51. 34 Ibidem, [t.d.r.].

35 Deleuze, Gilles e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975 [ed.

orig. Capitalisme et schizophrénie 1: L'Anti-Œdipe, Paris, Les éditions de minuit], p. 93.

36 Villaseñor, Maria Christina, The Witkin Carnival, in Performing Arts Journal, vol. 18, n. 2, 1996, pp. 77

-82. Consultabile al link: www.jstor.org/stable/3245851 , accesso del 13/07/2016.

37 Durante quegli anni, la Pace/MacGill Gallery di New York propose l’artista emergente Phillip Lorca di

Corcia e la Fraenkel Gallery si concentrò sui classici come gli artisti Lee Friedlander e Richard Misrach.

38 Witkin, Joel-Peter e Eugenia Parry, Joel Peter Witkin. Photographies de Joel-Peter Witkin, Paris, Delpire

Editeur, 2012, p. 251, [t.d.r.]; Lunn fa riferimento alla coppia di artisti visuali David Mc McDermott e Peter McGough, che egli rappresentò durante gli anni Novanta.

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Davanti ad un’evidente marginalizzazione, Witkin cambiò rotta, influenzando in maniera molto evidente la sua produzione artistica. Nel 2000 tornò alla ribalta, allac-ciando rapporti con un’importante galleria di New York: la Ricco/Maresca, le cui mostre includevano tre diverse tipologie di produzione artistica: l’arte folk americana, le opere di malati psichiatrici e opere fotografiche.

Il nuovo ambiente fu molto stimolante per Witkin, entusiasta di entrare a contatto con la sincerità bruta degli artisti non istruiti e dei malati di mente, che erano relegati ai margini della società, senza grandi possibilità economiche, né conoscenza della tradizione arti-stica. La loro era un’arte alimentata dall’intuito di visioni autentiche, la cui energia scor-reva nelle correnti più profonde del sentire americano.

È di questo periodo Shoe, Hat and Eggs (1999) [fig. 9], influenzata dalla scoperta dell’opera di Bill Traylor, un ex schiavo dell’Alabama che all’età di 80 anni cominciò a disegnare sagome su strisce di cartone. Nella galleria Ricco/Maresca Witkin trovò alcuni disegni dell’artista intitolati Exciting Events [figg. 10-12] e raffiguranti strane sagome, molto vicine all’universo visivo del teatro delle ombre, con profili bidimensionali che tagliano in due lo spazio e che si relazionano tra loro creando delle dinamiche gioiose e pungenti dov’è possibile imbattersi in gente che si muove frettolosamente sui tetti delle case insieme a conigli, cani e serpenti, dove gli ubriaconi prendono a calci il vuoto, gli uomini colpiscono le donne e i bambini si inseguono.

Dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti d’America videro crollare ogni retaggio delle certezze duramente conquistate durante gli anni Novanta. Sotto le ton-nellate di macerie accumulate sul World Trade Center, non cambiarono soltanto le pro-spettive nazionali, ma anche quelle di ogni singolo americano. L’attacco alle torri gemelle rappresentò una prova dei nuovi pericoli mondiali: i collezionisti d’arte orientarono i loro investimenti verso un’arte più impegnata. La sensibilità artistica di Witkin tornò ad otte-nere il favore del pubblico dal 5 settembre del 2002, quando la Ricco/Maresca Gallery dedicò al fotografo una personale in cui l’80% delle opere esposte fu venduto. Witkin era

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pronto per quella che, tempo dopo, fu definita dal “The Guardian” «Joel-Peter Witkin's best photograph»39: The Raft of George W. Bush.

L’opera fotografica, realizzata su commissione del gallerista francese di Witkin, Baudoin Lebon, è un d’après di Le Radeau de la Méduse (1818-19), realizzata da Théodore Géri-cault e conservata oggi al Louvre [fig. 13]. GériGéri-cault aveva rappresentato un avvenimento di cronaca contemporanea: il naufragio della fregata francese Méduse avvenuto il 2 luglio 1816 davanti alle coste dell'attuale Mauritania.

Nella sua opera, l’artista pose attenzione sul momento successivo al naufragio, causato dall’approssimazione e dall’inesperienza del comandante Hugues Duroy de Chaumareys. In seguito all’incaglio della nave su un fondo sabbioso, l’equipaggio riuscì a salvarsi gra-zie alle scialuppe, ma delle 150 persone della ciurma, soltanto 12 fecero ritorno in patria, a bordo di una zattera di 140 metri quadri. L’evento ebbe una grande risonanza nella Francia di allora, segnata prima dalla Rivoluzione Francese (1789) e poi dalla sconfitta dell’Impero Napoleonico (1815, Waterloo).

Il sentimento di profondo smarrimento e di delusione del popolo francese sembra trovare un suo analogo storico in quello del popolo americano dopo l’11 settembre. Come Le

Radeau de la Méduse rappresentò un importante punto di svolta per la vicenda

professio-nale di Géricault 40, è con la zattera di Bush che Witkin si rilancia nel mercato dell’arte: interpretando un comune senso di smarrimento e disapprovazione nei confronti dell’am-ministrazione politica del Paese.

Stampata ed esaurita per due edizioni di 15 copie ciascuna, The Raft of George Bush [fig. 14] riscosse un grande successo tra il pubblico e la critica, segnando un vero e proprio spartiacque tra il declino della seconda metà degli anni Novanta e la riscoperta a partire dai primi anni Zero.

Nell’immaginario di una parte del popolo americano, il presidente repubblicano George W. Bush rappresentava una sorta di boogey man: l’uomo nero, l’antagonista del self made

39 Seymour, Tom, Joel-Peter Witkin's best photograph: George W Bush in The Raft of the Medusa, in The

Guardian, 18 febbraio 2016. Consultabile al link: www.theguardian.com/artanddesign/2016/feb/18/joel-peter-witkins-best-photograph-george-w-bush-the-raft-of-the-medusa-interview , accesso del 14/03/2017.

40 Le Radeau de la Méduse fu la prima grande opera di Géricault. L’artista sfruttò la risonanza

internazio-nale dell’evento legato al naufragio della Méduse per avere successo raccogliendo un pubblico quanto più vasto possibile.

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man americano. Questa visione scaturisce dall’impopolarità delle scelte operate

soprat-tutto in politica estera. L’opera di Witkin potrebbe essere considerata un’interpretazione di quest’insoddisfazione.

La creazione di The Raft of George W. Bush richiese un mese di preparazione, fu costruita da Witkin con grande cura, in seguito ad un attento studio dell’opera di Géricault. La fotografia, basata su una serie di bozze preparatorie realizzate da Witkin, venne tecnica-mente scattata con una fotocamera Linhof formato 4x5 e stampata da Witkin in persona perché «per me quello è il momento decisivo: puoi cambiare il senso di una fotografia in base a come la stampi. Io dovevo essere parte di quel processo»41. Per la realizzazione di

The Raft of George Bush Witkin ingaggiò 17 modelli che fotografò in un singolo scatto.

Partendo dal lato sinistro della composizione, vediamo il presidente George W. Bush e la madre Barbara Bush, due sosia che Witkin trovò a Los Angeles. Il presidente stringe con la mano destra la bandiera americana e con la sinistra accarezza il seno sco-perto della versione caucasica di Condoleezza Rice42, che nel secondo governo di Bush ricoprì la carica di Segretario di Stato, considerata da Witkin «La donna più potente del mondo […] una pedina afroamericana che veste haute couture»43. Il presidente è assorto nelle sue piccole idee, rappresentate come piccole lampadine accese sopra la corona che porta in testa: simile all’attributo di Santa Lucia secondo l’iconografia nordica.

Barbara Bush, seduta con orgoglio alle spalle del figlio, è il simbolo dell’ideologia con-servatrice del partito repubblicano, basata sull’ideale della famiglia perfetta.

Spostando lo sguardo verso la parte centrale della scena, si nota la figura del segretario di Stato durante il primo governo Bush, l’afroamericano Colin Powell, rappresentato nudo mentre incoraggia Bush poggiando una mano sulla sua spalla. Poco sotto, il Segretario della Difesa Donald Rumsfeld, rappresentato con un paio di occhiali in mano e nella po-sizione inerme di chi è stato sopraffatto dalle dinamiche della guerra.

41 Seymour, Tom, Joel-Peter Witkin's best photograph…

42 Tutte le identificazioni derivano da: Witkin, Joel-Peter e Eugenia Parry, Joel Peter Witkin. Photographies

de Joel-Peter Witkin, Paris, Delpire Editeur, 2012 e https://www.youtube.com/watch?v=JARVUmzI1qU.

43 Witkin, Joel-Peter e Eugenia Parry, Joel Peter Witkin. Photographies de Joel-Peter Witkin, Paris, Delpire

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Nella parte centrale, sotto l’albero, un gruppo di tre figure: un prete pederasta rappresen-tante della teocrazia impegnato in quella che sembra un’azione rituale a metà tra la pre-ghiera sacra e l’adulazione sessuale di un marinaio. Accanto, un angelo arrabbiato indossa un reggiseno fatto con tazzine da tè e tiene in mano un lungo osso: rimando iconologico alla vicenda narrata da Géricault, qui simbolo del «cannibalismo capitalistico, quell’os-sario del nostro tetro progresso»44.

Figura emblematica è quella di Dick Cheney, vice presidente durante l’amministrazione Bush e noto per la sua dottrina dell’1%, una delle linee guida nella strategia di invasione bellica dell’Iraq, il 20 marzo del 2003: «È sufficiente che esista l'uno per cento di possi-bilità che una nazione straniera possa supportare il terrorismo contro gli USA, perché l'amministrazione Bush sia autorizzata a intraprendere un'azione bellica contro di essa»45. Nell’opera di Witkin Cheney è rappresentato di spalle, colto nell’azione di abbracciare la moglie, indossa un reggiseno e una gonna a fiori. Il vice presidente americano è simbolo dell’arrivista codardo; immaginandolo vestito da donna, Witkin allude a quegli uomini vigliacchi che, durante il naufragio del Titanic si vestivano da donne, pur di salvarsi. Alla luce di tutto questo The Raft of George W. Bush appare come una riflessione sull’ideologia politica del partito repubblicano in America, ovvero coloro che la scrittrice Flannery O’Connor definì «gli eruditi dissipatori di fast-food di questo paese mal gover-nato»46. È un’opera dal grande peso specifico, non a caso, Witkin la definì «la fotografia più gratificante che abbia mai fatto […] ho lavorato davvero molto bene»47. Mettendola in relazione a tutta l’opera di Witkin, al centro della sua attenzione ci sono sempre i topoi della morte, della sessualità e della deformazione fisica, ma cambia la qualità del mes-saggio: maggiormente basato sulla storia personale dei modelli fino agli ultimi anni No-vanta, e di indirizzo più universale dai primi anni Duemila.

44 Ibidem, [t.d.r.].

45 Suskind, Ron, La dottrina dell'1 per cento. La guerra al terrore e la pericolosa strategia

dell'ammini-strazione Bush, Milano, Mondadori, 2006 [ed. orig.: The One Percent Doctrine: Deep Inside America's Pursuit of Its Enemies Since 9/11, New York, Simon & Schuster, 2006], p. 37.

46 O’Connor, Flannery, Sally e Robert Fitzgerald (a cura di), Mystery and Manners: Occasional Prose,

New York, Farrar, Straus & Giroux, 1957, [t.d.r.].

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Suggerirei, inoltre, di notare un certo grado di ironia – a tratti satirica – nelle cri-tiche non troppo caute che il fotografo rivolge alle istituzioni nella seconda parte della sua produzione.

Le scelte degli organi politici e di quelli religiosi vengono mostrate in visioni che, con evidente debito nella pittura dei maestri fiamminghi del XV secolo, trovano il loro equi-librio nella coesistenza di dettagli microscopici e riferimenti culturali macroscopici. Qual-che volta le parole completano la visione, come nelle opere ispirate ai retablos messicani.

Come dichiarò lo stesso Witkin in un’intervista realizzata nel 2013 in occasione dell’esposizione Enfer ou Ciel organizzata alla Bibliothèque Nationale de France: «Oggi il mio lavoro è più universale […] è una sorta di conseguenza dei miei vecchi lavori. È più equilibrato ma allo stesso tempo più profondo, senza fare riferimento alle referenze del soggetto ritratto»48.

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Tab. 1: Alcune citazioni visive da Diego Velázquez, Las Meninas, 1656.

Autore

Titolo dell'Opera

Anno

Francisco Goya Las Meninas 1778

Pierre Audouin Las Meninas after Velázquez 1799

Thomas Eakins The Gross Clinic 1875

John Singer Sargent The Daughters of Edward Darley

Boit 1882

William Merritt Chase Hall At Shinnecock 1892

Joaquín Sorolla y Bastida María Figuero, the girl, dressed

as a Menina 1901

Joaquín Sorolla y Bastida Maria Guerrero 1906

Pablo Picasso Las Meninas (serie di 58 dipinti

ad olio) 1957

Salvador Dalí

Velázquez Painting The Infanta Margarita With The Lights And Shadows Of His Own Glory

1958

Salvador Dalí The Maids of Honour (Las

Meni-nas) 1960

Salvador Dalí Portrait of Juan de Pareja

repair-ing a mandolin strrepair-ing 1960

Salvador Dalí El número secreto de Velázquez 1965

Manolo Valdés Menina Mondrian 1968

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) Meninas en el Chalet 1969

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) El Pez que se Muerde la Cola 1970 Manolo Valdés & Rafael Solves

(27)

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) La Amenaza 1970

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) El Sublime Acto de la Creación 1970 Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) El Perro 1970

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) Menina 1970

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) El recinte 1971

Manolo Valdés & Rafael Solves (Equipo Cronica)

Érase una Vez una Niña Roja y

Gualda 1971

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) Interior de las Meninas 1971-1972

Richard Hamilton Picasso's meninas 1973

Cristobal Toral D’après Las Meninas 1975

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) Mariana y las Moscas 1977

Salvador Dalí Las Meninas (The Maids in

Wait-ing) 1976-1977

Philippe Comar Objeto 1978

Salvador Dalí The Pearl. After the Infanta

Mar-garita by Velázquez 1981

Manolo Valdés & Rafael Solves

(Equipo Cronica) Carnet de Identidad Picasso 1981

Manolo Valdés Entrando en el Recinto 1981

Soledad Sevilla Las Meninas num. 9’ 1981-1983

Louis Cane Meninas ajupides 1982

(28)

Antonio Mingote Las Meninas 1985

Hergé Micheline Lo Las Meninas 1985

Fernando Botero Menina (After Velazquez) 1986

Joel Peter Witkin Las Meninas (Self Portrait) 1987 Avigdor Arikha Interior del taller amb mirall 1987 Herman Braun-Vega double éclairage sur Occident

(Velázquez et Picasso) 1987

Antonio de Felipe Meninas (Serie) 1988-1991

Iz Maglow Las Meninas 1990

Giulio Paolini Contemplator Enim VI (Fuori

l’autore) 1991

Sophie Matisse Las Meninas 2001

Manuel Frutos Versiones de Las Meninas 2001

Eve Sussman 89 Seconds at Alcazar 2003

Howard Podeswa The Walkers (after Las Meninas) 2005 Thomas Struth Las Meninas by Velasquez

(Prado) 2005

Manolo Valdés Las Meninas 2006

Lluis Barba Las Meninas (after Velasquez) 2007

Alexander Stanuga Las Meninas 2008

Jacqueline Roberts Meninas 2008

Gérard Rancinan Les Ménines 2009

Bob Kessel Las Meninas 2009

Bob Kessel Las Meninas 2009

Natalie Pereira Las Meninas 2011

Josephine Meckseper Las Meninas (2Xist) 2013

Morimura Yasumasa Las meninas renacen de noche I -

VIII (Serie) 2013

(29)

Tab. 2: Alcune citazioni visive da Man Ray, Le violon d’Ingres, 1924.

Autore

Titolo dell'Opera

Anno

Kathleen Gilje Violon d’Ingres, Restored 1999

Joel Peter Witkin Woman Once a Bird 1990

Rob Wynne Meissen violin 2003

Wang Qingsong Dormitory 2005

Catel Muller, José-Louis Bocquet Kiki de Montparnasse 2007

J.-C. de Castelbajac prêt-à -porter 2008

Viktor & Rolf prêt-à -porter 2008

(30)

Tab. 3:

Alcune citazioni visive da Jean-Louis André Théodore Géricault,

Le Radeau de la Méduse, 1818-1819.

Autore

Titolo dell'Opera

Anno

Alfred Courmes Le radeau de la Méduse 1963

Albert Uderzo in Astérix légionnaire 1967

Guy Peellaert & Pascal Thomas in Pravda la survireuse 1968

Fred Philémon (Le naufragé du “A”) 1996

Rodger Roundya A cute girl 1999

Georges Wolinski Pauvres mecs ! 2001

Hu Jieming Raft of the Medusa 2002

Joel Peter Witkin The Raft of G.W. Bush 2006

Jan-Luc Masbou in De cape et de crocs (Acte VIII

: Le maître darmes) 2007

Mark Squires Raft 2007

The Bruce High Quality

Founda-tion Raft of the Medusa 2007

Gérard Rancinan Radeau des Illusions 2008

Ju Duoqi The Vegetable Museum - 02 2008

Berille Bak Tapisserie 2008

Adad Hannah The Raft of the Medusa (100 Mile

House) 8 2009

Kader Attia Harragas - les damnés de la mer 2009

Ahab The Divinity of Oceans 2009

Anton Solomoukha

Little Red Riding Hood Visits Chernobyl. The Sports Hall. The Raft of the Medusa. Géricault

2009-2010

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